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Varie : Gli Araldi dell'Aurora
GLI ARALDI DELL’AURORA
GLI ARALDI DELL’AURORA

LA NARRAZIONE DELLE ORIGINI DELLA RIVELAZIONE BAHÁ’Í SCRITTA DA NABIL

«Sono pronto, la vita in mano; possa, per la bontà e la grazia di Dio, questa Lettera rivelata e palese offrire la vita in sacrificio sul sentiero del Punto Primo, la Parola Più Eccelsa».

BAHÁ’U’LLÁH
Tradotto dall’edizione inglese di
SHOGHI EFFENDI
ROMA – 1978

Tradotto e pubblicato su concessione del “Bahá’í Publishing Trust”,

Wilmette, Illinois, U.S.A.
Titolo Originale: The Dawn-Breakers

© Copyright 1932 by the National Spiritual Assembly of the Bahá’ís of the U.S.A

1a edizione italiana 1978

© Copyright 1978 dell’Assemblea Spirituale Nazionale dei Bahá’í d’Italia

CASA EDITRICE BAHÁ’Í S.R.L.

Deposito e amm.ne: 00162 Roma, Circ.ne Nomentana, 484 – Tel. 4270547

Sede legale: 00197 Roma, Via A. Stoppani, 10 – Tel. 879647

LINOTIPIA VERONESE DI ALFIO FIORINI – VERONA – ITALIA

Alla Più Grande Santa Foglia,
Ultima Superstite di un’Era gloriosa ed eroica,

dedico quest’opera, quale pegno di un grande debito

di gratitudine e d’amore
SHOGHI EFFENDI
INTRODUZIONE

IL Movimento Bahá’í è ora ben noto in tutto il mondo ed è giunto il momento in cui l’impareggiabile narrazione delle sue origini nella tenebrosa Persia, scritta da Nabíl, può interessare molti lettori. La documentazione che egli annotò con sí devota cura è sotto molti aspetti straordinaria. Essa contiene alcuni brani commoventi e lo splendore del tema centrale conferisce alla cronaca non solo un grande valore storico ma anche un’alta forza morale. Le sue luci sono forti; e questo effetto è più intenso poiché esse appaiono come uno sprazzo di sole nel cuore della notte. È una storia di lotta e di martirio; le scene violente, gli episodi tragici abbondano. La corruzione, il fanatismo e la crudeltà fan lega contro la causa della riforma per distruggerla e questo volume si conclude nel momento in cui pare che un’orgia di odio abbia raggiunto lo scopo e cacciato in esilio o messo a morte ogni uomo, donna e bambino in Persia che osasse mostrare apertamente un’inclinazione verso l’insegnamento del Báb.

Nabíl, il quale partecipò di persona ad alcune delle scene che racconta, impugnò la sua penna solitaria per narrare la verità su uomini e donne così spietatamente perseguitati e su un movimento così gravemente calunniato.

Egli scrive con facilità e nei momenti di grande emozione il suo stile si fa vigoroso e penetrante. Non presenta in modo sistematico le asserzioni e l’insegnamento di Bahá’u’lláh e del Suo Precursore, ma intende semplicemente rievocare le origini della Rivelazione Bahá’í e tramandare il ricordo delle gesta dei suoi primi paladini. Narra una serie di episodi, citando minuziosamente la fonte quasi per ogni argomento d’informazione. Di conseguenza la sua opera, anche se meno artistica e filosofica, acquista valore come racconto esatto di ciò che egli sapeva, o era riuscito a scoprire da testimoni degni di fede, sulla storia più remota della Causa.

I protagonisti del racconto (la santa eroica figura del Báb, capo mite e sereno, eppure così ardente, risoluto e dominante; la devozione dei Suoi seguaci che affrontano l’oppressione con coraggio indomito e spesso con estasi; la rabbia di un clero geloso, che accende per i propri scopi le passioni di una plebe assetata di sangue) — parlano un linguaggio che tutti possono capire. Ma non è facile seguire la narrazione nei suoi dettagli o comprendere quanto fosse enorme il compito assunto da Bahá’u’lláh e dal Suo Precursore, senza qualche cognizione sulle condizioni della chiesa e dello stato in Persia e sui costumi e sulla mentalità del popolo e dei suoi padroni. Nabíl dette per scontate queste nozioni. Aveva viaggiato poco o niente fuori dai confini degl’imperi dello Scià e del Sultano e non pensò a fare paragoni tra la sua civiltà e le civiltà straniere. Egli non si rivolgeva al lettore occidentale. Benché si rendesse conto che il materiale che aveva raccolto rivestiva un’importanza più che nazionale o islamica e che in non molto tempo esso si sarebbe diffuso sia in occidente sia in oriente fino a circolare per tutto il globo, era tuttavia un orientale e scriveva in una lingua orientale per coloro che usavano quella lingua e l’impareggiabile lavoro che così accuratamente eseguì era già in sé stesso un’impresa grande e faticosa.

Esiste comunque in inglese una letteratura sulla Persia del diciannovesimo secolo che può fornire al lettore occidentale ampie informazioni sull’argomento. Da scritti persiani già tradotti o da libri di viaggiatori europei, quali Lord Curzon, Sir J. Malcolm e non pochi altri, si può desumere un quadro fedele e vivo, anche se sgradevole, delle condizioni improbe che il Báb dovette affrontare quando inaugurò il Movimento alla metà del diciannovesimo secolo.

Tutti gli osservatori sono concordi nel rappresentare la Persia come una nazione debole e arretrata, spaccata all’interno da pratiche corrotte e da feroci bigottismi. L’inefficienza e la viltà, frutti della decadenza morale, riempivano il paese. Tanto tra i potenti quanto tra gli umili, non solo mancava la capacità di portare a termine metodi di riforma, ma non c’era nemmeno una seria volontà d’iniziarli. L’orgoglio nazionale predicava un grandioso autocompiacimento. Una cappa d’immobilismo copriva ogni cosa e una paralisi mentale collettiva rendeva impossibile ogni sviluppo.

Allo studioso di storia la decadenza d’una nazione un tempo così potente e illustre appare estremamente pietosa. ‘Abdu’l-Bahá, che nonostante le crudeltà inflitte a Bahá’u’lláh, al Báb e a Lui Stesso, amava tuttavia la Sua terra, chiamò questa degradazione « la tragedia di un popolo » e nell’opera « The Mysterious Forces of Civilization », in cui cercò d’incitare il cuore dei Suoi compatrioti a intraprendere riforme radicali, espresse un toccante lamento sulla sorte di una nazione che un tempo aveva esteso le proprie conquiste in oriente e in occidente ed era stata faro di civiltà tra gli uomini. « Nei tempi passati », Egli scrive, « La Persia fu veramente il cuore del mondo e brillò tra le nazioni come una fiaccola accesa. La sua gloria e la sua prosperità apparvero all’orizzonte dell’umanità come l’aurora diffondendo la luce della conoscenza e illuminando le nazioni dell’oriente e dell’occidente. La fama dei suoi re vittoriosi giunse alle orecchie degli abitanti delle regioni più remote della terra. La maestà del suo Re dei Re umiliò i monarchi di Grecia e di Roma. La sua saggezza nel governare colmò di rispetto i saggi, e i governanti dei continenti modellarono le proprie leggi sulla sua politica. I Persiani eccelsero tra le nazioni della terra come popolo di conquistatori e furono giustamente ammirati per la loro civiltà e cultura; pertanto il loro paese divenne un centro glorioso di tutte le scienze e le arti, una miniera di cultura e una fonte di virtù … Come mai questo eccellente paese, oggi, a causa della nostra indolenza, vanità e indifferenza, per la mancanza di conoscenze e d’organizzazione, per la scarsità di zelo e ambizione nel suo popolo, sopporta che i raggi della sua prosperità siano oscurati e quasi estinti? ».

Altri scrittori descrivono dettagliatamente le infelici condizioni a cui ‘Abdu’l-Bahá si riferisce.

Al tempo in cui il Báb dichiarò la Sua Missione, il governo del paese era, con le parole di Lord Curzon, « uno stato teocratico ». Pur essendo venale, crudele e immorale, era formalmente religioso. L’ortodossia islamica era la sua base e permeava fino al midollo sia lo stato sia la vita sociale del popolo. Ma per il resto non esistevano leggi, statuti o costituzioni che guidassero la direzione degli affari pubblici. Non c’erano né Senato, né Consiglio della Corona, n Sinodo, né Parlamento. Lo Scià era un despota e il suo arbitrario modo di governare si rifletteva lungo la scala ufficiale, in ogni ministro o governatore, fino al più umile impiegato e al più remoto capotribù. Non esisteva alcun tribunale civile che controllasse o modificasse il potere del monarca o l’autorità che egli decidesse di delegare ai suoi subordinati. Se una legge c’era, questa era la sua parola. Egli poteva fare quel che gli pareva. Era suo diritto nominare o destituire qualsiasi ministro, funzionario, ufficiale e giudice. Aveva potere assoluto di vita e di morte su tutti i membri, tanto civili quanto militari, della sua famiglia e della sua corte. Il diritto di togliere la vita apparteneva solo a lui; e così era per tutti i poteri dello stato: legislativo, esecutivo e giudiziario. Le sue prerogative regali non erano limitate da alcuna restrizione scritta.

I discendenti dello Scià erano sistemati nei posti più remunerativi del paese e con il succedersi delle generazioni occuparono anche posti minori, dappertutto, finché il paese non fu oppresso da questa genìa di fannulloni regali che dovevano la loro posizione solamente al loro sangue e dai quali ebbe origine l’adagio persiano che dice: « Cammelli, pulci e prìncipi esistono dappertutto ».

Per uno Scià era difficile prendere una decisione giusta e saggia su un caso sottoposto al suo giudizio, perfino quando desiderava farlo, perché non si poteva fidare delle informazioni che gli venivano date. Elementi determinanti potevano essere nascosti, o i fatti esposti potevano essere distorti dall’influenza di testimoni interessati o di ministri venali. In Persia il sistema di corruzione era giunto a tal punto da essere divenuto un’istituzione riconosciuta, che Lord Curzon descrive con le seguenti parole:

« Tratterò ora quella che è la caratteristica basilare e distintiva dell’amministrazione iraniana. Si può dire che il governo, anzi, la vita stessa della nazione, consistano per lo più in uno scambio di doni. Nel suo aspetto sociale si potrebbe supporre che questa pratica comprovi i sentimenti generosi di un amabile popolo; benché anche da questo punto di vista essa presenti lati freddi e sgradevoli come quando, per esempio, mentre vi rallegrate in cuor vostro per aver ricevuto un dono, trovate che dovete non solo contraccambiare facendo al donatore un regalo di costo equivalente, ma anche ricompensare generosamente il latore del dono (per il quale la vostra ricompensa è molto verosimilmente l’unico mezzo riconosciuto di sussistenza) in misura proporzionale al valore pecuniario del dono stesso. Nel suo aspetto politico, l’uso di far doni, benché consacrato nelle adamantine tradizioni dell’Oriente, è un sinonimo del sistema descritto altrove con nomi meno gradevoli. il sistema secondo il quale la Persia è stata governata per secoli e il cui mantenimento oppone una robusta barriera a qualsiasi reale riforma. Dallo Scià in giù, non v’è funzionario che non sia disponibile a regali, non v’è posto che non sia conferito in cambio di un dono, non v’è rendita che non sia stata accumulata per mezzo di doni ricevuti. Salvo pochissime eccezioni, tutti i componenti della gerarchia ufficiale sopra menzionata hanno semplicemente comperato la propria posizione con un regalo pecuniario offerto o allo Scià o a un ministro o al governatore superiore dal quale sono stati nominati. Se ci sono molti candidati a un posto, con ogni probabilità vincerà quello che fa la migliore offerta.

« … Il ‘madákhil’ è un’istituzione nazionale mantenuta viva in Persia, la riscossione della quale, in una miriade di forme differenti, la cui ingegnosità è pari solo alla loro molteplicità, è per i Persiani il supremo interesse e la somma delizia di tutta una vita. Questa straordinaria parola, di cui Watson dice che non v’è un preciso equivalente in inglese, può essere variamente tradotta come: commissione, gratifica, regalia, provvigione, ruberia, lucro, secondo il contesto del discorso in cui è usata. In parole povere essa indica quel tanto di vantaggio personale, usualmente espresso in moneta, che può essere estorto da qualsiasi transazione. Un negoziato, in cui due parti siano coinvolte come donatore e beneficiano, come superiore e subordinato o anche come agenti contraenti alla pari, non può aver luogo in Persia senza che la parte che può essere presentata come autrice del favore o del servizio pretenda e riceva una definita ricompensa in denaro per quanto ha fatto o dato. Si può certo dire che la natura umana è la stessa in tutto il mondo; che un simile sistema esiste sotto un differente nome nel nostro e in altri paesi e che il critico sereno saluterà nel Persiano un uomo e un fratello. Entro certi limiti ciò è vero. Ma in nessun paese del mondo che ho visitato o di cui ho sentito parlare, il sistema è tanto aperto, spudorato o universale come in Persia. Così, lungi dall’essere limitato alla sfera dell’economia domestica o alle transazioni commerciali, esso permea ogni passo e ispira la maggior parte delle azioni della vita. Per suo effetto, si può dire che in Persia la generosità e i favori gratuiti sono stati cancellati dal novero delle virtù sociali e la cupidigia è stata elevata a principio della condotta umana … Pertanto si stabilisce una progressione aritmetica di ruberie, dal sovrano al suddito, per cui ciascuna unità della scala discendente prende la propria ricompensa dall’unità successiva di rango inferiore, mentre lo sventurato contadino è la vittima finale. Non c’è da sorprendersi, in queste condizioni, se le cariche sono la via comune verso la ricchezza e se sono frequenti i casi in cui uomini, partiti dal nulla, si trovano ad abitare in magnifiche case, circondati da folle di dipendenti e a vivere da prìncipi. “Fa ciò che puoi finché puoi” è la regola che molti uomini si prefiggono entrando nella vita pubblica. E lo spirito popolare non s’indigna per questo comportamento; mentre il giudizio su chi, avendone l’opportunità, non riesce a riempirsi le tasche, è tutt’altro che lusinghiero per il suo valore. Nessuno rivolge un solo pensiero alle vittime da cui, in ultima analisi, è stato ricavato il materiale per questi successivi ‘madákhil’, e dal sudore delle cui rassegnate fronti è stata spremuta la ricchezza che viene dissipata in lussuose case di campagna, oggetti rari provenienti dall’Europa ed enormi seguiti ».

Leggere quanto precede significa capire in parte le difficoltà della missione del Báb; leggere quanto segue significa comprendere i pericoli che Egli affrontò ed essere preparati a una storia di violenza e di atroce crudeltà.

« Prima di abbandonare l’argomento della legge persiana e della sua amministrazione, voglio aggiungere qualche parola sull’argomento delle pene e delle prigioni. Nulla è più traumatizzante per il lettore europeo, che s’inoltri nelle criminose e insanguinate pagine della storia persiana dell’ultimo e, fortunatamente in grado minore, dell’attuale secolo, delle testimonianze di punizioni selvagge e abominevoli torture, che dimostrano rispettivamente un’insensibilità bestiale e un’ingegnosità diabolica. Il carattere persiano è sempre stato fertile di espedienti e insensibile alla sofferenza; e nell’ambito delle esecuzioni capitali ha trovato un vasto campo per mettere in pratica entrambe le doti. Fino a tempi abbastanza recenti, entro i confini dell’attuale regno, i criminali condannati a morte sono stati crocifissi, sparati da cannoni, seppelliti vivi, impalati, ferrati come cavalli, squartati legandoli alle cime di due alberi legati assieme e poi lasciati tornare alla loro posizione naturale, trasformati in torce umane, scorticati vivi.

« … Con un duplice sistema di governo, come quello di cui ho appena completato la descrizione — cioè un’amministrazione nella quale ogni attore è, da punti di vista diversi, il corruttore e il corrotto; e una procedura giudiziaria senza né leggi né tribunali — si capisce subito che la fiducia nel Governo ha poche probabilità di esistere, che non vi è alcun senso personale del dovere o dell’onore, alcuna fiducia reciproca o cooperazione (tranne nel servire chi fa del male), alcun disonore nella delazione, alcun credito nella virtù e sopra tutto alcuno spirito nazionale o patriottismo ».

Il Báb deve avere presagito sin dall’inizio l’accoglienza che i Suoi concittadini avrebbero accordato ai Suoi insegnamenti e il destino che Lo attendeva per mano dei mullá. Ma non permise che timori personali influenzassero la franca enunciazione delle Sue affermazioni o l’aperta presentazione della Sua Causa. Le innovazioni che proclamò, anche se puramente religiose, furono drastiche, l’annuncio della Sua identità fu sconvolgente e tremendo. Egli Si fece conoscere come il Qá’im, il Grande Profeta o Messia da lungo tempo promesso, così ansiosamente atteso dal mondo musulmano. A ciò aggiunse la dichiarazione di essere anche la Porta (cioè il Báb) attraverso la quale doveva entrare nel regno umano una Manifestazione più grande di Lui.

MettendoSi così nella linea delle tradizioni dell’Islám e apparendo quale adempimento delle profezie, Egli entrò in conflitto con coloro che, sul significato di quelle profezie e tradizioni, avevano idee fisse e intoccabili (diverse dalle Sue). Le due grandi sette persiane dell’Islám, la sciita e la sunnita, attribuivano entrambe grande importanza all’antico retaggio della loro fede, ma non erano d’accordo sul suo contenuto e sul suo valore. Gli sciiti, dalle cui dottrine sorse il Movimento Bábí, sostenevano che, dopo l’ascensione del Grande Profeta Muhammad, a Lui era succeduta una linea di dodici Imám. Ognuno di questi, essi sostenevano, era stato dotato da Dio di poteri e doti speciali e aveva diritto all’assoluta obbedienza dei fedeli. Essi dovevano la loro designazione non alla scelta popolare, ma alla nomina da parte del proprio predecessore nella carica. Dodicesima e ultima di queste guide ispirate fu Muhammad, chiamato dagli sciiti « Imám Mihdí, Hujjatu’lláh [la Prova di Dio], Baqíyyatu’lláh [il Resto di Dio], e Qá’im-i-Ál-i-Muhammad [Colui che sorgerà dalla famiglia di Muhammad] ». Egli assunse le funzioni di Imám nell’anno 260 dell’Egira, ma improvvisamente scomparve e comunicò con i suoi seguaci solo attraverso un intermediario scelto, noto come Porta. Quattro di queste Porte si susseguirono l’una all’altra, ciascuna designata dal predecessore con l’approvazione dell’Imám. Ma allorché i fedeli chiesero alla quarta, Abu’l-Hasan-‘Alí, di nominare il successore, prima di morire, egli si rifiutò di farlo: disse che Iddio aveva un altro piano. Alla sua morte ogni comunicazione tra l’Imám e la sua chiesa pertanto cessò. E tuttavia, circondato da un gruppo di seguaci, egli è ancora vivo e attende in un nascondiglio misterioso e non si rimetterà in contatto con il suo popolo finché non si manifesterà con tutta la sua potenza per instaurare il millennio in tutto il mondo.

I sunniti, d’altra parte, hanno un’opinione meno elevata della funzione dei successori del Grande Profeta. Essi considerano la vice- reggenza una questione pratica più che spirituale. Il Califfo è, ai loro occhi, il Difensore della Fede e deve la sua nomina alla scelta e all’approvazione del Popolo.

Per quanto importanti siano queste differenze, tuttavia, entrambe le sette concordano nell’attendere una duplice Manifestazione. Gli sciiti aspettano il Qá’im, che deve venire nella pienezza dei tempi e anche il ritorno dell’ Imám Husayn. I sunniti attendono l’apparizione del Mihdí e anche « il ritorno di Gesù Cristo ». Quando, all’inizio della Sua Missione, il Báb, continuando la tradizione degli sciiti, proclamò la Sua funzione con il doppio titolo, primo di Qá’im e secondo di Porta o Báb, alcuni dei musulmani fraintesero il secondo appellativo. Essi pensarono che volesse dire di essere la quinta Porta, il successore di Abu’l-Hasan-‘Alí. Il vero significato, tuttavia, come Egli stesso chiaramente annunziò, era molto differente.

Egli era il Qá’im; ma il Qá’im, anche se Grande Profeta, era in rapporto con una Manifestazione successiva e più grande, come Giovanni Battista nei confronti del Cristo. Era il Precursore di Uno ancor più possente di Lui. Egli doveva diminuire; il Possente doveva aumentare. E come Giovanni Battista era stato l’Araldo o la Porta del Cristo, così il Báb era l’Araldo o la Porta di Bahá’u’lláh.

Vi sono molte tradizioni autentiche indicanti che il Qá’im alla Sua apparizione deve portare con Sé nuove leggi e quindi abrogare l’Islám. Ma questa non era l’opinione della gerarchia costituita. I suoi membri si aspettavano fiduciosamente che l’Avvento Promesso non avrebbe sostituito una rivelazione più nuova e più ricca alla vecchia e che avrebbe invece appoggiato e rafforzato il sistema di cui essi erano i funzionari. Esso avrebbe incalcolabilmente accresciuto il loro prestigio personale, esteso la loro autorità tra tutte le nazioni e conquistato loro l’omaggio riluttante ma totale del genere umano.

Il Báb, quando rivelò il Suo Bayán, proclamò un nuovo codice di leggi religiose e con i precetti e con l’esempio dette avvio a una profonda riforma morale e spirituale. I sacerdoti immediatamente fiutarono un pericolo mortale, videro il loro monopolio scardinato, le loro ambizioni minacciate, la loro vita e la loro condotta messe alla gogna. Si sollevarono contro di Lui con bigotta indignazione, dichiarando davanti allo Scià e al popolo che quel villano rifatto era un nemico dell’onesta cultura, un sovvertitore dell’Islám, un traditore di Muhammad e un pericolo non solo per la santa Chiesa, ma anche per l’ordine sociale e lo Stato stesso.

Il motivo per cui il Báb venne respinto e perseguitato fu in sostanza lo stesso per cui era stato respinto e perseguitato il Cristo. Se Gesù non avesse portato un Nuovo Libro, se non avesse solo ribadito i princìpi spirituali insegnati da Mosè ma avesse anche continuato le leggi e le regole di Mosè, avrebbe potuto come semplice riformatore morale sfuggire alla vendetta degli Scribi e dei Farisei. Ma sostenere che una qualsiasi parte della legge mosaica, anche semplicemente ordinanze materiali come quelle relative al divorzio e all’osservanza del sabato, potessero essere alterate da un predicatore laico del villaggio di Nazareth — questo significava minacciare gl’interessi degli Scribi e dei Farisei stessi e, poiché essi erano i rappresentanti di Mosè e di Dio, era una bestemmia contro l’Altissimo. Non appena la posizione di Gesù fu compresa, le persecuzioni ebbero inizio. Poiché Egli Si rifiutò di desistere, fu messo a morte.

Per ragioni esattamente parallele, il Báb fu sin dall’inizio osteggiato dagl’interessi costituiti della chiesa dominante quale estirpatore della Fede. Eppure, perfino in quel paese oscuro e fanatico, per i mullá (come per gli Scribi in Palestina diciotto secoli prima) non fu molto facile scovare un pretesto plausibile per distruggere Colui che essi consideravano loro nemico.

La sola testimonianza conosciuta comprovante che il Báb sia stato visto da un europeo appartiene al periodo della Sua persecuzione, quando un medico inglese residente a Tabríz, il dottor Cormick, fu invitato dalle autorità persiane a pronunziarsi sulle Sue condizioni mentali. La lettera del dottore, indirizzata a un collega di una missione americana in Persia, è riportata nel « Materials for the Study of the Bábí Religion » del Professor E. G. Browne. « Mi chiede », scrive il dottore, « alcuni particolari sul mio colloquio con il fondatore della setta nota come Bábí. Durante questo colloquio non è emerso nulla d’importante, perché il Báb sapeva che io ero stato mandato con altri due medici persiani per vedere se egli era sano di mente o semplicemente pazzo, onde decidere sulla questione se dovesse essere messo a morte oppure no. Sapendo questo, era restio a rispondere alle domande che gli facevamo. Ad ogni quesito si limitò a guardarci con uno sguardo mite, cantando con voce bassa e melodiosa alcuni inni, suppongo. Erano presenti anche altri due siyyid, suoi intimi amici, che furono in seguito messi a morte con lui, oltre a un paio di funzionari governativi. Si degnò di rispondermi solo quando gli dissi che non ero musulmano e desideravo conoscere qualcosa della sua religione, poiché avrei potuto forse essere propenso ad accettarla. Mi guardò molto intensamente quando dissi questo e rispose che non aveva dubbi che tutti gli Europei si sarebbero convertiti alla sua religione. La nostra relazione allo Scià in quella circostanza mirava a risparmiargli la vita. Egli fu messo a morte qualche tempo dopo per ordine dell’Amír-Nizám, Mirza Taqí Khán. In base alla nostra relazione ricevette solamente la fustigazione, operazione durante la quale un farrásh, con o senza intenzione, lo colpì in faccia con il bastone destinato ai piedi, il che gli produsse una grande ferita e gli fece gonfiare il viso. Quando gli fu chiesto se dovessero condurgli un chirurgo persiano per curano, egli espresse il desiderio che fossi chiamato io e pertanto lo curai per un po’ di giorni, ma nei colloqui che ne seguirono non riuscii mai ad ottenere che conversasse confidenzialmente con me, perché, trattandosi di un prigioniero, erano sempre presenti uomini del governo. Era un uomo molto mite e dall’aspetto delicato, piuttosto piccolo di statura e molto chiaro per essere un persiano, la sua voce era morbida e melodiosa e mi colpì molto. Essendo un Siyyid, indossava l’abito di quella setta, come i suoi due compagni. In realtà tutto il suo aspetto e il suo portamento contribuivano a ben disporre in suo favore. Della sua dottrina non sentii nulla dalle sue labbra, ma ebbi l’impressione che nella sua religione esista una certa apertura verso il Cristianesimo. Alcuni falegnami armeni mandati a eseguire certe riparazioni nella sua prigione, lo videro leggere la Bibbia ed egli non si dette pena di nasconderlo, ma al contrario ne parlò. Sicuramente il fanatismo musulmano nei confronti dei Cristiani non esiste nella sua religione, né vi è quella restrizione per le donne che ora esiste ».

Questa fu l’impressione che un Inglese cólto ebbe del Báb. E per quanto l’influenza del Suo carattere e dei Suoi insegnamenti si sia da allora diffusa in Occidente, non rimane alcun’altra testimonianza comprovante che Egli sia stato osservato o visto da occhi europei.

Le Sue qualità erano così rare nella loro nobiltà e bellezza, la Sua personalità così gentile eppure così vigorosa e il Suo fascino naturale era combinato con tanto tatto e giudizio, che dopo la Sua Dichiarazione Egli divenne rapidamente un personaggio molto popolare in Persia. Conquistava quasi tutti coloro con cui veniva in contatto di persona, spesso convertendo i carcerieri alla Sua fede e tramutando i malevoli in amici e ammiratori.

Mettere a tacere un tale uomo senza incorrere in qualche modo nell’odio pubblico non era molto facile nemmeno nella Persia della metà del secolo scorso. Ma con i seguaci del Báb il problema era diverso.

I mullá non incontrarono in questo caso alcun motivo d’indugio e trovarono ben poche necessità di ricorrere a macchinazioni. Il fanatismo dei musulmani, dallo Scià in giù, poteva essere prontamente aizzato contro qualsiasi evento religioso. I Bábí potevano essere accusati di slealtà verso lo Scià e oscuri moventi politici potevano essere attribuiti alle loro attività. Inoltre i seguaci del Báb erano già numerosi; molti di essi erano benestanti, alcuni ricchi e, tra questi, alcuni avevano possedimenti che avidi vicini potevano essere istigati a desiderare. Facendo leva sui timori delle autorità e sulle basse passioni nazionali del fanatismo e della cupidigia, i mullá inaugurarono una campagna di oltraggi e di spoliazioni che sostennero con implacabile ferocia finché non ritennero d’aver raggiunto in pieno il loro scopo.

Molte delle vicende di quest’infelice storia sono riferite da Nabíl nel suo racconto e tra queste gli avvenimenti del Mázindarán, di Nayríz e Zanján emergono per l’eroismo degli atti compiuti dai Bábí messi alle strette. In queste tre occasioni alcuni Bábí, spinti alla disperazione, si allontanarono di concerto dalle loro case rifugiandosi in un luogo prescelto e, costruitesi attorno opere di difesa, affrontarono con le armi ulteriori attacchi. Per qualsiasi testimone imparziale era evidente che le asserzioni dei mullá di un loro movente politico erano false. I Bábí si mostrarono sempre pronti — davanti alla promessa che non sarebbero più stati molestati per la loro fede religiosa a ritornare pacificamente alle loro occupazioni civili. Nabíl sottolinea la loro cura nell’astenersi da ogni aggressione. Essi combattevano per la vita con destrezza e forza risoluta; ma non attaccavano. Anche nel mezzo di una feroce battaglia non si accaparravano profitti e non tiravano un solo colpo che non fosse necessario.

Nel « Traveller’s Narrative », pagg. 34-35 è citato il seguente giudizio di ‘Abdu’l-Bahá sull’aspetto morale della loro azione:

« Il ministro (Mirza Taqí Khán), del tutto arbitrariamente, senza ricevere istruzioni né chiedere permessi, diramò l’ordine di punire e castigare i Bábí. Governatori e magistrati cercavano un pretesto per accumulare ricchezze, e i funzionari un mezzo per acquisire profitti; celebri dottori dall’alto dei loro pulpiti incitavano il popolo a fare una strage; le forze della legge religiosa e civile facevano lega e lottavano per sradicare e distruggere questa gente. Ora questa gente non aveva ancora acquistato la conoscenza giusta e necessaria dei principi fondamentali e delle dottrine celate degl’insegnamenti del Báb e non conosceva i propri doveri. Le sue concezioni e idee erano formulate alla vecchia maniera e la loro condotta e il loro comportamento erano in conformità con l’antico uso. La via d’accesso al Báb era, inoltre, chiusa e la fiamma dell’afflizione ardeva palesemente dappertutto. Per decreto dei più celebri dottori, il governo e, in verità, anche la gente comune avevano inaugurato in ogni luogo, con forza irresistibile, una campagna di rapine e di saccheggi e si erano dati a punire e torturare, uccidere e depredare, per spegnere questo fuoco e far languire queste povere anime. Nelle città dove ve n’era solo un numero limitato, furono passati tutti per la spada a mani legate, mentre nelle città dov’erano numerosi, si sollevarono per difendersi secondo le loro antiche credenze, poiché non potevano indagare quale fosse il loro dovere e tutte le porte erano chiuse ».

Bahá’u’lláh, nel proclamare alcuni anni più tardi la Sua Missione, non lasciò adito a incertezze sulla legge della Sua Dispensazione per una simile situazione critica, quando affermò: « meglio essere uccisi che uccidere ».

Ogni resistenza che i Bábí fecero, qui o altrove, si dimostrò vana. Essi furono sopraffatti dal numero. Il Báb stesso fu strappato dalla Sua cella e giustiziato. Dei Suoi principali discepoli che confessarono la loro fede in Lui, neppur uno fu lasciato vivo tranne Bahá’u’lláh, che con la Sua famiglia e un pugno di devoti seguaci fu cacciato, privo d’ogni mezzo, esule e prigioniero in una terra straniera.

Ma il fuoco, benché coperto di cenere, non era spento. Esso ardeva nel cuore degli esiliati che viaggiando lo portarono da paese a paese. Anche nella sua patria, la Persia, esso era penetrato troppo profondamente per poter essere spento dalla violenza fisica e ardeva ancora nel cuore della gente e gli occorreva solo un soffio dello spirito per poter divampare in un incendio divoratore.

La Seconda e Più Grande Manifestazione di Dio fu proclamata, in conformità con la profezia del Báb, alla data che Egli aveva predetto. Nove anni dopo l’inizio della Dispensazione Bábí — cioè nel 1853 — Bahá’u’lláh, in alcune delle Sue odi, alluse alla Sua identità e alla Sua Missione e dieci anni più tardi, mentre Si trovava a Baghdád, dichiarò ai Suoi compagni di essere il Promesso.

Allora il grande Movimento per cui il Báb aveva preparato la via cominciò a mostrare tutta la portata e lo splendore della sua potenza. Sebbene Bahá’u’lláh sia vissuto e morto esule e prigioniero e sia stato conosciuto da pochi Europei, le Sue epistole proclamanti il nuovo Avvento furono invitate ai grandi governanti di entrambi gli emisferi, dallo Scià di Persia al Papa e al Presidente degli Stati Uniti. Dopo il Suo trapasso, Suo figlio ‘Abdu’l-Bahá portò Egli stesso la buona novella in Egitto e in ampie zone del mondo occidentale. ‘Abdu’l-Bahá visitò Inghilterra, Francia, Svizzera, Germania e America, annunziando in ogni luogo che ancora una volta i cieli si erano aperti e una nuova Dispensazione era giunta a benedire i figli degli uomini. Egli morì nel novembre 1921; e oggi il fuoco, che una volta sembrava estinto per sempre, arde ancora in ogni parte della Persia, si è insediato nel continente americano e ha preso possesso di ogni paese nel mondo. Attorno ai sacri scritti di Bahá’u’lláh e alle autorevoli spiegazioni di ‘Abdu’l-Bahá sta crescendo una gran quantità di scritti di commento o di testimonianza. I principí umanitari e spirituali, enunciati decenni or sono nel più oscuro Oriente da Bahá’u’lláh e da Lui fusi in uno schema coerente, vengono accettati l’uno dopo l’altro da un mondo inconsapevole della loro fonte come segni di progresso e civiltà. E la sensazione che l’umanità ha rotto con il passato e che le vecchie norme non possono guidarla attraverso gl’imprevisti del giorno d’oggi, ha colmato d’incertezza e di sgomento tutti gli uomini riflessivi tranne coloro che hanno imparato a trovare nella storia di Bahá’u’lláh il significato di tutti i prodigi e i portenti del nostro tempo.

Quasi tre generazioni sono passate dall’inizio del Movimento. Tutti i suoi primi seguaci scampati alla spada e alle torture sono da lungo tempo trapassati per morte naturale. La porta dell’informazione contemporanea per quanto riguarda i suoi due grandi Maestri e i loro eroici discepoli è chiusa per sempre. La cronaca di Nabíl quale accurata raccolta di fatti eseguita nell’interesse della verità e completata durante la vita di Bahá’u’lláh ha ora un valore unico. L’autore aveva tredici anni quando il Báb Si dichiarò, essendo nato nel villaggio di Zarand in Persia il diciottesimo giorno di Safar, 1247 A.H., per tutta la vita fu vicino agli esponenti della Causa. Benché a quei tempi fosse solo un ragazzo, stava accingendosi a partire per Shaykh Tabarsí e a unirsi all’esercito di Mullá Husayn, quando la notizia dello sleale massacro dei Bábí rese vano il suo progetto. Nella sua narrazione afferma che incontrò, a Tihrán, Hájí Mirza Siyyid ‘Alí, fratello della madre del Báb, che era appena tornato da una visita al Báb nella fortezza di Chihríq; e per lunghi anni fu grande amico del segretario del Báb, Mirza Ahmad.

Fu ammesso alla presenza di Bahá’u’lláh a Kirmánsháh e a Tihrán prima dell’epoca dell’esilio in ‘Iráq e dopo fu al Suo seguito a Baghdád e Adrianopoli e anche nella città-prigione di ‘Akká. Fu mandato più d’una volta in missione in Persia per promuovere la Causa e incoraggiare i credenti dispersi e perseguitati e si trovava ad ‘Akká quando Bahá’u’lláh trapassò nel 1892 A.D. Il modo in cui mori è patetico e doloroso: fu così terribilmente afflitto dalla morte del Grande Amato che, sopraffatto dal dolore, si annegò in mare e il suo corpo fu rinvenuto sospinto a riva vicino alla città di ‘Akká.

Quando, nel 1888, dette inizio alla sua cronaca, ebbe l’assistenza personale di Mirza Músá, fratello di Bahá’u’lláh. La terminò in circa un anno e mezzo e parti del manoscritto furono rivedute e approvate, alcune da Bahá’u’lláh e altre da ‘Abdu’l-Bahá.

L’opera completa narra la storia del Movimento fino alla morte di Bahá’u’lláh nel 1892.

La prima metà di questa narrazione, che si chiude con l’espulsione di Bahá’u’lláh dalla Persia, è contenuta in questo volume. La sua importanza è evidente: essa verrà letta non tanto per i commoventi passi d’azione che contiene e nemmeno per i molti suoi quadri d’eroismo e di fede incrollabile, quanto per il significato insito in quegli eventi di cui dà una così eccezionale documentazione.

LO STATO DI DECADENZA DELLA PERSIA ALLA METÀ DEL DICIANNOVESIMO SECOLO

A. I SOVRANI QÁJÁR

« In teoria il re può fare ciò che gli pare; la sua parola è legge. Il detto che “la legge dei Medi e dei Persiani non cambia” era semplicemente un’antica perifrasi per indicare l’assolutismo del sovrano. Egli nomina e può destituire tutti i ministri, i funzionari, gli ufficiali e i giudici. Sulla sua famiglia, sul suo seguito e sui funzionari civili e militari al suo servizio, ha potere di vita e di morte senza dover ricorrere ad alcun tribunale. Le proprietà di queste persone, quando cadano in disgrazia o siano giustiziate, spettano a lui. Il diritto di condannare a morte, in ogni caso, spetta solo a lui, ma può essere delegato a governatori o delegati. Ogni proprietà, che non sia stata precedentemente concessa dalla corona o acquistata — ogni proprietà, in effetti, a cui non possa essere attribuito un titolo legale — appartiene a lui, che ne può disporre a suo piacere. Tutti i diritti e i privilegi, come l’esecuzione di lavori pubblici, lo sfruttamento delle miniere, l’istituzione di telegrafi, strade, ferrovie, tranvie ecc., lo sfruttamento in sostanza di qualsiasi risorsa del paese spettano a lui e da lui devono essere acquistati prima che possano essere rilevati da altri. Nella sua persona sono concentrate le tre funzioni del governo, legislativa, esecutiva e giudiziaria. Nessun obbligo gli è imposto, tranne l’osservanza esteriore delle forme della religione nazionale. Egli è il perno intorno al quale ruota l’intera macchina della vita pubblica.

« Tale è in teoria, e fu fino a tempi recenti in pratica, il carattere della monarchia persiana, che non ha mai rinunciato apertamente nemmeno a una di queste grandi pretese. Il linguaggio con cui lo Scià si rivolge ai suoi sudditi ed essi si rivolgono a lui ricorda le parole altezzose che un Artaserse o un Dario rivolgevano ai milioni di tributari e che si possono tuttora leggere nei documenti incisi sulle pareti rupestri e sulle tombe. Egli è ancora lo Sháhinsháh, o Re dei Re; lo Zillu’lláh, o Ombra di Dio; il Qibliy-i-‘Álam, o Centro dell’Universo; “Eccelso come il pianeta Saturno; Pozzo di Scienza; Sentiero del Cielo; Sublime Sovrano, il cui stendardo è il Sole, il cui splendore è quello del Firmamento; Monarca di eserciti numerosi come le stelle”. Il suddito persiano sosterrebbe ancora il precetto di Sa‘dí: “Il vizio approvato dal re diviene una virtù; cercare un consiglio contrario significa macchiarsi le mani del proprio sangue”. Il passar del tempo non gli ha imposto né un consiglio religioso né un consiglio secolare, né ‘ulamá’ né senato. Le istituzioni elettive o rappresentative non hanno ancora intromesso le loro irriverenti caratteristiche. Non esiste alcun controllo scritto sulle prerogative regali.

« … Tale è l’alone di divinità che avvolge il trono in Persia, che non solo lo Scià non partecipa mai a banchetti ufficiali né mangia a tavola con i suoi cittadini, con l’eccezione di un solo banchetto offerto ai suoi principali parenti maschi a Naw-Rúz, ma l’atteggiamento e il linguaggio usati verso di lui perfino dai suoi ministri confidenziali sono improntati a un’obbedienza e un’adulazione servili. “Possa io essere sacrificato per te, Asilo dell’Universo”, è un modo comune di rivolgersi a lui adottato anche da sudditi di altissimo rango. Nel suo ambiente non c’è nessuno che gli dica la verità o che gli dia un consiglio spassionato. Gli ambasciatori stranieri sono probabilmente l’unica fonte da cui egli apprenda i fatti come sono o riceva consigli franchi, benché interessati. Anche se ha le migliori intenzioni del mondo di intraprendere grandi piani per migliorare il suo paese, ha poco o punto controllo sull’esecuzione di un’impresa una volta che questa sia uscita dalle sue mani e sia divenuta il passatempo di funzionari corrotti ed egoisti. Metà del danaro assegnato con il suo consenso non arriva mai a destinazione, ma resta attaccata a ciascuna tasca con cui una professionale ingegnosità lo mette in contatto; metà degli schemi autorizzati da lui non sono mai portati neppure vicino all’attuazione, mentre il ministro o il funzionario incaricato confida che la capricciosa smemoratezza del sovrano faccia passare inosservata la sua trascuratezza nel dovere.

« … Solo un secolo fa vigevano il sistema odioso di accecare i possibili aspiranti al trono e l’uso di selvagge mutilazioni e di prigionie a vita, di stragi inutili e sistematici spargimenti di sangue. Si faceva tanto presto a cadere in disgrazia quanto a far carriera e la morte era un fatto spesso concomitante alla disgrazia.

« … Fath-‘Alí Sháh … e i suoi successori dopo di lui sono stati così straordinariamente prolifici di figli maschi, che la continuità della dinastia è stata garantita; e non vi è probabilmente una famiglia regnante nel mondo che nel giro di cent’anni sia cresciuta fino a raggiungere dimensioni così grandi come la casa reale di Persia … E lo Scià, benché sia innegabilmente un uomo di famiglia, non può essere paragonato al bisnonno, Fath-‘Alí Sháh, né per il numero delle mogli né per la vastità della progenie. All’alta opinione che i più hanno sulle capacità domestiche di quel monarca, immagino, si devono attribuire le divergenti valutazioni, che si trovano nelle opere sulla Persia, del numero delle sue concubine e dei suoi figli. Il colonnello Drouville, nel 1813, gli attribuisce 700 mogli, 64 figli e 125 figlie. Il colonnello Stuart, che era in Persia l’anno successivo alla morte di Fath-‘Alí Sháh, gli attribuisce 1000 mogli e 105 figli … Madame Dieulafoy cita 5000 discendenti e ne dà anche i nomi, ma si riferisce a un’epoca posteriore di cinquant’anni (e per questo la sua valutazione ha un’aria di maggiore credibilità) … La stima che appare nel Násikhu’t-Tavárikh, grande opera moderna di storia persiana, fissa il numero delle mogli di Fath-‘Alí Sháh a oltre 1000 e quello dei suoi figli a 260, di cui 110 sopravvissero al padre. Da qui il familiare proverbio persiano: “Cammelli, pulci e príncipi esistono dappertutto”. … Nessuna famiglia reale ha mai illustrato in modo più esemplare la promessa delle scritture: “Invece dei tuoi padri avrai figli, che tu possa far princìpi in ogni terra”; infatti non c’erano governatorati o posti lucrativi in Persia che non fossero occupati da un membro di questo alveare di principotti; e fino ad oggi la sterminata genìa di Sháhzádih, o discendenti di re, è una vera calamità per il paese, anche se ora molti di questi sfortunati rampolli regali, che consumano una grande parte del reddito statale in indennità annuali e pensioni, occupano posizioni molto umili come quelle di impiegati del telegrafo, segretari ecc. Fraser tratteggiò un quadro vivo del tormento che comportava per il paese cinquant’anni fa (1842) questa “ genìa di fannulloni regali” i quali occupavano i posti di comando non solo in ogni provincia, ma anche in ogni bulúk o distretto, città e borgata; ciascuno dei quali manteneva una corte e un grande harem e che devastavano il paese come uno sciame di locuste … Fraser, passando per l’Ádhirbáyján nel 1834 e osservando i disastrosi risultati del sistema seguito da Fath-‘Alí Sháh di distribuire la sua colossale progenie di sesso maschile in ogni posto del governo in tutto il regno, osservò: “La più ovvia conseguenza di questo stato di cose è un odio profondo e universale per la famiglia Qájár, che è sentimento comune in ogni cuore e tema d’ogni lingua”. « … Come, nel corso dei suoi [di Násiri’d-Dín Sháh] viaggi europei, ha raccolto un gran numero di quelle che apparivano, a una mente orientale, meravigliose rarità, ma che si sono accatastate nei vari appartamenti del palazzo, o che sono state messe da parte e dimenticate; così nel più vasto ambito della politica e dell’amministrazione pubblica continuamente intraprende e cerca d’imporre nuovi schemi o ritrovati che, quando il suo capriccio è stato soddisfatto, sono accantonati o lasciati morire. Una settimana è il gas, un’altra è la luce elettrica. Ora è uno staff universitario, in un’altra occasione, un ospedale militare. Oggi è un’uniforme russa; ieri era una nave da guerra tedesca per il Golfo Persico. Un nuovo decreto per l’esercito è emanato quest’anno; un nuovo codice di leggi è promesso per il prossimo. Da questi brillanti schemi non viene fuori nulla e i ripostigli del palazzo sono tanto pieni di meccanismi rotti e di bric-a-brac scartati quanto i casellari degli uffici governativi lo sono di riforme abortive e di progetti nati morti.

« … In una camera al piano superiore dello stesso padiglione, Mirza Abu’l-Qásim, il Qá’im-Maqám, o gran visir di Muhammad Sháh (padre dell’attuale monarca), fu strangolato nel 1835 per ordine del suo regale padrone, il quale così segui l’esempio datogli dal suo predecessore e ne dette uno egli stesso che fu doverosamente seguito da suo figlio. Dev’essere raro nella storia trovare l’uno dopo l’altro tre sovrani, i quali abbiano messo a morte, solo per motivi di gelosia, i tre ministri che li avevano portati al trono o che occupavano al momento della caduta la più alta carica dello Stato. Questo è il triplice vanto di Fath-‘Alí, Muhammad e Násiri’d-Dín Sháh ».

B. IL GOVERNO

« In un paese così arretrato nel progresso costituzionale, così privo di forme, di statuti e di costituzioni e così fermamente stereotipato nelle tradizioni immemorabili dell’Oriente, l’elemento personale, come ci si può aspettare, ha un netto predominio; e il governo della Persia è poco meno che un esercizio arbitrario di autorità da parte di una serie di unità in una scala che discende dal sovrano fino al capo del più umile villaggio. Il solo controllo che agisca sui funzionari di grado inferiore è il timore dei superiori, che di solito si può trovare il modo di mitigare; su quelli di grado più alto, il timore del sovrano, il quale non è sempre chiuso a simili metodi di pacificazione; e sul sovrano stesso il timore dell’opinione non dei nativi, ma dei forestieri, rappresentati dall’ostile critica della stampa europea … Lo Scià, in verità, può essere considerato in questo momento forse il miglior esemplare esistente di despota moderato; poiché entro i limiti indicati è praticamente irresponsabile e onnipotente. Egli ha potere assoluto sulla vita e sulle proprietà di tutti i suoi sudditi. I suoi figli non hanno alcun’autorità indipendente e possono essere ridotti all’impotenza e all’elemosina in un batter d’occhio. I ministri sono innalzati e degradati secondo il volere regale. Il sovrano è l’unico che abbia il potere esecutivo e tutti i funzionari sono suoi delegati. Non esistono tribunali civili, che ne controllino o modifichino le prerogative.

« … Sul carattere generale e sulle qualità dei ministri della corte persiana, Sir J. Malcolm, agl’inizi del secolo, scrisse nella sua storia ciò che segue: “I ministri e i principali funzionari della corte sono quasi sempre uomini dai modi raffinati, molto qualificati nei problemi dei loro rispettivi dicasteri, dalla conversazione piacevole, dal temperamento sottomesso e dallo spirito di osservazione molto acuto; ma queste qualità gradevoli e utili sono, in generale, tutto ciò che essi posseggono. Né ci si deve aspettare virtù o conoscenze liberali in uomini la cui vita è sprecata nel badare alle forme; i cui mezzi di sussistenza derivano dalle fonti più corrotte; la cui occupazione consiste nel tessere intrighi che hanno sempre lo stesso fine: salvare se stessi o rovinare altri; i quali non possono, senza pericolo, parlare altro linguaggio che quello dell’adulazione e della falsità; e che sono, in breve, condannati dalla loro condizione a essere venali, astuti e falsi. Ci sono stati, senza dubbio, molti ministri di Persia che sarebbe ingiusto classificare sotto questa descrizione generale; ma anche coloro che maggiormente si sono distinti per virtù e talenti sono stati costretti entro certi limiti ad adattare i loro princìpi al loro rango; e, tranne quando la fiducia del sovrano li ha posti al di là del timore di rivali, la necessità li ha costretti a praticare un servilismo e un’ipocrisia ben diversi dalla verità e dall’integrità, le sole qualità che possano costituire una pretesa al rispetto che tutti sono disposti a concedere agli uomini buoni e grandi”. Queste osservazioni sono contraddistinte dall’intuizione e dalla giustizia caratteristiche del loro illustre autore, e c’è da temere che in larga misura siano valide tanto per la presente quanto per la passata generazione ».

C. IL POPOLO

« … Tratterò ora quella che è la caratteristica basilare e distintiva dell’amministrazione iraniana. Si può dire che il governo, anzi, la vita stessa della nazione, consiste per lo più in uno scambio di doni. Nel suo aspetto sociale si potrebbe supporre che questa pratica comprovi i sentimenti generosi di un amabile popolo; benché anche da questo punto di vista vi siano in essa lati freddi e sgradevoli come quando, per esempio, mentre vi rallegrate in cuor vostro per aver ricevuto un dono, trovate che dovete non solo contraccambiare facendo al donatore un regalo di costo equivalente, ma anche ricompensare generosamente il latore del dono (per il quale la vostra ricompensa è molto verosimilmente l’unico mezzo riconosciuto di sussistenza) in misura proporzionale al valore pecuniario del dono stesso. Nel suo aspetto politico, l’uso di far doni, benché consacrato nelle adamantine tradizioni dell’Oriente, è un sinonimo del sistema descritto altrove con nomi meno gradevoli. il sistema secondo il quale la Persia è stata governata per secoli e il cui mantenimento oppone una robusta barriera a qualsiasi reale riforma. Dallo Scià in giù, non v’è funzionario che non sia disponibile a regali, non v’è posto che non sia conferito in cambio di un dono, non v’è rendita che non sia stata accumulata per mezzo di doni ricevuti. Salvo pochissime eccezioni, tutti i componenti della gerarchia ufficiale sopra menzionata, hanno semplicemente comperato la propria posizione con un regalo pecuniario offerto o allo Scià o a un ministro o al governatore superiore dal quale sono stati nominati. Se ci sono molti candidati a un posto, con ogni probabilità vincerà quello che fa la migliore offerta.

« ... Il “madákhil” è un’istituzione nazionale mantenuta viva in Persia, la riscossione della quale, in una miriade di forme differenti, la cui ingegnosità è pari solo alla loro molteplicità, è per i Persiani il supremo interesse e la somma delizia di tutta una vita. Questa straordinaria parola, di cui Watson dice che non v’è un preciso equivalente in inglese, può essere variamente tradotta come commissione, gratifica, regalia, provvigione, ruberia, lucro, secondo il contesto del discorso in cui è usata. In parole povere, essa indica quel tanto di vantaggio personale, usualmente espresso in moneta, che può essere estorto da qualsiasi transazione. Un negoziato, in cui due parti siano coinvolte come donatore e beneficiano, come superiore e subordinato, o anche come agenti contraenti alla pari, non può aver luogo in Persia senza che la parte che può essere presentata come autrice del favore o del servizio pretenda e riceva una definita ricompensa in denaro per quanto ha fatto o dato. Si può certo dire che la natura umana è la stessa in tutto il mondo; che un simile sistema esiste sotto un differente nome nel nostro o in altri paesi e che il critico sereno saluterà nel Persiano un uomo e un fratello. Entro certi limiti ciò è vero. Ma in nessun paese del mondo che ho visitato o di cui ho sentito parlare, il sistema è tanto aperto, spudorato o universale come in Persia. Così, lungi dall’essere limitato alla sfera dell’economia domestica o alle transazioni commerciali, esso permea ogni passo e ispira la maggior parte delle azioni della vita. Per suo effetto, si può dire che in Persia la generosità e i favori gratuiti sono stati cancellati dal novero delle virtù sociali e la cupidigia è stata elevata a principio informatore della condotta umana … Pertanto si stabilisce una progressione aritmetica di ruberie dal sovrano al suddito, per cui ciascuna unità della scala discendente prende la propria ricompensa dall’unità successiva di rango inferiore, e lo sventurato contadino è la vittima finale. Non c’è da sorprendersi, in queste condizioni, se le cariche sono la via comune verso la ricchezza e se sono frequenti i casi in cui uomini, partiti dal nulla si trovano ad abitare in magnifiche case, circondati da folle di dipendenti e a vivere da principi. “Fa ciò che puoi finché puoi” è la regola che molti uomini si prefiggono entrando nella vita pubblica. E lo spirito popolare non s’indigna per questo comportamento; mentre il giudizio su chi, avendone l’opportunità, non riesce a riempirsi le tasche, è tutt’altro che lusinghiero per il suo valore. Nessuno rivolge un solo pensiero alle vittime da cui, in ultima analisi, è stato ricavato il materiale per questi successivi “madákhil” e dal sudore delle cui rassegnate fronti è stata spremuta la ricchezza che viene dissipata in lussuose case di campagna, oggetti rari provenienti dall’Europa ed enormi seguiti.

« … Tra le caratteristiche della vita pubblica in Persia che più rapidamente colpiscono l’attenzione del forestiero, e che indirettamente derivano dalle stesse condizioni, vi è l’enorme numero di servitori e dipendenti che brulicano attorno a ministri e funzionari d’ogni sorta. Nel caso di un funzionario d’alto rango o d’elevata posizione sociale, il loro numero varia tra 50 e 500. Benjamin dice che il Primo Ministro ai suoi tempi ne manteneva 3000. Ora, la teoria dell’etichetta sociale e cerimoniale diffusa in Persia, e invero in tutto l’Oriente, è entro certi limiti responsabile di questo fenomeno, essendo l’importanza personale, in gran parte, valutata dal pubblico sfoggio che una persona può fare e dalla schiera di servi che può mettere in mostra in certe occasioni. Ma la radice del male è l’istituzione del “madákhil” e delle illecite ruberie. Se governatori e ministri fossero tenuti a pagare il salario a tutta questa ciurma di servi, i loro ranghi si assottiglierebbero rapidamente. Il grosso di questa schiera non è pagata; essi si attaccano al padrone per le occasioni di estorsione che quel rapporto offre loro e prosperano e s’ingrassano sulla depredazione. Si può subito capire che salasso rappresenti questo branco di sanguisughe per le risorse del paese. Essi sono prototipi di lavoratori improduttivi, i quali assorbono ma non producono mai beni; e la loro esistenza è poco meno di una calamità nazionale … È un punto fondamentale dell’etichetta persiana portare con sé, quando si va a fare una visita, il maggior numero possibile di persone della casa, a cavallo o a piedi, il numero di questo seguito essendo considerato un’indicazione del rango del padrone ».

D. L’ORDINE ECCLESIASTICO

« Mirabilmente adattato tanto al clima, quanto al carattere e alle occupazioni di quei paesi sui quali ha imposto la sua presa adamantina, l’Islám domina completamente i suoi seguaci dalla culla alla tomba. Per loro, esso non è solo religione: è governo, filosofia e scienza. La concezione musulmana non è tanto la concezione di una chiesa di stato quanto, se mi si consente l’espressione, di uno stato-chiesa. L’impalcatura sulla quale la società viene modellata non è di fabbricazione civile, ma ecclesiastica; e, avviluppato in questo credo superbo, anche se paralizzante, il musulmano vive in una soddisfatta resa d’ogni volontà, ritiene suo massimo dovere adorare Dio e costringere a far ciò coloro che non l’adorano nello spirito o, se questo è impossibile, disprezzare costoro e infine muore con una speranza sicura e certa del Paradiso.

« … Questi Siyyid, o discendenti del Profeta, sono una molestia intollerabile per il paese; essi traggono dal loro presunto lignaggio e dalla prerogativa del turbante verde il diritto a un’indipendenza e a un’insolenza di comportamento, che tanto i loro concittadini quanto i forestieri devono subire.

« … Come comunità, gli Ebrei persiani sono immersi in grande povertà e ignoranza … In tutti i paesi musulmani dell’Oriente questo infelice popolo è stato sottoposto a persecuzioni che la consuetudine ha abituato tanto lui quanto il mondo a considerare suo normale destino. Costretti di solito a vivere appartati in un ghetto, o quartiere separato delle città, essi hanno sofferto da tempo immemorabile per le limitazioni nelle occupazioni, vesti e costumi, e ciò li ha marchiati come paria sociali davanti ai loro simili … A Isfáhán, dove si dice che ve ne siano 3.700, e dove godono di una condizione sociale relativamente migliore che altrove in Persia, non hanno il permesso d’indossare il “kuláh” o copricapo persiano, di avere negozi nel bazar, di costruire le mura delle loro case tanto alte quanto quelle del loro vicino musulmano, o di cavalcare nelle strade … Ma appena c’è uno scoppio di fanatismo in Persia, o altrove, gli Ebrei sono sempre le prime vittime. Tutte le mani si alzano allora contro di loro; e guai allo sventurato ebreo che per primo incontri la marmaglia persiana in tumulto per le strade.

« … Forse la caratteristica più stupefacente della vita di Mashhad, prima di chiudere l’argomento del mausoleo e dei pellegrini, è il provvedimento preso per il conforto materiale di questi ultimi durante la loro permanenza nella città. In considerazione del lungo viaggio che hanno fatto, delle difficoltà che hanno dovuto affrontare e della distanza che li separa dalla famiglia e dalla casa, è loro permesso, con la connivenza della legge ecclesiastica e dei suoi dignitari, di contrarre matrimoni temporanei durante il soggiorno nella città. C’è una grande popolazione permanente di mogli adatte allo scopo. Si trova un mullá, con la cui approvazione si stende un contratto che viene suggellato formalmente da ambo le parti, si paga una tassa, e l’unione è legalmente compiuta. Trascorse due settimane o un mese, o quale che sia il periodo di tempo stabilito, il contratto scade; il marito temporaneo ritorna ai patri lari in qualche distante regione e la signora, dopo un celibato obbligatorio di quattordici giorni, riprende la sua carriera di continui matrimoni. In altre parole, funziona a Mashhad un gigantesco sistema di prostituzione, con la sanzione della chiesa. Non vi è probabilmente città più immorale in Asia; e mi dispiacerebbe dire quanti dei rassegnati pellegrini che attraversano terre e mari per baciare le grate della tomba dell’Imám non siano anche incoraggiati e consolati nella loro marcia dalla prospettiva d’una piacevole vacanza e di quella che potrebbe essere descritta come una “bella baldoria” ».

CONCLUSIONE

« Prima di abbandonare l’argomento della legge persiana e della sua amministrazione, voglio aggiungere qualche parola sull’argomento delle pene e delle prigioni. Nulla è più traumatizzante per il lettore europeo, che s’inoltri nelle criminose e insanguinate pagine della storia persiana dell’ultimo e, fortunatamente in grado minore, dell’attuale secolo, delle testimonianze di punizioni selvagge e abominevoli torture, che dimostrano rispettivamente un’insensibilità bestiale e una ingegnosità diabolica. Il carattere persiano è sempre stato fertile di espedienti e insensibile alla sofferenza; e nell’ambito delle esecuzioni capitali ha trovato un vasto campo per mettere in pratica entrambe le doti. Fino a tempi abbastanza recenti, entro i confini dell’attuale regno, i criminali condannati a morte sono stati crocifissi, sparati da cannoni, seppelliti vivi, impalati, ferrati come cavalli, squartati legandoli alle cime di due alberi legati assieme e poi lasciati tornare alla loro posizione naturale, trasformati in torce umane, scorticati vivi.

« … Con un duplice sistema di governo, come quello di cui ho appena completato la descrizione — cioè un’amministrazione nella quale ogni attore è, da punti di vista diversi, il corruttore e il corrotto; e una procedura giudiziaria senza né leggi né tribunali — si capisce subito che la fiducia nel Governo ha poche probabilità di esistere, che non vi è alcun senso personale del dovere o dell’onore, alcuna fiducia reciproca o cooperazione (tranne nel servire chi fa del male), alcun disonore nella delazione, alcun credito nella virtù e soprattutto alcuno spirito nazionale o patriottismo. Hanno ragione quei filosofi che sostengono che in Persia la riforma morale deve precedere quella materiale e la riforma interiore, quella esteriore. inutile innestare nuovi germogli su un tronco la cui linfa è esaurita o avvelenata. Possiamo dare alla Persia strade e ferrovie; possiamo lavorare le sue miniere e sfruttare le sue risorse; possiamo addestrare il suo esercito e vestire i suoi artigiani; ma non la porteremo nell’ambito delle nazioni civilizzate finché non saremo giunti al cuore del popolo e non avremo dato una svolta nuova e radicale al carattere e alle istituzioni nazionali. Ho tratteggiato questo quadro dell’amministrazione persiana, che ritengo sia veritiero, perché i lettori inglesi possano capire il sistema contro il quale i riformatori, stranieri o nativi, devono lottare e conoscano il ferreo muro di resistenze, costruito da tutti i più egoistici istinti della natura umana, che si oppone alle idee progressiste. Lo Scià stesso, per quanto genuino possa essere il suo desiderio d’innovazioni, milita entro certi limiti dalla parte di questo pernicioso sistema, visto che ad esso egli deve la sua fortuna privata; mentre coloro che più ad alta voce lo condannano in privato non sono da meno dei loro concittadini nel chinare all’esterno il capo nel tempio del vizio comune. In ogni rango inferiore a quello del sovrano, manca del tutto l’iniziativa per intraprendere una ribellione contro la tirannia di un costume antichissimo; e se un uomo forte come il re attuale può solo tentare d’intraprenderla, dov’è colui che predicherà la crociata? ».

(Estratti da Persia and the Persian Question, di Lord CURZON).

ELOGIO DI BAHÁ’U’LLÁH AL Báb E AI SUOI PRINCIPALI DISCEPOLI

BRANI DAL Kitáb-I-ÍQÁN

« Benché giovane d’anni e consapevole che la Causa da Lui rivelata fosse contraria al desiderio di tutti i popoli della terra, dei potenti e degli umili, dei ricchi e dei poveri, dei grandi e degli infimi, dei re e dei sudditi, pure Egli Si levò a proclamarla con fermezza. Tutti l’hanno saputo e sentito dire. Non aveva timore di nessuno; non badava alle conseguenze. Poteva ciò manifestarsi se non per la forza di una Rivelazione divina e per la potenza invincibile della volontà di Dio? Per la giustizia di Dio! Se qualcuno albergasse nel cuore una Rivelazione così grande, soltanto il pensiero di dichiararsi lo renderebbe perplesso; se i cuori di tutti gli uomini fossero racchiusi nel suo cuore, esiterebbe a rischiare una così tremenda avventura. Egli potrebbe condurla a termine soltanto col permesso di Dio; soltanto se il canale del suo cuore fosse collegato con la sorgente della grazia divina e se l’anima sua avesse la certezza del sostegno infallibile dell’Onnipotente. A che cosa, ci chiediamo Noi, attribuiscono costoro un’audacia così grande? Lo accusano di follia come accusarono gli antichi Profeti? O sostengono che il Suo intento non era che quello d’impossessarSi del comando e di conquistare ricchezze terrene?

« Dio misericordioso! Nel Suo libro che ha intitolato Qayyúmu’l- Asmá, il primo, il più grande e il più possente di tutti i libri, Egli profetizzò il Proprio martirio. Vi è questo passo: “O Tu, Traccia di Dio! Io mi sono sacrificato interamente per Te, ho accettato ingiurie per amor Tuo, non ho agognato che al martirio sul sentiero del Tuo amore. Mi basta Dio come testimone, l’Eccelso, il Protettore, l’Antico dei Giorni!”.

« … Poteva supporsi che il Rivelatore di simili parole percorresse altra via che quella di Dio e che desiderasse altro che la Sua Volontà? Proprio in questo versetto è celato un tale soffio di distacco, che se fosse alitato in pieno sul mondo, tutti rinunzierebbero alla vita e sacrificherebbero volentieri la loro anima.

« … Ed ora considera come questo Sadrih del Ridvan di Dio, nel fiore dell’età, Si sia levato a proclamare la Causa di Dio. Vedi quale fermezza abbia dimostrata questa Beltà di Dio. Il mondo intero sorse ad ostacolarLo ma falli completamente. Più furono crudeli le persecuzioni inflitte a questo Sadrih di Beatitudine, e più crebbe il Suo fervore, e più luminosa brillò la fiamma del Suo amore. Tutto questo è evidente e nessuno ne discute la verità. Alla fine Egli rese la Sua anima e spiegò le ali verso i regni superni.

« … Non appena quella Beltà eterna Si rivelò a Shíráz nell’anno Sessanta e strappò il velo del mistero, i segni del dominio, della potenza, della sovranità e del potere, usciti da quell’Essenza delle Essenze e da quel Mare dei Mari, si manifestarono in ogni paese. Tanto che in ogni città apparvero i segni, le prove, gli indizi, le testimonianze di quel Luminare divino. Quanti furono i cuori puri e vivificati che riflessero fedelmente la luce di quel Sole eterno e quante furono le emanazioni di sapienza che uscirono da quell’Oceano di saggezza divina e che abbracciarono tutti gli esseri! In ogni città teologi e dignitari si levarono ad ascoltarli ed a reprimerli e si cinsero di malizia, d’invidia e di tirannia per sopprimerli. Quante di quelle anime sante, di quelle essenze di giustizia, accusate di tirannia, furono messe a morte! E quante incarnazioni di purezza che non mostravano che vera sapienza e integrità di azioni soffrirono morte atroce. Nondimeno ognuno di questi esseri benedetti al momento estremo invocò il nome di Dio e si librò nel regno della sottomissione e della rassegnazione. Era tale la forza e l’influenza trasformatrice che Egli esercitava su di loro, che cessavano di nutrire qualsiasi altro desiderio che non fosse quello della Sua volontà sposando la loro anima al Suo ricordo.

« Rifletti: chi può mostrare in questo mondo un potere così trascendente, un’influenza così penetrante? Tutti questi cuori immacolati e queste anime santificate con assoluta rassegnazione risposero all’appello della Sua legge. Invece di lamentarsi, rendevano grazie a Dio; nelle tenebre dell’angoscia non mostravano che radiosa sottomissione al Suo volere. evidente quanto dovesse essere implacabile l’odio, amara l’inimicizia e la malizia di tutti i popoli della terra verso questi Compagni. Le persecuzioni e le sofferenze inflitte a questi esseri santi e spirituali, erano considerate da costoro mezzi di salvezza, di prosperità e di fortuna durevole. Dal tempo di Adamo ha mai visto il mondo un tale tumulto e un’agitazione simile? Oltre a tutte le torture che patirono e alle molte sofferenze che sopportarono, furono oggetto d’obbrobrio e di esecrazione universali. Io penso che la pazienza fosse rivelata soltanto dalla virtù della loro fortezza d’animo e la fedeltà soltanto dai loro atti. Rifletti in cuor tuo su questi grandiosi avvenimenti, cosicché tu possa apprendere l’importanza di questa rivelazione e scorgerne la gloria stupenda ».

CARATTERI SALIENTI DELL’ISLÁM SCIITA

« Il punto fondamentale sul quale gli Sciiti (come tutte le altre sette incluse sotto il termine più generale di Imamiti) differiscono dai Sunniti è la dottrina dell’Imamato. Secondo la credenza di questi ultimi, la vice reggenza del Profeta (Khiláfat) è una questione che deve essere decisa dalla scelta e dall’elezione dei suoi seguaci, e il capo visibile del mondo musulmano è qualificato per l’alta posizione che detiene non tanto da una speciale grazia divina, quanto da una combinazione di ortodossia e di capacità amministrativa. Secondo il punto di vista imamita, invece, la vice reggenza è una questione anche spirituale, un incarico conferito da Dio solo, prima per mezzo del Suo Profeta e poi attraverso i Suoi successori, che non ha nulla a che fare con la scelta e l’approvazione popolare. In una parola, il Khalífih dei Sunniti è semplicemente il difensore esteriore e visibile della Fede: l’Imám degli Sciiti è il successore del Profeta ordinato da Dio, dotato di tutte le perfezioni e le doti spirituali, al quale tutti i fedeli devono obbedire, la cui decisione è assoluta e definitiva, la cui saggezza è sovrumana e le cui parole sono autorevoli. Il termine generale d’Imamato è applicabile a tutti coloro che sostengono quest’ultimo criterio a prescindere dal modo in cui stabiliscono la successione, e perciò include sètte come i Báqirí e gl’Ismailiti nonché gli Sciiti o “Chiesa dei Dodici” (Madhhab-i-Ithná-‘Asharíyyih), come essi sono più precisamente indicati, i soli che qui c’interessino. Secondo questi, dodici persone occuparono l’una dopo l’altra la carica di Imám. Queste dodici persone sono le seguenti:

1. ‘Alí-ibn-i-Abí-Tálib, cugino e primo discepolo del Profeta, assassinato da Ibn-i-Muljam a Kúfih, nel 40 A.H. (661 A.D.).

2. Hasan, figlio di ‘Alí e Fátimih, nato nel 2 A.H., avvelenato per ordine di Mu‘ávíyyih I, nel 50 A.H. (670 A.D.).

3. Husayn, figlio di ‘Alí e Fátimih, nato nel 4 AH., ucciso a Karbilá il 10 Muharram, 61 A.H., (10 ottobre, 680 AD.).

4. ‘Alí, figlio di Husayn e di Shahribánú (figlia di Yazdigird, l’ultimo re Sassanide), generalmente chiamato Imám Zaynu’l-‘Ábidín, avvelenato da Valíd.

5. Muhammad-Báqir, figlio del suddetto Zaynu’l-‘Ábidín e di sua cugina Umm-i-‘Abdu’lláh, figlia dell’Imám Hasan, avvelenato da Ibráhím-ibn-i-Valíd.

6. Ja‘far-i-Sádiq, figlio dell’Imám Muhammad-Báqir, avvelenato per ordine di Mansúr, il califfo Abbaside.

7. Músá-Kázim, figlio dell’Imám Ja‘far-i-Sádiq, nato nel 129 A.H., avvelenato per ordine di Hárúnu’r-Rashíd, nel 183 A.H.

8. ‘Alí-ibn-i-Músá’r-Ridá, generalmente chiamato Imám Ridá, nato nel 153 A.H., avvelenato vicino a Tús, nel Khurásán, per ordine del califfo Ma’mún, nel 203 A.H., e seppellito a Mashhad, che a lui deve il proprio nome e la propria santità.

9. Muhammad-Taqí, figlio dell’Imám Ridá, nato nel 195 AH., avvelenato dal califfo Mu‘tasim a Baghdád, nel 220 A.H.

10. ‘Alí-Naqí, figlio dell’Imám Muhammad-Taqí, nato nel 213 A.H., avvelenato a Surra-man-Ra’á, nel 254 A.H.

11. Hasan-i-‘Askarí, figlio dell’Imám ‘Alí-Naqí, nato nel 232 A.H., avvelenato nel 260 A.H.

12. Muhammad, figlio dell’Imám Hasan-i-‘Askarí e di Nargis-Khátún, chiamato dagli Sciiti ‘Imám Mihdí’, ‘Hujjatu’lláh’ (la Prova di Dio), ‘Baqíyyatu’lláh’ (il Resto di Dio), e Qá’im-i-Ál-i-Muhammad’ (Colui che sorgerà dalla famiglia di Muhammad). Egli portava non solo lo stesso nome ma anche la stessa kunyih — Abu’l-Qásim — del Profeta, e secondo gli Sciiti a nessun altro è lecito portare questo nome e questa kunyih insieme. Egli nacque a Surra-man-Ra’á, nel 255 A.H., e successe nell’Imamato al padre, nel 260 A.H.

« Gli Sciiti sostengono che questi non morì, ma scomparve in un passaggio sotterraneo a Surra-man-Ra’á, nel 329 A.H.; che vive ancora circondato da un eletto gruppo di seguaci, in una delle città misteriose, Jábulqá e Jábulsá e che quando i tempi saranno maturi, quando la terra sarà piena d’ingiustizia e i fedeli saranno immersi nella disperazione, comparirà, precorso da Gesù Cristo, rovescerà gl’infedeli, stabilirà pace e giustizia universali e inaugurerà un millennio di beatitudine. Durante tutto il periodo del suo Imamato, cioè dal 260 A.H. fino ad oggi, l’Imám Mihdí è rimasto invisibile e inaccessibile alla massa dei suoi seguaci e questo è il significato del termine “Occultazione” (Ghaybat). Dopo aver assunto le funzioni di Imám e aver presieduto al seppellimento del padre e predecessore, l’Imám Hasan-i-‘Askarí, egli scomparve agli occhi di tutti tranne pochi eletti, i quali, l’uno dopo l’altro, continuarono a fungere da canali di comunicazione tra lui e i suoi seguaci. Costoro furono noti come “Porte” (Abváb). Il primo fu Abú-‘Umar-‘Uthmán ibn-i-Sa‘íd ‘Umarí; il secondo Abú-Ja‘far Muhammad-ibn-i-‘Uthmán, figlio del precedente; il terzo Husayn-ibn-i-Rúh Naw-bakhtí; il quarto Abu’l-Hasan ‘Alí-ibn-i-Muhammad Símarí. La prima di queste “Porte” fu nominata dall’Imám Hasan-i-‘Askarí, le altre furono nominate dalla “Porta” in carica con la sanzione e l’approvazione dell’Imám Mihdí. Questo periodo — che durò 69 anni — durante il quale l’Imám era ancora accessibile per mezzo delle “Porte”, è noto come “Piccola Occultazione” o “Occultazione Minore” (Ghaybat-i-Sughrá). Ad essa successe la “Grande Occultazione” o “Occultazione Maggiore” (Ghaybat-i-Kubrá). Quando Abu’l-Hasan ‘Alí, l’ultimo delle “Porte” giunse vicino alla fine, i fedeli (che vedevano con disperazione la possibilità di un distacco completo dall’Imám) lo sollecitarono a nominare un successore. Ma egli si rifiutò di farlo, dicendo: “Iddio ha uno scopo, che raggiungerà”. Così alla sua morte ogni comunicazione tra l’Imám e la sua Chiesa cessò e incominciò la “Occultazione Maggiore” che continuerà fino al ritorno dell’Imám nella pienezza dei tempi ».

(Brani da A Traveller’s Narrative, nota O, pp. 296-99).

GENEALOGIA DEL PROFETA MUHAMMAD
Quraysh
‘Abd-i-Manáf
Háshim ‘Abdu’sh-Shams
‘Abdu’l-Muttalib Umayyih
Califfi Omayyadi
‘Abdu’lláh Abú-Tálib ‘Abbás
MUHAMMAD Califfi Abbasidi
Fátimih ‘Alí
Hasan Husayn
Califfi Omayyadi, 661-749 A.D.
Califfi Abbasidi, 749-1258 A.D.
Califfi Fatimidi, 1258-1517 A.D.
Califfi Ottomani, 1517-1924 A.D.
Nascita di Muhammad, 20 agosto 570 AD.
Dichiarazione della Sua Missione, 613-614 A.D.
Fuga a Medina. 622 A.D.
Abú-Bakri’s-Siddíq-ibn-i-Abí-Quháfih, 632-34 A.D.
‘Umar-ibn-i’l-Khattáb, 634-44 A .D.
‘Uthmán-ibn-i-Affán, 644-56 A.D.
‘Alí-ibn-i-Abí-Tálib, 656-61 A.D.

TEORIA E AMMINISTRAZIONE DELLA LEGGE IN PERSIA ALLA METÀ DEL DICIANNOVESIMO SECOLO

« … La legge in Persia e, a dire il vero, tra i popoli musulmani in genere comprende due rami: la legge religiosa e la legge comune; l’una basata sulle Scritture Musulmane e l’altra basata su precedenti consuetudini; l’una amministrata da tribunali ecclesiastici e l’altra amministrata da tribunali civili. In Persia, la prima è nota come Shar‘ e la seconda come ‘Urf. Da questi due rami si è sviluppata una giurisprudenza che, sebbene non sia in alcun modo scientifica, tuttavia è ragionevolmente pratica nell’applicazione ed è grossolanamente adattata alle necessità e alle circostanze di coloro per i quali è amministrata. La base dell’autorità nel caso dello Shar‘, o Legge Ecclesiastica, è costituita dalle parole del Profeta nel Corano; dalle opinioni dei Dodici Santi Imám, la cui voce a giudizio dei Musulmani Sciiti ha un valore appena inferiore; e dai commentari di una scuola di preminenti giuristi ecclesiastici. Questi ultimi hanno avuto nell’accrescere il volume della giurisprudenza nazionale la stessa parte che i famosi juris consulti ebbero nei confronti del Diritto Romano, o i commentatori talmudici nei confronti del sistema ebraico. Il corpo di leggi così costituito è stato grossolanamente codificato e diviso in quattro capi, che trattano rispettivamente di: riti e doveri religiosi, contratti e obbligazioni, affari personali, leggi suntuarie e procedura giudiziaria. Questa legge è amministrata da una corte ecclesiastica, che consiste di mullá, cioè preti laici, e mujtahid, cioè eruditi dottori della legge, assistiti a volte da qádí, o giudici, e sotto la presidenza di un funzionario, noto come Shaykhu’l-Islám, di cui uno, di regola, è nominato in ogni grande città dal sovrano. Nei tempi antichi, il capo di questa gerarchia ecclesiastica era il Sadru’s-Sudúr, o Pontefice Massimo, un dignitario scelto dal re e posto al di sopra di tutto il clero e di tutta la magistratura del regno. Ma questa carica fu abolita da Nádir Sháh nella sua campagna anticlericale e non è mai stata ripristinata. Nei centri più piccoli e nei villaggi, il posto di questa corte è preso dal mullá o dai mullá locali, che, per un compenso, sono sempre pronti con un testo del Corano. Nel caso delle più alte corti, la decisione viene invariabilmente scritta, insieme alla citazione delle Scritture, o dei. commentatori, su cui è basata. I casi di estrema importanza sono deferiti ai più eminenti mujtahid che non sono mai numerosi e che raggiungono questa posizione soltanto per la loro eminente dottrina e capacità, ratificate dall’approvazione popolare, e le cui decisioni sono raramente impugnate … Nelle opere sulla teoria della legge in Persia, è comunemente scritto che i casi criminali vengono giudicati dalle corti ecclesiastiche e i casi civili dalle corti secolari. Ma in pratica non c’è una distinzione così chiara; le funzioni e le prerogative delle magistrature coordinate variano in epoche diverse e appaiono una questione di casualità o di scelta piuttosto che di necessità; e oggi giorno, benché difficili casi criminali possano essere sottoposti a una corte ecclesiastica, tuttavia queste si occupano soprattutto di argomenti civili. I casi di eresia o sacrilegio vengono naturalmente affidati ad esse; sono di loro competenza anche gli adulteri e i divorzi; e l’ubriachezza come offesa non contro la legge consuetudinaria (in verità, in questo caso, l’ubriachezza potrebbe presentare le migliori credenziali in Persia), ma contro il Corano, cade nell’ambito della loro giurisdizione …

« Dallo Shar‘ veniamo allo ‘Urf, o Diritto Consuetudinario. Come dice il nome, esso si basa nominalmente sulla tradizione orale, sui precedenti e sulla consuetudine. Come tale, varia nelle diverse parti del paese. Ma non esistendo alcun codice scritto o riconosciuto, esso cambia ancora di più nella pratica secondo il carattere o il capriccio della persona che l’amministra... Gli amministratori dello ‘Urf sono i magistrati civili del regno, non essendoci una corte secolare o una magistratura secondo il modello occidentale. Nei villaggi, il caso viene portato davanti al kad-khudá, o capo; nelle città, davanti al dárúghih, o funzionario di polizia. Alloro giudizio sono sottoposti tutti i reati di minore gravità che in Inghilterra competono a una corte di giustizia di primo grado o ad una magistratura di provincia. La penalità in caso di furto, o aggressione, o simili reati, è, di regola, la restituzione, sia in natura sia in danaro; ma, se la mancanza di mezzi rende ciò impossibile, il criminale è fustigato. Tutti i crimini comuni sono portati davanti allo hakím, o governatore della città; i più importanti, davanti al governatore provinciale o governatore generale. L’ultima corte d’appello in ogni caso è il re, della cui sovrana autorità questi subordinati esercizi di giurisdizione sono semplicemente una delega, benché di rado un postulante che si trovi fuori dalla capitale possa far sentire la sua lagnanza tanto lontano... La giustizia, amministrata in questo modo dai funzionari del governo in Persia, non obbedisce ad alcuna legge e non segue alcun sistema. La pubblicità è la sola garanzia di equità; ma ci sono molte opportunità, specialmente nei gradi inferiori, per il píshkash e la corruzione. I dárúghih hanno la reputazione di essere severi e venali e alcuni giungono a dire che non c’è sentenza di funzionario persiano, anche del più alto rango, che non possa essere influenzata da considerazioni pecuniarie ».

(Brani da Persia and the Persian Question, di Lord CURZON. vol. I, pp. 452-55).

CHIAVE PER LA GENEALOGIA DEL Báb

1. Discendente dell’Imám Husayn, residente a Shíráz.

2. Moglie del Báb.
3. Soprannominato « Afnán-i-Kabír »
4. Moglie di Mirza Zaynu’l-‘Ábidín.
5. Noto come « Saqqá-Khání ».

6. Moglie di Hájí Mirza Siyyid Hasan, figlio di Mirza ‘Alí.

7. Morto alla nascita.

8. Soprannominato « Khál-i-Asghar »; a lui fu dedicato il Kitáb-i-Íqán.

9. Soprannominato « Khál-i-A‘zam »; uno dei Sette Martiri di Tih-rán.

10. Soprannominato « Vakílu’d-Dawlih »; principale costruttore del Mashriqu’l-Adhkár di Ishqábád.

11. Soprannominato « Vazír », nato a Núr nel Mázindarán; detto ‘Abbás.

12. Detto ‘Abbás.
13. Detto ‘Alí-Muhammad.
14. Detto Husayn-‘Alí.

15. Moglie di Vakílu’d-Dawlih, Hájí Mirza Muhammad-Taqí.

16. Unico figlio di Hájí Mirza Muhammad-‘Alí.
17. Genero di ‘Abdu’l-Bahá.

18. Discendente dell’Imám Husayn, mercante, nato a Shíráz.

19. Genero di ‘Abdu’l-Bahá.
20. Unico figlio di Mirza Abu’l-Fath.
LA DINASTIA QÁJÁR
Fath-‘Alí Sháh, 1798-1834 A.D.
Muhammad Sháh, 1835-48 A.D.
Násiri’d-Dín Sháh, 1848-96 A.D.
Muzaffari’d-Dín Sháh, 1896-1907 A.D.
Muhammad-‘Alí, 1907-9 AD.
Muhammad-‘Alí Sháh, 1907-9 AD.
Mirza Abu’l-Qásim-i-Qá’im-Maqám.
Hájí Mirza Áqásí.
Mirza Taqí Khán Amír-Nizám.
Mirza Áqá Khán-i-Núrí.
RINGRAZIAMENTO

Si ringraziano Lady Blomfield per i suoi preziosi suggerimenti; un corrispondente inglese per il suo aiuto nella preparazione dell’Introduzione; la signora E. Hoagg per aver dattilografato il manoscritto; la signorina Effie Baker per le fotografie usate come illustrazioni.

IL TRADUTTORE 1
PREFAZIONE

CON l’aiuto e l’assistenza di Dio, intendo dedicare le pagine introduttive di questa narrazione ai racconti che sono riuscito a raccogliere sulle due grandi luci gemelle, Shaykh Ahmad-i-Ahsá’í e Siyyid Kázim-i-Rashtí; dopo di che spero di raccontare, in ordine cronologico, gli eventi principali, accaduti dall’anno ’60 1, anno che ha veduto la Dichiarazione della Fede da parte del Báb, fino ad oggi, 1305 A.H. 2

In certi casi scenderò nei dettagli, in altri mi accontenterò di un breve sommario degli eventi. Scriverò una descrizione degli episodi di cui sono stato testimone io stesso, cos come di quelli che mi sono stati riferiti da informatori attendibili e ben conosciuti, specificandone volta per volta il nome e il rango. Le persone verso le quali ho un debito di riconoscenza sono soprattutto le seguenti: Mirza Ahmad-i-Qazvíní, l’amanuense del Báb; Siyyid Ismá’íl-i-Dhabíh; Shaykh Hasan-i-Zunúzí; Shaykh Abú-Turáb-i-Qazvíní; e, ultimo, ma non meno importante, Mirza Músá, Áqáy-i-Kalím, fratello di Bahá’u’lláh.

Rendo grazie a Dio per avermi aiutato a scrivere queste pagine preliminari e per averle benedette e onorate con l’approvazione di Bahá’u’lláh, il quale Si è benignamente degnato di prenderle in considerazione e ha manifestato, tramite il Suo amanuense Mirza Áqá Ján, che Gliele ha lette, il Suo compiacimento e la Sua approvazione. Prego l’Onnipotente di sostenermi e guidarmi, sí che io non erri e non vacilli nel compito che mi sono proposto di svolgere.

MUHAMMAD-I-ZARANDÍ 3
‘Akká, Palestina
1305 A.H.
CAPITOLO I
LA MISSIONE DI SHAYKH AHMAD-I-AHSÁ’Í

IN un tempo in cui la fulgida realtà della Fede di Muhammad era stata oscurata dall’ignoranza, dal fanatismo e dalla perversità delle sette contendenti in cui essa si era divisa, apparve all’orizzonte dell’Oriente 1 Shaykh Ahmad-i-Ahsá’í 2, luminosa Stella di guida Divina. Egli notò che coloro i quali professa- vano la Fede dell’Islám ne avevano frantumato l’unità, fiaccato le forze, pervertito lo scopo e degradato il santo nome. La sua anima si riempiva di angoscia davanti alla corruzione e ai conflitti che caratterizzavano la setta sciita dell’Islám. Ispirato dalla luce che gli risplendeva nell’anima 3, egli, con precisa visione, fermo proposito e sublime distacco, insorse ad esprimere la sua protesta contro il tradimento della Fede perpetrato da quell’ignobile popolo. Ardente di zelo e consapevole della sublimità della sua vocazione, rivolse un veemente appello non solo all’Islám sciita ma anche a tutti i seguaci di Muhammad in Oriente, per risvegliarli dal sonno della negligenza e preparare la strada a Colui che doveva necessariamente manifestarsi nella pienezza dei tempi, la cui luce soltanto avrebbe potuto dissipare le nebbie di pregiudizio e d’ignoranza che avevano avviluppato la Fede. Abbandonati la casa e i familiari in una delle isole Bahrayn, nel sud del Golfo Persico, partì, come disposto dalla Provvidenza onnipotente, per svelare i misteri di quei versetti delle Scritture Islamiche che presagivano l’avvento d’una nuova Manifestazione. Era ben conscio dei rischi e dei pericoli che costellavano il suo cammino; e si rendeva pienamente conto della schiacciante responsabilità del suo compito. Ardeva nella sua anima la convinzione che nessuna riforma, in seno alla Fede dell’Islám, per quanto drastica, avrebbe potuto portare alla rigenerazione di quel popolo perverso. Sapeva, ed era destinato dalla Volontà di Dio a dimostrano, che solo una Rivelazione nuova e indipendente, come le sacre Scritture dell’Islám attestavano e presagivano, avrebbe potuto risollevare le sorti e ripristinare la purezza di quella Fede decadente 4.

Privo di ogni possedimento terreno e distaccato da tutto tranne Dio, all’inizio del tredicesimo secolo dell’Egira, a quarant’anni d’età, si accinse a dedicare i giorni che gli restavano da vivere al compito che si sentiva spinto ad assumersi. Andò prima a Najaf e Karbilá 5, dove in pochi anni acquistò familiarità con le opinioni prevalenti e le norme correnti tra i dotti dell’Islám. Qui giunse ad essere riconosciuto come uno degli interpreti più autorevoli delle sacre Scritture islamiche, fu proclamato mujtahid e conseguì rapidamente la supremazia sul resto dei suoi colleghi, che visitavano quelle sante città o in esse risiedevano. Costoro giunsero a considerarLo un iniziato ai misteri della Rivelazione Divina e qualificato a spiegare le parole astruse di Muhammad e degli Imám della Fede. Estendendosi la sua influenza e crescendo l’ambito della sua autorità, si trovò assediato da ogni parte da un numero sempre crescente di devoti ricercatori i quali chiedevano lumi sui difficili problemi della Fede, che egli illustrava sempre con abilità e completezza. Con la sua sapienza e intrepidità gettò il terrore nel cuore dei Súfí e dei Neo-platonici e dei pensatori di altre simili scuole 6, che ne invidiavano il sapere e ne temevano l’inesorabilità. In tal modo si conquistò ulteriormente il favore di quei dotti teologi i quali ritenevano che queste sette disseminassero dottrine oscure ed eretiche. Tuttavia, sebbene grande fosse la sua fama e universale la stima di cui godeva, disprezzava tutti gli onori che i suoi ammiratori profondevano su di lui. Si meravigliava della loro servile devozione ai titoli e al rango e si rifiutava risolutamente d’immischiarsi con gli obiettivi delle loro occupazioni e dei loro desideri.

Raggiunto il suo scopo in quella città, e sentendo la fragranza che spirava verso di lui dalla Persia, avvertì nel cuore un desiderio irresistibile di accorrere in quella nazione. Celò agli amici, tuttavia, il vero motivo che lo spingeva a volgere i passi verso quella terra. Attraversando il Golfo Persico, andò nel paese del desiderio del suo cuore, apparentemente per visitare il mausoleo dell’Imám Ridá a Mashhad 7. Desiderava con impazienza di alleggerirsi il cuore e cercava attentamente qualcuno a cui confidare il segreto che a nessuno aveva ancora rivelato. Giunto a Shíráz, la città che custodiva l’occulto Tesoro di Dio e dalla quale era destinato che venisse proclamata la Voce dell’Araldo di una nuova Manifestazione, si recò al Masjid-i-Jum’ih, moschea che nello stile e nella forma assomigliava straordinariamente al sacro tempio della Mecca. Molte volte, ammirando quell’edificio, osservò: « In verità, questa casa di Dio presenta alcuni segni che solo chi è dotato di comprensione interiore può rilevare. Pare che colui che l’ha progettata e costruita sia stato ispirato da Dio ». 8 Quante volte e con quanta passione lodò quella città! Tali erano gli elogi con cui la decantava che i suoi ascoltatori, per i quali fin troppo familiare era la sua mediocrità, rimanevano stupefatti davanti al tono delle sue parole. « Non meravigliatevi », diceva a coloro che erano sorpresi, « poiché tra non molto il segreto delle mie parole vi sarà rivelato. Alcuni di voi vivranno abbastanza per essere testimoni della gloria di un Giorno che gli antichi profeti hanno desiderato di vedere ». Così grande era la sua autorità agli occhi degli ‘ulamá’ che lo incontravano e conversavano con lui, che essi confessavano di non essere capaci di capire il significato delle sue misteriose allusioni e attribuivano quell’incapacità all’inadeguatezza della propria comprensione.

Gettato il seme della conoscenza Divina nel cuore di coloro che trovò ricettivi al suo appello, Shaykh Ahmad parti alla volta di Yazd, dove si trattenne per un po’ di tempo, dedicandosi continuamente alla divulgazione di quelle verità che si sentiva spinto a rivelare. In quella città scrisse la maggior parte dei suoi libri ed epistole 9. Tale fama acquistò 10, che il sovrano della Persia, Fath-‘Alí Sháh, fu indotto a rivolgergli da Tihrán un messaggio scritto 11, in cui l’invitava a spiegare certi particolari problemi relativi agl’insegnamenti astrusi della Fede Musulmana, il cui significato i principali ‘ulamá’ del suo regno non avevano saputo spiegare. A questo messaggio egli rispose senza indugio con un’epistola che intitolò « Risáliy-i-Sultáníyyih ». Allo Scià tanto piacquero il tono e il soggetto dell’epistola che gli inviò immediatamente un secondo messaggio, invitandolo questa volta a visitare la sua corte. Come risposta a questo secondo messaggio imperiale, egli scrisse ciò che segue: « Poiché avevo l’intenzione sin da quando sono partito da Najaf e Karbilá di fare visita e rendere omaggio al mausoleo dell’Imám Ridá a Mashhad, mi permetto di sperare che la Vostra Maestà Imperiale mi conceda benignamente di sciogliere il voto che ho fatto. In seguito, se Dio vuole, spero e mi propongo di approfittare dell’onore che la Vostra Maestà Imperiale s’è degnata di farmi ».

Tra coloro che, nella città di Yazd, furono risvegliati dal messaggio di quel portatore della luce di Dio, vi fu Hájí ‘Abdu’l-Vahháb, uomo molto pio, retto e timorato di Dio. Questi andava ogni giorno a far visita a Shaykh Ahmad in compagnia d’un certo Mullá ‘Abdu’l-Kháliq-i-Yazdí, noto per il suo prestigio e la sua dottrina. Ma a volte, per parlare in confidenza con ‘Abdu’l-Vahháb, Shaykh Ahmad, con grande sorpresa del dotto ‘Abdu’l-Kháliq, chiedeva a quest’ultimo di ritirarsi e di lasciarlo solo con il suo discepolo eletto e favorito. Questa spiccata preferenza, mostrata verso un uomo modesto e illetterato come ‘Abdu’l-Vahháb, era motivo di grande sorpresa per il suo compagno, il quale era fin troppo consapevole della propria superiorità e cultura. Ma in seguito, dopo la partenza di Shaykh Ahmad da Yazd, ‘Abdu’l-Vahháb si ritirò dalla società e si diffuse la voce che fosse un súfi. Tuttavia i capi ortodossi di quella comunità, come i Ni‘matu’lláhí e i Dhahabí, l’accusarono di essere un intruso e di volerli defraudare del loro primato. ‘Abdu’l-Vahháb, su cui la dottrina súfí non esercitava alcuna particolare attrattiva, disdegnò le loro false accuse ed evitò la loro compagnia: egli frequentava solo Hájí Hasan-i-Náyiní, che si era scelto come intimo amico e a cui rivelò il segreto confidatogli dal suo maestro. Quando ‘Abdu’l-Vahháb morì, quest’amico, seguendo il suo esempio, continuò a percorrere la strada ch’egli gli aveva indicato, e annunziò ad ogni anima ricettiva la novella dell’imminente Rivelazione di Dio.

Mirza Mahmúd-i-Qamsarí, che incontrai a Káshán, e che a quel tempo era un vegliardo di oltre novant’anni, molto amato e riverito da tutti coloro che lo conoscevano, mi raccontò questa storia: « Ricordo che nella mia giovinezza, nei tempi in cui vivevo a Káshán, sentii d’un uomo che a Náyin s’era levato ad annunziare la buona novella d’una nuova Rivelazione, e sotto il cui fascino cadevano tutti coloro che lo sentivano, sia studiosi, sia funzionari del governo, sia ignoranti. Tale era la sua influenza che coloro che venivano a contatto con lui rinunziavano al mondo e ne disprezzavano le ricchezze. Curioso di accertare la verità, all’insaputa dei miei amici, andai a Náyin, dove ebbi la possibilità di controllare le voci che correvano sul suo conto: il suo sembiante radioso rivelava la luce ch’era stata accesa nella sua anima. Una volta, dopo ch’ebbe recitato la preghiera mattutina, lo sentii dire queste parole: “Tra non molto la terra sarà tramutata in un paradiso. Tra non molto la Persia diverrà il santuario intorno al quale graviteranno i popoli della terra”. Una mattina all’alba, lo trovai prostrato che ripeteva in rapita devozione le parole “Alláh-u-Akbar” 12. Con mia grande sorpresa si rivolse verso di me e disse: “Ciò che ti ho sempre annunziato è ora rivelato. In questa stessa ora la luce del Promesso è sorta e sta illuminando il mondo, O Mahmúd, in verità ti dico, vivrai abbastanza per vedere quel Giorno dei giorni”. Le parole che quel sant’uomo mi rivolse continuarono a risonarmi nelle orecchie, fino al giorno in cui, nell’anno sessanta, ebbi il privilegio di sentire l’Appello lanciato da Shíráz. Ahimè! a causa delle mie infermità, non potei accorrere in quella città. Più tardi, quando il Báb, l’Araldo della nuova Rivelazione, arrivò a Káshán e passò tre notti ospite nella casa di Hájí Mirza Jání, non venni a conoscenza della Sua visita, e Così persi l’onore di giungere alla Sua presenza. Qualche tempo dopo, mentre conversavo con i seguaci della Fede, fui informato che i natali del Báb cadevano il primo giorno del mese di Muharram dell’anno 1235 A.H. 13 Mi accorsi che il giorno al quale Hájí Hasan-i-Náyiní si era riferito non corrispondeva a questa data, e che c’era in verità tra essi una differenza di due anni. Questo pensiero mi lasciò gravemente perplesso. Molto tempo dopo, incontrai un certo Hájí Mirza Kamálu’d-Dín-i-Naráqí, che mi annunziò la Rivelazione di Bahá’u’lláh a Baghdád e mi lesse alcuni versetti dalla ‘Qasídiy-i-Varqá’íyyih’ e alcuni passi delle ‘Parole Celate’ persiane e arabe. Mi commossi nel profondo dell’anima sentendolo recitare quelle sacre parole. E ricordo ancora chiaramente le seguenti: “O Figlio dell’Essere! Il tuo cuore è la Mia dimora; santificalo per la Mia discesa in esso. Il tuo spirito è il luogo della Mia rivelazione, mondalo per la Mia manifestazione. O figlio della Terra! Se tu vuoi aver Me, non cercar altri che Me; se tu vuoi contemplare la Mia bellezza, chiudi i tuoi occhi al mondo e a tutto ciò che è in esso; poiché il Mio volere ed il volere di altri che non sia Me, cos come l’acqua e il fuoco, non possono dimorare assieme nello stesso cuore”. Gli chiesi la data di nascita di Bahá’u’lláh. “L’alba del secondo giorno di Muharram” rispose, “dell’anno 1233 A.H.” 14. Mi sovvenni immediatamente delle parole di Hájí Hasan e ricordai il giorno in cui furono dette. Istintivamente caddi prosternato a terra ed esclamai: “Glorificato sii Tu, o mio Dio, che mi hai concesso di giungere a questo Giorno promesso. Se ora mi chiamerai a Te, morirò contento e fiducioso” ». Nello stesso anno, l’anno 1274 A.H. 15, quell’anima veneranda e radiosa rese lo spirito a Dio.

Questo racconto che sentii dalle labbra dello stesso Mirza Mahmúd-i-Qamsarí, e che circola ancora tra la gente, è sicuramente una prova convincente della perspicacia del defunto Shaykh Ahmad-i-Ahsá’í e una testimonianza eloquente dell’influenza che egli esercitava sui suoi discepoli più vicini. La promessa che fece loro fu alla fine mantenuta e il mistero con cui accese la loro anima si dispiegò in tutta la sua gloria.

Nei giorni in cui Shaykh Ahmad stava preparandosi a partire da Yazd, Siyyid Kázim-i-Rashtí 16, l’altro luminare di guida divina, parti dalla natia provincia del Gílán con il proposito di far visita a Shaykh Ahmad, prima che questi andasse in pellegrinaggio nel Khurásán, Durante il suo primo colloquio con lui, Shaykh Ahmad disse queste parole: « Ti do il benvenuto, o amico mio! Per quanto tempo e con quanta impazienza ho atteso che tu giungessi a liberarmi dall’arroganza di questa gente perversa! Sono oppresso dall’impudenza dei loro atti e dalla depravazione del loro carattere. “In verità, Noi abbiam proposto il Pegno ai Cieli e alla Terra e ai Monti, ed essi rifiutaron di portarlo, e n’ebber paura. Ma se ne caricò l’Uomo e l’Uomo è ingiusto e d’ogni legge ignaro!” ».

Siyyid Kázim, sin dalla prima infanzia, aveva mostrato segni di capacità intellettuali e intuizione spirituale straordinarie: tra quelli del suo rango e della sua età. A undici anni, aveva già imparato a memoria tutto il Corano; a quattordici, sapeva a mente un numero prodigioso di preghiere e tradizioni riconosciute di Muhammad. A diciotto aveva scritto un commento su un versetto del Corano, noto come Áyatu’l-Kursí, che aveva suscitato la meraviglia e l’ammirazione degli uomini più dotti dell’epoca. La sua pietà, la gentilezza del suo carattere e la sua umiltà erano tali che tutti coloro che lo conoscevano, sia giovani sia vecchi, ne rimanevano profondamente impressionati.

Nell’anno 1231 A.H. 17, a soli ventidue anni, egli, abbandonati casa, parenti e amici, parti dal Gílán, deciso ad arrivare alla presenza di colui che si era Così nobilmente levato ad annunziare l’alba imminente di una Rivelazione Divina. Era in compagnia di Shaykh Ahmad solo da poche settimane, quando quest’ultimo, rivoltosi un giorno verso di lui, gli disse queste parole: « Rimani a casa e smetti di prender parte alle mie lezioni. Quelli tra i miei discepoli che si sentiranno perplessi d’ora in poi si rivolgeranno a te, e cercheranno da te direttamente l’aiuto di cui dovessero aver bisogno. Tu, grazie alla sapienza che il Signore Iddio tuo ti ha elargito, risolverai i loro problemi e tranquillizzerai il loro cuore. Con la forza delle tue parole contribuirai a far rivivere la dolorosamente negletta Fede di Muhammad, tuo illustre Avo ». Queste parole rivolte a Siyyid Kázim suscitarono il risentimento e accesero l’invidia dei più eminenti discepoli di Shaykh Ahmad, tra i quali vi erano Mullá Muhammad-i-Mámáqání e Mullá ‘Abdu’l-Kháliq-i-Yazdí. Così irresistibile, tuttavia, era la dignità di Siyyid Kázim e così evidenti erano le prove del suo sapere e della sua saggezza, che questi discepoli, intimoriti, si sentirono obbligati a sottomettersi.

Shaykh Ahmad, dopo avere così affidato i suoi discepoli alle cure di Siyyid Kázim, parti per il Khurásán. Qui si trattenne per un po’ di tempo, nelle vicinanze del mausoleo dell’Imám Ridá a Mashhad. Entro i suoi recinti prosegui con immutato zelo la sua opera: risolvendo gl’intricati problemi che agitavano la mente dei ricercatori, continuò a preparare la strada all’avvento della prossima Manifestazione. In quella città crebbe in lui la consapevolezza che il giorno che doveva testimoniare la nascita del Promesso non poteva essere molto lontano. L’ora promessa, lo presentiva, si stava rapidamente avvicinando. In direzione di Núr, nella provincia del Mázindarán, poteva scorgere i primi barlumi che precorrevano l’alba della Dispensazione promessa. Per lui la Rivelazione, che le seguenti tradizioni presagivano, era alle porte: « Tra non molto mirerete il sembiante del vostro Signore risplendente come la luna nel pieno della sua gloria. Eppure, non riuscirete a unirvi nel riconoscere la Sua verità e nell’abbracciare la Sua Fede ». E: « Uno dei segni più poderosi che annunzierà l’avvento dell’Ora promessa è questo: “Una donna darà alla luce Uno che sarà il suo Signore” ».

Shaykh Ahmad quindi si diresse verso Núr e, accompagnato da Siyyid Kázim e da alcuni dei suoi eminenti discepoli, si mise in cammino per Tihrán. Lo Scià di Persia, informato che Shaykh Ahmad si stava avvicinando alla capitale, comandò ai dignitari e ai funzionari di Tihrán di andargli incontro, incaricandoli di porgergli a suo nome un cordiale benvenuto. L’illustre visitatore e i suoi compagni furono regalmente intrattenuti dallo Scià, che gli fece visita di persona e lo definì « la gloria della sua nazione e un ornamento per il suo popolo ». 18 In quei giorni nasceva in un’antica e nobile famiglia di Núr 19 un fanciullo, il cui padre era Mirza ‘Abbás, meglio conosciuto come Mirza Buzurg, stimato ministro della Corona. Quel fanciullo era Bahá’u’lláh 20. All’alba del secondo giorno di Muharram, dell’anno 1233 A.H. 21, il mondo, ignaro del significato di quest’evento, fu testimone della nascita di Colui che era destinato a riversare su di esso incalcolabili benedizioni. Shaykh Ahmad, che comprendeva in tutto il suo valore il significato di questo fausto evento, desiderava trascorrere i giorni che gli restavano da vivere entro i recinti della corte di questo Divino, neonato Re. Ma ciò non doveva essere. Insaziata la sua sete, e insoddisfatto il suo desiderio, egli si senti costretto a sottomettersi all’irrevocabile decreto di Dio, e, voltate le spalle alla città del suo Amato, si mise in cammino verso Kirmánsháh.

Il governatore di Kirmánsháh, il principe Muhammad-‘Alí Mirza, figlio maggiore dello Scià, il più abile membro della sua casa, aveva già chiesto a Sua Maestà Imperiale di accordargli il permesso di intrattenere e servire personalmente Shaykh Ahmad 22. Tale era il favore di cui il Principe godeva presso lo Scià, che questo permesso fu subito concesso. Completamente rassegnato al proprio destino, Shaykh Ahmad diede l’addio a Tihrán. Prima di partire dalla città, sussurrò una preghiera affinché i suoi concittadini, tra i quali era allora nato quel Tesoro celato di Dio, potessero preservarLo e aver cura di Lui, affinché essi potessero riconoscere tutto il valore della Sua beatitudine e gloria, e fosse loro concesso di proclamarNe l’eccellenza a tutte le nazioni e a tutti i popoli.

Giunto a Kirmánsháh, Shaykh Ahmad decise di scegliere alcuni dei più ricettivi tra i suoi discepoli sciiti e di metterli in grado, dedicando una speciale attenzione alla loro educazione, di divenire attivi sostenitori della Causa della Rivelazione promessa. Nella serie di libri ed epistole che si accinse a scrivere, tra cui è compresa la sua ben nota opera Sharhu’z-Zíyárih, magnificò con parole chiare e vivide le virtù degli Imám della Fede e dette particolare rilievo alle allusioni che essi avevano fatto alla venuta del Promesso. Con i suoi ripetuti cenni a Husayn, non voleva alludere, tuttavia, a nessun altro se non allo Husayn che doveva ancora rivelarSi; e con le sue frequenti allusioni al nome sempre ricorrente di ‘Alí, non intendeva quell’ ‘Alí che era stato assassinato, ma l’‘Alí nato da poco. A chi lo interrogava sui segni che dovevano preannunziare l’avvento del Qá’im, asseriva energicamente l’inevitabilità della Dispensazione promessa. Nello stesso anno in cui nacque il Báb, Shaykh Ahmad subì la perdita del figlio, che si chiamava Shaykh ‘Alí. Ai discepoli che piangevano la sua perdita rivolse queste parole di conforto: « Non addoloratevi, amici miei, poiché ho offerto mio figlio, il mio ‘Alí, in sacrificio per quell’ ‘Alí il cui avvento noi tutti attendiamo. Per questo scopo l’ho allevato e preparato ».

Il Báb, che si chiamava ‘Alí -Muhammad, nacque a Shíráz, il primo di Muharram, dell’anno 1235 A.H. Discendeva da una famiglia famosa per la sua nobiltà, che faceva risalire le proprie origini a Muhammad Stesso. Tanto Suo padre, Siyyid Muhammad-Ridá, quanto Sua madre erano discendenti del Profeta e appartenevano a famiglie di grande rinomanza. La data della Sua nascita conferma la veridicità del detto attribuito all’Imám ‘Alí, il Principe dei credenti: « Sono di due anni più giovane del mio Signore ». Ma il mistero di queste parole rimase celato a tutti tranne a coloro che cercarono e riconobbero la verità della nuova Rivelazione. Il Báb Stesso, nel Suo primo libro, il più importante e il più magnificato, rivelò questo passo a proposito di Bahá’u’lláh: « O Tu Vestigio di Dio! Ho sacrificato tutto Me Stesso per Te; ho acconsentito ad essere maledetto per amor Tuo; e non ho desiderato altro che il martirio sul sentiero del Tuo amore. Mi basta la testimonianza di Dio, il Magnificato, il Protettore, l’Antico dei Giorni! ».

Durante il soggiorno a Kirmánsháh, Shaykh Ahmad ricevette tante prove di ardente devozione da parte del principe Muhammad-‘Alí Mirza che in un’occasione giunse a dire del Principe queste parole: « Muhammad-‘Alí, lo considero come un figlio mio anche se è discendente di Fath-‘Alí ». Un gran numero di ricercatori e di discepoli affollava la sua casa e frequentava zelantemente le sue lezioni. Ma verso nessuno egli si sentì di mostrare la stima e l’affetto che distinguevano il suo atteggiamento verso Siyyid Kázim: sembrava che l’avesse prescelto dalla moltitudine che si affollava per vederlo e lo stesse preparando a proseguire con immutato vigore il suo lavoro dopo la sua morte. Uno dei discepoli, un giorno, interrogò Shaykh Ahmad sulla Parola che si supponeva il Promesso avrebbe detto nella pienezza dei tempi, Parola così spaventosamente tremenda che i trecentotredici capi e nobili della terra sarebbero fuggiti tutti costernati come schiacciati dal suo enorme peso. A costui Shaykh Ahmad rispose: « Come puoi avere la presunzione di sopportare il peso della Parola che i condottieri della terra non saranno in grado di sorreggere? Non cercare di soddisfare un desiderio impossibile. Smetti di farmi questa domanda e implora il perdono di Dio ». Quel presuntuoso postulante lo sollecitò ancora a svelare la natura di quella Parola. Alla fine Shaykh Ahmad rispose: « Se tu arrivassi a quel Giorno, se ti si dicesse di ripudiare l’autorità di ‘Alí e di denunziarne la validità, cosa diresti? » « Dio non voglia! » esclamò quello. « Ciò non potrà mai avvenire. Che tali parole escano dalla bocca del Promesso, è per me inconcepibile Che grande errore commise! In che stato pietoso si trovò! La sua fede fu soppesata sulla bilancia e fu trovata manchevole, poiché non seppe capire che Colui che deve necessariamente manifestarsi è dotato di quel sovrano potere su cui nessuno può osare far domande. Egli ha il diritto di « comandare ciò che vuole e decretare ciò che Gli piace ». Chi esita, chi, anche solo per un attimo o ancor meno, mette in dubbio la Sua autorità è privato della Sua grazia ed è annoverato tra i perduti. Tuttavia, tra coloro che ascoltarono Shaykh Ahmad nella città e lo sentirono spiegare i misteri delle allusioni delle Sacre Scritture, pochi, seppur ve ne furono, riuscirono a capire il significato delle sue parole o comprenderne l’intendimento. Solo Siyyid Kázim, il suo capace e illustre luogotenente, poteva affermare d’aver compreso ciò ch’egli voleva dire.

Dopo la morte del principe Muhammad-’Ali Mirza 23, Shaykh Ahmad, libero dalle pressanti sollecitazioni del Principe perché prolungasse il suo soggiorno a Kirmánsháh, si trasferì a Karbilá. Benché in apparenza circumambulasse il mausoleo del Siyyidu’sh-Shuhadá’ 24, l’Imám Husayn, il suo cuore, mentre celebrava quei riti, era rivolto verso il vero Husayn, il solo oggetto delle sue devozioni. Uno stuolo dei più famosi ‘ulamá’ e mujtahid facevano ressa per vederlo. Molti incominciavano a invidiarne la reputazione e alcuni cercavano di scalzarne l’autorità. Ma per quanti sforzi facessero, non riuscirono a scuotere la sua posizione d’incontestata preminenza tra i dotti della città. Alla fine quella luce risplendente fu chiamata a irradiare il suo fulgore sulle sante città della Mecca e Medina. Colà egli si recò, e ivi continuò la sua opera con illuminata devozione, e ivi fu posto a riposare all’ombra del sepolcro del Profeta, per la comprensione della cui Causa aveva Così fedelmente lavorato.

Prima di partire da Karbilá, confidò a Siyyid Kázim, suo successore prescelto, il segreto della sua missione 25 e gli disse di adoperarsi per accendere in ogni cuore ricettivo il fuoco che ardeva così luminoso entro di lui. Nonostante Siyyid Kázim insistesse molto per accompagnarlo fino a Najaf, Shaykh Ahmad si rifiutò di accogliere la sua richiesta. « Non hai tempo da perdere », furono le ultime parole che gli rivolse. « Ogni attimo fuggente va utilizzato appieno e con saggezza. Devi prepararti ad agire e adoperarti giorno e notte per squarciare, con la grazia di Dio e con la mano della saggezza e della bontà, i veli di negligenza che hanno accecato gli uomini. Perché, in verità ti dico, s’avvicina quell’Ora, alla quale ho implorato Iddio di risparmiarmi d’assistere, poiché il terremoto dell’Ultima Ora sarà tremendo. Devi pregare Iddio che ti risparmi le prove insopportabili di quel Giorno, poiché né io né te siamo capaci di resistere alla sua forza travolgente. Altri, dotati di fermezza e forza più grandi, sono stati destinati a sopportare questo terribile peso, uomini dal cuore santificato da ogni cosa terrena, la cui forza è corroborata dal potere della Sua potenza ».

Dette queste parole, Shaykh Ahmad gli disse addio, lo esortò ad affrontare con coraggio le tribolazioni che l’avrebbero afflitto e l’affidò alla protezione di Dio. A Karbilá, Siyyid Kázim si dedicò al lavoro incominciato dal suo maestro, ne espose gli insegnamenti, ne difese la causa, districò tutti i problemi che creavano perplessità nella mente dei suoi discepoli. Il vigore con cui proseguì il suo compito accese l’animosità degl’ignoranti e degl’invidiosi. « Per quarant’anni », vociarono, « abbiamo sopportato senza fare opposizione, che i pretenziosi insegnamenti di Shaykh Ahmad si diffondessero. Non possiamo tollerare oltre simili pretese da parte del suo successore, che respinge la credenza nella resurrezione del corpo, che ripudia l’interpretazione letterale del Mi‘ráj’ 26, che considera allegorici i segni del Giorno che deve venire e che predica una dottrina eretica e sovversiva nei confronti dei migliori canoni dell’ortodossia islamica ». Più crescevano il loro clamore e le loro proteste, più ferma si faceva la determinazione di Siyyid Kázim di proseguire nella sua missione e di assolvere il suo compito. Egli indirizzò un’epistola a Shaykh Ahmad, esponendo dettagliatamente le calunnie pronunziate contro di lui, e informandolo della natura e dell’entità della loro opposizione. In essa ardiva chiedere per quanto tempo ancora era destinato a sottomettersi all’inesorabile fanatismo di quella gente caparbia e ignorante, e lo pregava d’illuminarlo dicendogli quando il Promesso si sarebbe manifestato. A questa epistola Shaykh Ahmad rispose: « Abbi fiducia nella grazia di Dio. Non t’addolorare per ciò ch’essi fanno. Il mistero di questa Causa deve necessariamente manifestarsi, e il segreto di questo Messaggio deve necessariamente essere rivelato a tutti 27. Altro non posso dire, non posso fissare un giorno. La Sua Causa sarà resa nota dopo Hín 28. “Non mi chiedere cose che, se ti saranno rivelate, potranno solo nuocerti” ».

Quant’è grande, quant’è davvero grande la Sua Causa, se a un personaggio Così eminente come Siyyid Kázim poterono essere rivolte parole come queste! La risposta di Shaykh Ahmad impartì sollievo e forza al cuore di Siyyid Kázim, che, con accresciuta determinazione, continuò a resistere all’assalto d’un invidioso e insidioso nemico.

Shaykh Ahmad mori poco dopo 29, nell’anno 1242 AH. a ottantun anni di età e fu messo a riposare nel cimitero di Baqí‘ 30, in prossimità della tomba di Muhammad, nella santa città di Medina.

CAPITOLO II
LA MISSIONE DI SIYYID KÁZIM-I-RASHTÍ

LA notizia del trapasso del suo amato maestro procurò un indicibile dolore al cuore di Siyyid Kázim. Ispirato dal versetto del Corano « Volentieri estinguerebbero la luce di Dio con la loro bocca; ma Dio desidera soltanto perfezionare la Sua luce, sebbene gl’infedeli l’aborriscano », egli si dedicò con fermo proposito a portare a termine il compito che Shaykh Ahmad gli aveva affidato. Perduto un protettore così illustre, si trovò vittima della lingua tagliente e della spietata ostilità della gente che l’attorniava. Attaccarono la sua persona, schernirono i suoi insegnamenti e ingiuriarono il suo nome. Istigati da un capo sciita potente e ben noto, Siyyid Ibráhím-i-Qazvíní, i nemici di Siyyid Kázim fecero lega e decisero d’annientarlo. Perciò Siyyid Kázim concepì il progetto di assicurarsi l’appoggio e la benevolenza di uno tra i più temuti ed eminenti dignitari ecclesiastici della Persia, il rinomato Hájí Siyyid Muhammad-Báqir-i-Rashtí, che viveva a Isfáhán e la cui autorità si estendeva ben oltre i confini della città. Quest’amicizia e questa simpatia, Siyyid Kázim pensava, gli avrebbero permesso di proseguire senza impedimenti il corso delle sue attività e avrebbero considerevolmente accresciuto l’influenza che aveva sui suoi discepoli. « Oh! se uno di voi », lo sentirono spesso dire ai suoi seguaci, « si levasse e, distaccatosi da ogni cosa, partisse per Isfáhán e portasse al dotto Siyyid questo messaggio da parte mia: “Perché all’inizio hai mostrato tanta considerazione e tanto affetto verso il defunto Shaykh Ahmad e ora ti sei improvvisamente allontanato dalla schiera dei suoi eletti discepoli? Perché ci hai abbandonati alla mercé dei nostri oppositori? ”. Volesse il Cielo che questo messaggero, confidando in Dio, si assumesse il compito di svelare i misteri che confondono la mente al dotto Siyyid e di dissipare i dubbi che ci hanno alienato la sua simpatia e che riuscisse a ottenere da lui una solenne dichiarazione attestante l’indiscussa autorità di Shaykh Ahmad, e la verità e la validità dei suoi insegnamenti. E che poi, avuto questo attestato, andasse a Mashhad e si procurasse una dichiarazione analoga di Mirza ‘Askarí, il più eminente capo religioso di quella santa città, e infine, portata a termine la sua missione, tornasse qui trionfante ». Più e più volte Siyyid Kázim trovò modo di ripetere la sua invocazione. Ma nessuno ardi rispondere al suo appello, tranne un certo Mirza Muhít-i-Kirmání che si dichiarò pronto ad assumersi questo compito. Siyyid Kázim gli rispose: « Attento a non stuzzicare il can che dorme. Non sottovalutare la delicatezza e la difficoltà di questa missione ». Poi rivolgendo lo sguardo verso un giovane discepolo, Mullá Husayn-i-Bushrú’í, il Bábu’l- Báb 1, disse a lui queste parole: « Va e compi questa missione: io dichiaro che sei all’altezza dell’impresa. L’Onnipotente ti assisterà benignamente e coronerà di successo i tuoi sforzi ».

Mullá Husayn si buttò gioiosamente ai piedi del maestro, baciò l’orlo della sua veste, lo assicurò della sua lealtà e si mise subito in viaggio. Con completo distacco e nobile risolutezza, si avviò per raggiungere la sua meta. Arrivato a Isfáhán, cercò immediatamente il dotto Siyyid. Vestito di povere vesti e coperto dalla polvere del viaggio apparve in mezzo alla vasta accolta dei discepoli sontuosamente vestiti di quell’illustre capo come una figura insignificante e trascurabile. Inosservato e intrepido avanzò fino a un posto che stava dirimpetto al seggio occupato dal celebre maestro. Chiamando in proprio aiuto tutto il coraggio e la fiducia che le istruzioni di Siyyid Kázim gli avevano ispirato, rivolse a Hájí Siyyid Muhammad-Báqir queste parole: « O Siyyid ascolta le mie parole, poiché se risponderai al mio appello salverai la Fede del Profeta di Dio, se ti rifiuterai di prendere in considerazione il mio messaggio le arrecherai un grave danno ». Queste balde e coraggiose parole, pronunziate con franchezza e con forza, sorpresero e turbarono il Siyyid, che interruppe subito il discorso e, ignorando l’uditorio, ascoltò con molta attenzione il messaggio che quello strano visitatore aveva portato. i suoi discepoli, stupiti da quest’insolito comportamento, rimproverarono l’inaspettato intruso e ne condannarono le baldanzose pretese. Con estrema educazione, ma con linguaggio fermo e dignitoso, Mullá Husayn accennò alla loro scortesia e superficialità ed espresse la propria sorpresa per la loro arroganza e vanagloria. Al Siyyid piacquero molto il comportamento del visitatore e le argomentazioni che aveva esposto così incisivamente. Egli deplorò la condotta sconveniente dei suoi discepoli e se ne scusò. Onde fare ammenda per la loro ottusità, usò ogni possibile gentilezza verso il giovane e, assicurandolo che l’avrebbe aiutato, lo sollecitò ad esporre il suo messaggio. Allora Mullá Husayn gli rivelò la natura e lo scopo della missione che gli era stata affidata. Al che il dotto Siyyid rispose: « All’inizio reputammo che Shaykh Ahmad e Siyyid Kázim fossero entrambi mossi solo dal desiderio di promuovere la causa del sapere e salvaguardare i sacri interessi della Fede, e perciò ci sentimmo spinti ad offrire loro il nostro sincero appoggio e a lodare i loro insegnamenti. Ma qualche anno dopo abbiamo notato nei loro scritti tante affermazioni contraddittorie e allusioni oscure e misteriose, che abbiamo ritenuto opportuno tacere per un certo tempo e astenerci sia dal biasimare sia dall’approvare ». Al che Mullá Husayn rispose: « Non posso che deplorare questo silenzio da parte tua, poiché ritengo fermamente che esso comporti la perdita d’una splendida occasione per promuovere la causa della Verità. Esponi dettagliatamente quei passi dei loro scritti che ti sembrano misteriosi o in contrasto con i precetti della Fede e io, con l’aiuto di Dio, mi incaricherò di spiegarne il vero significato ». La padronanza di sé, la dignità e la sicurezza che improntavano il comportamento dell’inatteso messaggero impressionarono vivamente Hájí Siyyid Muhammad-Báqir. Egli lo pregò di non insistere per il momento, ma di aspettare un altro giorno, quando gli avrebbe potuto esporre, in una conversazione privata sull’argomento, i propri dubbi e timori. Ma Mullá Husayn, sentendo che quel ritardo avrebbe potuto dimostrarsi dannoso per la causa che gli stava a cuore, insistette per aver subito un colloquio con lui sui ponderosi problemi che si sentiva spinto a risolvere e capace di farlo. Il Siyyid, commosso fino alle lacrime dal giovanile entusiasmo, dalla sincerità e dalla serena fiducia che l’aspetto di Mullá Husayn così mirabilmente esprimeva, mandò a prendere subito alcune delle opere scritte da Shaykh Ahmad e da Siyyid Kázim e incominciò a interrogare Mullá Husayn sui passi che avevano suscitato la sua disapprovazione e la sua sorpresa. A ogni domanda il messaggero rispose con straordinario vigore, magistrale dottrina e conveniente modestia.

Egli continuò, in questo modo, in presenza dei discepoli riuniti, a spiegare gl’insegnamenti di Shaykh Ahmad e di Siyyid Kázim, a sostenerne la verità e a difenderne la causa, fino al momento in cui il Mu’adhdhin, che invitava i fedeli alla preghiera, interruppe improvvisamente il corso delle sue argomentazioni. Il giorno successivo, in ugual modo, alla presenza di un’assemblea vasta e rappresentativa, di fronte al Siyyid, riprese la sua eloquente difesa dell’alta missione affidata dall’onnipotente Provvidenza a Shaykh Ahmad e al suo successore. Un profondo silenzio cadde tra i suoi ascoltatori, tutti pieni dì meraviglia davanti alla forza delle sue argomentazioni e al tono e al modo del suo linguaggio. Il Siyyid promise pubblicamente che il giorno successivo avrebbe stilato egli stesso una dichiarazione scritta attestante l’eminenza della posizione di Shaykh Ahmad e Siyyid Kázim, in cui avrebbe dichiarato che chiunque deviasse dal loro sentiero si allontanava dalla Fede del Profeta. Avrebbe anche attestato la loro penetrante intuizione e la loro corretta e profonda comprensione dei misteri che la Fede di Muhammad racchiudeva. Il Siyyid mantenne la parola data e vergò di propria mano la dichiarazione promessa. Scrisse con molti dettagli e nel contesto dell’attestazione rese omaggio al carattere e alla cultura di Mullá Husayn. Parlò in termini calorosi di Siyyid Kázim, si scusò per l’atteggiamento tenuto in passato ed espresse la speranza di potere in futuro fare ammenda per la sua precedente deplorevole condotta verso di lui. Egli stesso lesse ai discepoli il testo di questa attestazione scritta e la consegnò aperta a Mullá Husayn, autorizzandolo a mostrarne il contenuto a chi gli piacesse, sì che tutti potessero conoscere la misura della sua devozione a Siyyid Kázim.

Appena Mullá Husayn fu partito, il Siyyid incaricò uno dei suoi servitori fidati di seguire le orme del visitatore e di trovare il luogo dove alloggiava. Il servitore lo seguì fino a un modesto edificio, che serviva da madrisih 2, e lo vide entrare in una camera che, esclusa una stuoia usa che ne copriva il pavimento, era priva di arredi. Lo vide arrivare, recitare la preghiera di ringraziamento a Dio e stendersi sulla stuoia coperto soltanto dal suo ‘abá 3. Quand’ebbe riferito al padrone tutto ciò che aveva osservato, il servitore fu incaricato di consegnare a Mullá Husayn una somma di cento túmán 4 e di esprimere le sincere scuse del suo padrone per non avere egli potuto offrire ad un messaggero così illustre un’ospitalità degna del suo rango. A questa offerta Mullá Husayn così rispose: « Dì al tuo padrone che il vero dono che mi ha fatto sono stati lo spirito d’equità con cui mi ha ricevuto, e la liberalità che l’ha spinto a rispondere, nonostante il suo rango, al messaggio che io, umile straniero, gli ho portato. Restituisci questo danaro al tuo padrone, perché io, come messaggero, non chiedo né ricompensa né premio. “Noi vi cibiamo solo per amore di Dio, e non vogliamo da voi compenso alcuno, gratitudine non vogliamo” 5. Io prego che il primato terreno non possa mai impedire al tuo padrone di riconoscere e di attestare la Verità ». 6 Hájí Siyyid Muhammad-Báqir mori prima del sessanta A.H., l’anno che vide la nascita della Fede proclamata dal Báb. Egli rimase fino all’ultimo un fido sostenitore e fervente ammiratore di Siyyid Kázim.

Compiuta la prima parte della sua missione, Mullá Husayn inviò la testimonianza scritta di Hájí Siyyid Muhammad-Báqir al suo maestro a Karbilà e s’incamminò verso Mashhad, deciso a presentare nel modo migliore a Mirza ‘Askarí il messaggio che era stato incaricato di portargli. Non appena la lettera, contenente la dichiarazione scritta del Siyyid, fu consegnata a Siyyid Kázim, questi se ne rallegrò tanto che inviò immediatamente a Mullá Husayn la sua risposta, esprimendo il proprio grato apprezzamento per il modo esemplare in cui aveva svolto il suo compito. Fu così deliziato dalla risposta ricevuta, che interruppe la lezione per leggere ai discepoli sia la lettera di Mullá Husayn sia la testimonianza scritta acclusa ad essa; poi comunicò loro il contenuto della lettera che aveva scritto a Mullá Husayn in riconoscimento del ragguardevole servizio che gli aveva reso. In essa Siyyid Kázim elogiava in modo così ardente la grande cultura, l’abilità e il carattere di Mullá Husayn che alcuni tra gli ascoltatori ebbero il sospetto che questi fosse il Promesso al quale il loro maestro incessantemente alludeva, Colui che egli aveva così spesso dichiarato vivere in mezzo a loro eppure ancora non essere stato riconosciuto da nessuno di loro. Quella missiva ingiungeva a Mullá Husayn il timor di Dio, l’esortava a considerano lo strumento più potente con cui resistere all’assalto del nemico e il carattere distintivo d’ogni vero seguace della Fede. Era concepita in tali termini di tenero affetto, che tutti coloro che la lessero compresero che lo scrittore prendeva commiato dall’amato discepolo e che non aveva alcuna speranza di rivederlo ancora in questo mondo.

In quei giorni crebbe in Siyyid Kázim la consapevolezza che l’ora in cui il Promesso doveva rivelarsi era vicina 7. Comprendendo quanto spessi fossero i veli che impedivano ai ricercatori di percepire la gloria della Manifestazione celata, fece ogni sforzo per rimuovere, poco per volta, con cautela e con saggezza, le barriere che si ergevano lungo la strada del pieno riconoscimento di quel Tesoro nascosto di Dio. Esortò ripetutamente i discepoli a ricordarsi che Colui il cui avvento essi stavano aspettando non sarebbe apparso né da Jábulqá né da Jábulsá 8. Accennò persino alla Sua presenza in mezzo a loro. « Lo vedete con i vostri stessi occhi », spesso osservò, « eppure non lo riconoscete! ». Ai discepoli che l’interrogarono sui segni della Manifestazione, disse: « È di nobile lignaggio. È discendente del Profeta di Dio, della famiglia di Háshim. È giovane e possiede una sapienza innata. La Sua dottrina Gli deriva non dagli insegnamenti di Shaykh Ahmad, ma da Dio. Il mio sapere è solo una goccia in confronto all’immensità della Sua sapienza; la mia cultura è un pugno di polvere dinanzi alle meraviglie della Sua grazia e del Suo potere: anzi così grande è la differenza che non si possono fare paragoni. Egli è di media statura, non fuma, è estremamente devoto e pio ». 9 Alcuni dei discepoli del Siyyid, nonostante le affermazioni del loro maestro, credevano che egli fosse il Promesso, poiché in lui ravvisavano i segni a cui egli accennava. Tra costoro vi era un certo Mullá Mahmúd-i-Khú’í, che giunse al punto da rendere pubblica la propria convinzione. Di questo il Siyyid fu molto scontento e avrebbe scacciato il Mullá dall’accolta dei suoi eletti discepoli, s’egli non avesse chiesto perdono ed espresso il proprio pentimento per tale azione.

Shaykh Hasan-i-Zunúzí m’informò che anch’egli ebbe questo dubbio e che pregò Iddio di confermarlo nella sua opinione, se la supposizione fosse stata fondata, e in caso contrario di liberarlo da una così stolta fantasia. « Ero così turbato », mi raccontò una volta, « che per giorni non riuscii né a mangiare né a dormire. Avevo trascorso tutta la vita al servizio di Siyyid Kázim, a cui ero molto affezionato. Un giorno all’alba, fui improvvisamente svegliato da Mullá Naw-Rúz, uno dei suoi più fidi servitori, il quale, con grande eccitazione, m’ingiunse di alzarmi e di seguirlo. Andammo a casa di Siyyid Kázim, che trovammo vestito con l’‘abá indosso e pronto a uscire di casa. Mi chiese di accompagnarlo. “ arrivato un Personaggio molto stimato e illustre”: disse, “ritengo che sia dovere di entrambi andare a farGli visita”. La luce del mattino era appena sorta quando mi ritrovai a camminare con lui per le strade di Karbilá. Giungemmo rapidamente a una casa alla cui porta stava un Giovane, come in attesa di riceverci: portava un turbante verde e il Suo aspetto manifestava umiltà e gentilezza tali da non poter essere descritto. Ci S’avvicinò quietamente, tese le braccia verso Siyyid Kázim e lo abbracciò con amore. La Sua affabilità e la Sua bontà contrastavano stranamente con il senso di profonda riverenza a cui era improntato l’atteggiamento di Siyyid Kázim verso Lui: senza dire parola e a capo chino, egli ascoltò le molte espressioni d’affetto e di stima con cui il Giovane lo salutò. Questi ci condusse subito al piano superiore della casa; entrammo in una camera ornata di fiori e olezzante dei più gradevoli profumi. Ci fece sedere. Noi, però, non sapevamo dove fossimo realmente seduti, tanto sopraffatti eravamo dal sentimento di delizia che ci pervadeva. Notammo una coppa d’argento che era stata posta al centro della camera; il nostro giovane Ospite, subito dopo che ci fummo seduti, la colmò fino all’orlo e la porse a Siyyid Kázim, dicendo: “E di bevanda purissima li abbevererà il Signore” 10. Siyyid Kázim prese la coppa con ambo le mani e bevve. Un senso di riverente gioia colmava il suo essere, sentimento che non poteva nascondere. Anche a me fu offerta una coppa di quella bevanda, ma non mi fu rivolta parola alcuna. Tutto ciò che fu detto in quel memorabile incontro fu il versetto del Corano che ho prima citato. Subito dopo, l’Ospite Si alzò e, accompagnatici fin sulla soglia di casa, ci congedò. Ero ammutolito dallo stupore e non saprei come esprimere la cordialità del Suo benvenuto, la dignità del Suo portamento, il fascino di quel viso e la deliziosa fragranza di quella bevanda. Quanto fu grande il mio stupore quando vidi il mio maestro bere senza la minima esitazione la santa bevanda da una coppa d’argento, il cui uso, secondo i precetti dell’Islám, è proibito ai fedeli. Né sapevo spiegarmi il motivo che poteva aver indotto il Siyyid a manifestare una riverenza così profonda alla presenza di quel Giovane, tale quale neppure la vista del mausoleo del Siyyidu’sh-Shuhadá aveva suscitato. Tre giorni più tardi, vidi lo stesso Giovane arrivare e prender posto in mezzo ai discepoli riuniti di Siyyid Kázim. Si sedette vicino alla porta e con la medesima modestia e dignità di portamento ascoltò il discorso del Siyyid, il quale, non appena i suoi occhi caddero su quel Giovane, interruppe il discorso e tacque. Quando uno dei discepoli lo pregò di riprendere l’argomento che aveva lasciato interrotto, “Cos’altro posso dire?” rispose Siyyid Kázim, volgendo il viso verso il Báb. “Ecco, la Verità è più manifesta del raggio di luce che cade su quel grembo! “. Notai subito che il raggio al quale il Siyyid si riferiva cadeva sul grembo dello stesso Giovane al quale avevamo recentemente fatto visita. “Perché”, lo stesso discepolo chiese, “non riveli il Suo nome e non identifichi la Sua persona? “. Al che il Siyyid rispose puntandosi un dito alla gola, volendo dire che se avesse divulgato il Suo nome, entrambi sarebbero stati messi a morte immediatamente. Questo accrebbe ulteriormente la mia perplessità. Avevo già sentito il mio maestro dire che tanto grande è la perversità di questa generazione, che, se egli avesse additato il Promesso e detto: “In verità questi è l’Amato, il Desiderato del vostro e del mio cuore”, nessuno sarebbe ancora riuscito a riconoscerLo. Vidi il Siyyid realmente additare il raggio di luce che era caduto su quel grembo, eppure nessuno dei presenti sembrò percepirne il significato. Io, da parte mia, ero convinto che il Siyyid non avrebbe mai potuto essere il Promesso, ma che un mistero imperscrutabile a tutti noi si nascondeva in quello strano e attraente Giovane. Molte volte ebbi l’ardire di avvicinarmi a Siyyid Kázim per chiedergli una spiegazione di questo mistero. Ma ogni volta che mi avvicinavo a lui, ero sopraffatto dal senso di soggezione che la sua personalità incuteva così fortemente. Molte volte lo sentii osservare: “O Shaykh Hasan, gioisci, poiché il tuo nome è Hasan [lodevole]; Hasan è il tuo inizio e Hasan sarà la tua fine. Hai avuto il privilegio di vivere al tempo di Shaykh Ahmad, sei stato molto vicino a me e nei giorni avvenire avrai la gioia inestimabile di contemplare ‘ciò che mai occhio ha veduto, orecchio sentito, o cuore concepito”.

« Spesso mi sentii spinto a cercare d’incontrare da solo quel Giovane Hashimita e a tentare di penetrare il Suo mistero. L’osservai molte volte mentre stava in atteggiamento di preghiera all’ingresso del mausoleo dell’Imám Husayn. Era così rapito nelle Sue devozioni che sembrava completamente dimentico di coloro che Gli stavano attorno. Le lacrime Gli sgorgavano dagli occhi e dalle Sue labbra uscivano parole di glorificazione e di lode così potenti e belle che neppure i passi più nobili delle nostre sacre Scritture potrebbero sperare di superarle. Pronunziava le parole “O Dio, mio Dio, mio Diletto, Desiderio del mio cuore” con tale frequenza e ardore che i pellegrini in visita al mausoleo che Gli erano abbastanza vicini da sentirLo istintivamente interrompevano le loro preghiere, e si meravigliavano per i segni di pietà e di venerazione che promanavano dal Suo giovane volto. Come Lui si commuovevano fino alle lacrime, e da Lui apprendevano la lezione della vera adorazione. Terminate le preghiere, il Giovane, senza varcare la soglia e senza tentare di rivolgere la parola a coloro che Gli stavano attorno, tornava silenziosamente a casa. Sentivo l’impulso di rivolgermi a Lui, ma ogni qual volta ardivo fare un approccio, una forza che non potevo spiegare e che non sapevo vincere mi tratteneva. Le ricerche su di Lui mi portarono ad apprendere che risiedeva a Shíráz, che esercitava il mestiere del mercante e che non apparteneva ad alcuno degli ordini ecclesiastici. Fui inoltre informato che Egli, come gli zii e i parenti, era tra coloro che amavano e ammiravano Shaykh Ahmad e Siyyid Kázim. Subito dopo seppi che era partito per Najaf, diretto a Shíráz. Quel Giovane mi aveva infiammato il cuore: il ricordo di quell’immagine mi restò sempre nella mente. La mia anima rimase unita alla Sua, fino al giorno in cui mi giunse alle orecchie l’appello d’un Giovane di Shíráz che aveva proclamato di essere il Báb. Mi balenò subito in mente il pensiero che una tale persona non poteva essere altri se non lo stesso Giovane che avevo veduto a Karbilá, il Giovane che mi aveva affascinato.

« Quando poi andai da Karbilá a Shíráz, trovai che era partito in pellegrinaggio per la Mecca e Medina. L’incontrai al Suo ritorno e feci di tutto, nonostante i molti ostacoli, per rimanerGli molto vicino. Quando in seguito fu incarcerato nella fortezza di Máh-Kú, nella provincia dell’ Ádhirbáyján, fui incaricato di trascrivere i versi che Egli dettava al Suo amanuense. Ogni notte, per il periodo di nove mesi, durante il quale rimase prigioniero nella fortezza, Egli rivelò, dopo aver recitato la preghiera vespertina, un commento di un juz’ 11 del Corano. Alla fine di ogni mese veniva così completato un commento dell’intero Libro Sacro. Durante la Sua prigionia a Máh-Kú, furono da Lui rivelati nove commenti dell’intero Corano. Il testo di questi commenti fu affidato, a Tabríz, alla custodia di un certo Siyyid Ibráhím-i-Khalíl, che ricevette istruzioni di nasconderli finché non fosse giunto il momento di pubblicarli. La loro sorte è tuttora sconosciuta.

« A proposito di uno di questi commenti, il Báb un giorno mi chiese: “Che cosa preferisci, questo commento che ho rivelato, o l’Ahsanu’l-Qisas, il Mio precedente commento della Sura di Giuseppe? Quale dei due è superiore, a tuo giudizio? “. “A me”, risposi, “l’Ahsanu’l-Qisas sembra dotato di forza e fascino maggiori”. Egli sorrise della mia osservazione e disse: “Non hai ancora familiarità con il tono e il significato di quest’ultimo commento. Le verità in esso racchiuse permetteranno al ricercatore di raggiungere l’oggetto della sua ricerca più rapidamente e più efficacemente”.

« Continuai a starGli molto vicino fino alla grande battaglia di Shaykh Tabarsí. Quando fu informato di quell’avvenimento, il Báb ordinò a tutti i Suoi compagni di accorrere in quel luogo e di dare a Quddús, il Suo eroico ed illustre discepolo, tutto l’aiuto che potevano. Un giorno rivolgendosi a me, disse: “Se non fosse stato per la Mia incarcerazione nel Jabal-i-Shadíd, la fortezza di Chihríq, sarebbe stato Mio dovere dare personalmente aiuto al Mio diletto Quddús. Ma l’ingiunzione di partecipare a quella lotta non vale per te. Tu devi andare a Karbilá e fermarti in quella santa città, perché sei destinato a vedere, con i tuoi occhi, le belle fattezze del promesso Husayn. Quando guarderai quel volto radioso, ricorda anche Me. Porgi a Lui i sensi della Mia amorevole devozione”. Aggiunse poi con enfasi queste parole: “In verità ti dico, ti ho affidato una grande missione. Attento che il tuo coraggio non s’affievolisca, attento a non dimenticare la gloria di cui ti ho ricoperto”.

« Poco dopo, andai a Karbilá e vissi, come mi era stato ordinato, in quella santa città. Temendo che la mia prolungata permanenza in quel centro di pellegrinaggio potesse suscitare sospetti, decisi di sposarmi e incominciai a guadagnarmi da vivere facendo lo scrivano. Quali tormenti m’inflissero gli Shaykhí, coloro che si professavano seguaci di Shaykh Ahmad eppure non riconobbero il Báb! Memore dei consigli dell’amato Giovane subii pazientemente gli affronti che mi vennero inflitti. Per due anni vissi in quella città. Nel frattempo il Santo Giovane fu affrancato dalla Sua prigione terrena e, con il martirio, fu liberato dalle atroci crudeltà che avevano costellato gli ultimi anni della Sua vita.

« Erano trascorsi sedici mesi lunari, meno ventidue giorni, dal giorno del martirio del Báb, quando, il giorno di ‘Arafih 12, nell’anno 1267 A.H. 13, mentre passavo vicino alla porta del cortile interno del mausoleo dell’Imám Husayn, i miei occhi si posarono per la prima volta su Bahá’u’lláh. Cosa posso dire delle fattezze che vidi? La bellezza di quel volto, quei lineamenti squisiti che né penna né pennello osano descrivere, lo sguardo penetrante, il viso gentile, la maestosità del portamento, la dolcezza del sorriso, il rigoglio dei riccioli neri come l’ebano, mi lasciarono nell’anima un’impressione incancellabile. Ero allora un vecchio, carico d’anni. Con quanto amore Egli si diresse verso di me! Mi prese la mano e, con un tono da cui trasparivano ad un tempo forza e bellezza, mi rivolse queste parole: “Oggi Mi sono proposto di far sapere a tutta Karbilá che sei Bábí”. Tenendomi ancora la mano nella Sua, continuò a parlarmi. Percorremmo insieme tutta la strada del mercato e infine mi disse: “Sia lodato Iddio che sei rimasto a Karbilá, e che hai visto con i tuoi occhi il sembiante del promesso Husayn”. Mi ricordai immediatamente della promessa fattami dal Báb. Non avevo riferito a nessuno le Sue parole, che pensavo riguardassero un futuro remoto. Queste parole di Bahá’u’lláh mi toccarono nel profondo del cuore. Sentii il desiderio di proclamare alla gente incurante, in quello stesso momento e con tutta l’anima e con tutte le mie forze, l’avvento del promesso Husayn. Ma Egli mi invitò a reprimere i miei sentimenti e a celare la mia emozione. “Non ancora”, mi sussurrò all’orecchio, “l’ora stabilita si sta avvicinando. Non è ancora scoccata. Sta tranquillo e sii paziente”. Da quel momento tutti i miei dispiaceri svanirono. La mia anima fu inondata di gioia. In quei giorni ero così povero che il più delle volte soffrivo la fame. Ma mi sentii così ricco che tutti i tesori della terra svanivano nel nulla paragonati a ciò che già possedevo: “Tale è la grazia di Dio; a chi vuole, dà: immensa, in verità, è la sua munificenza” ».

Ritorno, ora, dopo questa digressione, al mio tema. Stavo parlando dell’ardore con cui Siyyid Kázim aveva deciso di squarciare quei veli che si frapponevano tra la gente dei suoi tempi e il riconoscimento della Manifestazione promessa. Nelle pagine introduttive delle sue opere, intitolate Sharh-i-Qasídih e Sharh-i-Khutbih 14, egli, con linguaggio velato, allude al nome benedetto di Bahá’u’lláh. In un opuscolo, l’ultimo che scrisse, menziona esplicitamente il nome del Báb citando il termine « Dhikru’lláh-i-A‘zam ». In esso scrive: « Rivolgendomi a questo “Dhikr” 15, questa possente voce di Dio, dico: “Ho timore della gente, che ti faccia del male, ho paura di me stesso che io possa darti dolore, ho paura di te, tremo davanti alla tua autorità, ho terrore dell’era in cui tu vivi. Se ti custodissi come la pupilla dei miei occhi fino al Giorno della Resurrezione, non avrei dato prova sufficiente della mia devozione verso di te ». 16

Quante pene Siyyid Kázim patì per opera dei malvagi! Quante offese quella generazione scellerata gl’inferse! Per anni soffri in silenzio e sopportò con eroica pazienza tutti gli affronti, le calunnie, le denuncie che gli furono mosse; ma era destino che vedesse negli ultimi anni della sua vita, come la vindice mano di Dio avrebbe « distrutto completamente » coloro che l’avevano avversato e diffamato e che avevano tramato contro di lui. In quei giorni i seguaci di Siyyid Ibráhím, il noto nemico di Siyyid Kázim, fecero lega allo scopo di fomentare sedizione e malanimo e di attentare alla vita del loro temibile avversario. Con ogni mezzo di cui disponevano, cercarono di avvelenare la mente dei suoi ammiratori e amici, di sminuire la sua autorità e di gettare il discredito sul suo nome. Non una voce si alzò per protestare contro l’agitazione che veniva accuratamente preparata da quegli uomini empi e traditori, ciascuno dei quali proclamava di essere l’esponente del vero sapere e il depositano dei misteri della Fede di Dio. Nessuno cercò di ammonirli o di ridestarli. Essi raccolsero una tale forza e accesero una tale contesa che riuscirono a scacciare in malo modo da Karbilá il rappresentante del governo ottomano e si appropriarono per le loro sordide mene di tutti i tributi a lui dovuti. Il loro atteggiamento minaccioso irritò il governo centrale di Costantinopoli, che inviò sui luogo della sommossa un ufficiale dell’esercito, con l’ordine di spegnere le fiamme della discordia. Con le forze ai suoi ordini, l’ufficiale assediò la città e inviò un comunicato a Siyyid Kázim supplicandolo di placare gli animi della popolazione eccitata e appellandosi a lui perché consigliasse la moderazione agli abitanti della città e li inducesse a desistere dalla loro ostinazione e ad arrendersi spontaneamente al suo comando. Promise che, se avessero ascoltato i suoi consigli, si sarebbe impegnato a garantire loro sicurezza e protezione, avrebbe proclamato un’amnistia generale e si sarebbe adoperato per favorire il loro benessere; li avverti che, se avessero rifiutato di sottomettersi, la loro vita sarebbe stata in pericolo e una grande calamità si sarebbe certamente abbattuta su di loro.

Ricevuto questo comunicato formale, Siyyid Kázim chiamò in sua presenza i principali istigatori della sommossa e, con grande saggezza e affetto, li esortò a sospendere l’agitazione e a consegnare le armi: parlò con tale persuasiva eloquenza, tale sincerità e distacco, che i loro cuori si addolcirono e la loro resistenza fu piegata. Si impegnarono solennemente di aprire, la mattina dopo, le porte della cittadella e di presentarsi, in compagnia di Siyyid Kázim, al comandante delle forze assedianti. Fu stabilito che il Siyyid avrebbe intercesso a loro favore e avrebbe cercato di ottenere per loro ciò che poteva garantirne la tranquillità e il benessere. Appena essi ebbero lasciato Siyyid Kázim, gli ‘ulamá’, i principali istigatori della ribellione, insorsero unanimi per frustrare questo piano. Pienamente consapevoli che questo intervento da parte del Siyyid, che aveva già suscitato la loro invidia, sarebbe servito ad aumentare il suo prestigio e a consolidare la sua autorità, decisero di persuadere alcuni tra gli elementi stolti ed eccitabili della popolazione a fare una sortita durante la notte e ad attaccare le forze del nemico. Garantirono a costoro la vittoria in base a un sogno in cui uno di loro avrebbe visto ‘Abbás 17, che lo incaricava di incitare i suoi seguaci a combattere la guerra santa contro gli assedianti e gli prometteva il successo finale.

Illusi da questa promessa, respinsero la proposta fatta da quel saggio e giudizioso consigliere e si accinsero a porre in atto i disegni dei loro stolti capi. Siyyid Kázim, che ben sapeva quale malvagia influenza spingeva la rivolta, inviò una dettagliata e fedele relazione sulla situazione al comandante turco, il quale gli rispose rinnovando il suo appello per un pacifico accomodamento della vertenza e dichiarando altresì che ad una data ora avrebbe forzato le porte della cittadella e avrebbe considerato la casa del Siyyid l’unico luogo di rifugio per il nemico sconfitto. Il Siyyid fece diffondere questa dichiarazione per la città. Ciò servì solo a suscitare la derisione e il disprezzo della popolazione. Quando fu informato di come era stata accolta la dichiarazione, il Siyyid osservò: « In verità, ciò che li minaccia è per il mattino. E non è vicino forse il mattino? ». 18

Al levar del giorno, l’ora stabilita, le forze del nemico bombardarono i bastioni della cittadella, ne demolirono le mura, entrarono nella città rapinando e massacrando un numero considerevole dei suoi abitanti. Molti fuggirono costernati nel cortile del mausoleo dell’Imám Husayn. Altri cercarono rifugio nel santuario di ‘Abbás. Coloro che amavano e onoravano Siyyid Kázim si recarono alla sua casa. Cos fitta era la folla che accorse al riparo della sua abitazione che, per accogliere la moltitudine di fuggiaschi accalcata alle sue porte, fu necessario occupare un certo numero delle case adiacenti. Così vasta ed eccitata era la massa che affollava la sua casa, che, una volta cessato il tumulto, si accertò che non meno di ventidue persone erano state travolte e uccise.

Quale costernazione colse i residenti e i visitatori della santa città! Con quale severità i vincitori trattarono il loro atterrito nemico! Con quanta audacia ignorarono i sacri diritti e i privilegi di cui la pietà d’innumerevoli pellegrini musulmani aveva investito i luoghi sacri di Karbild. Si rifiutarono di riconoscere sia la tomba dell’Imám Husayn sia il sacro mausoleo di ‘Abbás come santuari inviolabili per le turbe che fuggivano davanti alla vindice ira dello straniero: nei sacri recinti di questi due santuari corse il sangue delle vittime. Un luogo, ed uno solo, riuscì a far valere il proprio diritto d’immunità per gl’innocenti e i fedeli tra la popolazione. E quel luogo fu l’abitazione di Siyyid Kázim. La sua casa e le sue dipendenze furono considerate dotate di una tale santità quale neppure le più sacre tombe dell’Islám erano riuscite a conservare. Quella straordinaria manifestazione della vindice ira di Dio fu una lezione per coloro che erano inclini a sottovalutare il rango di quel sant’uomo. Tale memorabile fatto 19 ebbe luogo l’otto di Dhi’l-Hijjih dell’anno 1258 A.H. 20

È indiscutibile ed evidente che in ogni era e dispensazione coloro che hanno la missione di proclamare la Verità o di preparare la strada perché essa sia accettata, incontrano invariabilmente l’opposizione di molti avversari potenti, i quali ne sfidano l’autorità e tentano di pervertirne gl’insegnamenti. Questi, con la frode o la simulazione, con la calunnia o il sopruso, riescono per un certo periodo a ingannare gl’ignari e a indurre in errore i deboli; desiderosi di conservare il potere sul pensiero e sulla coscienza degli uomini, essi possono, finché la Fede di Dio rimane celata, godere i frutti d’una supremazia fuggevole e precaria. Ma non appena viene proclamata la Fede, s’accorgono, con grande costernazione, che gli effetti delle loro oscure macchinazioni impallidiscono davanti alla luce albeggiante del nuovo Giorno di Dio. Di fronte ai raggi dardeggianti di quell’Astro nascente tutte le macchinazioni e i malvagi disegni svaniscono nel nulla e vengono presto dimenticati.

Intorno a Siyyid Kázim si erano riunite anche alcune persone vane ed ignobili che fingevano devozione e attaccamento alla sua persona; che proclamavano di essere devote e pie, e che affermavano di essere i soli depositari dei misteri racchiusi nelle parole di Shaykh Ahmad e del suo successore. Essi occupavano i seggi d’onore nell’accolta dei discepoli riuniti di Siyyid Kázim. A loro questi rivolgeva i propri discorsi, e verso di loro mostrava grande considerazione e cortesia. Eppure, spesso, con frasi coperte e sottili, alludeva alla loro cecità, vanagloria e completa incapacità di comprendere i misteri della parola Divina. Tra le sue allusioni c’era la seguente: « Nessuno può comprendere il mio linguaggio tranne chi è nato da me ». Spesso citò questo detto: « Sono incantato da ciò che vedo. Sono muto di meraviglia e vedo il mondo privo del senso dell’udito. Non posso divulgare il mistero, e trovo la gente incapace di sopportarne il peso ». In un’altra occasione notò: « Molti sono coloro che proclamano di aver conseguito l’unione con l’Amato, eppure l’Amato Si rifiuta d’ammettere ciò che essi affermano. Dalle lacrime che versa per l’Amato, può il vero amante essere distinto da quello falso ». Molte volte osservò: « Colui che è destinato a manifestarsi dopo di me è di puro lignaggio, di ascendenza illustre, della stirpe di Fátimih. È di media statura, e non ha imperfezioni fisiche ». 21

Ho sentito Shaykh Abú-Turáb 22 raccontare ciò che segue: « Io e alcuni discepoli di Siyyid Kázim pensavamo che le allusioni a queste imperfezioni, di cui il Siyyid affermava che il Promesso era privo, si riferissero in modo specifico a tre dei nostri condiscepoli. Addirittura li designavamo con soprannomi che alludevano alle loro imperfezioni fisiche. Uno di essi era Hájí Mirza Karím Khán 23, figlio di Ibráhím Khán-i-Qájár-i-Kirmání, che era orbo d’un occhio e nello stesso tempo aveva una rada barbetta. Un altro era Mirza Hasan-i-Gawhar, uomo eccezionalmente corpulento. Il terzo era Mirza Muhít-i-Shá’ir-i-Kirmání era straordinariamente alto e magro. Eravamo convinti che essi fossero coloro ai quali il Siyyid costantemente alludeva quando parlava di quelle persone vane e senza fede che avrebbero alla fine rivelato il proprio vero io, e tradito la propria ingratitudine e stoltezza. In quanto a Hájí Mirza Karím Khán, che per anni sedette ai piedi di Siyyid Kázim e apprese da lui tutta la sua cosiddetta dottrina, alla fine ottenne dal maestro il permesso d’insediarsi a Kirmán, e li si dedicò a promuovere gli interessi dell’Islám e a diffondere le tradizioni che fiorivano sulla sacra memoria degli Imám della Fede.

Ero presente nella biblioteca di Siyyid Kázim il giorno in cui arrivò un servitore di Hájí Mirza Karím Khán, tenendo in mano un libro, che presentò al Siyyid a nome del suo padrone, chiedendogli di leggerlo e di esprimere, scrivendola di proprio pugno, la sua approvazione del contenuto. Il Siyyid lesse brani del libro e lo restituì al servitore con questo messaggio: “Dì al tuo padrone che lui, più d’ogni altra persona, può apprezzare il valore del suo libro”. Il servitore si era ritirato, quando il Siyyid, con voce dolente, osservò: “Sia maledetto! Per anni mi è stato vicino e ora che ha intenzione di separarsi da me il suo solo scopo, dopo tanti anni di studio e di amicizia, è quello di diffondere, con il suo libro, queste dottrine eretiche e atee che ora vuole farmi avvallare. Si è messo in combutta con alcuni ipocriti egoisti con la mira di stabilirsi a Kirmán e di prendere alla fine, dopo la mia dipartita da questo mondo, le redini di un primato indiscusso. Quando ha errato nel suo giudizio! Poiché le brezze della Rivelazione Divina, alitate dalla Stella Mattutina della guida, sicuramente estingueranno la sua luce e distruggeranno la sua influenza. L’albero dei suoi sforzi produrrà alla fine solo un frutto d’amara delusione e di tormentoso rimorso. In verità vi dico, lo vedrete con i vostri stessi occhi. Per voi, prego che siate protetti dalla malefica influenza che egli, l’anticristo della Rivelazione promessa, eserciterà in futuro”. Mi ordinò di tener segreta questa predizione fino al Giorno della Resurrezione, il giorno in cui la Mano dell’Onnipotenza avrebbe svelato i segreti allora celati nel petto degli uomini. “Quel Giorno”, mi esortò, “sorgi con fermo proposito e con decisione per il trionfo della Fede di Dio. Proclama in ogni luogo tutto ciò che hai visto e di cui sei stato testimone” ». Questo stesso Shaykh Abú-Turáb, che nei primi giorni della Dispensazione proclamata dal Báb giudicò più saggio e opportuno non aderire alla Sua Causa, nutri in cuore il più ardente amore per la Manifestazione rivelata, e nella sua fede rimase fermo e incrollabile come una roccia. Alla fine quel fuoco nascosto divampò nell’anima sua e lo portò a comportarsi in tale maniera che fu imprigionato a Tihrán, nella stessa prigione sotterranea dove era confinato Bahá’u’lláh. Rimase irremovibile fino alla fine, e coronò una vita di devoto sacrificio con la gloria del martirio.

E quando fu vicino alla fine dei suoi giorni, Siyyid Kázim, ogni volta che incontrava i discepoli, sia in colloqui privati sia in discorsi pubblici, li esortava, dicendo: « O miei diletti compagni! Attenti, attenti che dopo di me le fuggevoli vanità del mondo non v’ingannino! Attenti a non divenire orgogliosi e a non dimenticare Dio! Dovete rinunziare a ogni agio, a ogni bene terreno e ai congiunti per cercare Colui che è il Desiderio del vostro e del mio cuore. Separatevi e andate in ogni luogo, distaccatevi da ogni cosa terrena e con umiltà e devozione implorate che il vostro Signore vi sorregga e vi guidi. Che la vostra determinazione di cercare e trovare Colui che è celato dietro i veli di gloria mai non vacilli. Perseverate fino al momento in cui Colui che è la vostra vera Guida e il vostro vero Maestro vi aiuterà benignamente e vi permetterà di riconoscerLo. Resistete fino al giorno in cui Egli vi sceglierà come compagni ed eroici sostenitori del promesso Qá’im. Benedetto quello di voi che berrà alla coppa del martirio sul Suo sentiero. E coloro che Dio, nella Sua saggezza, preserverà e conserverà perché possano assistere al tramonto della Stella della guida Divina, il Precursore del Sole della Rivelazione Divina, devono essere pazienti e rimanere fiduciosi e saldi nella loro fede. Non devono né esitare né sentirsi delusi. Poiché subito dopo il primo squillo di tromba che colpirà la terra con lo sterminio e la morte, risuonerà ancora un altro appello, al cui suono tutte le cose saranno stimolate e vivificate. Allora sarà rivelato il significato di questi sacri versetti: “E sarà dato fiato alla Tromba e cadran fulminati tutti gli abitatori dei cieli e gli abitatori della terra, eccetto chi Iddio vorrà. E squillerà un altro squillo ed eccoli tutti, ritti, a guardare. E scintillerà allora la terra della Luce del Signore, e sarà spalancato il Libro e saran condotti i Profeti ed i Martiri, e sarà pronunciato il Giudizio secondo Verità fra gli uomini; e non sarà fatto loro alcun torto” 24. In verità vi dico, dopo il Qá’im si manifesterà il Qayyúm 25. Perché quando la Stella del Primo sarà tramontata, il sole della bellezza di Husayn sorgerà e illuminerà il mondo intero. Allora saranno dispiegati in tutta la loro gloria il “mistero” ed il “segreto” di cui parlava Shaykh Ahmad, quando diceva: “Il mistero di questa Causa deve essere manifestato, e il segreto di questo Messaggio deve essere divulgato”. Essere giunti a quel Giorno dei giorni significa essere giunti alla gloria coronatrice delle passate generazioni, e una sola buona azione compiuta in quell’epoca equivale alla pia adorazione d’innumerevoli secoli. Quante volte Shaykh Ahmad, quella venerabile anima, recitò i versetti del Corano che abbiamo citato! Quanta importanza attribuì al loro significato, come presagio dell’avvento delle rivelazioni gemelle che dovevano susseguirsi l’un l’altra in rapida successione, ciascuna di esse destinata a coprire il mondo con tutta la sua gloria! Quante volte esclamò: “Benedetto colui che riconoscerà il loro significato e ne mirerà lo splendore! ”. Quante volte rivolgendosi a me notò: “Né tu né io vivremo abbastanza per mirare la loro fulgida gloria. Ma molti dei fedeli tra i tuoi discepoli saranno testimoni del Giorno che noi, ahimè, non potremo mai sperare di vedere!” O miei diletti compagni! Grande, molto grande è la Causa! Quanto è alto il rango a cui vi invito! Quanto è grande la missione per la quale vi ho allevati e preparati! Preparatevi ad agire e fissate lo sguardo sulla Sua promessa. Prego Iddio che vi aiuti benignamente a resistere alle tempeste delle prove e delle tribolazioni che vi sommergeranno, che vi conceda di uscirne incolumi e trionfanti, e che vi guidi verso i vostri alti destini ».

Ogni anno, nel mese di Dhi’l-Qa‘dih, il Siyyid era solito andare da Karbilà a Kázimayn 26 per visitare le tombe degl’Imám. Poi tornava a Karbilà in tempo per visitare, il giorno di ‘Arafih, la tomba dell’Imám Husayn. Quell’anno, l’ultimo della sua vita, fedele alle sue abitudini, partì da Karbilà il primo giorno del mese di Dhi’l-Qa’dih, dell’anno 1259 A.H. 27, in compagnia di alcuni compagni e amici. Il quarto giorno del mese arrivò al Masjid-i-Baráthá, che si trova sulla strada maestra tra Baghdád e Kázimayn, in tempo per recitare la preghiera meridiana. Disse al Mu’adhdhin di invitare i fedeli a riunirsi per la preghiera. Stando all’ombra d’una palma che si trovava di fronte al masjid, si unì alla congregazione dei fedeli, e aveva appena terminato le orazioni quando, d’un tratto, apparve un Arabo, che si avvicinò al Siyyid e gli disse: « Tre giorni fa stavo pascolando il mio gregge nel prato qui vicino, quando a un tratto m’addormentai. Nel sogno vidi Muhammad, l’Apostolo di Dio, che mi rivolse queste parole: “Porgi ascolto, o pastore, alle Mie parole, e fanne tesoro nel tuo cuore, perché queste Mie parole sono il pegno di Dio che affido alla tua custodia. Se sarai fedele ad esse, grande sarà la tua ricompensa. Se la ignorerai, avrai una dolorosa retribuzione. AscoltaMi; questo è il pegno che ti affido: rimani nei recinti del Masjid-i-Baráthá. Tre giorni dopo questo sogno, un discendente Mia stirpe, di nome Siyyid Kázim, in compagnia dei suoi amici compagni, scenderà da cavallo, a mezzogiorno, all’ombra della palma o al masjid. Là reciterà la preghiera. Non appena il tuo sguardo oserà su di lui, va in sua presenza e porgigli il Mio amorevole saluto. Digli, da parte Mia: ‘Rallegrati, poiché l’ora della tua dipartita è alle porte. Quando avrai fatto visita a Kázimayn e sarai tornato a Karbilá, là, tre giorni dopo il tuo ritorno, il giorno di ‘Arafih 28, spiccherai il volo verso di Me. Subito dopo Si manifesterà Colui che è la verità. Allora il mondo sarà illuminato dalla luce del Suo volto” ». Un sorriso apparve sul volto di Siyyid Kázim, quando il pastore ebbe terminato la descrizione del suo sogno. Egli disse: « Sulla veridicità del sogno che hai fatto non ci sono dubbi ». i suoi compagni ne furono dolorosamente afflitti. Rivolgendosi a loro, disse: « Non mi amate voi forse in nome di quell’Unico Vero il cui avvento tutti attendiamo? Non desiderate che io muoia si che il Promesso possa rivelarsi? ». Questo episodio, mi è stato raccontato integralmente da non meno di dieci persone, tutte presenti in quella circostanza, di cui confermarono i particolari. Eppure molti di coloro che videro con i propri occhi questi segni meravigliosi hanno poi respinto la Verità e ripudiato il Suo Messaggio!

La notizia di questo strano evento si sparse in ogni luogo, rattristando il cuore dei veri amanti di Siyyid Kázim. A questi egli, con infinita tenerezza e gioia, rivolse parole di speranza e di conforto: calmò i loro cuori travagliati, rafforzò la loro Fede e infiammò il loro zelo. Con calma e dignità terminò il pellegrinaggio e ritornò a Karbilá. Il giorno stesso del suo arrivo, cadde ammalato e fu costretto a letto. I suoi nemici sparsero la voce che era stato avvelenato dal Governatore di Baghdád. Questa era una vera e propria calunnia e un’assoluta menzogna, poiché il Governatore aveva dato tutta la sua fiducia a Siyyid Kázim e l’aveva sempre considerato una guida di grande talento, dotato di un’acuta intuizione e di un carattere irreprensibile 29. Il giorno di ‘Arafih, dell’anno 1259 A.H., all’immatura età di sessant’anni, Siyyid Kázim, come l’umile pastore aveva visto in sogno, si congedò da questo mondo, lasciandosi dietro una schiera di ardenti e devoti discepoli, i quali, purificati da ogni desiderio mondano, partirono alla ricerca del loro Promesso diletto. Le sue sacre spoglie furono interrate entro i recinti del mausoleo dell’Imám Husayn 30. Il suo trapasso sollevò a Karbilá un tumulto simile a quello che si era impadronito della popolazione l’anno precedente 31, alla vigilia del giorno di ‘Arafih, quando il nemico vittorioso aveva forzato le porte della cittadella e massacrato un gran numero degli abitanti assediati. Un anno prima, quel giorno, la sua casa era stato il solo asilo di pace e sicurezza per i derelitti e i senza tetto, mentre ora era divenuta una dimora di dolore dove coloro di cui egli era stato amico e che aveva soccorso lamentavano la sua morte e piangevano la sua perdita 32.

CAPITOLO III
LA DICHIARAZIONE DELLA MISSIONE DEL Báb

LA morte di Siyyid Kázim segnò una ripresa di attività da parte dei suoi nemici. Assetati di dominio e imbaldanziti dalla sua scomparsa e dal conseguente sgomento dei suoi seguaci essi ribadirono le loro pretese e si prepararono ad attuare i loro ambiziosi disegni. Per un certo periodo, il timore e l’ansia colmarono il cuore dei fidi discepoli di Siyyid Kázim, ma quando Mullá Husayn-i-Bushrú’í ritornò dalla fortunata missione che gli era stata affidata dal suo maestro, la loro malinconia si dissipò 1.

Era il primo giorno di Muharram, dell’anno 1260 A.H. 2, quando Mullá Husayn fece ritorno a Karbilá. Egli confortò e rincorò gli sconsolati discepoli del suo amato maestro, rammentò loro la sua infallibile promessa, e li esortò a non rallentare la vigilanza e a non interrompere i loro sforzi nella ricerca del Diletto nascosto. Vivendo nelle immediate vicinanze della casa dove il Siyyid aveva abitato, per tre giorni, fu continuamente impegnato a ricevere le visite di un considerevole numero di dolenti che si affollavano per porgere a lui, come principale rappresentante dei discepoli del Siyyid, i sensi del loro dolore e cordoglio. Poi convocò alcuni dei suoi condiscepoli più illustri e fidati e s’informò sui desideri e sulle ultime esortazioni del loro maestro scomparso. Gli dissero che Siyyid Kázim li aveva invitati ripetutamente e con forza, ad abbandonare le loro case, a spargersi in ogni luogo, a purificarsi il cuore da ogni fatuo desiderio e a dedicarsi alla ricerca di Colui al cui avvento egli aveva così spesso alluso. « Ci disse », riferirono, « che l’Oggetto della nostra ricerca è ora rivelato. I veli che s’interpongono tra voi e Lui sono tali che solo voi potete rimuoverli con la vostra pia ricerca. Soltanto lo sforzo devoto, la purezza d’intenti, la saldezza di propositi vi permetteranno di squarciarli. Non ha forse Iddio rivelato nel Suo Libro: “Ma quelli che lotteranno zelanti per Noi, li guideremo per le Nostre vie?” ». 3 « E allora perché », Mullá Husayn osservò, « avete deciso di trattenervi a Karbilá? Perché non vi siete separati e non vi siete mossi per dare esecuzione alla sua ardente implorazione? ». « Riconosciamo il nostro errore », fu la loro risposta; « attestiamo tutti la tua grandezza. Tale è la nostra fiducia in te, che se tu affermassi di essere il Promesso, ci sottometteremmo tutti prontamente e senza discutere. Promettiamo ora lealtà e obbedienza a tutto ciò che ci ordinerai di fare ». « Dio non voglia! », esclamò Mullá Husayn. « Non sono altro che polvere ed Egli è il Signore dei Signori! Lungi sia dalla Sua Gloria che io possa esserGli paragonato. Se aveste compreso il tono e il linguaggio di Siyyid Kázim, non avreste mai pronunziato queste parole. Il vostro primo dovere è, come il mio, quello di sorgere e di eseguire, nello spirito e alla lettera, le ultime volontà del nostro amato maestro ». Si alzò subito e andò direttamente da Mirza Hasan-i-Gawhar, Mirza Muhít e altri personaggi ben noti tra i discepoli di Siyyid Kázim. A tutti loro comunicò l’estremo messaggio del suo maestro, sottolineò l’urgenza del loro dovere e li esortò a muoversi e ad eseguirlo. Alla sua supplica essi risposero in modo evasivo e indegno. « I nostri nemici », rimarcò uno, « sono molti e potenti. Dobbiamo rimanere in città a custodire il seggio vacante del nostro capo defunto ». Un altro osservò: « Io devo rimanere per prendermi cura dei figlioli che il Siyyid ha lasciato ». Mullá Husayn capì immediatamente la futilità dei suoi sforzi. Comprendendo quanto folli, ciechi e ingrati essi fossero, non disse altro. Si ritirò, abbandonandoli alle loro vane occupazioni.

L’anno sessanta, l’anno che vide la nascita della Rivelazione promessa, era appena sorto sul mondo: non ci sembra inopportuno, a questo punto, fare una digressione dal nostro tema e menzionare certe tradizioni di Muhammad e degl’Imám della Fede che si riferiscono specificamente a quell’anno. L’Imám Ja’far, figlio di Muhammad, quando fu interrogato sull’anno in cui il Qá’im doveva manifestarsi, rispose come segue: « In verità, nell’anno sessanta sarà rivelata la Sua Causa e il Suo nome verrà divulgato ». Nelle opere del dotto e famoso Muhyi’d-Dín-i-‘Arabí, si trovano molti riferimenti riguardanti sia l’anno dell’avvento sia il nome della Manifestazione promessa. Tra gli altri vi sono i seguenti: « I ministri e i sostenitori della Sua Fede saranno del popolo di Persia ». « Nel Suo nome, il nome del Custode [‘Alí] precede quello del Profeta [Muhammad] ». « L’anno della Sua Rivelazione è uguale alla metà di quel numero che è divisibile per nove [2520] ». Mirza Muhammad-i-Akhbárí, nei suoi poemi che si riferiscono all’anno della Manifestazione fa la seguente profezia: « Nell’anno Ghars [il valore numerico delle cui lettere è 1260] la terra sarà illuminata dalla Sua luce, e nel Gharasih [1265] il mondo sarà soffuso della Sua gloria. Se vivrai fino all’anno Gharasí [1270], vedrai le nazioni, i governanti, i popoli e la Fede di Dio tutti rinnovati ». In una tradizione attribuita all’Imám ‘Alí, il Comandante dei Fedeli, è inoltre scritto: « In Ghars sarà piantato l’Albero della guida Divina ».

Mullá Husayn, liberatosi dall’obbligo che si sentiva di spronare e di risvegliare i suoi condiscepoli, parti da Karbilá per Najaf. Erano con lui il fratello Muhammad-Hasan e il nipote Muhammad-Báqir, che l’avevano sempre accompagnato sin dalla sua visita alla città natia di Bushrúyih nella provincia del Khurásán. Giunto al Masjid-i-Kúfih, Mullá Husayn decise di trascorrervi quaranta giorni, conducendo una vita di ritiro e di preghiera. Con digiuni e veglie si preparò per la santa avventura, alla quale doveva presto accingersi. Nell’esecuzione di questi atti di culto, solo il fratello stava insieme con lui, mentre il nipote, che accudiva ai loro bisogni quotidiani, osservava i digiuni e si univa a loro per pregare, solo nei momenti di libertà.

La calma claustrale che li circondava fu, dopo pochi giorni, inaspettatamente interrotta dall’arrivo di Mullá ‘Alíy-i-Bastámí, uno dei più eminenti discepoli di Siyyid Kázim. Questi giunse, insieme con dodici compagni, al Masjid-i-Kúfih, dove trovò il suo condiscepolo Mullá Husayn immerso nella contemplazione e nella preghiera. Mullá ‘Alí possedeva una così vasta dottrina, ed era così profondamente versato negli insegnamenti di Shaykh Ahmad, che molti giungevano a considerarlo superiore perfino a Mullá Husayn. In molte occasioni egli cercò di chiedere a Mullá Husayn dove sarebbe andato alla fine del periodo di ritiro. Ma ogni volta che gli si avvicinò, lo trovò così rapito nelle sue preghiere che ritenne impossibile fargli una domanda. Ben presto decise di ritirarsi, come lui, per quaranta giorni dalla società umana. Tutti i suoi compagni seguirono il suo esempio, eccetto tre che facevano loro da servitori personali.

Subito dopo aver terminato i quaranta giorni di ritiro, Mullá Husayn, insieme con i suoi due compagni, parti per Najaf. Lasciò Karbilá di notte, cammin facendo visitò il mausoleo di Najaf e proseguì direttamente verso Búshihr, sul Golfo Persico. Là incominciò la sua santa ricerca del Diletto del suo cuore. Là, per la prima volta, respirò la fragranza di Colui che, per anni, aveva condotto in quella città la vita del mercante e dell’umile cittadino. Là percepì i dolci effluvi di santità di cui le innumerevoli invocazioni del Diletto avevano così copiosamente impregnato l’atmosfera della città.

Ma non poté fermarsi a lungo a Búshihr. Come attratto da un magnete che sembrava spingerlo irresistibilmente verso il nord, andò a Shíráz. Giunto alle porte della città, dette istruzioni al fratello e al nipote che si recassero direttamente al Masjid-i-Ílkhání e vi rimanessero fino al suo arrivo. Espresse la speranza di giungervi, a Dio piacendo, in tempo per unirsi a loro nella preghiera serale.

Lo stesso giorno, poche ore prima del tramonto, mentre camminava fuori dalle porte della città, i suoi occhi caddero d’un tratto su un Giovane dal sembiante radioso, che portava un turbante verde; Questi, andandogli incontro, lo salutò e gli diede il benvenuto con un affettuoso sorriso; l’abbracciò con tenero affetto, come se fosse stato un suo vecchio intimo amico. Mullá Husayn pensò dapprima che fosse uno dei discepoli di Siyyid Kázim il quale, informato del suo arrivo a Shíráz, fosse uscito per porgergli il benvenuto.

Mirza Ahmad-i-Qazvíní, il martire, che aveva in molte occasioni sentito Mullá Husayn raccontare ai primi credenti la storia del suo commovente e storico colloquio con il Báb, mi raccontò ciò che segue: « Ho sentito più volte Mullá Husayn descrivere con vividezza i particolari di quel memorabile colloquio: “Il Giovane che mi Si fece incontro fuori dalle porte di Shíráz mi colmò di espressioni d’affetto e tenerezza. Mi invitò con calore a far visita alla Sua casa, per ristorarmi dalle fatiche del viaggio. Lo pregai di scusarmi, spiegando che i miei due compagni avevano già provveduto per la mia permanenza in città, e che stavano ora aspettando il mio ritorno”. “Rimettili nelle mani di Dio”, fu la Sua risposta; “Egli sicuramente li protegger e veglierà su loro”. Dette queste parole, m’invitò a seguirLo. Fui profondamente impressionato dal modo gentile eppure pressante con cui quello strano Giovane mi aveva parlato. Mentre Lo seguivo, il Suo comportamento, il fascino della Sua voce, la dignità del Suo contegno, contribuirono ad accrescere l’intensità della mia prima impressione su questo inaspettato incontro.

« Ci trovammo ben presto di fronte all’uscio di una casa dal modesto aspetto. Egli bussò alla porta, che fu subito aperta da un servitore etiope. “Entratevi in pace, sicuri” 4, furono le Sue parole mentre varcava la soglia e mi faceva segno di seguirLo. Il Suo invito, pronunziato con forza e maestà, mi penetrò nell’anima. Giudicai un buon augurio che tali parole mi fossero rivolte proprio mentre mi trovavo sulla soglia della prima casa in cui entravo a Shíráz, città la cui sola atmosfera aveva già prodotto su di me un’impressione indescrivibile. Non avrebbe potuto la mia visita a questa casa, pensai tra me, permettermi di giungere più vicino all’Oggetto della mia ricerca? Non avrebbe potuto essa affrettare la fine di un periodo di desiderio ardente, di strenue indagini, di ansietà crescenti, che la mia ricerca implicava? Quando entrai in casa e seguii il mio Ospite nella Sua camera, un senso di gioia ineffabile pervase il mio essere. Appena ci fummo seduti, Egli ordinò che fosse portata una brocca d’acqua, e m’invitò a detergermi mani e piedi dalla polvere del viaggio. Chiesi il permesso di ritirarmi dalla Sua presenza e di fare le abluzioni in una stanza adiacente. Si rifiutò di accettare la mia richiesta e mi versò l’acqua sulle mani. Mi dette poi da bere una bibita rinfrescante, dopo di che chiese il samovar 5, preparò Egli Stesso il tè e me lo offrì.

« Confuso dai Suoi atti di estrema gentilezza, mi alzai per andar via. “S’avvicina l’ora della preghiera serale”, mi avventurai ad osservare. “Ho promesso ai miei amici di raggiungerli per quell’ora al Masjid-i-Ílkhání”. Con estrema cortesia e con calma, Egli rispose: “Avrai senz’altro condizionato l’ora del tuo ritorno alla volontà e al beneplacito di Dio. Sembra che il Suo volere abbia decretato altrimenti. Non devi avere alcun timore d’infrangere la tua promessa”. La Sua dignità e la Sua sicurezza mi azzittirono. Ripetei le abluzioni e mi preparai per la preghiera. Anch’Egli, standomi accanto, pregò. Mentre pregavo, aprii l’anima mia, che era molto oppressa, sia dal mistero di questo colloquio, sia dalla tensione e dallo sforzo della ricerca. Sussurrai questa preghiera: “Mi sono sforzato con tutta l’anima, o mio Dio, e finora non sono riuscito a trovare il Tuo Messaggero promesso. Faccio testimonianza che la Tua parola non fallisce, e che la Tua promessa è certa”.

« Quella notte, quella memorabile notte, era la vigilia del quinto giorno di Jámádíyu’l-Avval, dell’anno 1260 A.H. 6 Era trascorsa circa un’ora dal tramonto quando il mio giovane Ospite incominciò a conversare con me. “Chi, dopo Siyyid Kázim”, mi chiese, “consideri suo successore e tua guida?”. “Al momento della sua morte”, risposi “il nostro defunto maestro ci ha insistentemente esortati ad abbandonare le nostre case, a spargerci dappertutto alla ricerca del Promesso diletto. Per questo mi sono messo in viaggio per la Persia, mi sono mosso per esaudire la sua volontà e sono ancora impegnato nella mia ricerca”. “Ti ha dato il tuo maestro”, chiese ancora, “ qualche indicazione dettagliata sui caratteri che distinguono il Promesso? “. “Si”, risposi, “Egli è di puro lignaggio, di ascendenza illustre e della stirpe di Fátimih. In quanto alla Sua età, ha più di vent’anni e meno di trenta. di media statura, non fuma e non ha imperfezioni fisiche”. Egli tacque un momento e poi con voce vibrante dichiarò: “Guarda, tutti questi segni sono palesi in Me!”. Considerò poi uno ciascuno dei segni summenzionati, e dimostrò in modo con che tutti si addicevano alla Sua persona. Rimasi molto sorpreso osservai educatamente: “Colui il cui avvento attendiamo è Uomo di insuperabile santità, e la Causa che Egli deve rivelare è una Causa di tremenda potenza. Molti e diversi sono i requisiti che Colui il quale proclama di esserne la personificazione visibile deve soddisfare. Quante volte Siyyid Kázim ha accennato alla vastità della sapienza del Promesso! Quante volte ha detto: ‘La mia sapienza non è che una goccia in paragone a quella di cui Egli è stato dotato. La mia cultura è solo un pugno di polvere di fronte all’immensità della Sua sapienza. Anzi, così enorme è la differenza che non si possono fare paragoni!’”. Non appena queste parole mi furono sfuggite dalle labbra, mi sentii prendere dalla paura e dal rimorso, cosa che non potei né celare né spiegare. Mi rimproverai aspramente, e decisi in quello stesso momento di cambiare atteggiamento e di mitigare le parole. Feci voto a Dio che, se il mio Ospite avesse ancora toccato l’argomento, avrei risposto, con la massima umiltà, dicendo: “Se acconsentirai a provare la tua affermazione, mi libererai senza dubbio dall’ansietà e dall’incertezza che così gravemente opprimono l’anima mia. Ti sarò davvero grato per questa liberazione”. Appena ero partito per la mia ricerca, avevo deciso di considerare i seguenti come criteri in base ai quali accertare la verità di chiunque avesse affermato di essere il promesso Qá’im. Il primo era un trattato, che avevo composto io stesso e che verteva sugl’insegnamenti astrusi e velati esposti da Shaykh Ahmad e da Siyyid Kázim. Se fosse stato capace di spiegare le misteriose allusioni riportate nel trattato, allora gli avrei sottoposto la mia seconda istanza e gli avrei chiesto di rivelare, senza la minima esitazione o riflessione, un commento della Sura di Giuseppe, in uno stile e in un linguaggio completamente diversi dai canoni allora prevalenti. Tempo addietro avevo chiesto, in privato, a Siyyid Kázim, di scrivere un commento di quella stessa Sura, ma egli si era rifiutato dicendo: “Questo è in verità al di là delle mie possibilità. Egli, il Grande che verrà dopo di me, te lo rivelerà, senza che tu Glielo chieda. Quel commento costituirà una delle testimonianze più ponderose della Sua verità e uno dei segni più chiari della sublimità del Suo rango” 7.

« Stavo rimuginando questi pensieri nella mente, quando il mio illustre Ospite notò ancora: “Osserva attentamente. Non potrei essere proprio Io la Persona che Siyyid Kázim intendeva?”. Mi sentii perciò spinto a presentarGli una copia del trattato che avevo con me. “Vuoi”, Gli chiesi, “leggere questo mio libro e sfogliarne le pagine con occhio indulgente? Ti prego di sorvolare sulle mie manchevolezze e sui miei errori”. Egli gentilmente assecondò il mio desiderio. Aprì il libro, dette uno sguardo ad alcuni passi, lo chiuse e incominciò a parlarmi. In pochi minuti, con vigore e fascino particolari, ne aveva svelato tutti i misteri e risolto tutti i problemi. Portato a termine con mia completa soddisfazione, in un così breve tempo, il compito che mi ero aspettato svolgesse, mi spiegò inoltre alcune verità che non si trovavano né nei detti tramandati degl’Imám della Fede, né negli scritti di Shaykh Ahmad e di Siyyid Kázim. Queste verità, che mai avevo sentito prima, sembravano dotate di vigore e potenza corroboranti. “Se tu non fossi stato Mio ospite”, Egli poi osservò, “la tua posizione sarebbe stata veramente difficile. L’onnicomprensiva grazia di Dio ti ha salvato. Sta a Dio mettere alla prova i Suoi servi, e non ai Suoi servi giudicar Lui secondo i loro criteri manchevoli. Se Io non fossi riuscito a risolvere le tue perplessità, avrebbe potuto la Realtà che entro di Me risplende essere considerata impotente, o la mia sapienza essere accusata d’imperfezione? No, per la giustizia di Dio! Oggi le nazioni dell’oriente e dell’occidente devono venire sollecite a questa soglia, e qui cercare di ottenere la grazia vivificante del Misericordioso. Chi esita subirà una dolorosa perdita. Non attestano forse i popoli della terra che lo scopo fondamentale per cui furono creati è la conoscenza e l’adorazione di Dio? E necessario che essi si muovano, con lo stesso fervore e la stessa spontaneità con cui ti sei mosso tu, e cerchino con determinazione e costanza il loro diletto Promesso”. Proseguì poi dicendo: “Ora è il momento di rivelare il commento della Sura di Giuseppe”. Prese la penna e con rapidità incredibile rivelò l’intera Sura di Mulk, primo capitolo del Suo commento della Sura di Giuseppe. L’effetto irresistibile del modo in cui scriveva era accresciuto dalla gentile intonazione della voce con cui S’accompagnava mentre scriveva. Neppure per un momento interruppe il fluire dei versi che sgorgavano dalla Sua penna. Neppure una volta Si fermò finché la Sura di Mulk non fu terminata. Io sedevo rapito dalla magia della Sua voce e dalla forza travolgente della Sua rivelazione. Infine, riluttante, mi alzai dalla sedia e chiesi il permesso di andar via. Sorridendo Egli mi invitò a sedermi, e disse: “Se esci in questo stato quelli che ti vedranno diranno certamente: ‘Questo povero giovane è uscito di senno’”. In quel momento l’orologio segnava due ore e undici minuti dopo il tramonto 8. Quella notte, la vigilia del quinto giorno di Jámádíyu’l-Avval, nell’anno 1260 A.H. corrispondeva alla vigilia del 65° giorno dopo Naw-Rúz, che era anche la vigilia del sesto giorno di Khurdád, dell’anno Nahang. “Questa notte”, Egli dichiarò, “questa stessa ora, nei giorni avvenire, sarà celebrata come una delle feste più grandi e più significative. Rendi grazie a Dio per averti benignamente aiutato a raggiungere il desiderio del tuo cuore, e per averti fatto libare il vino suggellato del Suo verbo. ‘Benedetti coloro che giungono ad esso’” 9.

« Tre ore dopo il tramonto, il mio Ospite ordinò che fosse servito il pranzo. Apparve ancora lo stesso servo etiope, che imbandì davanti a noi i cibi più scelti. Quel santo banchetto mi rinvigorì tanto il corpo quanto l’anima. In presenza del mio Ospite, in quell’ora, mi sentivo come se mi stessi cibando dei frutti del Paradiso. Non potevo non meravigliarmi delle maniere e delle devote attenzioni del servo etiope la cui vita sembrava essere trasformata dall’influenza rigeneratrice del suo Padrone. Compresi allora, per la prima volta, il significato di questa ben nota tradizione attribuita a Muhammad: “Ho preparato per i buoni e i giusti tra i Miei servi ciò che mai occhio ha veduto, orecchio sentito, cuore umano concepito”. Se il mio giovane Ospite non avesse avuto altro con cui rivendicare la Sua grandezza, sarebbe stato sufficiente l’avermi accolto con tale senso di ospitalità e di affettuosità quale, ero convinto, nessun altro essere umano avrebbe potuto mostrare.

« Io sedevo affascinato dalle Sue parole, dimentico del tempo e di coloro che mi attendevano. Improvvisamente il grido del mu’adhdhin, che invitava i fedeli alla preghiera mattutina, mi destò dallo stato di estasi in cui sembrava fossi caduto. Tutte le delizie, tutte le ineffabili glorie che l’Onnipotente ha elencato nel Suo libro quali possessi inestimabili degli Abitanti del Paradiso, tutto questo mi sembrò di provare quella notte. Mi sembrava di essere in un luogo di cui si poteva veramente dire: “Colà non ci raggiungerà tormento, né ci toccherà stanchezza”; “Nessun vano discorso essi colà udranno, né falsità veruna, ma solo il grido, ‘Pace! Pace!”; “Il loro grido colà sarà, ‘Gloria a Te, o Dio!’ e il loro saluto laggiù, ‘Pace!’; e al termine del loro grido ‘Gloria sia a Dio, Signore di tutte le creature!’” 10.

« Quella notte il sonno m’aveva abbandonato. Ero affascinato dalla musica di quella voce che, mentre Egli cantava, ora si alzava, ora si abbassava; ora prorompente, mentre rivelava i versetti del Qayyúmu’l- Asmá 11, ora intrisa di eteree sottili armonie mentre proferiva le preghiere che stava rivelando 12. Alla fine di ogni invocazione, ripeteva questo versetto: “Lungi sia dalla gloria del tuo Signore, il Gloriosissimo, ciò che le Sue creature affermano di Lui! E pace ai Suoi Messaggeri! E lode a Dio, il Signore di tutti gli esseri! ” 13.

« Egli poi mi rivolse queste parole: “O tu, che sei il primo a credere in Me! In verità ti dico, Io sono il Báb, la Porta di Dio, e tu sei il Bábu’l- Báb, la porta di quella Porta. Diciotto persone devono, all’inizio, spontaneamente e di propria iniziativa, accettarMi e riconoscere la Verità della Mia Rivelazione. Senza avvertimenti o inviti, ciascuno di loro deve liberamente cercare di trovarMi. E quando il loro numero sarà completo, uno di essi dovrà essere scelto per accompagnarMi in pellegrinaggio alla Mecca e a Medina. Là presenterò il Messaggio di Dio allo Sceriffo della Mecca. Tornerò poi a Kúfih, dove, nel Masjid di quella santa città, annunzierò ancora la Sua Causa. Tu hai il dovere di non rivelare, né ai tuoi compagni né ad altre persone, ciò che hai visto e sentito. Dedicati nel Masjid-i-Ílkhání alla preghiera e all’insegnamento. Ti raggiungerò anch’Io per la preghiera collettiva. Fa attenzione che il tuo atteggiamento verso di Me non tradisca il segreto della tua Fede. Devi continuare a fare ciò e mantenere questo atteggiamento fino alla nostra partenza per lo Hijáz. Prima di partire, assegneremo a ciascuna delle diciotto persone una particolare missione, e le invieremo a svolgere il loro compito. Daremo loro istruzioni affinché insegnino la Parola di Dio e vivifichino le anime degli uomini”. Dette queste parole, mi congedò dalla Sua presenza. Accompagnandomi alla porta di casa, mi rimise nelle mani di Dio.

« Questa Rivelazione crollatami addosso, così impetuosamente e improvvisamente, fu come un fulmine che, per qualche tempo, sembrò aver obnubilato le mie facoltà 14. Ero accecato dal suo splendore abbagliante e sopraffatto dalla sua forza travolgente. Eccitazione, gioia, timore reverenziale e meraviglia sommuovevano le profondità dell’anima mia. Predominante tra queste emozioni era un senso di contentezza e di forza che sembrava avermi trasfigurato. Quanto debole e impotente, quanto timido e abbattuto, mi ero sentito prima! Allora non potevo né scrivere né camminare, tanto tremanti erano le mie mani e i miei piedi. Ora, invece, la conoscenza della Sua Rivelazione aveva galvanizzato tutto il mio essere. Mi sentivo di possedere tale coraggio e tale potenza, che se il mondo intero, tutte le sue genti e i suoi potenti, si fossero sollevati contro di me, io, solo e indomito, avrei resistito al loro assalto. L’universo mi sembrava non più di un pugno di polvere entro la mia mano. Mi sembrava di essere la voce di Gabriele personificata, che invitava l’umanità intera: “Ridestatevi, perché, ecco: la Luce del mattino è sorta. Sorgete, ché la Sua Causa si è manifestata! Il portale della Sua grazia è spalancato; entratevi, o popoli del mondo. Perché Colui che è il vostro Promesso è venuto!”.

« In questo stato lasciai la Sua casa e raggiunsi mio fratello e mio nipote. I seguaci di Shaykh Ahmad, che avevano sentito del mio arrivo, si erano riuniti in gran numero nel Masjid-i-Ílkhání per incontrarmi. Fedele agli ordini del Diletto, or ora conosciuto, mi posi immediatamente all’opera per esaudire i Suoi desideri. Quando incominciai a organizzare le mie classi e a officiare, poco alla volta una grande folla si riunì attorno a me. Vennero a farmi visita dignitari ecclesiastici e funzionari della città. Essi furono stupiti dallo spirito che le mie conferenze effondevano, ignari che la Fonte dalla quale scaturiva la mia sapienza altri non era che Colui il cui avvento essi, in gran parte, stavano ansiosamente aspettando.

« In quei giorni il Báb mi invitò, molte volte, a farGli visita. Durante la notte mandava al masjid il servo etiope a portarmi il Suo amorevolissimo messaggio di benvenuto. Ogni volta che Gli facevo visita, trascorrevo l’intera notte alla Sua presenza. Desto fino all’alba, stavo seduto ai Suoi piedi, incantato dal fascino delle Sue parole, immemore del mondo e delle sue cure e delle sue mene. Con quanta rapidità fuggivano quelle ore preziose! Al levar del giorno, riluttante, mi ritiravo dalla Sua presenza. Con quanta trepidazione aspettavo, in quei giorni, l’avvicinarsi della sera! Con quali sentimenti di tristezza e di rammarico vedevo l’albeggiare del giorno! Durante una di queste visite notturne, il Mio Ospite mi rivolse queste parole: “Domani arriveranno tredici dei tuoi compagni. Sii molto buono e affettuoso con loro. Non lasciarli a se stessi, perché hanno dedicato tutta la vita alla ricerca del Diletto. Prega Iddio che benignamente consenta loro di camminare sicuri su quel sentiero che è più sottile d’un capello e più affilato d’una spada. Alcuni di loro saranno annoverati, agli occhi di Dio, tra i Suoi eletti e favoriti discepoli. Altri percorreranno la via di mezzo. Il destino dei rimanenti rimarrà ignoto fino all’ora in cui tutto ciò che è nascosto verrà palesato” 15.

« Quella stessa mattina, all’alba, subito dopo il mio ritorno dalla casa del Báb, arrivò al Masjid-i-Ílkhání Mullá ‘Alíy-i-Bastámí, accompagnato dal numero di compagni che mi era stato indicato. Mi misi subito all’opera per procurare quanto era necessario a metterli a loro agio. Una notte, pochi giorni dopo il loro arrivo, Mullá ‘Alí, quale portavoce dei suoi compagni, dette sfogo ai sentimenti che non poteva più a lungo reprimere. “Sai bene”, disse “quant’è grande la fiducia che abbiamo in te. Nutriamo per te tale lealtà che se tu pretendessi di essere il Qá’im promesso ci sottometteremmo tutti senza esitazione. Obbedienti al tuo appello, abbiamo abbandonato le nostre case e siamo andati alla ricerca del nostro diletto Promesso. Tu sei stato il primo a darci questo nobile esempio. Noi abbiamo seguito le tue orme. Abbiamo deciso di non desistere dai nostri sforzi finché non avremo trovato l’Oggetto della nostra ricerca. Ti abbiamo seguito qui, pronti a riconoscere chiunque tu accetti, nella speranza di trovare l’asilo della Sua protezione e di passare con esito felice attraverso il tumulto e l’agitazione che devono di necessità segnalare l’ultima Ora. Come mai ora ti vediamo ammaestrare la gente e guidare la preghiera e le devozioni con la massima tranquillità? Sembra che ogni segno di agitazione e di attesa sia svanito dal tuo viso. Diccene. ti supplichiamo, il motivo, sì che anche noi possiamo essere liberati dal nostro attuale stato di ansia e di dubbio”. “I tuoi compagni”, osservai con gentilezza, “avranno naturalmente attribuito la mia tranquillità e la mia compostezza all’influenza che sembra io abbia acquisito in questa città. La verità è molto diversa. Il mondo, t’assicuro, con tutta la sua pompa e le sue seduzioni, non potrà mai allontanare Husayn di Bushrúyih dal suo Diletto. Sin dall’inizio di questa santa impresa a cui mi sono accinto, ho fatto voto di suggellare il mio destino con il mio stesso sangue. Per amor Suo, ho accettato d’essere immerso in un oceano di tribolazioni. Non desidero le cose di questo mondo. Bramo solo il compiacimento del mio Diletto. Finché non avrò versato il mio sangue per il Suo nome, il fuoco che divampa nel mio cuore non si spegnerà. Piaccia a Dio che tu viva abbastanza da vedere quel giorno. Non avrebbero potuto pensare i tuoi compagni che, a causa dell’intensità del suo desiderio e della costanza dei suoi sforzi, Iddio, nella Sua misericordia infinita, Si sia degnato benignamente di schiudere davanti al volto di Mullá Husayn la Porta della Sua grazia, e, desiderando, secondo una Sua imperscrutabile saggezza, celare questo fatto, gli abbia ingiunto di dedicarsi a tali occupazioni?”. Queste parole sconvolsero l’anima di Mullá ‘Alí. Ne capí immediatamente il significato. Con gli occhi pieni di lacrime mi supplicò di svelargli l’identità di Colui che aveva trasformato la mia agitazione in pace e mutato la mia ansietà in certezza. “Ti scongiuro”, mi pregò, “di versare su di me una parte di quella santa bevanda che la mano del Misericordioso ti ha dato da bere, poiché essa sicuramente placherà la mia sete e lenirà il tormento del desiderio nel mio cuore”. “Non mi pregare”, risposi, “di farti questo favore. Abbi fiducia in Lui, ché Lui sicuramente guiderà i tuoi passi, e placherà il tumulto del tuo cuore” ».

Mullá ‘Alí corse dai suoi compagni e li informò del contenuto della sua conversazione con Mullá Husayn. Infiammati dal fuoco che il racconto della conversazione aveva acceso nel loro cuore, essi si separarono immediatamente, e, ritirandosi in solitudine nelle loro celle, invocarono, con digiuni e preghiere, che fosse presto rimosso il velo interposto tra loro e il riconoscimento del loro Diletto. Durante le veglie così pregavano: « O Dio! nostro Dio! Te solo noi adoriamo, e Te solo invochiamo in aiuto. Guidaci, T’imploriamo, sul retto sentiero, o Signore Iddio nostro! Adempi ciò che ci hai promesso attraverso i Tuoi Apostoli, e non svergognarci il Giorno della Resurrezione. In verità, Tu non infrangerai la Tua promessa ».

La terza notte di ritiro, mentre era rapito in preghiera, Mullá ‘Alíy-i-Bastámí ebbe una visione. Gli apparve davanti agli occhi una luce, ed ecco!, la luce si mosse davanti a lui. Attratto dal suo splendore, egli la segui, finché essa alfine lo condusse al suo diletto Promesso. Subito, nel cuore della notte, si alzò ed esultante di gioia e raggiante di felicità, apri la porta della sua camera e corse da Mullá Husayn. Si gettò tra le braccia del suo riverito compagno. Mullá Husayn lo abbracciò con grande amore e disse: « Sia lodato Iddio, che ci ha qui condotti! Non avremmo avuto guida, se Iddio non ci avesse guidati! ».

Quella stessa mattina, al levar del giorno, Mullá Husayn, seguito da Mullá ‘Alí, si recò alla residenza del Báb. All’ingresso della Sua casa incontrarono il fedele servo etiope, che immediatamente li riconobbe e li salutò con queste parole: « Prima del levar del giorno, il mio Padrone mi ha chiamato in Sua presenza e mi ha detto di aprire la porta di casa e di stare in attesa sulla soglia. “Due ospiti”, mi ha detto, “devono arrivare presto stamattina. Porgi loro in Mio nome un caloroso benvenuto. Di loro da parte Mia: ‘Entrate qui nel nome di Dio’” ».

Il primo incontro di Mullá ‘Alí con il Báb, che fu analogo a quello di Mullá Husayn, ne differì solo sotto questo aspetto, che mentre nell’incontro precedente le prove e le testimonianze della missione del Báb erano state criticamente vagliate ed esposte, in questo ogni argomentazione fu lasciata da parte e regnò solo uno spirito di profonda adorazione e di intima e fervida amicizia. Tutta la stanza sembrava essere stata vivificata dalla potenza celestiale che promanava dalle Sue ispirate parole. Ogni cosa in quella camera sembrava attestare vibrando: « In verità, in verità, è sorta l’alba d’un nuovo Giorno. Il Promesso Si è insediato nel cuore degli uomini. Nella Sua mano Egli tiene la mistica coppa, il calice dell’immortalità. Benedetti coloro che bevono da essa! ».

I dodici compagni di Mullá ‘Alí, uno per volta e solo con i propri sforzi, cercarono e trovarono il Diletto. Alcuni nel sonno, altri nella veglia, certuni durante la preghiera e altri ancora in momenti di contemplazione videro la luce di questa Rivelazione Divina e furono portati a riconoscere la potenza della Sua gloria. Come Mullá ‘Alí, questi, e pochi altri, accompagnati da Mullá Husayn, giunsero alla presenza del Báb e furono dichiarati « Lettere del Vivente ». Diciassette lettere furono a poco a poco arruolate nella Tavola preservata di Dio e nominate eletti Apostoli del Báb, ministri della Sua Fede e propagatori della Sua luce.

Una notte, nel corso di una conversazione con Mullá Husayn, il Báb disse queste parole: « Diciassette Lettere sono state finora arruolate sotto le insegne della Fede di Dio. Ne manca una sola per completare il numero. Queste Lettere del Vivente sorgeranno per proclamare la Mia Causa e per instaurare la Mia Fede. Domani notte arriverà la Lettera che manca, completando il numero dei Miei eletti discepoli ». Il giorno dopo, la sera, mentre il Báb, seguito da Mullá Husayn, stava ritornando a casa, apparve un giovane scarmigliato e sporco dal viaggio. Si avvicinò a Mullá Husayn, l’abbracciò e gli chiese se avesse raggiunto la meta. Mullá Husayn cercò dapprima di placare la sua agitazione e lo consigliò di riposare per il momento, promettendo di dargli in seguito schiarimenti. Ma il giovane si rifiutò di dare ascolto ai suo consiglio. Fissando lo sguardo sui Báb, disse a Mullá Husayn: « Perché cerchi di nascondermeLo? Posso riconoscerLo dal modo di camminare. Attesto con fiducia che nessun altro all’infuori di Lui, in oriente o in occidente, può rivendicare il diritto di essere la Verità. Nessun altro può palesare la forza e la maestà che irradia dalla Sua santa Persona ». Mullá Husayn si meravigliò di queste parole. Ma lo pregò di scusarlo e lo convinse a frenare i suoi sentimenti fino ai momento in cui non avesse potuto renderlo edotto della Verità. Lasciatolo, s’affrettò a raggiungere il Báb, e L’informò della sua conversazione con il giovane. « Non ti meravigliare », osservò il Báb, « del suo strano comportamento. Nei mondo dello spirito Noi abbiamo comunicato con questo giovane. Lo conosciamo già. In realtà aspettavamo il suo arrivo. Va da lui e invitalo subito a presentarsi a Noi ». Queste parole del Báb fecero subito ricordare a Mullá Husayn il seguente detto tradizionale: « L’ultimo Giorno, gli Uomini dell’Invisibile attraverseranno, sulle ali dello spirito, l’immensità della terra, giungeranno alla presenza del promesso Qá’im, e troveranno in Lui il segreto che risolverà i loro problemi e rimuoverà le loro perplessità ».

Benché fisicamente distanti, queste anime eroiche sono impegnate in una quotidiana comunione con il loro Diletto, ricevono una parte della munificenza delle Sue parole e godono del privilegio supremo della Sua amicizia. Altrimenti come avrebbero potuto Shaykh Ahmad e Siyyid Kázim conoscere il Báb? Come avrebbero potuto percepire il significato del segreto che giaceva celato in Lui? Come avrebbero potuto il Báb Stesso e Quddús, il Suo amato discepolo, scrivere certe cose, se il mistico vincolo dello spirito non avesse collegato le loro anime? Non alluse il Báb, nei primi giorni della Sua Missione, nei passi iniziali del Qayyúmu’l-Asmá’, il Suo Commento della Sura di Giuseppe, alla gloria e al significato della Rivelazione di Bahá’u’lláh? Non intendeva Egli, soffermandosi sull’ingratitudine e la malizia del modo in cui Giuseppe fu trattato dai suoi fratelli, predire ciò che Bahá’u’lláh era destinato a soffrire per mano dei Suoi fratelli e familiari? E Quddús, benché assediato entro il forte di Shaykh Tabarsí dai battaglioni e dal fuoco d’un nemico implacabile, non si dedicò, giorno e notte, al completamento del suo elogio di Bahá’u’lláh, l’immortale commento sui Sád di Samad che aveva già raggiunto la dimensione di cinquecentomila versetti? Ogni versetto del Qayyúmu’l-Asmá’, ogni parola del summenzionato commento di Quddús sono, se esaminati spassionatamente, una testimonianza eloquente di queste verità.

L’accettazione da parte di Quddús della Verità della Rivelazione del Báb completò il numero stabilito dei Suoi eletti discepoli. Quddús che si chiamava Muhammad-’Alí, era, da parte di madre, discendente diretto dell’Imám Hasan, il nipote del Profeta Muhammad 16. Era nato a Bárfurúsh, nella provincia del Mázindarán. Coloro che andavano alle conferenze di Siyyid Kázim hanno riferito che negli ultimi anni della vita del Siyyid, Quddús si era arruolato tra i suoi discepoli. Era l’ultimo ad arrivare, e occupava invariabilmente il seggio più modesto nell’assemblea. Alla conclusione di ogni riunione era il primo ad andarsene. Il silenzio che osservava e l’umiltà del comportamento lo distinguevano dal resto dei suoi compagni. Spesso si sentì Siyyid Kázim notare che alcuni dei suoi discepoli, anche se occupavano i posti più modesti e osservavano un assoluto silenzio, erano nondimeno così sublimi agli occhi di Dio che egli stesso si sentiva indegno di figurare tra i loro servi. I suoi discepoli, benché vedessero l’umiltà di Quddús e riconoscessero l’esemplarità del suo comportamento, non compresero ciò che Siyyid Kázim intendeva. Quando Quddús arrivò a Shíráz e abbracciò la Fede dichiarata dal Báb, aveva solo ventidue anni. Benché giovane d’anni, mostrò un così indomito coraggio e una tale fede che nessuno tra i discepoli del suo Maestro fu in grado di sorpassarlo. Egli provò con la sua vita e con il suo glorioso martirio la verità di questa tradizione: « Chi Mi cerca, Mi troverà. Chi Mi trova, sarà tratto vicino a Me. Chi si avvicina a Me, Mi amerà. Chi Mi ama, questi Io pure amerò. Colui che è da Me amato, quegli Io ucciderò. Chi è da Me ucciso, Io Stesso sarò il suo riscatto ».

Il Báb, che si chiamava Siyyid ‘Alí-Muhammad 17, nacque nella città di Shíráz il primo giorno di Muharram dell’anno 1235 A.H. 18 Apparteneva ad una casata rinomata per nobiltà, che traeva le proprie origini da Muhammad Stesso. La data della Sua nascita confermò la verità della profezia attribuita dalla tradizione all’Imám ‘Alí: « Sono di due anni più giovane del mio Signore ». Venticinque anni, quattro mesi e quattro giorni erano trascorsi dal giorno della Sua nascita, quando dichiarò la Sua Missione. Perse nella prima infanzia il padre, Siyyid Muhammad-Ridá 19, uomo noto nella provincia del Fárs per la sua devozione e la sua virtù e tenuto in grande considerazione e rispetto. Suo padre e Sua madre discendevano entrambi dal Profeta ed erano amati e rispettati da tutti. Egli fu allevato dallo zio materno, Hájí Mirza Siyyid ‘Alí, martire della Fede, che L’affidò, mentre era ancora bambino, alle cure di un tutore chiamato Shaykh ‘Ábid 20. Il Báb, benché non avesse inclinazione per lo studio, Si sottomise al volere e agli ordini dello zio.

Shaykh ‘Ábid, noto ai suoi discepoli come Shaykhuná, era un uomo pio e dotto. Era stato discepolo sia di Shaykh Ahmad sia di Siyyid Kázim. « Un giorno », egli raccontò, « chiesi al Báb di recitare le parole iniziali del Corano: “Bismi’lláhi’r-Rahmáni’r-Rahím” 21. Egli esitò e Si giustificò dicendo che se non Gli fosse stato spiegato ciò che quelle parole significavano, non Si sarebbe in alcun modo peritato a pronunciarle. Finsi di non conoscerne il significato. “Io so che cosa significano queste parole”, osservò il mio allievo, “e con il tuo permesso, le spiegherò”. Parlò con tale sapienza ed eloquenza che fui colto da grande meraviglia. Spiegò il significato di “Alláh”, di “Rahmán”, e di “Rahím”, in termini quali mai avevo letto o sentito. Ho ancora nella mente la dolcezza delle Sue parole. Mi sentii spinto a riportarLo a Suo zio e a riporre nelle mani di questi il Pegno che aveva affidato alle mie cure. Decisi di dirgli quanto indegno mi sentissi di insegnare a un bambino così straordinario. Trovai lo zio solo nel suo ufficio. “Te L’ho riportato indietro”, dissi, “e Lo affido alla tua vigile protezione. Non va trattato come un fanciullo qualsiasi, poiché in Lui posso già riconoscere i segni di quella potenza misteriosa che solo il Sáhibu’z-Zamán 22 può rivelare. È tuo dovere circondarLo delle più amorevoli cure. TieniLo a casa, perché, in verità, non ha alcun bisogno di maestri come me”. Hájí Mirza Siyyid ‘Alí rimproverò severamente il Báb. “Hai dimenticato i miei avvertimenti”, disse. “Non Ti ho già esortato a seguire l’esempio dei Tuoi compagni di scuola, a osservare il silenzio e ad ascoltare attentamente ogni parola detta dal Tuo maestro? “. Avuta dal Báb la promessa che Si sarebbe attenuto fedelmente alle sue istruzioni, Lo invitò a ritornare a scuola. Ma l’anima di quel fanciullo non poteva essere frenata dai severi ammonimenti dello zio. Nessuna disciplina poteva arrestare il fiume della Sua innata sapienza. Giorno dopo giorno Egli continuò a palesare segni di umana saggezza tali da non potersi descrivere ». Infine lo zio fu indotto a ritirarLo dalla scuola di Shaykh ‘Ábid, e a prenderLo con sé nell’esercizio della sua professione 23. Anche qui Egli rivelò segni di una forza e grandezza a cui pochi potevano avvicinarsi e che nessuno poteva rivaleggiare.

Alcuni anni più tardi 24 il Báb fu unito in matrimonio alla sorella di Mirza Siyyid Hasan e Mirza Abu’l-Qásim 25. Al bimbo che nacque da questa unione, Egli dette il nome di Ahmad 26. Questi morì nell’anno 1259 A.H. 27, l’anno precedente alla dichiarazione della Fede da parte del Báb. Il Padre non pianse la sua perdita. Consacrò la sua morte con parole simili a queste: « O Dio, mio Dio! Vorrei che Mi fossero dati mille Ismaeli, per poterli, novello Tuo Abramo, sacrificare tutti in pegno del Mio amore per Te. O mio Diletto, Desiderio del Mio cuore! Il sacrificio di questo Ahmad che il Tuo servo ‘Alí-Muhammad ha offerto sull’altare del Tuo amore non è sufficiente a spegnere la fiamma del desiderio nel Suo cuore. Finché non avrà immolato ai Tuoi piedi il Suo stesso cuore, finché il Suo corpo intero non sarà caduto vittima della tirannia più crudele sul Tuo sentiero, finché il Suo petto non sarà divenuto bersaglio d’infiniti strali per amor Tuo, il tumulto della Sua anima non sarà placato. O mio Dio, mio solo Desiderio! Fa che il sacrificio di Mio figlio, il Mio unico figlio, Ti sia ben accetto. Fa che possa essere un preludio al sacrificio del Mio stesso essere, del Mio intero essere, sul sentiero del Tuo compiacimento. Rivesti della Tua grazia il sangue che desidero versare sul Tuo sentiero. Fa che esso bagni e nutra il seme della Tua Fede. Dotalo della Tua potenza celestiale, sì che quest’infante seme di Dio possa presto germogliare nel cuore degli uomini, allignare e prosperare, crescere e divenire un albero possente, alla cui ombra possano riunirsi tutti i popoli e le tribù della terra. Esaudisci Tu la Mia preghiera, o Dio, e appaga il Mio desiderio più agognato. Tu sei, in verità, l’Onnipotente, il Più Munifico ». 28

Nei giorni in cui Si dedicò agli affari commerciali, il Báb, visse per lo più a Búshihr 29. Il caldo opprimente dell’estate non Gl’impediva di dedicare, ogni venerdì, molte ore ininterrotte all’adorazione sul tetto della Sua casa. Benché esposto ai raggi dardeggianti del sole di mezzogiorno, con il cuore rivolto al Suo Diletto, continuava a comunicare con Lui, incurante dell’intensità della calura e dimentico del mondo intorno a Sè. Dai primi albori fino al levar del sole, e da mezzogiorno fino al tardo pomeriggio, dedicava il Suo tempo alla meditazione e al pio culto. Rivolgendo lo sguardo verso il nord in direzione di Tihrán, al levar del giorno, salutava, con il cuore traboccante d’amore e di gioia, il sole nascente, che per Lui era segno e simbolo della Stella Mattutina di Verità che doveva presto albeggiare sul mondo. Come un amante che mira il volto dell’amata, guardava l’astro nascente con fermezza e desiderio. Pareva che parlasse, con mistico linguaggio, all’astro radioso, e che gli affidasse uno struggente messaggio d’amore per il Suo Diletto nascosto. Con tale trasporto di gioia salutava i suoi raggi fulgenti, che i negligenti e gl’ignoranti intorno a Lui pensavano che fosse innamorato del sole 30.

Ho sentito Hájí Siyyid Javád-i-Karbilá’í 31 raccontare ciò che segue: « Mentre ero in viaggio per l’India, passai da Búshihr. Dato che conoscevo già Hájí Mirza Siyyid ‘Alí, ebbi più volte la possibilità d’incontrare il Báb. Ogni volta che L’incontrai, Lo trovai in un atteggiamento di umiltà e modestia tale, che non ho parole per descriverlo. I Suoi occhi abbassati, la Sua estrema cortesia e la serena espressione del Suo volto lasciarono un’impressione incancellabile sull’anima mia 32. Ho sentito spesso coloro che Gli furono molto vicini attestare la purezza del Suo carattere, il fascino delle Sue maniere, la Sua modestia, la Sua rara onestà e la Sua estrema devozione a Dio 33. Un uomo affidò alle Sue cure una merce, chiedendoGli di disporne a un determinato prezzo. Quando il Báb gli inviò il valore dell’articolo, l’uomo trovò che la somma offertagli era di gran lunga superiore al limite da lui fissato. Scrisse immediatamente al Báb, chiedendoGli di spiegargliene la ragione. Il Báb rispose: “Quello che t’ho mandato ti è interamente dovuto. Non c’è un centesimo in più di quanto tu debba avere. C’è stato un momento in cui la merce che Mi hai consegnato ha raggiunto quel valore. Non essendo riuscito a venderla a quel prezzo, Mi sento in dovere ora di offrirti l’intera somma”. Per quanto il cliente Lo pregasse di accettare indietro la somma eccedente, il Báb persistette nel Suo rifiuto.

« Con quale assiduo interesse Egli partecipava alle riunioni in cui si celebravano le virtù del Siyyidu’sh-Shuhadá, l’Imám Husayn! Con quanta attenzione ascoltava il canto delle sue lodi! Quanta tenerezza quanta devozione mostrava durante le scene di lamento e di preghi Le lacrime Gli sgorgavano dagli occhi, mentre le Sue labbra tre mormoravano parole di preghiera e di lode. Com’era soggiogante Sua dignità, com’erano teneri i sentimenti che le Sue fattezze ispiravano! ». In quanto a coloro che ebbero il sommo privilegio d’essere lati dal Báb nel libro della Sua Rivelazione quali Sue elette Lettere del Vivente, i loro nomi sono i seguenti:

Mullá Husayn-i-Bushrú’í
Muhammad-Hasan, suo fratello
Muhammad-Báqir, suo nipote
Mullá ‘Alíy-i-Bastámí

Mullá Khudá-Bakhsh-i-Qúchání, detto poi Mullá ‘Alí

Mullá Hasan-i-Bajistání
Siyyid Husayn-i-Yazdí
Mirza Muhammad-Rawdih-Khán-i-Yazdí
Sa‘id-i-Hindí
Mullá Mahmúd-i-Khú’í
Mullá Jalíl-i-Urúmí
Mullá Ahmad-i-Ibdál-i-Marághi’í
Mullá Báqir-i-Tabrízí
Mullá Yúsuf-i-Ardibílí

Mirza Hádí, figlio di Mullá ‘Abdu’l-Vahháb-i-Qazvíní

Mirza Muhammad-‘Alíy-i-Qazvíní 34
Táhirih 35
Quddús.

Tutti costoro, con la sola eccezione di Táhirih, giunsero alla presenza del Báb e furono da Lui personalmente investiti dell’onore di questo rango. Táhirih, appreso che il marito della sorella, Mirza Muhammad-‘Alí, intendeva partire da Qazvín, gli affidò una lettera sigillata, chiedendogli di consegnarla al Promesso che, ella diceva, sicuramente avrebbe incontrato durante il suo viaggio. « DiGli da parte mia », ella aggiunse, « “Lo splendore del Tuo volto sfolgorò, e i raggi del Tuo viso in alto si levarono. Allora proferisci la parola, ‘Non sono Io il Tuo Signore?’ e ‘Lo sei, Lo sei’ risponderemo tutti” ». 36

Mirza Muhammad-‘Alí infine incontrò e riconobbe il Báb e Gli consegnò la lettera e il messaggio di Táhirih. Il Báb la dichiarò subito una delle Lettere del Vivente. Suo padre, Hájí Mullá Sálih-i-Qazvíní, e suo fratello, Mullá Taqí, erano entrambi mujtahid di chiara fama 37, esperti nelle tradizioni della legge islamica, ed erano rispettati da tutta la popolazione di Tihrán, Qazvín e altre importanti città della Persia. Ella era sposata con Mullá Muhammad, figlio di Mullá Taqí, suo zio, a cui gli Sciiti dettero il titolo di Shahíd-i-Thálith 38. Benché la sua famiglia appartenesse ai Bálá-Sarí, Táhirih sola mostrò, sin dall’inizio, una grande simpatia e devozione verso Siyyid Kázim. In segno della sua ammirazione personale per lui, ella scrisse un’apologia in difesa e a giustificazione dell’insegnamento di Shaykh Ahmad e la presentò al Siyyid. A questa ricevette subito una risposta, concepita nei termini più affettuosi, nel cui passo iniziale egli così a lei si rivolgeva: « O tu che sei la consolazione dei miei occhi (Yá Qurrat-i-‘Ayní!) e la gioia del mio cuore! ». Sin da allora divenne nota come Qurratu’l-‘Ayn. Dopo la storica riunione di Badasht, alcuni dei presenti furono così stupiti dall’intrepidità e dalla franchezza di quell’eroina, che si sentirono in dovere d’informare il Báb del modo sorprendente e inaudito in cui ella si era comportata, cercando così d’offuscare la purezza del suo nome. Alle loro accuse il Báb rispose: « Cosa posso dirvi di colei che la Lingua della potenza e della gloria ha chiamato Táhirih [La Pura]? ». Queste parole si dimostrarono sufficienti a far tacere coloro che si erano sforzati di sminuire il suo rango. Da quel momento in poi, ella fu designata dai credenti come Táhirih 39.

Dobbiamo ora spendere alcune parole, per spiegare il termine Bálá-Sarí. Shaykh Ahmad e Siyyid Kázim, come i loro seguaci, quando visitavano il mausoleo dell’Imám Husayn a Karbilá, occupavano sempre, in segno di rispetto, la sezione inferiore del sepolcro. Essi non la oltrepassavano mai, mentre altri devoti, i Bálá-Sarí, recitavano le preghiere nella sezione superiore del mausoleo. Gli Shaykhí, i quali credevano che « ogni vero credente vive non solo in questo mondo ma anche nel mondo avvenire », ritenevano disdicevole e inopportuno camminare oltre i limiti delle sezioni inferiori del mausoleo dell’Imám Husayn, che ai loro occhi era l’incarnazione del più perfetto credente 40.

Mullá Husayn, che s’aspettava di essere il compagno prescelto dal Báb per il Suo pellegrinaggio alla Mecca e a Medina, non appena Questi decise di partire da Shíráz, fu invitato a presentarsi al suo Maestro, che gli dette le seguenti istruzioni: « I giorni della nostra vicinanza stanno per concludersi. Il Mio Patto con te è ora compiuto. Apprestati ad agire e levati per diffondere la Mia Causa. Non lasciarti deludere dalla degenerazione e dalla perversità di questa gente. poiché il Signore del Patto sicuramente ti assisterà. In verità, Egli ti concederà la Sua amorevole protezione e ti guiderà di vittoria in vittoria. A simiglianza della nube la quale sparge i suoi doni sulla terra, attraversa il paese da un capo all’altro e riversa sul suo popolo le benedizioni che l’Onnipotente, nella Sua misericordia, Si è degnato di concederti. Sii paziente con gli ‘ulamá’ e rassègnati alla volontà di Dio. Proclama: “Destatevi, destatevi, perché, ecco! la Porta di Dio è aperta e la Luce mattutina irradia il suo splendore su tutta l’umanità! Il Promesso S’è palesato; preparateGli la strada, o popoli della terra! Non privatevi della Sua grazia redentrice e non chiudete gli occhi alla Sua fulgida gloria”. A coloro che troverai recettivi al tuo appello, leggi le epistole e le tavole che t’abbiamo rivelato, così che, forse, queste mirabili parole possano distoglierli dalle paludi della negligenza, e farli librare nel reame della presenza Divina. Per questo pellegrinaggio, al quale presto Ci accingeremo, abbiamo scelto come Nostro compagno Quddús. Ti abbiamo lasciato indietro a fronteggiare l’assalto d’un nemico feroce e implacabile. Ma sii certo che ti sarà concessa una grazia ineffabilmente gloriosa. Prosegui il tuo viaggio verso il nord e visita, strada facendo, Isfáhán, Káshán, Qum e Tihrán. Implora che l’onnipossente Provvidenza ti permetta benignamente di pervenire, nella capitale, al seggio della vera sovranità e di accedere alla magione del Diletto. Nascosto in quella città giace un segreto. Quando sarà palesato, tramuterà la terra in Paradiso. È Mia speranza che tu possa ricevere una porzione della sua grazia e riconoscerne lo splendore. Da Tihrán prosegui per il Khurásán e li lancia di nuovo l’Appello. Quindi torna a Najaf e a Karbilá e là attendi la chiamata del tuo Signore. Non dubitare: porterai a termine, per intero, l’alta missione per cui sei stato creato. Finché non avrai espletato il tuo compito, anche se i dardi del mondo miscredente saranno puntati tutti contro di te, non ti potranno torcere nemmeno un capello sul capo. Tutte le cose sono imprigionate nel Suo pugno possente. Egli, in verità, è l’Onnipotente, Colui che tutto soggioga ».

Il Báb convocò poi alla Sua presenza Mullá ‘Alíy-i-Bastámí e gli rivolse parole d’incoraggiamento e d’affetto. Gli dette istruzioni d’andare direttamente a Najaf e Karbilá, alluse alle prove severe e alle afflizioni che l’avrebbero colpito, e gli ingiunse di non vacillare fino alla fine. « La tua Fede », gli disse, « deve essere incrollabile come una roccia, deve superare ogni tempesta e sopravvivere a ogni calamità. Non permettere che le accuse degli sciocchi e le calunnie del clero t’affliggano o ti distolgano dal tuo proposito. Perché sei chiamato a partecipare al banchetto celeste imbandito per te nel Reame immortale. Sei il primo a lasciare la Casa di Dio e a soffrire per amor Suo. Se verrai ucciso sul Suo sentiero, ricorda che grande sarà la tua ricompensa e generoso il dono che ti sarà elargito ».

Appena ebbe udito queste parole, Mullá ‘Alí s’alzò e partì per proseguire la sua missione. A circa un farsang di distanza da Shíráz lo raggiunse un giovane il quale, rosso per l’eccitazione, gli chiese con impazienza di parlargli. Il suo nome era ‘Abdu’l-Vahháb. « Ti scongiuro », egli pregò Mullá ‘Alí piangendo, « permettimi di accompagnarti nel tuo viaggio. Molte perplessità opprimono il mio cuore; ti prego, guida i miei passi sulla via della Verità. La notte scorsa, in sogno, vidi il banditore annunziare nella strada del mercato di Shíráz l’apparizione dell’Imám ‘Alí, il Comandante dei Fedeli. Gridava alla moltitudine: “Sorgete e cercatelo. Guardate, egli estrae dal fuoco ardente salvacondotti e li distribuisce al popolo. Correte da lui, poiché chi riceve quei salvacondotti dalle sue mani sarà al sicuro da ogni conseguenza penale e chi non riesce ad averli sarà privo delle benedizioni del Paradiso”. Appena sentita la voce del banditore, mi alzai e, abbandonata la bottega, corsi per la strada del mercato di Vakíl fino a un luogo dove ti vidi fermo intento a distribuire alla gente quegli stessi fogli. A tutti coloro che ti s’avvicinavano per riceverli dalle tue mani, sussurravi all’orecchio alcune parole che li facevano immediatamente fuggire costernati, esclamando: “Ahimè! che mi sono negate le benedizioni dl ‘Alí e dei suoi congiunti! Oh! me miserabile! che sono annoverato tra i reietti e i dannati!” Mi svegliai dal sogno e immerso in un mare di pensieri, ritornai nella mia bottega. D’un tratto ti vidi passare in compagnia d’un uomo col turbante, che conversava con te. Balzai in piedi e, spinto da una forza irresistibile, mi misi a correre per raggiungerti. Con mia ulteriore meraviglia, ti trovai fermo nello stesso luogo che avevo veduto in sogno, intento a recitare tradizioni e versetti. Tenendomi in disparte, da lontano, incominciai ad osservarti, senza che tu e il tuo amico ve ne accorgeste. Sentii l’uomo a cui parlavi protestare violentemente: “È più facile per me lasciarmi divorare dalle fiamme dell’inferno, che accettare la verità delle tue parole, il cui peso le montagne non sono in grado di sopportare! “. Al suo sprezzante rifiuto, così rispondesti: “Se tutto l’universo ripudiasse la Sua Verità, ciò non potrebbe offuscare l’immacolata purezza del Suo manto di magnificenza”. Allontanandoti da lui, ti dirigesti verso la porta di Kázirán. Continuai a seguirti finché non sono arrivato qui ».

Mullá ‘Alí cercò di acquietare il suo cuore travagliato e di persuaderlo a ritornare sui suoi passi e a riprendere il lavoro quotidiano. « Se ti unirai a me », insistette, « mi metterai in difficoltà. Ritorna a Shíráz e sta tranquillo, poiché sei annoverato tra i redenti. Lungi sia dalla giustizia di Dio il rifiutare di concedere a un cercatore così ardente e devoto la coppa della Sua grazia, o il privare un’anima cos assetata dell’oceano spumeggiante della Sua Rivelazione ». Le parole di Mullá ‘Alí non servirono a nulla. Più egli insisteva perché ‘Abdu’l-Vahháb ritornasse, più forte questi si lamentava e piangeva. Mullá ‘Alí alla fine si sentì costretto a secondare il suo desiderio, rassegnandosi alla volontà di Dio.

Hanno spesso sentito Hájí ‘Abdu’l-Majíd, padre di ‘Abdu’l-Vahháb, raccontare, con gli occhi pieni di lacrime, questa storia: « Quanto mi dolgo per l’atto che ho commesso. Prego Dio che mi conceda il perdono del mio peccato! Ero uno dei favoriti alla corte dei figli del Farmán-Farmá, il governatore della provincia di Fárs. Tale era la mia posizione che nessuno osava avversarmi o danneggiarmi. Nessuno metteva in dubbio la mia autorità o osava limitare la mia libertà. Appena sentii che mio figlio ‘Abdu’l-Vahháb aveva abbandonato la bottega e lasciato la città, corsi in direzione della porta di Kázirán per raggiungerlo. Armato di un bastone, con cui intendevo percuoterlo, mi informai sulla strada che aveva preso. Mi dissero che aveva appena attraversato la via un uomo col turbante e che avevano veduto mio figlio seguirlo. Pareva che si fossero accordati di lasciare la città insieme. Questo suscitò la mia ira e il mio sdegno. Come potevo tollerare, pensavo tra me stesso, un comportamento così sconveniente da parte di mio figlio, io, che godevo già di una posizione così privilegiata alla corte dei figli del Farmán-Farmá? Soltanto un severissimo castigo, pensavo, avrebbe potuto cancellare l’effetto della vergognosa condotta di mio figlio.

« Continuai la mia ricerca finché non li raggiunsi. Colto da una furia selvaggia, influssi a Mullá ‘Alí maltrattamenti indescrivibili. Ai colpi che piovevano pesantemente su di lui, egli, con straordinaria serenità, oppose questa risposta: “Ferma la tua mano, o ‘Abdu’l-Majíd, poiché l’occhio di Dio ti guarda. Lo invoco come testimone, che non sono in alcun modo responsabile della condotta di tuo figlio. Non m’importano le torture che mi stai infliggendo, poiché sono preparato alle più dolorose afflizioni sulla strada che ho deciso di seguire. I tuoi maltrattamenti, in paragone a quanto è destinato che mi capiti in futuro, sono come una goccia davanti all’oceano. In verità ti dico, tu vivrai dopo di me e giungerai a riconoscere la mia innocenza. Grande sarà allora il tuo rimorso e profondo il tuo dolore”. Disprezzando le sue osservazioni e incurante del suo appello, continuai a colpirlo finché non fui esausto. Silenziosamente ed eroicamente sopportò dalle mie mani questo immeritato castigo. Alla fine, ordinai a mio figlio di seguirmi e abbandonai Mullá ‘Alí alla sua sorte.

« Nella via del ritorno verso Shíráz, mio figlio mi raccontò il sogno che aveva fatto. Un sentimento di profondo rimorso si impossessò pian piano di me. L’innocenza di Mullá ‘Alí era stata provata ai miei occhi, e il ricordo della mia crudeltà verso di lui continuò a lungo ad opprimermi l’anima. La sua amarezza dimorò nel mio cuore finché non mi sentii spinto a trasferirmi da Shíráz a Baghdád. Da Baghdád andai a Kázimayn, dove ‘Abdu’l-Vahháb avviò i suoi affari. Uno strano mistero aleggiava sul suo giovane volto. Sembrava mi stesse nascondendo un segreto che aveva trasformato la sua vita. E quando nell’anno 1267 A.H. 41, Bahá’u’lláh venne in Íráq e visitò Kázimayn, ‘Abdu’l-Vahháb cadde immediatamente sotto l’influsso del Suo fascino e Gli giurò eterna devozione. Pochi anni più tardi, quando già mio figlio era stato martirizzato a Tihrán e Bahá’u’lláh esiliato a Baghdád, Egli, con infinita bontà e misericordia, mi destò dal sonno della negligenza e m’insegnò il messaggio del Nuovo Giorno, purificandomi con le acque del perdono Divino dalla macchia di quell’atto crudele ».

Questo episodio segna la prima afflizione che colpì un discepolo del Báb dopo la dichiarazione della Sua missione. Mullá ‘Alí comprese da questa esperienza quanto ripida e spinosa fosse la strada che l’avrebbe portato infine alla realizzazione della promessa fattagli dal suo Maestro. Completamente rassegnato alla Sua volontà e pronto a versare il proprio sangue per la Sua Causa, si rimise in viaggio, finché arrivò a Najaf. In presenza di Shaykh Muhammad-Hasan, uno dei più famosi prelati dell’Islám sciita, e davanti a una illustre schiera di suoi discepoli, Mullá ‘Alí annunziò intrepido la manifestazione del Báb, la Porta il cui avvento essi stavano ansiosamente aspettando. « Sua prova », egli dichiarò, « è la Sua Parola; Sua testimonianza, la testimonianza con cui l’Islám cerca di sostenere la propria verità. Dalla penna di questo illetterato Giovane Háshimita di Persia è sgorgato, nello spazio di quarantotto ore, un numero di versetti, preghiere, omelie e trattati scientifici equivalenti per volume all’intero Corano, la cui rivelazione richiese a Muhammad, il Profeta di Dio, ventitré anni! ». Quel capo orgoglioso e fanatico, invece di gradire, in un’epoca di oscurità e pregiudizio, queste prove vivificatrici di una Rivelazione neonata, immediatamente dichiarò che Mullá ‘Alí era eretico e lo espulse dalla riunione. I suoi discepoli e seguaci, perfino gli Shaykhí, che un tempo attestavano la pietà, la sincerità e la sapienza di Mullá ‘Alí, avallarono, senza esitare, il giudizio contro di lui. I discepoli di Shaykh Muhammad-Hasan, fatta lega con i loro avversari, lo coprirono di oltraggi indescrivibili. Infine lo consegnarono, le mani legate in catene, a un ufficiale del governo ottomano, accusandolo di essere un distruttore dell’Islám, un calunniatore del Profeta, un istigatore di malefatte, una disgrazia per la Fede, degno della pena di morte. Fu condotto a Baghdád sotto la scorta degli ufficiali governativi e gettato in prigione dal governatore della città.

Hájí Háshim, detto ‘Attár, un eminente mercante, che era molto versato nelle scritture dell’Islám, raccontò quanto segue: « Ero presente nel Palazzo del Governatore, una volta, quando Mullá ‘Alí fu convocato alla presenza di un consesso di notabili e funzionari governativi della città. Egli fu pubblicamente accusato di essere un infedele, di volere abrogare le leggi dell’Islám e rinnegarne i riti e i canoni accettati. Dopo che le sue presunte offese e malefatte furono enumerate, il Muftí, l’esponente principale della legge islamica nella città, si rivolse a lui dicendo: “O nemico di Dio!” Io, che occupavo un posto accanto al Muftí, gli sussurrai in un orecchio: “Non conosci ancora questo sventurato forestiero. Perché ti rivolgi a lui in tali termini? Non ti rendi conto che le parole che gli hai rivolto susciteranno contro di lui l’ira della popolazione? Non devi tener conto delle infondate accuse che questi intriganti hanno lanciato contro di lui, devi invece interrogarlo tu stesso e giudicarlo secondo i comuni criteri di giustizia propugnati dalla Fede dell’Islám”. Il Muftí fu molto offeso, si alzò e lasciò la riunione. Mullá ‘Alí fu ancora una volta gettato in prigione. Pochi giorni dopo, chiesi di lui, sperando di ottenere la sua liberazione. Fui informato che, la notte di quello stesso giorno, era stato deportato a Costantinopoli. Feci ulteriori indagini per scoprire che cosa gli fosse infine successo. Ma non riuscii a scoprire la verità. Alcuni credevano che fosse caduto ammalato e fosse morto nel viaggio verso Costantinopoli. Altri sostenevano che aveva subito il martirio ». 42 Qualunque sia stata la sua fine, Mullá ‘Alí si è guadagnato con la sua vita e la sua morte l’onore immortale di essere stato il primo a soffrire sul sentiero di questa nuova Fede di Dio, il primo a donare la vita in olocausto sull’Altare del Sacrificio.

Inviato Mullá ‘Alí a svolgere la sua missione, il Báb convocò alla Sua presenza le altre Lettere del Vivente e ciascuna separatamente dette un comando speciale e assegnò uno speciale compito. Egli rivolse loro queste parole di commiato: « O amici amatissimi! Siete gli araldi del nome di Dio in questo Giorno e siete stati scelti come depositari del Suo mistero. Ciascuno di voi ha l’obbligo di manifestare gli attributi di Dio e di esemplificare con le proprie azioni e le proprie parole i segni della Sua rettitudine, del Suo potere e della Sua gloria. Perfino le membra del vostro corpo devono attestare l’elevatezza del vostro scopo, l’integrità della vostra vita, la realtà della vostra fede e la sublimità della vostra devozione. Poiché in verità vi dico, questo è il Giorno di cui Dio parlò nel Suo Libro 43. “Quel Giorno porremo un suggello sulle loro bocche; eppure Ci parleranno le loro mani, e i loro piedi attesteranno ciò che essi hanno fatto”. Ponderate le parole che Gesù rivolse ai discepoli quando li inviò a propagare la Causa di Dio. Con parole simili a queste, li esortò a sorgere per adempiere la loro missione: “Siete come il falò che è stato acceso nell’oscurità della notte, sulla cima della montagna. Fate che la vostra luce brilli davanti agli occhi degli uomini. Tale dev’essere la purezza del vostro carattere e il grado della vostra rinuncia, che i popoli della terra possano per mezzo vostro riconoscere il Padre celeste, che è la sorgente della purezza e della grazia, e a Lui avvicinarsi. Poiché nessuno ha visto il Padre che è nei cieli. Voi che siete i Suoi figlioli spirituali dovete con le vostre azioni esemplificare le Sue virtù e attestare la Sua gloria. Siete il sale della terra, ma se il sale diviene insipido con che cosa lo si salerà? Tale dev’essere il grado del vostro distacco, che in qualsiasi città entriate per proclamare e insegnare la Causa di Dio, non dovrete aspettarvi in alcun modo cibo o ricompensa dalla gente. Anzi quando lascerete quella città dovrete scuotervi la polvere dai piedi. Dovrete partirne puri e incontaminati, come vi entraste. Poiché, in verità vi dico, il Padre celeste è sempre con voi e vigila su di voi. Se Gli sarete fedeli, Egli sicuramente porrà nelle vostre mani tutti i tesori della terra e vi esalterà al di sopra di tutti i sovrani e re del mondo”. O Mie Lettere! In verità vi dico, sublime è questo Giorno in paragone con i Giorni degli Apostoli d’un tempo. Anzi, incommensurabile è la differenza. Siete i testimoni dell’Alba del promesso Giorno di Dio e bevete al calice mistico della Sua Rivelazione. Preparatevi ad agire, e rammentate le parole che Dio ha rivelato nel Suo Libro 44: “Ecco, è venuto il Signore Iddio tuo, e con Lui v’è la compagnia dei Suoi angeli schierata davanti a Lui! “. Purificate i vostri cuori da ogni desiderio mondano e fate che virtù angeliche siano il vostro ornamento. Sforzatevi d’attestare con le vostre azioni la verità di queste parole di Dio e badate che, voltandovi indietro, Egli non “vi cambi con altro popolo”, che “non sarà a vostra somiglianza” e che vi priverà del Regno di Dio. I giorni in cui il solo culto era ritenuto sufficiente sono finiti. È venuto il tempo in cui niente, tranne le intenzioni più pure, sostenute da azioni d’immacolata integrità, può ascendere al trono dell’Altissimo ed essere a Lui ben accetto. La buona parola ascende fino a Lui e la retta azione farà sì che essa sia esaltata al Suo cospetto. Siete gli umili di cui Dio ha cos parlato nel Suo Libro 45: “E desideriamo concedere il Nostro favore a coloro che furono umiliati sulla terra e farne guide spirituali fra gli uomini e farne i Nostri eredi”. A questo alto stadio siete stati chiamati; ma vi perverrete soltanto se calpesterete ogni desiderio terreno e cercherete di diventare quei “Suoi servi onorati che non parlano finché Egli non ha parlato e che eseguono i Suoi ordini”. Siete le prime Lettere generate dal Punto Primo 46 e i primi Rivoli scaturiti dalla Sorgente di questa Rivelazione. Implorate il Signore Iddio vostro di concedervi che né pastoie terrene, né affezioni mondane, né effimere occupazioni possano macchiare la purezza o amareggiare la dolcezza di quella grazia che fluisce attraverso di voi. Vi preparo per l’avvento d’un Giorno possente. Fate il massimo sforzo perché, nel mondo avvenire, Io, che ora vi istruisco, possa, innanzi al seggio della misericordia di Dio, gioire delle vostre azioni e gloriarMi di ciò che avete realizzato. Il segreto di quel Giorno che deve venire è ancora nascosto. Non può essere né divulgato né stimato. Il neonato di quel giorno eccellerà i più saggi e i più venerabili uomini di quest’epoca, e la più umile e ignorante creatura di quel periodo sorpasserà per comprensione i più eruditi e perfetti teologi di quest’era. Disperdetevi dappertutto su questa terra e, con piedi saldi e cuori purificati, preparate la via per la Sua venuta. Non curatevi delle vostre debolezze e della vostra fragilità; fissate lo sguardo sull’invincibile potere del Signore Iddio vostro, l’Onnipotente. Non fece Egli in giorni passati trionfare Abramo, malgrado la sua apparente impotenza, sulle forze di Nimrod? Non ha Egli permesso a Mosè, la cui verga era il Suo solo compagno, di sconfiggere Faraone e le sue schiere? Non ha Egli fatto trionfare Gesù, povero e umile quale appariva agli occhi degli uomini, sulle forze unite del popolo ebraico? Non ha Egli assoggettato le barbare e bellicose tribù d’Arabia alla santa e riformatrice disciplina di Muhammad, il suo Profeta? Alzatevi in Suo nome, riponete la vostra fiducia interamente in Lui e siate certi della vittoria finale ». 47

Con siffatte parole il Báb infiammò la fede dei Suoi discepoli e li avviò verso la loro missione. A ciascuno assegnò come zona di operazione la propria provincia natale. Ordinò a tutti di astenersi dal parlare apertamente del Suo nome e della Sua persona 48. Li invitò a proclamare che la Porta del Promesso era stata aperta, che la Sua Prova era irrefutabile e che la Sua testimonianza era completa. Comandò loro di dichiarare: chiunque crede in Lui ha creduto in tutti i profeti di Dio e chiunque Lo smentisce ha smentito tutti i Suoi santi e i Suoi eletti.

Con queste istruzioni li congedò dalla Sua presenza e li rimise nelle mani di Dio. Delle Lettere del Vivente, alle quali aveva così parlato, rimasero con Lui a Shíráz, Mullá Husayn, la prima Lettera, e Quddús, l’ultima. Le altre, quattordici, partirono all’alba da Shíráz, ciascuna decisa a svolgere, fino in fondo, il compito che le era stato affidato.

A Mullá Husayn, quando giunse l’ora della partenza, il Báb rivolse queste parole: « Non dolerti di non essere stato scelto per accompagnarMi nel Mio pellegrinaggio in Hijáz. Voglio, invece, dirigere i tuoi passi verso la città che racchiude un Mistero così straordinario che né lo Hijáz né Shíráz possono sperare di rivaleggiare. Spero che tu possa, con l’aiuto di Dio, rimuovere i veli dagli occhi degli ostinati e purificare la mente dei malevoli. Visita, nel tuo viaggio, Isfáhán, Káshán, Tihrán e il Khurásán. Va poi in Íráq e li aspetta l’invito del tuo Signore, che veglierà su di te e ti guiderà verso la Sua volontà e il Suo desiderio. In quanto a Me, accompagnato da Quddús e dal Mio servo etiope, andrò in pellegrinaggio in Hijáz. Mi unirò al gruppo dei pellegrini del Fárs, che salperanno presto per quella terra. Farò visita alla Mecca e a Medina, e là compirò la missione che Dio Mi ha affidato. Se Dio vuole, tornerò passando da Kúfih, dove spero di incontrarti. Se sarà decretato diversamente, ti chiederò di raggiungerMi a Shíráz. Gli eserciti del Regno invisibile, sii certo, sosterranno e rinvigoriranno i tuoi sforzi. L’essenza del potere dimora ora in te e la schiera dei Suoi angeli eletti attorno a te si rivolge. Le Sue braccia onnipotenti ti circonderanno e il Suo infallibile Spirito continuerà sempre a guidare i tuoi passi. Colui che ama te, ama Dio; e chi si oppone a te, si oppone a Dio. Chi è tuo amico, di questi Iddio sarà amico; e chi ti respinge, quegli Iddio respingerà ».

CAPITOLO IV
IL VIAGGIO DI MULLÁ HUSAYN A TIHRÁN

CON il suono di queste nobili parole nelle orecchie, Mullá Husayn parti per la sua pericolosa impresa. Dovunque andasse, a qualsiasi categoria di persone si rivolgesse, egli presentò senza timori e reticenze il Messaggio che il suo amato Maestro gli aveva affidato. Giunto a Isfáhán, si stabili nella madrisih di Ním-Ávard. Attorno a lui si riunirono coloro che nella sua precedente visita alla città l’avevano conosciuto come il messaggero favorito di Siyyid Kázim all’eminente mujtahid, Hájí Siyyid Muhammad-Báqir 1. Questi era morto e gli era succeduto il figlio, che era appena tornato da Najaf e si era allora insediato al posto del padre. Anche Hájí Muhammad-Ibráhím-i-Kalbásí, caduto gravemente ammalato, era in punto di morte. I discepoli del defunto Hájí Siyyid Muhammad-Báqir, liberi ora dall’influenza moderatrice del maestro scomparso e allarmati dalle strane dottrine che Mullá Husayn andava propugnando, lo denunciarono violentemente a Hájí Siyyid Asadu’lláh, figlio del defunto Hájí Siyyid Muhammad-Báqir. « Mullá Husayn », si lamentarono, « è riuscito, durante la sua ultima visita, a conquistare l’appoggio del tuo illustre genitore alla causa di Shaykh Ahmad. Nessuno degl’indifesi discepoli del Siyyid ha osato opporglisi. Egli ora viene a sostenere un oppositore ancora più temibile e sta perorando la Sua Causa con veemenza e vigore ancora maggiori. Si ostina ad affermare che Colui la cui Causa egli ora sostiene ha rivelato un Libro ispirato da Dio, che assomiglia notevolmente per tono e linguaggio al Corano. Al cospetto della popolazione della città ha lanciato queste parole di sfida: “Producetene uno uguale, se siete sinceri”. Si avvicina rapidamente il giorno in cui tutta Isfáhán avrà abbracciato la sua Causa! ». Hájí Siyyid Asadu’lláh rispose evasivamente alle loro lamentele. « Che devo dire? », si senti alla fine costretto a rispondere. « Non ammettete voi stessi che Mullá Husayn, con la sua eloquenza e la forza delle sue argomentazioni, ha fatto tacere un uomo grande come il mio illustre genitore? Come posso io, allora, che sono così inferiore a lui per meriti e sapienza, avere la pretesa d’impugnare ciò che egli ha già approvato? Che ciascuno esamini spassionatamente queste asserzioni. Se sarà soddisfatto, bene; altrimenti taccia, e non corra il rischio di screditare il buon nome della nostra Fede ».

Visto che i loro sforzi non erano riusciti a influenzare Hájí Siyyid Asadu’lláh, i discepoli presentarono il problema a Hájí Muhammad-Ibráhím-i-Kalbásí. « Guai a noi », essi protestarono a gran voce, « poiché il nemico si è levato a distruggere la santa Fede dell’Islám! Con parole violente ed esagerate, fecero notare la provocazione contenuta nelle idee proposte da Mullá Husayn. « State tranquilli », rispose Hájí Muhammad-Ibráhím-i-Kalbásí. « Mullá Husayn non è persona che si lasci ingannare da alcuno, né può cadere vittima di pericolose eresie. Se ciò che dite è vero, se Mullá Husayn ha veramente abbracciato una nuova Fede, senza dubbio vostro primo dovere è di investigare spassionatamente il carattere dei suoi insegnamenti e aste- nervi dal denunziarlo senza un precedente, minuzioso esame. Se mi ritorneranno la salute e le forze, ho l’intenzione, con l’aiuto di Dio, d’investigare personalmente sull’argomento e di trovare la verità ».

Questo severo rimprovero, pronunziato da Hájí Kalbásí, sconcertò vivamente i discepoli di Hájí Siyyid Asadu’lláh. Delusi, essi si appellarono a Manúchihr Khán, il Mu‘tamidu’d-Dawlih, governatore della città. Quel capo saggio e giudizioso si rifiutò di intromettersi nella questione che, disse, cadeva esclusivamente sotto la giurisdizione degli ‘ulamá’. Lí ammoní ad astenersi da cattiverie e a smettere di disturbare la pace e la tranquillità del messaggero. Le sue incisive parole infransero le speranze di quei sobillatori. Mullá Husayn fu quindi liberato dalle macchinazioni dei suoi nemici e, per un po’ di tempo, prosegui indisturbato la sua opera. Il primo ad abbracciare la Causa del Báb nella città fu un setacciatore di grano, che, non appena gli giunse all’orecchio l’Appello, accettò incondizionatamente il Messaggio. Con devozione meravigliosa egli servi Mullá Husayn e, grazie alla sua intimità con lui, divenne uno zelante difensore della nuova Rivelazione. Pochi anni più tardi, quando gli furono raccontati gli sconvolgenti dettagli dell’assedio del forte di Shaykh Tabarsí, senti un impulso irresistibile di dividere la sorte degli eroici compagni del Báb che si erano levati per difendere la Fede. Con il setaccio in mano, si mosse subito e parti per raggiungere il teatro del memorabile scontro. « Perché parti con tanta fretta? », gli chiesero i suoi amici, vedendolo correre in uno stato di grande eccitazione per i bazar di Isfáhán. « Mi sono mosso », rispose, « per unirmi alla gloriosa schiera dei difensori del forte di Shaykh Tabarsí! Con questo setaccio, che porto con me, intendo setacciare la gente di ogni città che attraverso. A coloro che troverò pronti ad abbracciare la Causa che io ho abbracciato, chiederò di unirsi a me e d’incamminarsi subito verso il campo del martirio ». Tale era la devozione di questo giovane, che il Báb, nel Bayán Persiano, accenna a lui con queste parole: Isfáhán, importante città, è caratterizzata dal fervore religioso dei suoi abitanti sciiti, dal sapere dei suoi teologi e dall’ardente attesa, comune tra tutte le classi sociali, dell’imminente arrivo del Sáhibu’z-Zamán. In ogni quartiere della città sono state fondate istituzioni religiose. Eppure, quando il Messaggero di Dio Si manifestò, coloro che pretendevano di essere i depositari del sapere e gli interpreti dei misteri della Fede di Dio respinsero il Suo Messaggio. Tra tutti gli abitanti di quel luogo di sapienza, solo una persona, un setacciatore di grano, riconobbe la Verità e fu rivestito del manto della virtù Divina! ». 2

Tra i siyyid di Isfáhán, solo pochi riconobbero la verità della Causa e, tra questi, Mirza Muhammad-‘Alíy-i-Nahrí, la cui figlia fu poi unita in matrimonio al Più Grande Ramo 3, Mirza Hádí, fratello di Mirza Muhammad-‘Alí e Mirza Muhammad-Ridáy-i-Pá-Qal‘iyí. Mullá Sádiq-i-Khurásání, un tempo noto come Muqaddas, e soprannominato da Bahá’u’lláh Ismu’lláhu’l-Asdaq, il quale secondo le istruzioni di Siyyid Kázim era rimasto negli ultimi cinque anni ad abitare ad Isfáhán e aveva preparato la strada all’avvento della nuova Rivelazione, fu anche lui tra i primi credenti che abbracciarono il Messaggio proclamato dal Báb 4. Non appena sentì dell’arrivo di Mullá Husayn a Isfáhán, corse ad incontrano. Egli così racconta la storia del loro primo colloquio, che avvenne di notte nella casa di Mirza Muhammad-‘Alíy-i-Nahrí: « Chiesi a Mullá Husayn di svelare il nome di Colui che proclamava di essere la Manifestazione promessa. Rispose: “ proibito sia fare domande su questo nome sia rivelarlo”. “Non potrei allora”, chiesi, “come le Lettere del Vivente, cercare da solo il favore del Misericordiosissimo e, come loro, scoprire la Sua identità attraverso la preghiera?”. “La Porta della Sua grazia”, rispose, “non è mai chiusa per chi cerca di trovarlo”. Mi ritirai subito dal suo cospetto e chiesi al suo ospite di permettermi di appartarmi in una camera della sua casa, dove, solo e indisturbato, potessi rivolgere lo spirito a Dio. Nel bel mezzo della mia contemplazione, mi ricordai improvvisamente il viso di un Giovane che avevo spesso osservato, mentre ero a Karbilá, in atteggiamento di preghiera, con il viso bagnato di lacrime all’ingresso del mausoleo dell’Imám Husayn. Quelle fattezze mi ricomparvero ora davanti agli occhi. Nella visione mi sembrava di vedere quel volto, quei lineamenti, esprimenti una gioia tale da non potersi descrivere. Egli mi guardava e mi sorrideva. Andai verso di Lui, pronto a gettarmi ai Suoi piedi. Stavo inchinandomi al suolo quando, ecco, quella radiosa figura svanì. Sopraffatto dalla gioia e dalla letizia, mi precipitai fuori e corsi da Mullá Husayn il quale mi accolse con trasporto e mi assicurò che avevo finalmente raggiunto l’oggetto del mio desiderio. Mi ingiunse, tuttavia, di reprimere i miei sentimenti. “Non rivelare la tua visione a nessuno”, mi esortò; “non è ancora giunto il momento. Hai colto il frutto della tua paziente attesa a Isfáhán. Devi ora andare a Kirmán e informare di questo Messaggio Hájí Mirza Karím Khán. Quindi devi metterti in viaggio per Shíráz, dove cercherai di ridestare il popolo della città dalla sua indifferenza. Spero di raggiungerti a Shíráz e di condividere con te la benedizione e la gioia di riunirci con il nostro Amato” ». 5

Da Isfáhán, Mullá Husayn partì alla volta di Káshán. Primo nella città ad arruolarsi nella schiera dei fedeli fu un certo Hájí Mirza Jání, soprannominato Par-Pá, eminente mercante 6. Tra gli amici di Mullá Husayn c’era un famoso teologo, Siyyid ‘Abdu‘l-Báqí, cittadino di Káshán e membro della comunità Shaykhí. Benché molto vicino a Mullá Husayn durante la sua permanenza a Najaf e Karbilá, il Siyyid si sentì incapace di sacrificare rango e primato per il Messaggio che il suo amico gli aveva portato.

Al suo arrivo a Qum, Mullá Husayn trovò gli abitanti della città affatto impreparati a dare ascolto al suo appello. I semi che sparse tra loro non germogliarono fino al momento in cui Bahá’u’lláh fu esiliato a Baghdád. In quei giorni Hájí Mirza Músá, nato a Qum, abbracciò la Fede, andò a Baghdád e lí incontrò Bahá’u’lláh. Da ultimo vuotò la coppa del martirio sul Suo sentiero.

Da Qum, Mullá Husayn andò direttamente a Tihrán. Durante il suo soggiorno nella capitale, visse in una delle stanze appartenenti alla madrisih di Mirza Sálih, meglio conosciuta come madrisih di Páy-i-Minár. In quella madrisih insegnava Hájí Mirza Muhammad-i-Khurásání, capo della comunità shaykhí di Tihrán; Mullá Husayn l’avvicinò, ma egli non rispose all’invito di accettare il Messaggio. « Avevamo accarezzato la speranza », egli disse a Mullá Husayn, « che dopo la morte di Siyyid Kázim ti saresti adoperato per promuovere gli interessi della comunità shaykhí e l’avresti riscattata dall’oscurità in cui è caduta. Ma sembra che tu ne abbia tradito la causa. Hai infranto le nostre più care speranze. Se insisti nel diffondere queste dottrine sovversive, finirai con l’estinguere ciò che rimane degli shaykhí in questa città ». Mullá Husayn gli assicurò che non aveva intenzione alcuna di prolungare la sua permanenza a Tihrán e che non aspirava affatto a infamare o distruggere gl’insegnamenti propugnati da Shaykh Ahmad e Siyyid Kázim 7.

Durante la sua permanenza a Tihrán, Mullá Husayn usciva tutti i giorni di buon mattino e rientrava solo un’ora dopo il tramonto. Al ritorno, entrava in camera da solo e in silenzio, si chiudeva la porta alle spalle e rimaneva nella solitudine della sua cella sino al giorno successivo 8. Mirza Músá, Áqáy-i-Kalím, fratello di Bahá’u’lláh, mi ha raccontato quanto segue: « Ho sentito Mullá Muhammad-i-Mu‘allim, nato a Núr nella provincia del Mázindarán, fervente ammiratore di Shaykh Ahmad e Siyyid Kázim, raccontare questa storia: “Ero noto in quei giorni come uno dei discepoli favoriti di Hájí Mirza Muhammad e vivevo nella stessa scuola in cui egli insegnava. La mia stanza era adiacente alla sua, ed eravamo amici intimi. Il giorno in cui entrò in discussione con Mullá Husayn, sentii la loro conversazione dall’inizio alla fine e rimasi molto impressionato dall’ardore, dall’eloquenza e dalla cultura del giovane forestiero. Rimasi sorpreso davanti alle risposte evasive, all’arroganza e allo sprezzante contegno di Hájí Mirza Muhammad. Quel giorno mi sentii fortemente attratto dal fascino di quel giovane e profondamente sdegnato per l’indegna condotta del mio maestro nei suoi confronti. Ma celai i miei sentimenti e finsi di ignorare la sua discussione con Mullá Husayn. Mi prese un desiderio ardente di incontrare quest’ultimo e, nel cuor della notte, osai andare a fargli visita. Non mi aspettava, ma bussai alla sua porta e lo trovai desto seduto vicino alla lampada. Mi accolse con affetto e mi parlò con estrema cortesia e tenerezza. Gli apersi il cuore e, mentre mi rivolgevo a lui, le lacrime, che non riuscii a trattenere, mi sgorgarono dagli occhi. ‘Capisco ora’, disse, ‘il motivo per cui ho deciso di abitare in questo luogo. Il tuo maestro ha respinto sdegnosamente il Messaggio e ne ha disprezzato l’Autore. Spero che il discepolo possa, a differenza del maestro, riconoscerne la verità. Come ti chiami? Di quale città sei?’. ‘Mi chiamo’, risposi, ‘Mullá Muhammad, e il mio soprannome è Mu’allim. La mia patria è Núr, in provincia di Mázindarán’. ‘Dimmi’, mi chiese ancora Mullá Husayn, ‘c’è qualcuno oggi nella famiglia del defunto Mirza Buzurg-i-Núrí, che era così rinomato per il suo carattere, il suo fascino e la sua preparazione artistica e intellettuale, che si sia mostrato capace di perpetuare le alte tradizioni di quella illustre stirpe?’. ‘Sì’, risposi, ‘tra i suoi figli viventi, uno Si è distinto per gli stessi tratti che caratterizzavano il padre. Con la Sua vita virtuosa, le Sue alte doti, la Sua bontà e generosità, Egli ha dato prova di essere il nobile discendente di un nobile genitore’. ‘Di che cosa Si occupa?’ mi chiese. ‘Dà consolazione agli afflitti e cibo agli affamati’, risposi io. ‘Che cosa mi dici del Suo rango e della Sua posizione sociale?’ ‘Non ne ha affatto’, dissi ‘è solo amico dei poveri e degli stranieri’. ‘Qual’è il Suo nome?’ ‘Husayn-‘Alí’. ‘In quale delle calligrafie del padre eccelle?’ ‘La Sua calligrafia favorita è lo shikastihnasta‘líq’. ‘Come passa il tempo?’ ‘Vaga tra i boschi e gode delle bellezze della campagna’ 9. ‘Quanti anni ha?’ ‘Ventotto’. Il fervore con cui Mullá Husayn mi interrogò e il senso di gioia con cui accolse ogni particolare che gli riferii, mi sorpresero molto. Rivolto a me, con il viso raggiante di soddisfazione e di gioia, mi chiese ancora: ‘Suppongo che tu Lo incontri spesso?’ ‘Faccio spesso visita alla Sua casa’, risposi. Mi disse: ‘Consegneresti nelle Sue mani un plico da parte mia?’ ‘Certamente’, risposi. Mi dette allora un rotolo avvolto in un pezzo di stoffa e mi chiese di consegnarlo a Lui il giorno successivo, all’alba. Se Egli si degnerà di rispondermi’, aggiunse, ‘sarai così gentile da informarmi della Sua risposta?’. Presi il rotolo e, sul far del giorno, mi mossi per fare quello che egli desiderava.

« “Quando fui vicino alla casa di Bahá’u’lláh, riconobbi Suo fratello Mirza Músá, che stava sulla soglia, e gli comunicai lo scopo della mia visita. Egli entrò in casa e riapparve subito con un messaggio di benvenuto. Fui introdotto al Suo cospetto e presentai il rotolo a Mirza Músá, che lo depose di fronte a Bahá’u’lláh. Egli ci fece sedere entrambi. Aperto il rotolo, dette uno sguardo al contenuto e incominciò a leggerne ad alta voce alcuni passi. Stavo seduto rapito mentre ascoltavo il suono della Sua voce e la dolcezza della sua melodia. Aveva letto una pagina del rotolo quando, rivolto al fratello, disse: ‘Músá, cos’hai da dire? In verità ti dico, chi crede nel Corano e ne riconosce l’origine divina e tuttavia esita, anche per un solo momento, ad ammettere che queste toccanti parole sono dotate della stessa forza rigeneratrice, ha senz’altro errato nel suo giudizio e si è allontanato dal sentiero della giustizia’. Non disse altro. Congedandomi dalla Sua presenza, mi incaricò di portare a Mullá Husayn, come dono da parte Sua, un pezzo di zucchero russo e un pacco di tè 10 e di porgergli i sensi del Suo apprezzamento e del Suo amore.

« “Mi alzai e, pieno di gioia, corsi da Mullá Husayn e gli portai il dono e il messaggio di Bahá’u’lláh. Con quanta gioia ed esultanza li accolse! Non ho parole per descrivere l’intensità della sua emozione. Balzò in piedi, ricevette a capo chino il dono dalle mie mani e lo baciò con fervore. Mi prese poi tra le braccia, mi baciò gli occhi e disse: ‘Mio amato amico! Prego che, come tu hai rallegrato il mio cuore, così possa Iddio concederti felicità eterna e colmarti il cuore di allegrezza imperitura’. Fui stupito dal comportamento di Mullá Husayn. Quale poteva essere, pensai tra me, la natura del vincolo che legava queste due anime? Cosa poteva avere acceso un’amicizia così ardente nel loro cuore? Perché Mullá Husayn, ai cui occhi la pompa e le cerimonie della regalità non erano che inezie, aveva mostrato tale gioia alla vista del dono così insignificante di Bahá’u’lláh? Rimasi perplesso di fronte a questo pensiero e non seppi penetrarne il mistero.

« “Pochi giorni dopo, Mullá Husayn partì per il Khurásán. Salutandomi mi disse: ‘Non parlare a nessuno di ciò che hai udito e visto. Lascia che rimanga un segreto celato nel tuo petto. Non divulgare il Suo nome, poiché coloro che invidiano la Sua posizione insorgeranno per farGli del male. Nei tuoi momenti di meditazione, prega che l’Onnipotente Lo protegga e che, per mezzo Suo, Egli possa innalzare l’umiliato, arricchire il povero e redimere il reprobo. Il segreto delle cose è nascosto ai nostri occhi. Noi abbiamo il dovere di lanciare l’appello del Nuovo Giorno e di proclamare questo Messaggio Divino a tutti i popoli. Molte persone, in questa città, verseranno il loro sangue su questo sentiero. Quel sangue bagnerà l’Albero di Dio e lo farà prosperare, finché esso coprirà con la sua ombra tutta l’umanità’” ».

CAPITOLO V
IL VIAGGIO DI BAHÁ’U’LLÁH NEL MÁZINDARÁN

IL primo viaggio che Bahá’u’lláh fece per diffondere la Rivelazione annunziata dal Báb fu a Núr, terra dei Suoi avi, nella provincia del Mázindarán. Egli parti per il villaggio di Tákur, proprietà personale di Suo padre, dove possedeva un grande palazzo, regalmente arredato e magnificamente situato. Ho avuto il privilegio di sentire Bahá’u’lláh Stesso, un giorno, raccontare quanto segue: « Il defunto Visir, Mio padre, godeva di una posizione molto invidiabile tra i suoi concittadini. La grande ricchezza, il nobile lignaggio, le cognizioni artistiche, l’incontrastato prestigio e l’alto rango facevano di lui un oggetto d’ammirazione per tutti coloro che lo conoscevano. Per un periodo di oltre vent’anni, nessuno nella vasta cerchia della sua famiglia e del suo parentado, che si estendevano oltre Núr e Tihrán, subì sventure, danni o malattie. Godettero, per un lungo ininterrotto periodo, di ricche e molteplici benedizioni. Ma, all’improvviso, questa prosperità e questa gloria cedettero il passo a una serie di calamità che scossero gravemente le basi della sua prosperità materiale. La prima perdita che subì fu causata da una grande inondazione che, originatasi sulle montagne del Mázindarán, si abbatté con grande violenza sul villaggio di Tákur e letteralmente distrusse metà del palazzo del Visir, situato oltre la fortezza del villaggio. La parte migliore della casa, che era rinomata per la solidità delle sue fondamenta, fu del tutto spazzata via dalla furia del torrente in piena. I preziosi oggetti d’arredamento furono distrutti e le elaborate decorazioni rovinate in modo irrimediabile. A questo seguirono in breve tempo la perdita di varie posizioni al governo che il Visir occupava e gli assalti ripetutamente diretti contro di lui dai suoi invidiosi avversari. Nonostante questo improvviso rovescio di fortuna il Visir conservò la sua dignità e la sua serenità e continuò, entro i ristretti limiti delle sue possibilità, a compiere atti di benevolenza e di carità. Continuò a usare verso i suoi perfidi colleghi la stessa cortesia e gentilezza che avevano distinto i suoi rapporti con i suoi pari. Con meravigliosa forza lottò, fino all’ultimo istante, contro le avversità che gravavano così pesantemente su di lui ».

Bahá’u’lláh aveva già visitato il distretto di Núr, prima della dichiarazione del Báb, ai tempi in cui il famoso mujtahid Mirza Muhammad-Taqíy-i-Núrí era all’apice dell’autorità e dell’influenza. Tale era l’importanza della sua posizione, che coloro che sedevano ai suoi piedi si consideravano autorevoli interpreti della Fede e della Legge dell’Islám. Il mujtahid stava parlando a un gruppo di oltre duecento discepoli e stava dissertando su un oscuro passo dei detti tramandati degli Imám, quando Bahá’u’lláh, seguito da alcuni compagni, passò da quel luogo e si fermò ad ascoltare il suo discorso. Il mujtahid chiese ai discepoli di spiegare un’astrusa teoria sugli aspetti metafisici degl’insegnamenti islamici. Poiché tutti si dichiararono incapaci di darne una spiegazione, Bahá’u’lláh Si sentì mosso a esporre, con linguaggio conciso ma convincente, una chiara spiegazione della teoria. Il mujtahid fu molto contrariato dall’incompetenza dei discepoli. « Per anni vi ho insegnato », esclamò furente, « e mi sono sforzato con pazienza di instillarvi nella mente le più profonde verità e i più nobili principí della Fede. E ora, dopo tutti questi anni di studio continuo, permettete che questo giovane, che indossa il kuláh 1, che non ha mai partecipato a corsi scolastici e che non ha alcuna familiarità con il vostro sapere accademico, dimostri d’essere superiore a voi! ».

Più tardi, quando Bahá’u’lláh era già partito, il mujtahid riferì ai discepoli due recenti sogni, i cui dettagli credeva avessero un profondo significato. « Nel primo sogno », disse, « mi trovavo in mezzo a una vasta folla di persone, che sembrava indicassero tutte una certa casa, nella quale si diceva dimorasse il Sáhibu’z-Zamán. Esultante di gioia, nel sogno, corsi per essere introdotto alla Sua presenza. Ma quando raggiunsi la casa, con mia grande sorpresa, mi fu negato di entrare. “Il Qá’im promesso”, fui informato, “è occupato in un colloquio privato con un’altra Persona. rigorosamente vietato andare da loro”. Dalle guardie che stavano alla porta, dedussi che quella Persona altri non era che Bahá’u’lláh.

« Nel secondo sogno », il mujtahid continuò, « mi trovavo in un luogo dove vedevo attorno a me molti cofani, appartenenti tutti, si diceva, a Bahá’u’lláh. Apertili, vidi che erano pieni di libri. Ogni parola e ogni lettera scritta in quei libri era adorna dei gioielli più squisiti. Il loro splendore mi abbagliò. Fui così sopraffatto dalla loro lucentezza che mi ridestai subito dal sogno ».

Quando, nell’anno sessanta, Bahá’u’lláh giunse a Núr, trovò che il famoso mujtahid, che durante la Sua visita precedente aveva mostrato così grande forza, era morto. Il vasto numero dei suoi devoti si era ridotto a un piccolo pugno di discepoli sparuti che sotto la guida del suo successore, Mullá Muhammad, cercavano di mantenere alte le tradizioni del defunto maestro. L’entusiasmo che salutò l’arrivo di Bahá’u’lláh contrastava nettamente con l’oscurità che era caduta sui resti di quella comunità un tempo fiorente. Un gran numero di funzionari e notabili del circondario Gli fecero visita e con ogni segno di affetto e di rispetto Gli dettero un degno benvenuto. Erano ansiosi di apprendere da Lui, data la posizione sociale che occupava, tutte le novità sulla vita dello Scià, sulle attività dei ministri e sugli affari del governo. Alle loro domande Bahá’u’lláh rispose con estrema indifferenza e mostrò scarso interesse e sollecitudine. Con suadente eloquenza perorò invece la causa della nuova Rivelazione e attirò la loro attenzione sugli immensi benefici che essa era destinata a portare alloro paese 2. Coloro che Lo udirono si meravigliarono di fronte al grande interesse che un uomo della Sua posizione e della Sua etti mostrava per verità che riguardavano innanzi tutto i dotti e i teologi dell’Islám. Essi si sentirono incapaci di mettere in dubbio la validità delle Sue argomentazioni o di sminuire la Causa che Egli così abilmente perorava. Ammirarono l’ardore del Suo entusiasmo e la profondità del Suo pensiero e furono profondamente impressionati dal Suo distacco e dalla Sua abnegazione.

Nessuno osò opporsi alle Sue vedute tranne Suo zio ‘Aziz, che osò controbatterLo, mettendo in dubbio le Sue affermazioni e disprezzando le verità in esse contenute. Quando coloro che lo udirono cercarono di far tacere questo oppositore e d’insultarlo, Bahá’u’lláh intervenne in suo favore e li consigliò di rimetterlo nelle mani di Dio. Allarmato, costui chiese soccorso al mujtahid di Núr, Mullá Muhammad, e si appellò a lui perché gli concedesse subito aiuto. « O Vicario del Profeta di Dio! », disse, « Guarda cos’è accaduto alla Fede. Un giovane, un laico, vestito degli abiti della nobiltà, è venuto a Núr, ha invaso le roccaforti dell’ortodossia e ha dilacerato la Santa Fede dell’Islám. Sorgi e opponiti al suo assalto. Chi giunge al suo cospetto cade immediatamente sotto il suo fascino ed è ammaliato dalla potenza della sua parola. Non so se è un mago o se mescola al tè qualche sostanza misteriosa, che fa cadere vittime del suo fascino tutti coloro che lo bevono ». Il mujtahid, nonostante la sua poca intelligenza, fu in grado di capire la follia di tali osservazioni. Con scherno disse: « E tu non hai bevuto il suo tè, e non l’hai sentito mentre parlava ai suoi compagni? » « Sí », rispose, « ma, grazie alla tua amorevole protezione, sono rimasto immune dagli effetti della sua forza misteriosa ». Il mujtahid, che non si giudicava all’altezza del compito di sollevare la popolazione contro Bahá’u’lláh e di combattere direttamente le idee che quell’oppositore così formidabile stava intrepidamente diffondendo, si limitò a scrivere una sentenza in cui affermava: « ‘Azíz, non temere, nessuno oserà molestarti ». Scrivendo ciò, il mujtahid aveva, per un errore di grammatica, così pervertito il significato della sua sentenza, che coloro che la lessero tra i notabili del villaggio di Tákur furono scandalizzati dal suo significato e ne criticarono il portatore e l’autore.

Coloro che giunsero in presenza di Bahá’u’lláh e Lo sentirono esporre il Messaggio proclamato dal Báb furono così impressionati dall’ardore del Suo appello che sorsero all’istante a divulgare il Messaggio tra la gente di Núr e ad esaltare le virtù del suo illustre Promotore. I discepoli di Mullá Muhammad, nel frattempo, cercarono di persuadere il loro maestro ad andare a Tákur, per fare visita di persona a Bahá’u’lláh, per conoscere da Lui la natura di questa nuova Rivelazione e illuminare i suoi discepoli sul suo carattere e sui suoi scopi. Alla loro ardente supplica il mujtahid rispose in modo evasivo. Ma i discepoli si rifiutarono di considerare valide le obiezioni da lui sollevate. Insistettero dicendo che il primo obbligo imposto a un uomo del suo rango, che aveva il compito di preservare l’integrità dell’Islám sciita, era di indagare e scoprire la natura di ogni movimento che tendesse a danneggiare gli interessi della loro Fede. Alla fine Mullá Muhammad decise di delegare due dei suoi eminenti luogotenenti, Mullá ‘Abbás e Mirza Abu’l-Qásim, entrambi generi e fidi discepoli del defunto mujtahid Mirza Muhammad-Taqí, a fare visita a Bahá’u’lláh e scoprire il vero carattere del Messaggio che aveva portato. Promise di avallare senza esitazione qualsiasi conclusione alla quale fossero giunti e di considerare conclusiva la loro decisione su tale argomento, qualunque essa fosse.

Giunti a Tákur e informati che Bahá’u’lláh Si era trasferito nella Sua residenza invernale, i rappresentanti di Mullá Muhammad decisero di partire per quel luogo. Quando giunsero, trovarono Bahá’u’lláh intento a rivelare un commento sulla Sura Aprente del Corano, intitolato « I sette versi della ripetizione ». Sedutisi, ascoltarono il Suo discorso: l’alta nobiltà del tema, la suadente eloquenza che caratterizzò la Sua presentazione e il modo straordinario in cui fu recitato li impressionarono profondamente. Mullá ‘Abbás, incapace di controllarsi, si alzò e, spinto da un impulso irresistibile, indietreggiò e rimase immobile dietro la porta in atteggiamento di riverente sottomissione. Il fascino del discorso che stava ascoltando l’aveva ammaliato. « Tu vedi in che stato mi trovo », disse al compagno, mentre se ne stava tremante d’emozione con gli occhi pieni di lacrime. « Non posso interrogare Bahá’u’lláh. Le domande che avevo progettato di rivolgerGli mi sono improvvisamente svanite dalla mente. Tu sei libero tanto di procedere nella tua inchiesta quanto di ritornare da solo dal nostro maestro e di informarlo dello stato in cui mi trovo. Digli da parte mia che ‘Abbás non potrà mai tornare da lui. Egli non può più abbandonare questa soglia ». Mirza Abu’l-Qásim fu spinto a seguire l’esempio del compagno. «Ho cessato di riconoscere il mio maestro », rispose. « In questo momento, ho fatto voto a Dio di dedicare i giorni che mi restano da vivere al servizio di Bahá’u’lláh, mio vero e unico Maestro ».

La notizia dell’improvvisa conversione dei fidi messaggeri del mujtahid di Núr si diffuse con sorprendente rapidità per tutto il distretto. Scosse il popolo dal suo letargo. Dignitari ecclesiastici, funzionari statali, commercianti e contadini affluirono alla residenza di Bahá’u’lláh. Un gran numero di loro prontamente abbracciò la Sua Causa. Pieni di ammirazione verso di Lui, alcuni dei più illustri tra loro osservarono: « Vediamo che il popolo di Núr si è levato e si è raccolto attorno a te. Vediamo da tutte le parti i segni della loro esultanza. Se si unisse a loro anche Mullá Muhammad, il trionfo di questa Fede sarebbe completamente assicurato ». « Sono venuto a Núr », Bahá’u’lláh rispose, « con il solo scopo di proclamare la Causa di Dio. Non ho altra intenzione. Se Mi dicessero che a cento leghe di distanza un ricercatore brama la verità e non può venirMi incontro, lietamente e senza esitazioni Mi affretterei ad andare alla sua dimora e soddisferei Io Stesso la sua fame. Mullá Muhammad, Mi dicono, vive a Sa’ádat-Ábád, villaggio non molto distante da qui. Intendo andare a fargli visita e portargli il Messaggio di Dio ».

Desideroso di mettere in atto le Sue parole, Bahá’u’lláh, accompagnato da alcuni compagni, andò immediatamente al villaggio. Mullá Muhammad Lo ricevette con molte cerimonie. « Non sono venuto qui », Bahá’u’lláh osservò, « per farti una visita ufficiale o formale. Il mio proposito è di informarti su un nuovo meraviglioso Messaggio, ispirato da Dio, che adempie la promessa fatta all’Islám. Chi ha dato ascolto a questo Messaggio ne ha sentito il potere irresistibile ed è stato trasformato dalla potenza della Sua grazia. Dimmi che cosa assilla la tua mente e ti impedisce di riconoscere la Verità ». Mullá Muhammad rispose con noncuranza: « Non faccio nulla senza prima consultare il Corano. In queste occasioni, seguo sempre l’abitudine d’invocare l’aiuto di Dio e la Sua benedizione, di aprire a caso il Suo sacro Libro e di leggere il primo versetto della pagina sulla quale cade il mio sguardo. Dalla natura del versetto posso giudicare sulla saggezza e sull’opportunità del comportamento progettato ». Visto che Bahá’u’lláh non era contrario ad accedere alla sua richiesta, il mujtahid fece portare una copia del Corano, l’apri e la richiuse, rifiutandosi di rendere noto ai presenti il contenuto del versetto. Tutto ciò che disse fu: « Ho consultato il Libro di Dio e ritengo sconsigliabile insistere sull’argomento ». Alcuni furono d’accordo con lui; gli altri, la maggior parte, non mancarono di riconoscere il timore che quelle parole implicavano. Bahá’u’lláh desideroso di non metterlo ulteriormente in imbarazzo, Si alzò, chiese il permesso di andarSene e lo salutò cortesemente.

Un giorno, nel corso di una delle Sue cavalcate in campagna, Bahá’u’lláh, seguito da alcuni compagni, vide, seduto sul ciglio della strada, un giovane solitario. Aveva i capelli scompigliati e indossava le vesti del derviscio. Sulla riva d’un ruscello, aveva acceso un fuoco e stava cucinandosi il cibo, che poi mangiava. Avvicinatosi a lui, Bahá’u’lláh con grande gentilezza gli chiese: « Dimmi derviscio, cosa stai facendo? » « Sono occupato a mangiare Dio », egli bruscamente rispose. « Sto cucinando Dio e Lo sto bruciando ». L’incontaminata semplicità delle sue maniere e il candore della sua risposta piacquero molto a Bahá’u’lláh, Che sorrise alla sua osservazione e incominciò a conversare con lui con infinita tenerezza e libertà. In un breve lasso di tempo, Bahá’u’lláh l’aveva mutato e completamente trasformato. Illuminato sulla vera natura di Dio, purificata la mente dalle stolte fantasie del suo popolo, egli riconobbe immediatamente la luce che l’amorevole Straniero gli aveva inaspettatamente portato. Il derviscio, che si chiamava Mustafá, s’innamorò a tal punto degli insegnamenti che gli erano stati istillati nella mente che, abbandonati gli utensili per cucinare, si alzò all’istante e seguì Bahá’u’lláh. A piedi, accanto al Suo cavallo, infiammato dal fuoco del Suo amore, cantava allegramente i versi d’una canzone d’amore che aveva composto sotto l’impulso del momento e che aveva dedicato al suo Diletto. « Tu sei la Stella Mattutina della guida », ripeteva l’allegro ritornello. « Tu sei la Luce della Verità. Svèlati agli uomini, o Rivelatore della Verità ». Quel poema, negli anni successivi, acquistò larga popolarità tra la sua gente, e benché fosse noto che un derviscio detto Majdhúb e di nome Mustafá Big-i-Sanandají, l’aveva composto di getto in lode del suo Amato, tuttavia nessuno sapeva chi fosse la persona alla quale si riferiva veramente, né alcuno sospettò, al tempo in cui Bahá’u’lláh era ancora velato agli occhi degli uomini, che solo questo derviscio aveva riconosciuto il Suo rango e aveva scoperto la Sua Gloria.

La visita di Bahá’u’lláh a Núr aveva prodotto risultati di vasta portata e aveva dato un notevole impulso alla diffusione della Rivelazione neonata. Con la Sua affascinante eloquenza, con la purezza della Sua vita, con la dignità del Suo comportamento, con l’inconfondibile logica della Sua argomentazione e con le molteplici prove della Sua benevolenza, Bahá’u’lláh aveva conquistato il cuore del popolo di Núr, aveva sconvolto le loro anime e li aveva arruolati sotto le insegne della Fede. Tale fu l’effetto delle Sue parole e opere, quando andò a predicare la Causa e a rivelarne la gloria ai Suoi concittadini a Núr, che perfino le pietre e gli alberi del distretto sembrava fossero stati vivificati dalle onde di potenza spirituale promananti dalla Sua persona. Tutto sembrava dotato di una vita nuova e più abbondante, tutto sembrava proclamare a gran voce: « Ecco, la Bellezza di Dio è stata palesata! Sorgete, poiché Egli è venuto in tutta la Sua gloria ». Gli abitanti di Núr, quando Bahá’u’lláh fu partito, continuarono a propagare la Causa e a consolidarne le fondamenta. Alcuni di loro sopportarono le più severe afflizioni per amor Suo; altri vuotarono con allegrezza la coppa del martirio sul Suo sentiero. Il Mázindarán in generale, e Núr in particolare, si distinsero così dalle altre provincie e dagli altri distretti della Persia, perché furono i primi ad abbracciare con ardore il Divino Messaggio. Il distretto di Núr, il cui nome alla lettera significa « Luce », e che giace racchiuso tra i monti del Mázindarán, fu il primo a cogliere i raggi del sole sorto a Shíráz, il primo a proclamare al resto della Persia, che giaceva ancora avviluppata dall’ombra nella valle della negligenza, che la Stella Mattutina della guida celeste era finalmente sorta per riscaldare e illuminare la terra intera.

Quando Bahá’u’lláh era ancora bambino, il Visir, Suo padre, fece un sogno in cui gli apparve Bahá’u’lláh che nuotava in un oceano vasto e sconfinato. Il Suo corpo risplendeva sulle acque con tale radiosità da illuminare il mare. Intorno al Suo capo, che egli poteva vedere distintamente sopra l’acqua, si spargevano dappertutto le Sue lunghe ciocche corvine, fluttuanti in grande profusione sulle onde. Nel sogno una moltitudine di pesci si affollava attorno a Lui, e ciascuno di essi si teneva saldamente all’estremità di uno dei Suoi capelli. Affascinati dallo splendore del Suo volto, essi lo seguivano, in qualsiasi direzione nuotasse. Per quanto grande fosse il loro numero, e per quanto saldamente si afferrassero alle Sue ciocche, dal Suo capo non si staccò nemmeno un capello, né la Sua persona subì il minimo danno. Libero e indipendente, Si muoveva sulle acque e tutti Lo seguivano.

Il Visir, molto impressionato da questo sogno, chiamò un indovino, che aveva acquistato notorietà nella regione, e gli chiese di interpretarlo. Quest’uomo, come ispirato da un presagio della gloria futura di Bahá’u’lláh, dichiarò: « L’oceano illimitato che hai visto in sogno, o Visir, non è altro che il mondo dell’esistenza. Da solo e senza aiuto, tuo figlio conseguirà il sommo potere su di esso. Tutto ciò che Gli piacerà fare, potrà farlo senza intralci. Nessuno sarà in grado di opporsi al Suo cammino, nessuno potrà impedire il Suo progresso. La moltitudine dei pesci significa il trambusto che susciterà in mezzo ai popoli e alle tribù della terra. Attorno a Lui si riuniranno, e a Lui si aggrapperanno. Questo tumulto non potrà mai danneggiare la Sua persona, tutelata dall’immancabile protezione dell’Onnipotente, né la Sua solitudine sul mare della vita potrà mai mettere in pericolo la Sua salvezza ».

Quest’indovino fu poi condotto a vedere Bahá’u’lláh. Egli guardò attentamente il Suo volto e ne esaminò con cura i lineamenti. Fu affascinato dal Suo aspetto e magnificò i tratti del Suo viso. Ogni espressione in quel volto rivelava ai suoi occhi un segno della Sua gloria celata. Così grande fu la sua ammirazione e così profuse furono le sue lodi per Bahá’u’lláh, che il Visir, da quel giorno, divenne ancor più appassionatamente devoto al figlio. Le parole dette dall’indovino servirono a rafforzare le sue speranze e la sua fiducia in Lui. Come Giacobbe, desiderava solo assicurare il benessere del suo amato Giuseppe e preservarLo con la sua amorevole protezione.

Hájí Mirza Áqásí, il Gran Visir di Muhammad Sháh, benché fosse molto ostile al padre di Bahá’u’lláh, dimostrò sempre nei confronti del figlio grande considerazione e benevolenza. Così profonda era la stima che lo Hájí nutriva per Lui, che Mirza Áqá Khán-i-Núrí, l’I’timádu’d-Dawlih, il quale più tardi successe a Hájí Mirza Áqásí, ne era geloso. Si sentiva offeso perché Bahá’u’lláh, un giovane qualsiasi, era considerato superiore a lui. I semi della gelosia s’impiantarono nel suo petto sin d’allora. Ancora così giovane, mentre suo padre è ancora in vita, egli pensava, gli è data la precedenza al cospetto del Gran Visir! Cosa mi succederà, mi chiedo, quando questo giovanotto sarà succeduto al padre?

Dopo la morte del Visir, Hájí Mirza Áqásí continuò a dimostrare la massima considerazione verso Bahá’u’lláh. Gli faceva visita nella Sua casa, e si rivolgeva a Lui come ad un figlio. La sincerità della sua devozione fu però presto messa alla prova. Un giorno, mentre attraversava il villaggio di Qúch-Hisár, che apparteneva a Bahá’u’lláh, fu così colpito dal fascino e dalla bellezza del luogo e dall’abbondanza delle sue acque che concepì l’idea di divenirne proprietario. Bahá’u’lláh, che egli aveva invitato a effettuare la vendita immediata del villaggio, osservò: « Se questa proprietà fosse stata interamente mia, avrei soddisfatto volentieri il tuo desiderio. Questa effimera vita, con tutti i suoi sordidi beni, non è degna di attaccamento ai miei occhi, e tanto meno lo è questo piccolo insignificante possedimento. Ma poiché un certo numero di altre persone, ricche e povere, alcune adulte e altre ancora minorenni, sono comproprietarie con me di questa terra, ti chiedo di proporre l’argomento a loro, e di cercare di avere il loro consenso ». Non soddisfatto da questa risposta, Hájí Mirza Áqásí cercò, con mezzi fraudolenti, di raggiungere il suo scopo. Bahá’u’lláh, appena fu informato delle sue malvagie mene, trasferì subito, con il consenso di tutti gl’interessati, il titolo della proprietà al nome della sorella di Muhammad Sháh, la quale aveva già più volte espresso il desiderio di divenirne proprietaria. Lo Hájí, furioso per la transazione, ordinò che il possedimento fosse preso con la forza, proclamando di averlo già comperato dal proprietario originario. I rappresentanti di Hájí Mirza Áqásí furono aspramente redarguiti dagli agenti della sorella dello Scià, e furono invitati ad informare il loro padrone che la signora era decisa a difendere i propri diritti. Lo Hájí riferì il caso a Muhammad Shàh, e si lamentò per l’ingiustizia subita. Quella stessa notte, la sorella dello Scià aveva informato questi della natura della transazione. « Molte volte », aveva detto al fratello, « voi, Maestà Imperiale, avete benignamente espresso il desiderio che io vendessi i gioielli con cui sono solita adornarmi alla vostra presenza, e che con il ricavato acquistassi alcune proprietà. Sono riuscita infine ad esaudire i vostri desideri. Ma Hájí Mirza Áqásí è ora deciso a strapparmele con la forza ». Lo Scià rassicurò la sorella, e ordinò allo Hájí di rinunziare alle sue pretese. Questi, disperato, chiamò al suo cospetto Bahá’u’lláh, e con ogni mezzo cercò di gettare il discredito sul Suo nome. Alle accuse che mosse contro di Lui, Bahá’u’lláh rispose con forza e riuscì a provare la propria innocenza. Nella sua ira impotente, il Gran Visir esclamò: « Qual è lo scopo di tutte queste feste e banchetti nei quali sembra che ti delizi? Io, che sono il Primo Ministro dello Sháhansháh di Persia, non ricevo mai tanti e svariati ospiti quanti quelli che si affollano attorno alla tua tavola ogni notte. Perché questa prodigalità e questa vanità? Sicuramente stai tramando un complotto contro di me ». « Buon Dio! », Bahá’u’lláh rispose, « l’uomo che, per la grandezza del suo cuore, divide il pane con il prossimo, deve forse essere accusato di nutrire intenzioni criminali? ». Hájí Mirza Áqásí fu del tutto confuso. Non osò dare risposta. Benché sostenuto da tutte le forze ecclesiastiche e laiche di Persia, in ogni lotta che ardi fare contro Bahá’u’lláh, si trovò alla fine totalmente sconfitto.

In altre circostanze, la supremazia di Bahá’u’lláh sui Suoi oppositori fu in ugual modo dimostrata e riconosciuta. Questi trionfi personali da Lui ottenuti, servirono a rafforzare la Sua posizione e a diffondere la Sua fama. Uomini d’ogni ceto si meravigliavano di fronte alla Sua miracolosa capacità di uscire illeso dai più pericolosi scontri. Solo la protezione Divina, pensavano, poteva averLo salvato in simili circostanze. Neppure una volta Bahá’u’lláh, anche se era minacciato dai più gravi pericoli, Si sottomise all’arroganza, alla bramosia, alla perfidia di coloro che Lo circondavano. Sebbene in quei giorni fosse sempre in contatto con i più alti dignitari del regno, sia ecclesiastici sia laici, non Si accontentò mai di aderire semplicemente ai punti di vista che essi esprimevano o alle proposte che avanzavano. Nelle loro riunioni, sostenne senza paura la causa della verità, asserì i diritti degli oppressi, difese i deboli e protesse gl’innocenti.

CAPITOLO VI
IL VIAGGIO DI MULLÁ HUSAYN NEL KHURÁSÁN

IL Báb, accomiatandoSi dalle Lettere del Vivente, ordinò loro di annotare uno per uno i nomi di tutti i credenti che avrebbero abbracciato la Fede e aderito ai suoi insegnamenti. Li invitò a chiudere l’elenco di questi credenti entro buste sigillate che avrebbero spedito a Shíráz a Suo zio materno, Hájí Mirza Siyyid ‘Alí, il quale a sua volta le avrebbe consegnate a Lui. « Classificherò questi elenchi », disse loro, « in diciotto gruppi di diciannove nomi ciascuno. Ogni gruppo costituirà un váhíd 1. Tutti i nomi di questi diciotto gruppi, insieme a quelli del primo váhíd, composto dal Mio nome e dal nome delle diciotto Lettere del Vivente, costituiranno il numero di Kull-i-Shay’ 2. Di tutti questi credenti farò menzione nella Tavola di Dio, così che il Diletto del nostro cuore, il giorno in cui Si assiderà sul trono della gloria possa conferire a ciascuno di loro le Sue inestimabili grazie e dichiararli tutti abitanti del Suo Paradiso ».

In particolare il Báb dette a Mullá Husayn l’ordine preciso d’inviarGli una relazione scritta sulla natura e sul progresso delle sue attività a Isfáhán, a Tihrán e nel Khurásán. Si raccomandò che Lo informasse tanto su coloro che avrebbero accettato la Fede e si sarebbero sottomessi ad essa, quanto su quelli che ne avrebbero respinto e ripudiato la verità. « Finché non avrò ricevuto la tua lettera dal Khurásán », disse, « non potrò partire dalla città e andare in pellegrinaggio in Hijáz ».

Mullá Husayn, rinvigorito e fortificato dall’esperienza dei suoi rapporti con Bahá’u’lláh, parti per il Khurásán. Durante la sua visita in quella provincia, dimostrò in modo sorprendente gli effetti di quella capacità di rigenerazione di cui le parole di commiato del Báb l’avevano investito 3. Il primo ad abbracciare la Fede nel Khurásán fu Mirza Ahmad-i-Azghandí, il più dotto, il più saggio, il più eminente tra gli ‘ulamá’ della provincia. Nelle riunioni a cui presenziava, per quanto grande fosse il numero o vario il carattere dei teologi presenti, era sempre il principale oratore. I nobili tratti del suo carattere e la sua estrema devozione avevano rafforzato la reputazione che aveva già acquisito per la sua erudizione, abilità e saggezza. Il secondo ad abbracciare la Fede tra gli shaykhí del Khurásán fu Mullá Ahmad-i-Mu‘allim, il quale, mentre abitava a Karbilá, era stato precettore dei figli di Siyyid Kázim. Dopo di lui venne Mullá Shaykh ‘Alí, che il Báb soprannominò ‘Azím, e poi Mullá Mirza Muhammad-i-Furúghí, la cui cultura era inferiore solo a quella di Mirza Ahmad. Tranne questi eminenti personaggi, nessuno tra i capi ecclesiastici del Khurásán aveva sufficiente autorità o possedeva la sapienza necessaria per contestare le argomentazioni di Mullá Husayn.

Abbracciò poi il Messaggio Mirza Muhammad-Báqir-i-Qá’iní, che negli ultimi giorni della sua vita si era stabilito a Mashhad. L’amore per il Báb infiammò la sua anima d’una passione così struggente, che nessuno poté resistere alla sua forza o sminuirne l’influenza. L’intrepidezza, l’infaticabile energia, l’incrollabile lealtà e l’integrità di costumi contribuirono a fare di lui il terrore dei nemici e una fonte d’ispirazione per gli amici. Egli mise la sua casa a disposizione di Mullá Husayn, organizzò colloqui privati tra lui e gli ‘ulamá’ di Mashhad e continuò, fino all’estremo limite delle sue forze, a cercare di rimuovere ogni ostacolo che potesse impedire il progresso della Fede. Era infaticabile nei suoi sforzi, inflessibile nei suoi propositi e inesauribile nella sua energia. Continuò a lavorare indefessamente per la sua amata Causa fino all’ultimo istante, quando cadde martire al forte di Shaykh Tabarsí. Nei suoi ultimi giorni, Quddús, dopo la tragica morte di Mullá Husayn, gli ordinò di assumere la guida degli eroici difensori del forte. Egli disimpegnò il compito gloriosamente. La sua casa sita nel Bálá-Khíyábán, nella città di Mashhad, è fino ad oggi conosciuta con il nome di Bábíyyih. Chi vi entra non può assolutamente sfuggire all’accusa di essere Bábí. Possa l’anima sua riposare in pace!

Dopo aver convertito alla Causa questi sostenitori così abili e devoti, Mullá Husayn decise d’inviare al Báb una relazione scritta sulle sue attività. Nella sua comunicazione parlò a lungo del suo soggiorno a Isfáhán e Káshán, descrisse la storia della sua esperienza con Bahá’u’lláh, scrisse della partenza di quest’ultimo per il Mázindarán, narrò gli eventi di Núr e Lo informò del successo che aveva coronato i suoi sforzi nel Khurásán. In essa accluse l’elenco dei nomi di coloro che avevano risposto al suo appello e della cui fermezza e sincerità era sicuro. Spedì la lettera attraverso Yazd, tramite i fidi soci dello zio materno del Báb, che a quel tempo risiedevano a Tabas. La lettera giunse al Báb la notte precedente il ventisettesimo giorno del Ramadán 4, notte tenuta in grande venerazione da tutte le sette dell’Islám e da molti considerata altrettanto sacra quanto la Laylatu’l-Qadr stessa, la quale secondo le parole del Corano « eccelle mille mesi ». 5 Con il Báb, quando quella notte Gli giunse la lettera, c’era solo Quddús, al quale Egli lesse alcuni passi.

Ho sentito Mirza Ahmad raccontare quanto segue: « Lo zio materno del Báb mi ha descritto ciò che accadde quando il Báb ricevette la lettera di Mullá Husayn: “Quella notte vidi sul viso del Báb e di Quddús segni di gioia e di allegrezza tali, che non sono capace di descriverli. Sentii spesso il Báb, in quei giorni, ripetere esultante le parole: ‘Com’è meraviglioso, com’è straordinariamente meraviglioso ciò che è accaduto tra i mesi di Jamádí e di Rajab!’. Mentre leggeva la comunicazione indirizzata a Lui da Mullá Husayn, Si rivolse verso Quddús e, mostrandogli certi brani della lettera, spiegò il motivo delle Sue gioiose espressioni di sorpresa. Io, da parte mia, rimasi completamente ignaro del significato di quella spiegazione” ».

Mirza Ahmad, sul quale il racconto di questo fatto aveva prodotto una profonda impressione, era deciso a penetrarne il mistero. «Ma finché non incontrai Mullá Husayn a Shíráz », egli mi disse, « non riuscii a soddisfare la mia curiosità. Quando ripetei a lui il racconto che mi aveva fatto lo zio del Báb, egli sorrise e disse di ricordarsi molto bene che tra i mesi di Jamádí e Rajab si trovava a Tihrán. Non mi dette altre spiegazioni e si limitò a questa breve osservazione. Ma ciò bastò a convincermi che nella città di Tihrán era celato un mistero il quale, quando sarebbe stato rivelato al mondo, avrebbe portato un’ineffabile gioia al cuore del Báb e di Quddús ».

L’accenno nella lettera di Mullá Husayn all’immediata risposta di Bahá’u’lláh al Messaggio Divino, alla vigorosa campagna da Lui coraggiosamente iniziata a Núr e ai meravigliosi successi che avevano coronato i Suoi sforzi consolò e rallegrò il Báb e Ne rinforzò la fiducia nella vittoria finale della Sua Causa. Era sicuro che, se fosse ora improvvisamente caduto vittima della tirannia dei nemici e Si fosse dipartito da questo mondo, la Causa che aveva rivelato sarebbe sopravvissuta; e, sotto la direzione di Bahá’u’lláh, avrebbe continuato a svilupparsi e a fiorire e avrebbe prodotto infine il suo frutto migliore. La mano maestra di Bahá’u’lláh avrebbe diretto il suo corso e la penetrante influenza del Suo amore l’avrebbe impiantata nel cuore degli uomini. Questa convinzione fortificò il Suo spirito e Lo riempì di speranza. Da quel momento i Suoi timori dei rischi e dei pericoli imminenti Lo abbandonarono completamente. Come la Fenice, accettò con gioia il fuoco delle avversità e Si gloriò nell’ardente calore della sua fiamma.

CAPITOLO VII
IL PELLEGRINAGGIO DEL Báb ALLA MECCA E A MEDINA

LA lettera di Mullá Husayn fece decidere al Báb d’intraprendere il Suo progettato pellegrinaggio in Hijáz. Affidata la moglie a Sua madre e postele entrambe sotto le cure e la protezione di Suo zio materno, Egli Si uni al gruppo dei pellegrini del Fárs che si stavano accingendo a partire da Shíráz per la Mecca e Medina 1. Quddús fu il Suo solo compagno e il servo etiope il Suo servitore personale. Prima andò a Búshihr, centro degli affari commerciali di Suo zio, dove in giorni lontani aveva vissuto accanto a lui la vita dell’umile mercante. Qui, completati i preparativi preliminari per il lungo e difficile viaggio, S’imbarcò su un vascello a vela, che, dopo due mesi di viaggio lento, tempestoso e irregolare, Lo sbarcò sulla costa di quella sacra terra 2. Il mare cattivo e la completa mancanza d’ogni comodità non riuscirono a ostacolare la regolarità delle Sue devozioni o a turbare la quiete delle Sue meditazioni e preghiere. Ignorando la tempesta che infuriava attorno, e imperturbato nonostante il malessere che aveva colto i Suoi compagni di pellegrinaggio, continuò a impiegare il Suo tempo dettando a Quddús le preghiere e le epistole che Si sentiva ispirato a rivelare.

Ho sentito Hájí Abu’l-Hasan-i-Shírází, che viaggiava nello stesso vascello del Báb, descrivere i particolari del memorabile viaggio: « Durante tutto il periodo di circa due mesi », raccontò, « dal momento in cui c’imbarcammo a Búshihr a quello in cui sbarcammo a Jaddih, il porto dello Hijáz, ogni volta che, di giorno o di notte, mi capitò d’incontrare il Báb o Quddús, li trovai invariabilmente insieme, entrambi assorti nel loro lavoro. Il Báb sembrava che dettasse e Quddús era laboriosamente intento a trascrivere tutto ciò che usciva dalla Sua bocca. Perfino in un momento in cui sembrò che i passeggeri di quel vascello sballottato dalla tempesta fossero stati presi dal panico, li vedemmo continuare a lavorare con fiducia e calma imperturbabili. Né la violenza degli elementi né il tumulto della gente che li circondava riuscirono a turbare la serenità del loro contegno o a distoglierli dal loro intento ».

Il Báb Stesso, nel Bayán Persiano 3, accenna ai disagi di quel viaggio. « Per giorni e giorni », scrisse, « soffrimmo per la scarsità dell’acqua. Mi dovevo accontentare di succo di limone dolce ». In seguito a questa esperienza, Egli supplicò l’Onnipotente di far sí che i mezzi di navigazione oceanici fossero presto migliorati, i disagi dei viaggi mitigati e i pericoli interamente eliminati. Entro breve tempo, dopo quella preghiera, si sono moltiplicati i segni di uno straordinario miglioramento di tutte le forme di trasporto marittimo e il Golfo Persico, che a quei tempi possedeva appena un unico vascello a vapore, ora vanta una flotta di transatlantici che possono, nel giro di pochi giorni e con grande comodità, trasportare il popolo del Fárs nei suoi pellegrinaggi annuali in Hijáz.

I popoli occidentali tra i quali sono comparsi i primi segni della rivoluzione industriale, non sono, ahimè, ancora consapevoli della Sorgente da cui scaturisce questa possente corrente, questa grande forza motrice, forza che ha rivoluzionato ogni aspetto della loro vita materiale. La loro stessa storia attesta che nell’anno in cui sorse l’alba di questa gloriosa Rivelazione, sono tutt’a un tratto apparsi i segni di una rivoluzione economica e industriale che, a detta di quegli stessi popoli, non ha precedenti negli annali della storia umana. Preoccupati dei dettagli del funzionamento e degli adattamenti di questo macchinario appena concepito, essi hanno a poco a poco perso di vista la Fonte e l’obiettivo di questa tremenda potenza che l’Onnipotente ha affidato alle loro cure. Pare che abbiano dolorosamente abusato di questa forza e ne abbiano frainteso la funzione. Designata a riversare sui popoli dell’Occidente le benedizioni della pace e della felicità, essa è stata da loro utilizzata per promuovere distruzione e guerre.

Giunto a Jaddih, il Báb indossò la veste del pellegrino, montò su un cammello e Si mise in viaggio verso la Mecca. Quddús, invece, nonostante il desiderio espresso dal suo Maestro, preferì accompagnarLo a piedi per tutta la strada da Jaddih fino alla santa città. Tenendo in mano le briglie del cammello su cui il Báb cavalcava, camminava con gioia e devozione, provvedendo ai bisogni del Maestro, del tutto insensibile alle fatiche della difficile marcia. Ogni notte, dal tramonto fino al levar del giorno, Quddús sacrificando gli agi e il sonno, continuava con attenzione sempre vigile a vegliare accanto al suo Amato, pronto a provvedere ai Suoi bisogni e a procurare i mezzi per proteggerLo e tenerLo al sicuro.

Un giorno, il Báb era sceso dal cammello vicino a un pozzo per recitare la preghiera mattutina, quando improvvisamente apparve all’orizzonte un beduino errante, il quale Gli si avvicinò e, ghermita la bisaccia che era per terra accanto a Lui e che conteneva i Suoi scritti e le Sue carte, spari nel deserto sconosciuto. Il servo etiope si mosse per inseguirlo, ma il Padrone lo trattenne, facendogli segno con la mano, mentre stava pregando, di rinunziare al suo intento. « Se te l’avessi permesso », il Báb lo rassicurò poi affettuosamente, « l’avresti senz’altro raggiunto e punito. Ma non doveva essere così. Le carte e gli scritti che quella bisaccia contiene sono destinati ad arrivare, per mezzo di quell’Arabo, in luoghi che noi non saremmo mai riusciti a raggiungere. Non ti addolorare quindi per questo fatto, perché così ha decretato Iddio, l’Ordinatore, l’Onnipotente ». Molte volte in seguito il Báb in occasioni analoghe cercò di confortare i Suoi amici con simili riflessioni. Con queste parole Egli trasformava l’amarezza del rammarico e del risentimento in una radiosa acquiescenza davanti alla volontà Divina e in una gioiosa sottomissione al volere di Dio.

Il giorno di ‘Arafát 4, il Báb, rifugiandoSi nella quieta solitudine della Sua cella, dedicò tutta la giornata alla meditazione e al culto. L’indomani, il giorno di Nahr, dopo avere recitato la preghiera festiva, andò a Muná, dove secondo l’antico costume, comprò diciannove agnelli della migliore razza, sacrificandone nove in Proprio nome, sette in nome di Quddús e tre in nome del servo etiope. Si rifiutò di mangiare la carne di questo sacrificio consacrato, preferendo invece distribuirla generosamente tra i poveri e i bisognosi delle vicinanze.

Sebbene il mese di Dhi’l-Hijjih 5, quello del pellegrinaggio alla Mecca e a Medina, coincidesse quell’anno con il primo mese della stagione invernale, tuttavia così intenso era il caldo nella regione, che i pellegrini che circumambulavano i sacri templi non furono in grado di celebrare il rito con i soliti indumenti. Indossata una tunica leggera e ampia, essi si riunirono per celebrare la festività. Ma il Báb, in segno di deferenza, Si rifiutò di eliminare tanto il turbante quanto la veste. Vestito nel solito modo, Egli, con la massima dignità e calma, e con estrema semplicità e riverenza, circumambulò la Ka’bih ed eseguì tutti gli atti di culto prescritti.

Negli ultimi giorni del pellegrinaggio alla Mecca, il Báb incontrò Mirza Muhít-i-Kirmání. Questi si trovava di fronte alla Pietra Nera, quando il Báb gli Si avvicinò e, prendendogli la mano nella Sua, gli rivolse queste parole: « O Muhít! Tu ti consideri uno dei più eminenti personaggi della comunità shaykhí e un illustre esponente dei suoi insegnamenti. Nel tuo cuore affermi perfino di essere uno dei successori diretti e dei legittimi eredi di quelle due grandi Luci gemelle, le stelle che hanno preannunziato l’alba della guida Divina. Ecco, siamo ora entrambi in questo sacro tempio. Entro i suoi venerati recinti, Colui il cui Spirito qui dimora può far sí che il Vero sia riconosciuto subito e distinto dal falso, e così ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. In verità dichiaro che nessuno tranne Me, oggi, sia in occidente sia in oriente, può affermare di essere la Porta che conduce gli uomini alla conoscenza di Dio. Non ho altra prova se non quella per mezzo della quale è stata provata la verità del Profeta Muhammad. ChiediMi ciò che vuoi; ora, in questo stesso momento, M’impegno di rivelare tali versetti che possano dimostrare la verità della Mia missione. Devi scegliere o di sottometterti senza riserve alla Mia Causa o di ripudiarla completamente. Non hai altra alternativa. Se deciderai di respingere il Mio Messaggio, non ti lascerò andare la mano finché non Mi darai la tua parola che dichiarerai pubblicamente il tuo ripudio della Verità che ho proclamato. Così Colui che dice il Vero sarà riconosciuto, e colui che dice il falso sarà condannato alla miseria e alla vergogna eterna. Allora la via della Verità sarà rivelata e resa palese a tutti gli uomini ».

Questa perentoria sfida, che il Báb gli lanciò così all’improvviso, sconvolse profondamente Mirza Muhít-i-Kirmání. Egli fu sopraffatto dalla Sua franchezza e dalla Sua irresistibile maestà e forza. Al cospetto di quel Giovane, nonostante la sua età, la sua autorità e il suo sapere, si sentiva come un uccellino indifeso imprigionato tra gli artigli di un’aquila possente. Confuso e pieno di timore rispose: « Mio Signore! Mio Maestro! Sin dal giorno in cui i miei occhi si posarono su di Te a Karbilá, mi era parso di avere finalmente trovato e riconosciuto Colui che era stato l’oggetto della mia ricerca. Rinnego chi non Ti ha riconosciuto e disprezzo colui nel cui cuore alberga il minimo dubbio sulla Tua purezza e santità. Ti prego di sorvolare sulla mia debolezza e Ti scongiuro di rispondermi, nella mia perplessità. Piaccia a Dio che io possa, in questo stesso luogo, entro i recinti di questo sacro tempio, giurarTi la mia fedeltà e sorgere per il trionfo della Tua Causa. Se sono insincero in ciò che dichiaro, se nel mio cuore non dovessi credere a ciò che le mie labbra proclamano, mi reputerei completamente indegno della grazia del Profeta di Dio e considererei la mia azione come un atto di palese slealtà verso ‘Ali, il Suo successore designato ».

Il Báb ascoltò attentamente le sue parole; ma, ben conoscendo la sua inettitudine e povertà di spirito, rispose dicendo: « In verità ti dico, anche ora il Vero è noto e distinto dal falso. O Tempio del Profeta di Dio! e tu, Quddús che hai creduto in Me! Vi prendo entrambi, in questo momento, come testimoni. Avete visto e udito ciò che è accaduto tra Me e lui. Vi chiamo a testimoniarlo e Dio, in verità, è al di sopra e al di là di voi, il Mio sicuro e definitivo Testimone. Egli è l’Onniveggente, l’Onnisciente, il più Saggio. O Muhít! Esprimi ciò che turba la tua mente e io, con l’aiuto di Dio, scioglierò la lingua e risolverò i tuoi problemi, così che tu possa attestare l’eccellenza delle Mie parole e capire che nessuno all’infuori di Me è capace di manifestare la Mia saggezza! ».

Mirza Muhít accolse l’invito del Báb e Gli presentò le sue domande. Affermando poi di dover partire immediatamente per Medina, espresse la speranza di ricevere, prima di lasciare la città, il testo della risposta promessa. « Esaudirò la tua richiesta », lo rassicurò il Báb, « rivelerò la Mia risposta alle tue domande. Se non t’incontrerò in quella città, la Mia risposta ti raggiungerà sicuramente subito dopo il tuo arrivo a Karbilá. Ciò che la giustizia e l’equità richiedono, questo Mi aspetterò che tu faccia. “Se agirete bene, lo farete a vostro vantaggio: e se farete il male, contro voi stessi lo farete”. “Dio è in verità indipendente da tutte le Sue creature” » 6.

Mirza Muhít, prima di partire, espresse ancora la sua ferma decisione di mantenere la solenne promessa. « Non lascerò Medina » assicurò al Báb, « qualsiasi cosa possa succedere, prima di aver mantenuto il patto che ho fatto con Te ». Come un fuscello trascinato dal vento, fu incapace di resistere alla travolgente maestà della Rivelazione proclamata dal Báb e fuggi terrorizzato davanti al Suo volto. Si fermò per un po’ a Medina e, venendo meno alla parola data e indifferente agli ammonimenti della sua coscienza, parti per Karbilá.

Il Báb, fedele alla promessa, rivelò, nel viaggio dalla Mecca a Medina, la Sua risposta scritta alle domande che avevano assillato la mente di Mirza Muhít e l’intitolò Sahífiy-i-Baynu’l-Haramayn 7. Mirza Muhít, che la ricevette pochi giorni dopo il suo arrivo a Karbilá, rimase insensibile al suo tono e si rifiutò di accettare i precetti che essa affermava. Mantenne verso la Fede un atteggiamento di segreta e persistente opposizione. A volte affermò di essere seguace e sostenitore del noto avversario del Báb, Hájí Mirza Karím Khán, e a volte pretese di avere lui stesso il rango di guida indipendente. Verso la fine dei suoi giorni, mentre abitava in ‘Iráq, simulando sottomissione a Bahá’u’lláh, espresse, attraverso uno dei principi persiani che abitavano a Baghdád, il desiderio di incontrarLo. Chiese che il colloquio che proponeva fosse strettamente privato. « Digli », fu la risposta di Bahá’u’lláh, « che nei giorni del Mio ritiro sulle montagne di Sulaymáníyyih, in un’ode che ho composto, ho esposto i requisiti essenziali per ogni viandante che percorra il sentiero della ricerca nella sua investigazione della Verità. Leggigli questo verso di quell’ode: “Se è tua intenzione salvare la vita, non t’avvicinare alla nostra corte, ma se il sacrificio è il desiderio del tuo cuore, vieni e fa venire gli altri con te. Poiché tale è la via della Fede, se nel suo cuore cerchi l’unione con Bahá; se ti rifiuti di seguire questa strada, perché c’importuni? Vattene!” Se vuole, verrà a incontrarMi apertamente e senza reticenze; altrimenti, Mi rifiuto di vederlo ». L’inequivocabile risposta di Bahá’u’lláh sconcertò Mirza Muhít. Incapace di resistere e non disposto a cedere, partì per la sua casa a Karbilá, il giorno stesso in cui ricevette il messaggio. Appena arrivò, si ammalò e, tre giorni dopo, morì.

Appena ebbe compiuto l’ultimo rito del pellegrinaggio alla Mecca, il Báb indirizzò allo Sceriffo della santa città un’epistola, in cui esponeva, in termini chiari e inequivocabili, i caratteri peculiari della Sua missione e l’invitava a sorgere e ad abbracciare la Sua Causa. Affidò quest’epistola, insieme con una selezione di altri suoi Scritti, a Quddús e lo incaricò di presentarli allo Sceriffo. Questi, tuttavia, troppo assorbito nelle sue incombenze materiali per dare ascolto alle parole che gli erano state rivolte dal Báb, non rispose all’appello del Messaggio Divino. Hanno sentito Hájí Níyáz-i-Baghdádí raccontare quanto segue: « Nell’anno 1267 A.H. 8, andai in pellegrinaggio alla santa città, dove ebbi il privilegio d’incontrare lo Sceriffo. Durante la sua conversazione con me egli disse: “Ricordo che nell’anno ‘60, all’epoca dei pellegrinaggi, venne a farmi visita un giovane. Mi presentò un libro sigillato, che accettai prontamente; ma ero troppo occupato in quel momento per poterlo leggere. Pochi giorni più tardi incontrai ancora lo stesso giovane, il quale mi chiese se avessi una risposta da dare alla sua offerta. La pressione del lavoro mi aveva ancora impedito di prendere in considerazione il contenuto del libro e perciò non fui in grado di dargli una risposta soddisfacente. Quando il periodo dei pellegrinaggi fu finito, un giorno, mentre stavo archiviando le mie lettere, mi caddero per caso gli occhi su quel libro. Lo aprii e trovai, nelle sue pagine introduttive, un’omelia commovente e scritta in modo raffinato, seguita da versetti il cui tono e stile rassomigliavano molto al Corano. Dalla lettura di quel libro, appresi che tra il popolo di Persia un uomo della stirpe di Fátimih, discendente della famiglia di Háshim, aveva lanciato un nuovo appello e annunziava a tutti i popoli l’apparizione del promesso Qá’im. Ma non venni a sapere il nome dell’Autore del libro e non fui informato dei particolari dell’appello”. “Un grande turbamento”, osservai, “ha pervaso quella terra negli ultimi anni. Un Giovane, discendente del Profeta, commerciante di professione, ha proclamato che la Sua parola è la voce dell’ispirazione divina. Egli ha pubblicamente affermato che, nello spazio di pochi giorni, potrebbero uscire dalla Sua bocca versetti di tale numero e di tale perfezione da sorpassare per volume e per bellezza il Corano stesso, opera la cui rivelazione richiese a Muhammad non meno di ventitré anni. Una moltitudine di persone, sia di alto sia di basso ceto, laiche ed ecclesiastiche, tra gli abitanti della Persia si sono raccolte attorno alle Sue insegne e di buon grado si sono sacrificate sul Suo sentiero. Quel Giovane è stato martirizzato a Tabríz, nella provincia dell’Ádhirbáyján, l’anno scorso alla fine del mese di Sha’bán 9. Coloro che Lo perseguitavano hanno cercato con questo mezzo di estinguere la luce che Egli ha acceso in quella terra. Ma dopo il Suo martirio la Sua influenza si è diffusa tra la gente di tutte le classi”. Lo Sceriffo, che mi ascoltò attentamente, espresse il suo sdegno per il comportamento di coloro che avevano perseguitato il Báb. “La maledizione di Dio ricada su questa gente malvagia” esclamò, “gente che, nei giorni passati, trattò nella stessa maniera i nostri santi e illustri antenati!”. Con queste parole lo Sceriffo concluse la sua conversazione con me ».

Dalla Mecca il Báb andò a Medina. Era il primo giorno del mese di Muharram dell’anno 1261 A.H. 10, quando Si mise in cammino verso la santa città. Mentre Si avvicinava ad essa, Si rammentò dei commoventi fatti che avevano immortalato il nome di Colui che era vissuto e morto entro le sue mura. Quelle scene che testimoniarono in modo eloquente la potenza creatrice di quel Genio immortale, sembrarono rivivere con immutato splendore, davanti ai Suoi occhi. AvvicinandoSi al santo sepolcro che custodisce i resti mortali del Profeta, Egli pregò. Ricordò anche, mentre calpestava quel sacro suolo, il luminoso araldo della Sua Dispensazione. Sapeva che nel cimitero di Baqí‘, in un luogo non molto distante dalla tomba di Muhammad, era stato messo a riposare Shaykh Ahmad-i-Ahsá’í, l’antesignano della Sua Rivelazione, il quale, dopo una vita di oneroso servizio, aveva deciso di trascorrere la sera dei suoi giorni entro i recinti di quel sacro tempio. Ebbe anche una visione di quei santi, pionieri e martiri della Fede, gloriosamente caduti sul campo di battaglia, che, con il loro sangue, avevano suggellato il trionfo della Causa di Dio. Parve che le loro sacre ceneri fossero come rianimate dal tocco gentile dei Suoi piedi, e che Le loro ombre si ridestassero alla brezza vivificante della Sua presenza. Gli sembrò che fossero risorti al Suo avvicinarsi, e accorressero verso di Lui e Gli dessero il loro benvenuto. Parve che Gli rivolgessero questa fervida implorazione: « Non ritornare nella Tua terra natia, Ti imploriamo, o Diletto del nostro cuore! Rimani tra noi, perché qui, lungi dal tumulto dei Tuoi nemici in agguato, sarai salvo e al sicuro. Temiamo per Te. Abbiamo paura dei complotti e delle macchinazioni dei Tuoi nemici. Tremiamo al pensiero che le loro azioni possano portare le loro anime alla dannazione eterna ». « Non temete », rispose l’indomito spirito del Báb: « Sono venuto in questo mondo per essere una prova della gloria del sacrificio. Conoscete l’intensità del Mio desiderio; comprendete la grandezza della Mia rinunzia. Anzi, implorate il Signore Iddio vostro di affrettare l’ora del Mio martirio e di accettare il Mio sacrificio. Rallegratevi, poiché entrambi, Io e Quddús, saremo uccisi sull’altare della nostra devozione al Re della Gloria. Il sangue che siamo destinati a versare sul Suo sentiero irrigherà e ravviverà il giardino della nostra immortale felicità. Le gocce di questo sangue consacrato saranno il seme dal quale sorgerà il possente Albero di Dio, l’Albero che radunerà sotto la sua ombra, che tutto ricopre, i popoli e le tribù della terra. Non doletevi, perciò, se parto da questa terra, poiché vado verso il Mio destino ».

CAPITOLO VIII
LA PERMANENZA DEL Báb A SHÍRÁZ
DOPO IL PELLEGRINAGGIO

CON la visita a Medina si concluse il pellegrinaggio del Báb in Hijáz. Da qui Egli andò a Jaddih e ritornò alla Sua terra natale per mare. Sbarcò a Búshihr nove mesi lunari dopo il giorno in cui Si era imbarcato per il pellegrinaggio in quello stesso porto. Nello stesso khán 1 dove aveva alloggiato la volta precedente, accolse amici e parenti, venuti a salutarLo e a darGli il benvenuto. Mentre era ancora a Búshihr chiamò in Sua presenza Quddús e con grandissima gentilezza lo invitò a partire per Shíráz. « I giorni del nostro sodalizio », egli disse, « stanno volgendo alla fine. L’ora della separazione è scoccata, separazione a cui non seguirà riunione alcuna se non nel Regno di Dio, in presenza del Re della Gloria. In questo mondo di polvere, ti sono stati assegnati soltanto nove fuggevoli mesi di unione con Me. Ma sulle rive del Grande Aldilà, nel reame immortale, ci attende la gioia della riunione eterna. Tra non molto la mano del destino ti getterà in un oceano di tribolazioni per amor Suo. Anch’Io ti seguirò; anch’Io sarò immerso nei suoi abissi. Rallegrati di somma gioia, perché sei stato scelto come portabandiera delle schiere dell’afflizione; e sei all’avanguardia del nobile esercito che subirà il martirio in Suo nome. Per le strade di Shíráz, sarai coperto d’insulti e le ferite più gravi affliggeranno il tuo corpo. Ma sopravvivrai all’ignominioso comportamento dei tuoi nemici e giungerai in presenza di Colui che è l’unico oggetto della nostra adorazione e del nostro amore. In Sua presenza dimenticherai tutti i mali e le disgrazie che ti hanno colpito. Gli eserciti dell’Invisibile accorreranno in tuo aiuto e proclameranno a tutto il mondo il tuo eroismo e la tua gloria. Ti sarà concessa la gioia ineffabile di vuotare la coppa del martirio per amor Suo. Anch’Io percorrerò il sentiero del sacrificio e ti raggiungerò nel reame dell’eternità ». Il Báb poi gli consegnò una lettera che aveva scritto per Hájí Mirza Siyyid ‘Alí, Suo zio materno, in cui informava quest’ultimo di essere ritornato sano e salvo a Búshihr. Gli affidò anche una copia del Khasá’il-i-Sab‘ih 2, un trattato in cui esponeva i requisiti essenziali di coloro che erano pervenuti alla conoscenza della Nuova Rivelazione e ne avevano accettato le affermazioni. Rivolgendo a Quddús il Suo ultimo addio, gli chiese di porgere i Suoi saluti a ciascuno dei Suoi amati a Shíráz.

Quddús, fermamente deciso a esaudire i desideri espressi dal suo Maestro, parti da Búshihr. Giunto a Shíráz, fu ricevuto con affetto da Hájí Mirza Siyyid ‘Alí, che lo accolse in casa e s’informò premurosamente sulla salute e sulle condizioni del suo amato Congiunto. Visto che era recettivo all’appello del nuovo Messaggio, Quddús l’informò della natura della Rivelazione con cui il Giovane aveva già infiammato la sua anima. Lo zio materno del Báb, grazie agli sforzi compiuti da Quddús, fu il primo, dopo le Lettere del Vivente, ad abbracciare la Causa a Shíráz. Il significato della Fede neonata non era ancora stato interamente divulgato e pertanto egli non conosceva, in tutta la loro portata, le sue implicazioni e la sua gloria. Ma la conversazione con Quddús gli tolse i veli dagli occhi. Così ferma divenne la sua fede e così profondo il suo amore per il Báb, che consacrò tutta la vita al Suo servizio. Con attenzione sempre vigile insorse a difendere la Sua Causa e a proteggere la Sua persona. Nei suoi sforzi incessanti, disdegnò la fatica e disprezzò la morte. Benché fosse considerato un eminente personaggio tra gli uomini d’affari della città, non permise mai alle considerazioni materiali d’interferire con la sua responsabilità spirituale di proteggere la persona e promuovere la Causa del suo amato Congiunto. Perseverò nel suo compito fino al momento in cui, unendosi alla schiera dei Sette Martiri di Tihrán, dette la vita per Lui, in circostanze di sommo eroismo.

La seconda persona che Quddús incontrò a Shíráz fu Ismu’lláhu’l-Asdaq, Mullá Sádiq-i-Khurásání, al quale consegnò la copia del Khasá’il-i-Sab‘ih, insistendo sulla necessità di dare immediata esecuzione a tutte le sue disposizioni. Tra i suoi precetti vi era l’ingiunzione perentoria del Báb ad ogni leale credente di aggiungere alla formula tradizionale dell’adhán 3 le seguenti parole: « Faccio testimonianza che Colui che si chiama ‘Alí-Qabl-i-Muhammad 4 è il servo del Baqíyyatu’lláh » 5. Mullá Sádiq, che in quei giorni andava esaltando dal pulpito davanti a folti uditori le virtù degli Imám della Fede, fu così rapito dal tema e dal linguaggio del trattato che decise senza esitazioni di mettere in atto tutte le osservanze che ordinava. Trascinato dalla forza impellente insita nella Tavola, un giorno, mentre stava guidando la sua congregazione in preghiera nel Masjid-i-Naw, all’improvviso declamò, recitando l’adhán, le parole aggiuntive prescritte dal Báb. La moltitudine che lo sentì fu stupefatta dal suo annuncio. L’intera congregazione fu colta dallo sgomento e dalla costernazione. Gl’illustri teologi, che occupavano i primi posti e che erano profondamente riveriti per la loro pia ortodossia, rumoreggiarono, protestando a gran voce: « Guai a noi, che siamo i custodi e i protettori della Fede di Dio! Ecco, quest’uomo ha issato il vessillo dell’eresia. Abbasso l’infame traditore! Ha bestemmiato. Arrestatelo! egli è una disgrazia per la nostra Fede ». « Chi », essi esclamarono furenti, « ha osato autorizzare una deviazione così grave dai precetti stabiliti dall’Islám? Chi ha avuto la presunzione di arrogarsi questa suprema prerogativa? ».

La popolazione riecheggiò le proteste dei teologi e insorse a rafforzare il loro clamore. Tutta quanta la città era stata scossa e di conseguenza l’ordine pubblico fu gravemente minacciato. Il governatore della provincia del Fárs, Husayn Khán-Íravání, soprannominato Ájúdán-Báshí, e comunemente detto in quei giorni Sáhib-Ikhtíyár 6, ritenne necessario intervenire e indagare sulla causa di quest’improvviso tumulto. Fu informato che un discepolo di un giovane detto Siyyid-i- Báb, il quale era appena ritornato dal pellegrinaggio alla Mecca e Medina e abitava a Búshihr, era giunto a Shíráz e stava propagando gl’insegnamenti del suo Maestro. « Questo discepolo », Husayn Khán fu ulteriormente informato, « afferma che il suo maestro è l’autore di una nuova rivelazione e ha rivelato un libro, egli asserisce, ispirato da Dio. Mullá Sádiq-i-Khurásání ha abbracciato quella fede e sta intrepidamente esortando la moltitudine ad accettare quel messaggio. Egli dichiara che riconoscere tale messaggio è il primo obbligo di ogni leale e pio seguace dell’Islám sciita ».

Husayn Khán ordinò l’arresto sia di Quddús sia di Mullá Sádiq. Le autorità di polizia, alle quali furono consegnati, ricevettero istruzioni di condurli ammanettati al cospetto del governatore. La polizia consegnò nelle mani di Husayn Khán anche la copia del Qayyúmu’l-Asmá’, che aveva carpito a Mullá Sádiq, mentre questi stava leggendone ad alta voce alcuni passi a una folla eccitata. Quddús, a causa del suo aspetto giovanile e del suo modo anticonformista di vestire, fu dapprima ignorato da Husayn Khán, che preferì rivolgere le proprie osservazioni al suo compagno, più dignitoso e più anziano. « Dimmi », chiese furente il governatore, rivolgendosi a Mullá Sádiq, « se conosci il passo iniziale del Qayyúmu’l-Asmá’, dove il Siyyid-i- Báb si rivolge ai governanti e ai re della terra in questi termini: “Spogliatevi del manto della sovranità, perché Quei che è in verità il Re, è stato palesato! Il Regno è di Dio, l’Eccelso! Cos ha decretato la Penna dell’Altissimo!”. Se questo è vero, deve necessariamente riferirsi anche al mio sovrano, Muhammad Sháh, della dinastia Qájár 7, che io rappresento in qualità di primo magistrato della provincia. Deve forse Muhammad Sháh, secondo questa ingiunzione, deporre la corona e abdicare alla sua sovranità? Devo io pure rinunziare al mio potere e abbandonare la mia posizione? ». Mullá Sádiq rispose senz’esitare: « Quando la verità della Rivelazione annunziata dall’Autore di queste parole sarà stata definitivamente provata, sarà anche rivendicata la verità di tutto ciò che è uscito dalla Sua bocca. Se queste parole sono la parola di Dio, l’abdicazione di Muhammad Sháh e dei suoi pari conta ben poco: non può in alcun modo deviare il disegno Divino, né alterare la sovranità dell’onnipotente ed eterno Re ». 8

Il crudele ed empio governatore fu molto indignato da questa risposta. Insultò e maledisse Mullá Sádiq e ordinò ai suoi sgherri di strappargli le vesti e di somministrargli mille colpi di frusta. Comandò poi di bruciare la barba sia a Quddús sia a Mullá Sádiq, di forar loro il naso, di passare una corda attraverso il foro e di trascinarli con questa cavezza per le strade della città 9. « Sarà una lezione per il popolo di Shíráz », dichiarò Husayn Khán, « che saprà qual è la punizione degli eretici ». Mullá Sádiq, calmo e sereno, con gli occhi levati al cielo, recitò questa preghiera: « O Signore, Iddio nostro! Abbiamo udito la voce di Uno che chiamava. Egli ci chiamava alla Fede — “Credete nel Signore Iddio vostro!” —. E abbiamo creduto. O Dio, nostro Dio! Perdonaci dunque i nostri peccati, purificaci dalle nostre colpe e facci morire coi giusti ». 10 Con magnifica forza d’animo entrambi si rassegnarono al loro destino. Coloro che avevano avuto istruzione d’infliggere la selvaggia punizione assolsero il loro compito con alacrità e vigore. Nessuno intervenne in favore di questi poveretti, nessuno fu disposto a perorare la loro causa. Subito dopo, furono entrambi espulsi da Shíráz. Prima dell’espulsione, furono avvertiti che se mai si fossero azzardati a ritornare in città, sarebbero stati entrambi crocifissi. Con le loro sofferenze essi si guadagnarono il privilegio immortale di essere perseguitati per primi sul suolo persiano per amore della Fede. Mullá ‘Alíy-i-Bastámí, anche se fu il primo a cadere vittima dell’implacabile odio del nemico, subì la persecuzione in ‘Iraq, che si trova al di fuori dei confini della Persia. Inoltre le sue sofferenze, per quanto grandi, non possono paragonarsi all’orrore e alla crudeltà barbarica della tortura inflitta a Quddús e Mullá Sádiq.

Un testimone oculare di questo rivoltante episodio, un non credente che abitava a Shíráz, mi raccontò quanto segue: « Ero presente quando Mullá Sádiq fu fustigato. Vidi i suoi persecutori che a turno colpivano con la frusta le sue spalle sanguinanti e continuarono a colpire fino ad esserne esausti. Nessuno credeva che Mullá Sádiq, così avanti negli anni e così fragile di costituzione, potesse sopravvivere a cinquanta di quei colpi tanto violenti e selvaggi. Ci meravigliammo della sua forza d’animo quando vedemmo che, sebbene avesse già ricevuto più di novecento colpi di frusta, il suo volto conservava ancora la serenità e la calma iniziali. Un sorriso gli aleggiava sui volto, mentre si teneva la mano davanti alla bocca. Sembrava completamente insensibile ai colpi che gli piovevano addosso. Mentre veniva espulso dalla città, riuscii ad avvicinarlo: gli chiesi perché si fosse tenuto la mano davanti alla bocca ed espressi la mia sorpresa per il sorriso che aveva sul volto. Mi rispose con veemenza: “I primi sette colpi sono stati terribilmente dolorosi; agli altri mi sembrava di essere diventato insensibile. Mi chiedevo con stupore se i colpi successivi fossero veramente inflitti al mio corpo: un senso di gioiosa esultanza aveva invaso la mia anima. Tentavo di reprimere i miei sentimenti e di trattenere le risa. Capisco ora come l’Onnipotente Salvatore possa, in un batter d’occhio, tramutare la sofferenza in benessere e il dolore in gaudio. Immensamente eccelsa è la Sua potenza al di sopra e aldilà delle vane fantasie delle Sue creature mortali”. ». Mullá Sádiq, che incontrai anni dopo, confermò ogni dettaglio di questo commovente episodio.

L’ira di Husayn Khán non fu placata da questo castigo atroce e del tutto immeritato. La sua perversa e capricciosa crudeltà trovò ancora sfogo nell’attacco che diresse poi contro la persona del Báb 11. Inviò a Búshihr una scorta di guardie equestri di sua fiducia con tassative istruzioni di arrestare il Báb e di condurLo in catene a Shíráz. Il capo della scorta, un membro della comunità Nusayrí, meglio conosciuta come setta degli ‘Alíyu’lláhí, raccontò quanto segue: « Superata la terza tappa del nostro viaggio verso Búshihr, incontrammo, in aperta campagna, un giovane che portava una fascia verde e un piccolo turbante alla maniera dei siyyid che svolgono attività commerciali. Era a cavallo e lo seguiva un servo etiope che portava i suoi bagagli. Quando gli fummo vicini, ci salutò e ci chiese dove fossimo diretti. Pensai che fosse meglio nascondergli la verità e risposi che avevamo avuto dal governatore del Fárs l’ordine di compiere una certa inchiesta nelle vicinanze. Sorridendo, egli osservò: « Il governatore vi ha mandati ad arrestare Me. EccoMi; fate di Me quel che volete. Venendovi incontro, ho abbreviato la vostra marcia e vi ho aiutati a trovarMi più facilmente ». Fui stupito dalle sue osservazioni e mi meravigliai del suo candore e della sua franchezza. Ma non riuscii a spiegarmi come mai fosse pronto ad assoggettarsi spontaneamente alla severa disciplina dei funzionari governativi e a mettere così a repentaglio la propria vita e la propria incolumità. Cercai d’ignorano e stavo accingendomi a partire, quando egli mi s’avvicinò e disse: “Giuro, in nome della giustizia di Colui che ha creato l’uomo, l’ha distinto dal resto delle creature e ha fatto del suo cuore il seggio della Sua sovranità e della Sua sapienza, che in tutta la vita non ho detto altro che la verità e non ho avuto altro desiderio che il benessere e la prosperità dei Miei simili. Ho disdegnato il Mio proprio vantaggio e ho evitato d’essere causa di pena o dolore per gli altri. So che tu stai cercando Me. Preferisco consegnarMi nelle tue mani, piuttosto che esporre te e i tuoi compagni a un’inutile molestia per causa Mia”. Queste parole mi commossero profondamente. Istintivamente scesi da cavallo e, baciando le sue staffe, gli rivolsi queste parole: “O luce degli occhi del Profeta di Dio! Ti scongiuro, per Colui che t’ha creato e t’ha donato tale nobiltà e forza, di esaudire la mia richiesta e di rispondere alla mia preghiera. Ti imploro: fuggi da qui; evita Husayn Khán, lo spietato e spregevole governatore di questa provincia. Temo le sue macchinazioni contro di te; mi ribello all’idea di divenire lo strumento dei suoi malvagi disegni contro un così innocente e nobile discendente del Profeta di Dio. I miei compagni sono tutti uomini d’onore, mantengono la parola data. S’impegneranno a non tradire la tua fuga. Ti prego, va nella città di Mashhad nel Khurásán ed evita di cadere vittima della brutalità di questo lupo crudele”. Alla mia ardente implorazione, egli così rispose: “Possa il Signore Iddio tuo ricompensarti per la tua magnanimità e la tua nobile intenzione. Nessuno conosce il mistero della Mia Causa; nessuno può penetrarne i segreti. Mai volgerò le spalle al decreto di Dio. Egli solo è la Mia Roccaforte sicura, la Mia Dimora e il Mio Rifugio. Finché non sarà giunta la Mia ultima ora, nessuno oserà assalirMi, nessuno può frustrare il piano dell’Onnipotente. E quando sarà giunta la Mia ora, grande sarà la Mia gioia nel vuotare la coppa del martirio in Suo nome! EccoMi; consegnaMi nelle mani del tuo padrone. Non temere; nessuno ti biasimerà”. Chinai il capo in segno d’assenso ed esaudii il suo desiderio ».

Il Báb riprese subito il viaggio per Shíráz. Libero e senza catene andava davanti alla scorta, che Lo seguiva in atteggiamento di rispettosa devozione. Con l’incanto delle Sue parole, aveva placato l’ostilità delle guardie e tramutato la loro orgogliosa arroganza in umile amore. Giunti in città, andarono direttamente alla residenza del governo. Chi vide quel gruppo a cavallo marciare per le strade non poté non meravigliarsi di quell’insolito spettacolo. Appena Husayn Khán fu informato dell’arrivo del Báb, Lo convocò alla sua presenza. Lo ricevette con grande insolenza e Gli ordinò di sedersi di fronte a lui al centro della stanza. Lo rimproverò davanti a tutti e con linguaggio ingiurioso denunziò la Sua condotta. « Capisci » protestò furente, « che guaio hai provocato? Comprendi che vergogna sei diventato per la santa Fede dell’Islám e per l’augusta persona del nostro sovrano? Non sei tu l’uomo che pretende di essere l’autore di una nuova rivelazione che annulla i sacri precetti del Corano? ». Il Báb rispose con calma: « Se viene a voi qualche malvagio a portarvi una notizia, accertatevi prima della sua verità, a che non abbiate a offendere qualcuno per ignoranza e pentirvi poi di quel che avete fatto » 12. Queste parole infiammarono l’ira di Husayn Khán. « Cosa! », esclamò, « Osi attribuirci malvagità, ignoranza e follia? ». Rivoltosi al suo servitore, gli ordinò di colpire il Báb al volto. Così violento fu il colpo, che il turbante del Báb cadde al suolo. Shaykh Abú-Turáb, l’Imám-Jum‘ih di Shíráz, che era presente alla riunione, disapprovò vivacemente la condotta di Husayn Khán; ordinò che rimettessero in testa al Báb il Suo turbante e Lo invitò a sederSi accanto a sé. Rivolgendosi al governatore, l’Imám-Jum‘ih gli spiegò i particolari della rivelazione del versetto del Corano che il Báb aveva citato e cercò in questo modo di placare la sua furia. « Il versetto che questo giovane ha citato », gli disse, « ha prodotto una profonda impressione su di me. Il modo d’agire più saggio, penso, è quello di esaminare l’argomento con grande cura e di giudicarlo secondo i precetti del Libro santo ». Husayn Khán acconsentì prontamente; e pertanto Shaykh Abú-Turáb interrogò il Báb sulla natura e sul carattere della Sua Rivelazione. Il Báb negò la pretesa d’essere sia il rappresentante del promesso Qá’im sia l’intermediario tra Lui e i fedeli. « Siamo completamente soddisfatti », rispose l’Imám-Jum‘ih; « ti chiederemo di presentarti venerdì nel Masjid-i-Vakíl per proclamare in pubblico la tua smentita ». Quando Shaykh Abú-Turáb si alzò per andarsene nella speranza di porre fine al processo, Husayn Khán intervenne e disse: « Chiederemo a una persona che goda di buona reputazione di dare una cauzione e fare da garante per lui e di dare la parola per iscritto che se mai nel futuro questo giovane dovesse tentare con parole od opere di nuocere agl’interessi sia della Fede dell’Islám sia del governo di questo paese, egli lo consegnerà subito nelle nostre mani e si riterrà in ogni circostanza responsabile del suo comportamento ». Hájí Mirza Siyyid ‘Alí, zio materno del Báb, che era presente alla riunione, acconsentì di fare da garante per il Nipote. Di propria mano scrisse l’impegno, appose il suo sigillo, lo confermò con la firma di un certo numero di testimoni e lo consegnò al governatore. Allora Husayn Khán ordinò che il Báb venisse affidato alle cure di Suo zio, a condizione che Hájí Mirza Siyyid ‘Alí consegnasse immediatamente il Báb nelle sue mani, in qualsiasi momento egli lo avesse ritenuto opportuno.

Hájí Mirza Siyyid ‘Alí, con il cuore colmo di gratitudine a Dio, condusse il Báb in casa sua e Lo affidò alle amorevoli cure della Sua riverita madre. Questa riunione di famiglia lo rallegrò e la liberazione del suo caro e prezioso Congiunto dalle mani di quel selvaggio tiranno fu un grande sollievo per lui. Nella quiete della Propria casa, il Báb condusse per un po’ di tempo una vita di indisturbato ritiro. Nessuno, tranne la moglie, la madre e gli zii, ebbe alcun contatto con Lui. Nel frattempo gl’intriganti fecero forti pressioni su Shaykh Abú-Turáb, perché convocasse il Báb nel Masjid-i-Vakíl e Lo invitasse a mantenere la promessa.

Shaykh Abú-Turáb era noto per l’animo gentile e perché il suo temperamento e la sua natura erano molto simili a quelli del defunto Mirza Abu’l-Qásim, l’Imám-Jum‘ih di Tihrán. Era estremamente riluttante a trattare con insolenza persone di buona reputazione, soprattutto se erano abitanti di Shíráz. Sentiva per istinto che questo era il suo dovere, lo osservava con coscienziosità ed era di conseguenza universalmente stimato dalla gente della città. Egli perciò cercò, con risposte evasive e

ripetuti rinvii, di placare l’indignazione della moltitudine. Ma s’accorse che coloro ai quali piaceva fomentare discordie e sedizioni stavano facendo di tutto per infiammare ancor più il risentimento generale che aveva colto le masse. Alla fine si sentì costretto a inviare un messaggio confidenziale a Hájí Mirza Siyyid ‘Alí, chiedendogli di condurre con sé il Báb al Masjid-i-Vakíl il venerdì successivo, sí che Questi potesse mantenere la promessa fatta. « Spero », aggiunse, « che, con l’aiuto di Dio, le affermazioni di tuo nipote possano allentare la tensione e portare tanto alla vostra quanto alla nostra tranquillità ».

Il Báb, accompagnato da Hájí Mirza Siyyid ‘Alí, arrivò al Masjid proprio nel momento in cui l’Imám-Jum‘ih, che era appena salito sul pulpito, si stava accingendo a pronunziare il sermone. Questi, non appena vide il Báb, Gli dette pubblicamente il benvenuto, Lo invitò a salire sul pulpito e Gli chiese di parlare alla congregazione. Il Báb, accogliendo il suo invito, andò verso di lui e, rimanendo sul primo gradino della scala, Si accinse a parlare alla gente. « Vieni più in alto », interloquì l’Imám-Jum‘ih. Assecondando il suo desiderio, il Báb sali altri due gradini. Rimase in piedi e il Suo capo copriva il petto di Shaykh Abú-Turáb, il quale era in cima al pulpito. Incominciò a parlare, premettendo alla Sua dichiarazione pubblica un discorso introduttivo. Aveva appena pronunziato le parole iniziali: « Sia lodato Iddio, che ha in verità creato i cieli e la terra », quando un certo siyyid, conosciuto come Siyyid-i-Shish-Parí, che aveva la funzione di portare la mazza di fronte all’Imám-Jum‘ih, gridò con insolenza: « Basta con queste sciocche chiacchiere! Dichiara, ora e immediatamente, ciò che intendi dire ». L’Imám-Jum‘ih si risenti molto per la durezza dell’osservazione del siyyid. « Sta zitto », lo rimproverò, « e vergognati della tua impertinenza! ». Poi, rivolto al Báb, Gli chiese di essere breve, perché questo, disse, avrebbe calmato l’eccitazione della gente. Il Báb, guardando la congregazione, dichiarò: « La condanna di Dio ricada su colui che mi considera il rappresentante dell’Imám o la porta che a lui conduce. La condanna di Dio ricada anche su chiunque mi accusi d’aver negato l’unità di Dio, d’aver ripudiato la dignità profetica di Muhammad, Sigillo dei Profeti, d’aver respinto la verità di uno qualsiasi tra i messaggeri del passato o d’essermi rifiutato di riconoscere l’autorità tutoria di ‘Ali, Comandante dei Fedeli, o di uno qualsiasi degli Imám che gli sono succeduti ». Sali poi in cima alla scala, abbracciò l’Imám-Jum‘ih e, sceso a terra, Si unì alla congregazione per recitare la preghiera del venerdì. L’Imám-Jum‘ih intervenne e Gli chiese di ritirarSi. « La tua famiglia », disse, « sta aspettando con ansia il tuo ritorno. Sono tutti preoccupati che ti possa accadere qualcosa di male. Ritorna a casa e recita lì la preghiera; maggior merito avrà questo atto agli occhi di Dio ». L’Imám-Jum‘ih invitò Hájí Mirza Siyyid ‘Alí, ad accompagnare a casa il nipote. Questa misura precauzionale che Shaykh Abú-Turáb ritenne saggio prendere, fu motivata dal timore che, dopo lo scioglimento della congregazione, alcuni malintenzionati tra la folla potessero ancora tentare di offendere la persona del Báb o di attentare alla Sua vita. Se non fosse stato per la sagacia, la simpatia e la sollecita attenzione che l’Imám-Jum‘ih così chiaramente dimostrò in occasioni come questa, la marmaglia infuriata sarebbe stata portata senza dubbio a soddisfare il suo selvaggio desiderio e avrebbe perpetrato gli eccessi più abominevoli. Pareva ch’egli fosse lo strumento della Mano invisibile, prescelto per proteggere la persona e la Missione di quel Giovane 13.

Il Báb ritornò a casa e per un certo periodo poté condurre, nella intimità della Sua casa e in stretta unione con la Sua famiglia e il Suo parentado, una vita di relativa tranquillità. In quei giorni celebrò l’avvento del primo Naw-Rúz dopo la Dichiarazione della Sua Missione. La festa cadde, quell’anno, il decimo giorno del mese di Rabí‘u’l-Avval, 1261 A.H. 14

Alcuni tra coloro che in quella memorabile occasione erano nel Masjid-i-Vakíl e che sentirono le affermazioni del Báb furono molto colpiti dal modo magistrale in cui il Giovane era riuscito, con i Suoi soli mezzi, a far tacere i temibili oppositori. Subito dopo questo avvenimento, essi giunsero tutti a comprendere la realtà della Sua Missione e a riconoscerne la gloria. Tra loro vi era Shaykh ‘Alí Mirza, nipote dello stesso Imám-Jum‘ih, un giovanotto che aveva appena raggiunto la maggiore età. Il seme piantato nel suo cuore crebbe e si sviluppò, finché nell’anno 1267 A.H. 15 egli ebbe il privilegio d’incontrare Bahá’u’lláh in ‘Iraq. Quella visita lo colmò di entusiasmo e di gioia. Ritornato in patria molto rinvigorito, riprese con maggior alacrità il lavoro per la Causa. Da quell’anno fino ad oggi, egli ha perseverato nel suo compito ed è divenuto famoso per la rettitudine del carattere e la generosa devozione al governo e al paese. Di recente è giunta in Terra Santa una lettera indirizzata da lui a Bahá’u’lláh, in cui egli esprime la sua entusiastica soddisfazione per il progresso della Causa in Persia. « Sono ammutolito per lo stupore », scrive, « quando vedo i segni dell’invincibile forza di Dio palesi tra la gente del mio paese. In una terra che ha per anni così selvaggiamente perseguitato la Fede, un uomo conosciuto per quarant’anni in tutta la Persia come Bábí è stato nominato arbitro unico in una controversia che coinvolge, da una parte, lo Zillu’s-Sultán, tirannico figlio dello Scià e giurato nemico della Causa, e, dall’altra, Mirza Fath-‘Alí Khán, il Sáhib-i-Díván. stato pubblicamente annunziato che il verdetto di questo Bábí, qualunque esso sia, sarà accettato senza riserve da ambe le parti e sarà applicato senza esitazioni ».

Anche un certo Muhammad-Karím, che era nella congregazione quel venerdì, fu attratto dallo straordinario comportamento del Báb in quell’occasione. Ciò che vide e senti quel giorno determinò la sua immediata conversione. La persecuzione lo condusse fuori dalla Persia in ‘Iraq, dove, alla presenza di Bahá’u’lláh, continuò ad approfondire la sua comprensione e la sua fede. Più tardi ebbe da Lui l’ordine di ritornare a Shíráz e di fare tutto il possibile per propagare la Causa. Là egli rimase e lavorò fino alla fine dei suoi giorni.

Un altro ancora fu Mirza Áqáy-i-Rikáb-Sáz. A tal punto s’innamorò del Báb quel giorno, che nessuna persecuzione, per quanto terribile e prolungata, poté scuotere le sue convinzioni o oscurare la radiosità del suo amore. Anch’egli giunse alla presenza di Bahá’u’lláh in ‘Iraq. In risposta alle domande che fece, sull’interpretazione delle Lettere Staccate del Corano e sul significato del Versetto di Núr, ebbe il privilegio di ricevere una Tavola rivelata dalla penna di Bahá’u’lláh scritta espressamente per lui. Alla fine morì martire sul Suo sentiero.

Tra loro vi era anche Mirza Rahím-i-Khabbáz, che si distinse per l’intrepidezza e l’infocato ardore. Egli non cessò di adoperarsi per la Causa fino all’ora della morte.

Hájí Abu’l-Hasan-i-Bazzáz, il quale, benché fosse stato compagno di viaggio del Báb durante il Suo pellegrinaggio in Hijáz, aveva solo confusamente riconosciuto l’irresistibile maestà della Sua Missione, fu, quel memorabile venerdì, profondamente scosso e completamente trasformato. Concepì un tale amore per il Báb che, sopraffatto da un sentimento di devozione, scoppiò in lacrime. Tutti coloro che lo conobbero ne ammirarono la rettitudine e ne lodarono la benevolenza e il candore. Egli e i suoi due figli hanno provato con i fatti la tenacia della loro fede e si sono conquistati la stima dei confratelli.

E ancora un altro di coloro che subirono il fascino del Báb quel giorno fu il defunto Hájí Muhammad-Bisát, uomo versato negl’insegnamenti metafisici dell’Islám e grande ammiratore di Shaykh Ahmad e Siyyid Kázim. Costui aveva un animo gentile ed era dotato di un acuto senso dell’umorismo. Si era accattivato l’amicizia dell’Imám-Jum‘ih, era suo intimo amico e partecipava assiduamente alla preghiera collettiva del venerdì.

Il Naw-Rúz di quell’anno, foriero dell’avvento di una nuova primavera, simboleggiò anche quella rinascita spirituale, le cui prime avvisaglie si potevano scorgere in ogni angolo del paese. Alcuni tra gli uomini più eminenti e dotti di quella terra emersero dall’invernale desolazione dell’indifferenza e furono ridestati dalla brezza vivificatrice della neonata Rivelazione. Dai semi che la Mano dell’Onnipotenza aveva piantato nel loro cuore germogliarono fiori dalla purissima e deliziosa fragranza 16. Quando la brezza della Sua bontà e della Sua tenera misericordia spirò su questi fiori, la forza penetrante del loro profumo si sparse in ogni luogo per tutte quelle contrade. Si diffuse persino oltre i confini della Persia. Giunse a Karbilá e ridestò l’anima di coloro che aspettavano ansiosi il ritorno del Báb nella città. Subito dopo Naw-Rúz, ricevettero da Basrih un’epistola del Báb; Egli che S’era proposto di passare per Karbilá, al Suo ritorno dallo Hijáz in Persia, con questa li informava che aveva cambiato i Suoi piani e non poteva pertanto mantenere la promessa. Ordinava loro di andare a Isfáhán e di rimanerci finché non avessero ricevuto ulteriori istruzioni. « Se sarà opportuno », aggiungeva, « vi pregheremo di proseguire per Shíráz; altrimenti, aspettate a Isfáhán fino al momento in cui Iddio vi renderà nota la Sua volontà e la Sua guida ».

L’arrivo di questa inaspettata notizia creò gran confusione tra coloro che stavano ansiosamente aspettando l’arrivo del Báb a Karbilá. Agitò la loro mente e ne mise alla prova la lealtà. « E la promessa che ci ha fatto? » sussurrarono alcuni di coloro che erano scontenti. « Considera forse la rottura della Sua promessa come un’interposizione della volontà di Dio? ». Gli altri, diversamente da questi dubbiosi, divennero più saldi nella fede e si aggrapparono con maggior determinazione alla Causa. Fedeli alloro Maestro, risposero con gioia al Suo invito, ignorando completamente le critiche e le proteste di coloro la cui fede aveva vacillato. Partirono per Isfáhán, decisi ad attenersi alla volontà e al desiderio del loro Amato, qualsiasi fossero. Ad essi si unirono alcuni compagni, i quali, sebbene la loro fede fosse stata molto scossa, celarono i loro sentimenti. Mirza Muhammad-‘Alíy-i-Nahrí, la cui figlia fu in seguito unita in matrimonio al Più Grande Ramo, e Mirza Hádí, fratello di Mirza Muhammad-‘Alí, che abitavano entrambi a Isfáhán, furono tra quei compagni la cui visione della gloria e della sublimità della Fede, i dubbi espressi dai maldicenti non riuscirono a oscurare. Tra questi vi era anche un certo Muhammad-i-Haná-Sáb, che abitava anch’egli a Isfáhán, e che ora serve nella casa di Bahá’u’lláh. Alcuni di questi fidi compagni del Báb parteciparono alla grande battaglia di Shaykh Tabarsí e sfuggirono miracolosamente al tragico destino dei loro fratelli caduti.

Durante il viaggio verso Isfáhán, essi incontrarono, nella città di Kangávar, Mullá Husayn con il fratello e il nipote che l’avevano accompagnato nella sua precedente visita a Shíráz, e che erano diretti a Karbilá. Furono molto lieti di questo inatteso incontro e chiesero a Mullá Husayn di prolungare la sua permanenza a Kangávar, richiesta ch’egli prontamente accettò. Mullá Husayn, che, mentre era in città, guidava i compagni del Báb nella preghiera collettiva del venerdì, era tenuto in tale considerazione e riverenza dai condiscepoli che alcuni dei presenti, i quali più tardi, a Shíráz, rivelarono la loro slealtà verso la Fede, furono mossi a invidia. Tra costoro c’erano Mullá Javád-i-Baraghání e Mullá ‘Abdu’l-‘Alíy-i-Haratí, i quali finsero entrambi sottomissione alla Rivelazione del Báb nella speranza di soddisfare la propria ambizione di comando. Entrambi cercarono segretamente d’indebolire l’invidiabile posizione raggiunta da Mullá Husayn. Con allusioni e insinuazioni, si adoprarono ostinatamente per mettere in discussione la sua autorità e gettare la vergogna sul suo nome.

Ho sentito Mirza Ahmad-i-Kátib, meglio conosciuto in quei giorni come Mullá ‘Abdu’l-Karím, che era stato compagno di viaggio di Mullá Javád da Qazvín, raccontare quel che segue: « Nelle sue conversazioni con me Mullá Javád accennò spesso a Mullá Husayn. Le sue ripetute osservazioni denigratorie, espresse con astute parole, mi costrinsero a interrompere i rapporti con lui. Ogni volta che decisi di troncare i rapporti con Mullá Javád, me lo impedì Mullá Husayn, il quale, scoperta la mia intenzione, mi consigliò più volte di portare pazienza con lui. La presenza di Mullá Husayn accrebbe moltissimo lo zelo e l’entusiasmo dei leali compagni del Báb. Essi furono edificati dal suo esempio e furono tutti presi d’ammirazione per le brillanti qualità di mente e di cuore che distinguevano quel condiscepolo così eminente ».

Mullá Husayn decise di unirsi al gruppo dei suoi amici e di andare con loro a Isfáhán. Viaggiava da solo, precedendo i compagni pressappoco di un farsakh 17; e quando al cader della notte si fermava per dire la preghiera veniva da essi raggiunto e, in loro compagnia, completava le devozioni. Era sempre il primo a riprendere il viaggio e veniva nuovamente raggiunto dalla pia schiera all’ora dell’alba, quando interrompeva ancora una volta il cammino per dire la preghiera. Soltanto quando i suoi amici insistevano, acconsentiva a prendere parte al culto collettivo. In quelle occasioni a volte seguiva la guida di uno dei compagni. Tale era la devozione che egli aveva acceso in quei cuori, che alcuni dei suoi compagni di viaggio abbandonarono i cavalli, li offrirono a coloro che viaggiavano a piedi e lo seguirono completamente indifferenti ai disagi e alle fatiche della marcia.

Quando furono vicini ai sobborghi di Isfáhán, Mullá Husayn, temendo che l’arrivo di un gruppo così numeroso di persone potesse suscitare la curiosità e il sospetto degli abitanti, consigliò ai compagni di viaggio di separarsi e di entrare dalle porte della città in piccoli gruppi poco appariscenti. Pochi giorni dopo il loro arrivo, giunse la notizia che Shíráz era in uno stato di violenta agitazione, che ogni sorta di rapporto col Báb era proibito e che la visita che avevano progettato di fare alla città era piena dei più gravi pericoli. Mullá Husayn, per nulla intimorito da quest’inattesa notizia, decise di proseguire per Shíráz. Informò della sua intenzione solo pochi tra i suoi fidi compagni. Messe da parte le vesti e il turbante e indossata la jubbih e il kuláh 18 della gente del Khurásán, travestitosi da cavaliere di Hizárih e Qúchán, parti, accompagnato dal fratello e dal nipote, a un’ora inaspettata per la città del suo Diletto.

Avvicinandosi alle porte della città, incaricò il fratello di andare nel cuore della notte a casa dello zio materno del Báb e di chiedergli che informasse il Báb del suo arrivo. Mullá Husayn ricevette, il giorno successivo, la gradita notizia che Hájí Mirza Siyyid ‘Alí l’aspettava un’ora dopo il tramonto fuori delle porte della città. Mullá Husayn lo incontrò all’ora stabilita e fu da lui condotto nella sua casa. Molte volte il Báb onorò con la Sua presenza quella casa e rimase con Mullá Husayn fino allo spuntar del giorno. Subito dopo, Egli dette il permesso ai compagni che si erano riuniti a Isfáhán di partire alla spicciolata per Shíráz e di attendere là finché non avrebbe potuto incontrarli. Li consigliò di essere molto cauti, disse loro di entrare dalla porta della città pochi per volta e li invitò a separarsi, appena arrivati, sistemandosi nei quartieri riservati ai viaggiatori e ad accettare qualsiasi lavoro avessero trovato.

Il primo gruppo che giunse in città e incontrò il Báb, pochi giorni dopo l’arrivo di Mullá Husayn, era costituito da Mirza Muhammad-‘Alíy-i-Nahrí, Mirza Hádí suo fratello; Mullá ‘Abdu’l-Karím-i-Qazvíní, Mullá Javád-i-Baraghání, Mullá ‘Abdu’l-‘Alíy-i-Haratí e Mirza Ibráhím-i-Shírází. Nel periodo in cui ebbero contatti con Lui, gli ultimi tre del gruppo tradirono poco alla volta la cecità del loro cuore e dimostrarono la bassezza del loro carattere. I segni molteplici del crescente favore del Báb verso Mullá Husayn suscitarono la loro rabbia e attizzarono il fuoco represso della loro gelosia. Nella loro rabbia impotente, ricorsero alle abiette armi della frode e della calunnia. Non potendo dapprima manifestare apertamente la loro ostilità contro Mullá Husayn, cercarono con ogni abile stratagemma d’ingannare la mente e di sMirzare gli affetti dei suoi devoti ammiratori. Questo indegno comportamento alienò loro la simpatia dei credenti e ne affrettò la separazione dalle schiere dei fedeli. Espulsi per i loro stessi atti dal seno della Fede, si allearono con i suoi nemici dichiarati e proclamarono il loro totale rifiuto delle sue affermazioni e dei suoi princìpi. Così grande fu il subbuglio che crearono tra la popolazione della città che alla fine vennero scacciati dalle autorità civili, che disprezzavano e insieme temevano i loro complotti. Il Báb in una Tavola, in cui parlò a lungo delle loro macchinazioni e malefatte, li paragonò al vitello del Sámirí, il vitello che non aveva né voce né anima e che era ad un tempo l’opera abietta e l’oggetto dell’adorazione di un popolo perverso. « Possa la Tua condanna, o Dio! » scrisse, riferendosi a Mullá Javád e a Mullá ‘Abdu’l-‘Alí, « cadere su Jibt e Tághút 19, gl’idoli gemelli di questo popolo perverso ». Tutti e tre andarono in seguito a Kirmán e unirono le loro forze a quelle di Hájí Mirza Muhammad-Karím Khán, i cui disegni agevolarono e la veemenza delle cui denuncie s’ingegnarono di rafforzare.

Una notte dopo la loro espulsione da Shíráz, il Báb, mentre era in visita nella casa di Hájí Mirza Siyyid ‘Alí, dove aveva convocato Mirza Muhammad-‘Alíy-i-Nahrí, Mirza Hádí e Mullá ‘Abdu’l-Karím-i-Qazvíní, Si volse d’improvviso a quest’ultimo e disse: « ‘Abdu’l-Karím, stai tu cercando la Manifestazione? ». Queste parole, pronunciate con calma ed estrema gentilezza, ebbero un effetto sconvolgente su costui. A questa improvvisa domanda, impallidì e scoppiò in lacrime. Si gettò ai piedi del Báb in uno stato di profonda agitazione. Il Báb lo prese amorevolmente tra le braccia, gli baciò la fronte e lo invitò a sedersi accanto a Sé. Con parole di tenero affetto, riuscì a placare il tumulto del suo cuore.

Appena giunti a casa, Mirza Muhammad-‘Alí e suo fratello chiesero a Mullá ‘Abdu’l-Karím la ragione del violento turbamento che l’aveva improvvisamente colto. « Ascoltatemi », questi rispose, « vi racconterò la storia di una strana esperienza, una storia che non ho raccontato a nessuno fino a questo momento. Quando giunsi alla maggiore età, sentii, mentre abitavo a Qazvín, un profondo desiderio di svelare il mistero di Dio e di comprendere la natura dei Suoi santi e dei Suoi profeti. Soltanto l’acquisizione del sapere, compresi, poteva permettermi di raggiungere la meta. Riuscii ad ottenere il consenso di mio padre e dei miei zii a che abbandonassi gli affari, e m’immersi immediatamente nello studio e nella ricerca. Presi una stanza in una delle madrisih di Qazvín e concentrai i miei sforzi nell’acquisizione di ogni branca accessibile del sapere umano. Spesso discutevo coi miei condiscepoli il sapere acquisito, cercando in questo modo di arricchire le mie esperienze. Di notte, mi ritiravo in casa e, nella solitudine della mia biblioteca, dedicavo indisturbato molte ore allo studio. Ero così immerso nei miei lavori che divenni insensibile al sonno e alla fame. Avevo deciso di impadronirmi entro due anni dei problemi più intricati della giurisprudenza e della teologia musulmane. Ero un assiduo frequentatore delle conferenze tenute da Mullá ‘Abdu’l-Karím-i-Íravání, il quale, a quei tempi, era il più eminente teologo di Qazvín. Ammiravo molto la sua vasta erudizione, la sua pietà e la sua virtù. Durante il periodo in cui fui suo discepolo, dedicai le mie notti a scrivere trattati che gli presentavo e che egli correggeva con cura e interesse. Pareva che fosse molto compiaciuto dei miei progressi, e spesso lodava la mia grande cultura e i miei eccellenti risultati. Un giorno, in presenza dei discepoli riuniti, dichiarò: “Il dotto e sagace Mullá ‘Abdu’l-Karím è divenuto idoneo a spiegare autorevolmente le sacre Scritture dell’Islám. Non ha più bisogno di frequentare né le mie classi né quelle dei miei pari. Se Dio vorrà, celebrerò la sua investitura al rango di mujtahid la mattina di venerdì prossimo e gli consegnerò il suo certificato dopo la preghiera collettiva”.

« Non appena Mullá ‘Abdu’l-Karím ebbe detto queste parole e si fu allontanato, i suoi discepoli vennero avanti e si congratularono cordialmente con me per i miei risultati. Ritornai a casa tutto fiero. Al mio arrivo trovai che mio padre e il più anziano dei miei zii, Hájí Husayn-‘Alí, che erano entrambi molto stimati in tutta Qazvín, stavano preparando una festa in mio onore, con cui intendevano celebrare il completamento dei miei studi. Chiesi loro di posporre l’invito che avevano fatto ai notabili di Qazvín fino a un ulteriore cenno da parte mia. Acconsentirono di buon grado, credendo che, nel mio entusiasmo per una simile festa, non l’avrei indebitamente posposta. Quella notte mi ritirai in biblioteca e, nell’intimità della mia cella, meditai in cuor mio i seguenti pensieri: Non ti eri ingenuamente immaginato, dissi a me stesso, che solo chi fosse santificato nello spirito poteva sperare di giungere al rango di interprete autorevole delle sacre Scritture dell’Islám? Non credevi che chi giungesse a questo grado dovesse essere immune da errore? Non sei già nel novero di coloro che occupano quel rango? Il più illustre teologo di Qazvín non ha forse riconosciuto e dichiarato che tale tu sei? Sii giusto. Ritieni in cuor tuo d’aver raggiunto quello stato di purezza e di sublime distacco che nei giorni passati consideravi il requisito di chi aspira a conseguire quel grado elevato? E pensi d’essere libero da ogni traccia di desiderio egoistico? Mentre sedevo e meditavo, il sentimento della mia indegnità gradualmente mi sopraffece. Riconobbi di essere ancora vittima di affanni e perplessità, di tentazioni e dubbi. Ero oppresso dal pensiero di come condurre le mie classi, come guidare la mia congregazione nella preghiera, come applicare le leggi e i precetti della Fede. Mi sentivo ansioso per come avrei adempiuto i miei doveri, come avrei potuto ottenere risultati superiori a quelli di coloro che mi avevano preceduto. Ero sopraffatto da un tale senso di umiliazione che mi sentii spinto a chiedere perdono a Dio. Il tuo scopo nell’acquisire tutto questo sapere, pensai tra me, era stato quello di svelare il mistero di Dio e di raggiungere lo stadio della certezza. Sii giusto. Sei sicuro della tua interpretazione del Corano? Sei certo che le leggi che promulghi riflettano la volontà di Dio? La consapevolezza dell’errore improvvisamente si fece strada dentro di me. Compresi per la prima volta come la ruggine del sapere avesse corroso la mia anima e offuscato il mio intuito. Mi dolsi del passato e deplorai la futilità dei miei sforzi. Seppi che la gente del mio rango era soggetta alle stesse afflizioni. Appena acquisito il cosiddetto sapere, essi proclamavano d’essere gli interpreti della legge dell’Islám e si arrogavano il privilegio esclusivo di pronunziarsi sulla sua dottrina.

« Rimasi assorto nei miei pensieri fino all’alba. Quella notte non dormii e non mangiai. Talora rivolgevo lo spirito a Dio dicendo: “Tu mi vedi, o mio Signore, e vedi il mio stato. Sai che non ho altro desiderio tranne la Tua santa volontà e il Tuo compiacimento. Mi perdo nello smarrimento pensando alla moltitudine di sètte in cui la Tua santa Fede è divisa. Sono molto perplesso quando vedo gli scismi che hanno lacerato le religioni del passato. Mi guiderai nelle mie perplessità e mi libererai dai miei dubbi? Dove mi devo volgere per trovare consolazione e guida?” Piansi cos amaramente quella notte che pareva avessi perduto i sensi. Ad un tratto mi apparve una grande adunanza di persone, l’espressione dei cui volti radiosi mi colpì molto. Una nobile figura, abbigliata alla maniera dei siyyid, occupava un seggio sul pulpito di fronte alla congregazione. Egli stava spiegando il significato di questo sacro versetto del Corano: “Chi fa sforzi per Noi, nelle Nostre vie Noi li guideremo”. Fui affascinato dal suo volto. Mi alzai, andai verso di lui ed ero sul punto di gettarmi ai suoi piedi quando la visione improvvisamente svanì. Il mio cuore fu inondato di luce. La mia gioia fu indescrivibile.

« Decisi immediatamente di consultare Hájí Alláh-Vardí, padre di Muhammad-Javád-i-Farhádí, uomo noto in tutta Qazvín per la sua profonda intuizione spirituale. Quando gli raccontai la mia visione, egli sorrise e con precisione straordinaria mi descrisse i tratti particolari del Siyyid che mi era apparso. “Quella nobile figura”, aggiunse, “era Hájí Siyyid Kázim-i-Rashtí, che è ora a Karbilá e che si può vedere ogni giorno spiegare ai discepoli i sacri insegnamenti dell’Islám. Chi ascolta i suoi discorsi è rinvigorito ed edificato da ciò che egli dice. Non potrò mai descrivere l’effetto che le sue parole hanno sui suoi ascoltatori”. Mi alzai lietamente ed, esprimendogli i miei sentimenti di profonda gratitudine, mi ritirai a casa e mi misi subito in viaggio per Karbilá. I miei condiscepoli vennero a scongiurarmi di andare a far visita di persona al dotto Mullá ‘Abdu’l-Karím, che aveva espresso il desiderio d’incontrarmi, o di permettergli di venire a casa mia. “Sento l’impulso”, risposi, “di visitare il mausoleo dell’Imám Husayn a Karbilá. Ho fatto voto di partire immediatamente in pellegrinaggio. Non posso differire la partenza. Se potrò, gli farò visita per pochi istanti al momento di lasciare la città. Altrimenti, lo pregherò di scusarmi e di pregare per me, che io possa essere guidato sul retto sentiero”.

« Confidai in segreto ai miei parenti il contenuto della mia visione e la sua interpretazione. Li informai del mio progetto di visitare Karbilá. Le parole che rivolsi loro quel giorno istillarono nel loro cuore l’amore per Siyyid Kázim. Essi si sentirono molto attratti verso Hájí Alláh-Vardí, lo frequentarono liberamente e divennero suoi ferventi ammiratori.

« Mi accompagnò nel viaggio a Karbilá mio fratello ‘Abdu’l-Hamíd [che più tardi vuotò la coppa del martirio a Tihrán]. Là incontrai Siyyid Kázim e rimasi attonito quando lo sentii dissertare davanti ai suoi discepoli riuniti nelle stesse circostanze in cui mi era apparso nella mia visione. Fui stupefatto quando scoprii, al mio arrivo, che stava spiegando il significato dello stesso versetto che stava interpretando ai discepoli quando mi era apparso. Sedutomi ad ascoltarlo, fui molto colpito dalla forza delle sue argomentazioni e dalla profondità dei suoi pensieri. Egli mi accolse con benevolenza e mi trattò con la massima gentilezza. Mio fratello e io sentimmo entrambi un’intima gioia che non avevamo mai provato prima. All’alba andavamo solleciti a casa sua e lo accompagnavamo a visitare il mausoleo dell’Imám Husayn.

« Trascorsi tutto l’inverno in stretta intimità con lui. Durante tutto quel periodo, frequentai fedelmente le sue classi. Ogni volta che ascoltavo un suo discorso, lo sentivo descrivere un particolare aspetto della manifestazione del promesso Qá’im. Questo tema costituiva il solo argomento delle sue lezioni. Qualsiasi versetto o tradizione gli capitasse di spiegare, invariabilmente concludeva la spiegazione con una notizia particolare sull’avvento della Rivelazione promessa. “Il Promesso”, egli dichiarò apertamente più volte, “vive in mezzo a questa gente. Il momento stabilito per la Sua apparizione si sta rapidamente avvicinando. PreparateGli la strada e purificatevi, sí che possiate riconoscere la Sua bellezza. Solo quando avrò lasciato questo mondo, la stella mattutina del Suo sembiante sarà rivelata. Dopo la mia dipartita dovete sorgere e cercarLo. Non dovrete fermarvi per un solo istante, finché non Lo avrete trovato”.

« Dopo la celebrazione del Naw-Rúz, Siyyid Kázim mi ordinò di partire da Karbilá. “Sta tranquillo, o ‘Abdu’l-Karím”, mi disse congedandosi da me, “tu sei tra coloro che, nel giorno della Sua Rivelazione, sorgeranno per il trionfo della Sua Causa. Mi ricorderai, spero, in quel Giorno benedetto”. Lo pregai di permettermi di rimanere a Karbilá, dicendo che il mio ritorno a Qazvín avrebbe suscitato l’ostilità dei mullá della città. “Abbi completa fiducia in Dio” fu la sua risposta. “Ignora completamente le loro macchinazioni. Dedicati al commercio, e sii certo che le loro proteste non riusciranno mai a danneggiarti”. Seguii il suo consiglio e insieme con mio fratello partii per Qazvín.

« Appena arrivato, mi accinsi a seguire il consiglio di Siyyid Kázim. Seguendo le istruzioni che mi aveva dato, riuscii a far tacere ogni oppositore malevolo. Dedicavo il giorno alla transazione dei miei affari; di notte ritornavo a casa e, nella tranquillità della mia camera, passavo il tempo in meditazione e in preghiera. Con gli occhi colmi di lacrime mi rivolgevo a Dio e Lo imploravo, dicendo: “Hai promesso, per bocca del Tuo servo ispirato, che arriverò fino al Tuo Giorno, e che vedrò la Tua Rivelazione. Mi hai assicurato, per mezzo suo, che sarò tra coloro che sorgeranno per il trionfo della Tua Causa. Per quanto tempo ancora mi nasconderai la Tua promessa? Quando la mano della Tua bontà mi schiuderà la porta della Tua grazia, e mi conferirà la Tua eterna munificenza?”. Ogni notte ripetevo questa preghiera e continuavo le mie suppliche fino al levar del giorno.

« Una notte, la vigilia del giorno di ‘Arafih, nell’anno 1255 A.H. 20, fui così rapito nella preghiera che mi sembrò d’essere caduto in trance. Mi apparve un uccello, bianco come la neve, che si librò sul mio capo e si posò su un ramoscello d’un albero vicino a me. Con accenti d’ineffabile dolcezza, quell’uccello intonò queste parole: “Stai tu cercando la Manifestazione, o ‘Abdu’l-Karím? Ecco, l’anno ‘60”. Subito dopo l’uccello volò via e scomparve. Il mistero di quelle parole mi mise in grande agitazione. Il ricordo della bellezza della visione si soffermò a lungo nella mia mente. Mi sembrava di aver gustato tutte le delizie del Paradiso. La mia gioia era incontenibile.

« Il messaggio mistico di quell’uccello mi era penetrato nell’anima ed era continuamente sulle mie labbra. Lo avevo sempre nella mente. Non ne parlai con nessuno, per timore che la sua dolcezza mi abbandonasse. Pochi anni più tardi, mi giunse alle orecchie l’appello di Shíráz. Il giorno che lo sentii, mi affrettai ad andare in quella città. Strada facendo, a Tihrán, incontrai Mullá Muhammad-i-Mu‘allim, che mi informò della natura di questo appello, e mi comunicò che coloro che l’avevano accettato si erano riuniti a Karbilá e stavano aspettando il ritorno del loro Maestro dallo Hijáz. Partii subito alla volta di quella città. Da Hamadán, Mullá Javád-i-Baraghání, con mio grande disappunto, mi accompagnò a Karbilá, dove ebbi il privilegio di incontrar voi e gli altri credenti. Continuai a custodire gelosamente in cuore io strano messaggio portatomi dall’uccello. Quando in seguito giunsi alla presenza del Báb e sentii dalle Sue labbra le stesse parole, pronunziate con lo stesso tono e con lo stesso linguaggio, come le avevo sentite, compresi il loro significato. Fui così sopraffatto dalla loro forza e dalla loro gloria, che caddi istintivamente ai Suoi piedi e magnificai il Suo nome ».

Nei primi giorni dell’anno 1265 AH. 21, a diciott’anni di età, partii dal mio villaggio natio di Zarand per Qum, dove mi capitò d’incontrare Siyyid Ismá’íl-i-Zavári’í, soprannominato Dhabíh, che più tardi, mentre era a Baghdád, offrì la vita in sacrificio sul sentiero di Bahá’u’lláh. Per suo mezzo fui guidato a riconoscere la nuova Rivelazione. Egli stava allora preparandosi a partire per il Mázindarán e aveva deciso di unirsi agli eroici difensori del forte di Shaykh Tabarsí. Aveva intenzione di portarmi con sé, assieme a Mirza Fathu’lláh-i-Hakkák, un giovane della mia stessa età, che abitava a Qum. Poiché le circostanze ostacolarono questo piano, ci promise, prima di partire, che si sarebbe messo in contatto con noi da Tihrán e ci avrebbe chiesto di raggiungerlo. Durante le sue conversazioni con Mirza Fathu’lláh e con me, ci narrò il racconto della meravigliosa esperienza di Mullá ‘Abdu’l-Karím. Fui preso da un grande desiderio d’incontrarlo. In seguito quando arrivai a Tihrán e incontrai Siyyid Ismá’íl nella Madrisiy-i-Dáru’sh-Shafáy-i-Masjid-i-Sháh, fui da lui presentato a Mullá ‘Abdu’l-Karím, che abitava allora nella stessa madrisih. In quei giorni fummo informati che la battaglia di Shaykh Tabarsí era finita, e che i compagni del Báb che si erano riuniti a Tihrán e avevano progettato di raggiungere i loro fratelli erano tornati ciascuno nella propria provincia senza aver potuto raggiungere il proprio scopo. Mullá ‘Abdu’l-Karím rimase nella capitale, dove dedicò il suo tempo alla trascrizione del Bayán Persiano. Il nostro sodalizio in quel periodo servì ad approfondire il mio amore e la mia devozione verso di lui. Dopo trentotto anni dal nostro primo colloquio a Tihrán, sento ancora il calore della sua amicizia e il fervore della sua Fede. I miei sentimenti di affettuoso rispetto verso di lui m’hanno spinto a soffermarmi a lungo sui particolari della sua giovinezza, culminata in quello che può essere considerato il momento decisivo di tutta la sua carriera. Possa questo, a sua volta, servire a risvegliare nel lettore la consapevolezza della gloria di questa possente Rivelazione.

CAPITOLO IX

LA PERMANENZA DEL Báb A SHÍRÁZ DOPO IL PELLEGRINAGGIO

(continuazione)

SUBITO dopo l’arrivo di Mullá Husayn a Shíráz, si levarono ancora dal popolo voci di protesta contro di lui. Il timore e lo sdegno delle turbe furono suscitati dalla notizia dei suoi continui e intimi rapporti col Báb. « È ritornato nella nostra città », rumoreggiarono; « ha ancora issato lo stendardo della rivolta e, assieme al suo capo, sta preparando un assalto ancora più duro contro le nostre istituzioni da lungo tempo onorate ». Così grave e minacciosa divenne la situazione, che il Báb dette istruzioni a Mullá Husayn di ritornare, passando da Yazd, nella sua provincia natale del Khurásán. Accomiatò in ugual modo il resto dei compagni che si erano riuniti a Shíráz e ordinò loro di ritornare a Isfáhán. Trattenne Mullá ‘Abdu’l-Karím, al quale assegnò l’incarico di ricopiare i Suoi scritti.

Queste misure precauzionali che il Báb ritenne saggio prendere, Lo liberarono dall’immediato pericolo di subire violenze da parte dell’infuriata popolazione di Shíráz e servirono a dare nuovo impulso alla propagazione della Sua Fede, oltre i confini della città. I Suoi discepoli, che si erano sparpagliati per tutti gli angoli del paese, proclamarono intrepidamente alle moltitudini dei loro concittadini la potenza rigeneratrice della neonata Rivelazione. La fama del Báb s’era diffusa ed era giunta alle orecchie di coloro che occupavano le più alte posizioni del potere, nella capitale e in tutte le provincie 1. Un’ondata di appassionata ricerca sommerse la mente e il cuore dei notabili e del popolo. Stupore e meraviglia colsero coloro che avevano sentito direttamente dalle labbra dei messaggeri del Báb il racconto dei segni e delle testimonianze che avevano annunziato la nascita della Sua Manifestazione. I dignitari laici ed ecclesiastici o si dedicarono di persona o delegarono i loro più abili rappresentanti a investigare sulla verità e sul carattere di questo ragguardevole Movimento.

Persino Muhammad Sháh 2 fu spinto ad accertarsi della veridicità di queste voci e ad informarsi sulla loro natura. Egli delegò Siyyid Yahyáy-i-Dárábí 3, il più dotto, il più eloquente e il più influente tra i suoi sudditi, ad avere un colloquio con il Báb e a riferirgli i risultati delle sue ricerche. Lo Scià aveva piena fiducia nella sua imparzialità, competenza e profonda intuizione spirituale. Costui occupava una posizione di tale preminenza tra i principali personaggi della Persia, che in tutte le riunioni a cui per caso partecipasse, per quanto grande fosse il numero dei dignitari ecclesiastici presenti, era invariabilmente l’oratore più importante. Nessuno osava esprimere le proprie idee in sua presenza. Tutti tacevano con riverenza davanti a lui; tutti attesta- vano la sua sagacia, la sua insorpassata sapienza e la sua matura saggezza.

In quei giorni Siyyid Yahyá abitava a Tihrán nella casa di Mirza Lutf-‘Alí, cerimoniere di corte dello Scià, ospite onorato di sua Maestà Imperiale. Lo Scià manifestò confidenzialmente, tramite Mirza Lutf-‘Alí, il suo desiderio che Siyyid Yahyá andasse a Shíráz per investigare di persona sull’argomento. « Digli da parte nostra », comandò il sovrano, « che, riponendo la massima fiducia nella sua integrità, ammirando le sue qualità morali e intellettuali e considerandolo il più adatto tra i teologi del nostro reame, ci aspettiamo che vada a Shíráz, per indagare a fondo sull’episodio del Siyyid-i- Báb, e ci informi poi sui risultati delle sue indagini. Sapremo allora quali misure ci spetti prendere ».

Anche Siyyid Yahyá aveva avuto il desiderio di procurarsi informazioni di prima mano sulle pretese del Báb, ma non aveva potuto, per una serie di circostanze sfavorevoli, intraprendere il viaggio per il Fárs. Il messaggio di Muhammad Sháh lo indusse a mettere in atto le intenzioni che da lungo tempo aveva in animo. Assicurato il sovrano che era pronto ad assecondare i suoi desideri, parti immediatamente per Shíráz.

Durante il cammino, formulò le varie domande che pensava di porre al Báb. Dalle risposte che quest’ultimo avrebbe dato alle domande, sarebbero dipese, a suo avviso, la verità e la validità della sua missione. Giunto a Shíráz, incontrò Mullá Shaykh ‘Alí, soprannominato ‘Azím, di cui era stato intimo amico durante il suo soggiorno nel Khurásán. Gli chiese se fosse stato soddisfatto del suo colloquio il Báb. « Devi incontrarlo » rispose ‘Azím, « e cercare da solo di prendere conoscenza della Sua Missione. Da amico, ti consiglio di prestare la massima attenzione, quando converserai con Lui, si che alla fine non ti debba rammaricare anche tu d’essere stato scortese con Lui ».

Siyyid Yahyá incontrò il Báb in casa di Hájí Mirza Siyyid ‘Alí e mostrò nel suo atteggiamento verso di Lui la cortesia che ‘Azím gli aveva consigliato d’usare. Per circa due ore diresse l’attenzione del Báb sui più astrusi e sconcertanti temi degl’insegnamenti metafisici dell’Islám, sui passi più oscuri del Corano e sulle tradizioni e profezie misteriose degli Imám della Fede. Il Báb dapprima ascoltò i suoi dotti riferimenti alla legge e alle profezie dell’Islám, annotando tutte le sue domande, poi incominciò a dare per ciascuna di esse una risposta breve ma persuasiva. La concisione e la chiarezza delle Sue risposte suscitarono la meraviglia e l’ammirazione di Siyyid Yahyá. Egli fu sopraffatto da un senso di umiliazione per la propria presunzione e il proprio orgoglio. Il suo sentimento di superiorità svanì del tutto. Quando si alzò per andar via, rivolse al Báb queste parole: « A Dio piacendo, durante la mia prossima udienza con Te, Ti presenterà il resto delle mie domande e con esse concluderò la mia indagine ». Appena se ne fu andato, si recò da ‘Azím, al quale riferì il resoconto del colloquio. « In Sua presenza », gli disse « mi sono dilungato indebitamente sul mio sapere. Ma con poche parole Egli è riuscito a rispondere alle mie domande e a risolvere le mie perplessità. Mi sono sentito Così umiliato davanti a Lui, che Gli ho frettolosamente chiesto il permesso di ritirarmi ». ‘Azím gli ricordò il consiglio che gli aveva dato e lo pregò di non dimenticarsene la prossima volta.

Durante il secondo colloquio, Siyyid Yahyá scopri con meraviglia che tutte le domande che aveva inteso porre al Báb gli erano svanite dalla memoria. Si accontentò di argomenti irrilevanti ai fini della sua indagine. S’accorse in breve, con sorpresa ancora maggiore, che il Báb stava rispondendo, con la stessa chiarezza e concisione che avevano caratterizzato le Sue precedenti risposte, a quelle stesse domande che egli aveva momentaneamente dimenticato. « Mi sembrava d’essere caduto in un profondo sonno », egli più tardi osservò. « Le Sue parole, le Sue risposte alle domande che m’ero dimenticato di fare, mi ridestarono. Una voce continuava ancora a sussurrarmi nelle orecchie: “Dopo tutto, non potrebbe essere questa una pura coincidenza? “. Ero troppo agitato per riordinare i miei pensieri. Chiesi ancora il permesso di ritirarmi. ‘Azím, che incontrai dopo, mi accolse con fredda indifferenza e osservò seccamente: “Volesse il Cielo che quella scuola fosse stata del tutto abolita e che nessuno di noi ci fosse mai entrato. Con la nostra meschinità e presunzione, teniamo lontana da noi la grazia redentrice di Dio e siamo causa di dolore per Colui che ne è la Fonte. Non supplicherai questa volta Iddio di concederti di giungere in Sua presenza con l’umiltà e il distacco convenienti, sí ch’Egli possa liberarti dall’oppressione dell’incertezza e del dubbio?”.

« Decisi che nel terzo colloquio avrei chiesto al Báb, nell’intimo del mio cuore, di rivelare per me un commento della Sura di Kawthar 4. Decisi di non palesare quella richiesta in Sua presenza. Se Egli, senza che Glielo chiedessi, avesse rivelato questo commento, in modo che mi balzasse subito agli occhi la sua diversità dai canoni correnti tra i commentatori del Corano, allora mi sarei convinto del carattere Divino della Sua Missione e avrei prontamente abbracciato la Sua Causa. Altrimenti mi sarei rifiutato di riconoscerLo. Appena fui introdotto in Sua presenza, s’impossessò improvvisamente di me un senso di timore. Mi tremavano le membra mentre guardavo il Suo volto. Io, che più volte ero stato ammesso alla presenza dello Scià e che mai avevo scoperto la minima traccia di timidezza in me stesso, ero ora così intimorito e scosso da non riuscire a stare in piedi. Il Báb, vedendo il mio stato, Si alzò, mi Si avvicinò e, presami la mano, mi fece sedere accanto a Sé. “ChiediMi”, disse, “tutto ciò che nel tuo cuore desideri. Te lo rivelerò prontamente”. Ero ammutolito dallo stupore. Come un infante che non può né capire né parlare, mi sentii incapace di rispondere. Guardandomi intensamente, sorrise e disse: “Se ti rivelassi un commento della Sura di Kawthar, riconosceresti che le Mie parole nascono dallo spirito di Dio? Riconosceresti che il Mio verbo non può avere assolutamente nulla in comune con sortilegi o magie?”. Quando Lo sentii dire queste parole, scoppiai in lacrime. Tutto ciò che riuscii a rispondere fu questo versetto del Corano: “O Signore nostro, ci siamo comportati ingiustamente verso noi stessi: se Tu non ci perdoni e non hai pietà di noi, saremo sicuramente tra coloro che periscono”.

« Era appena iniziato il pomeriggio, quando il Báb chiese a Hájí Mirza Siyyid ‘Alí di portarGli il Suo astuccio per le penne e un po’ di carta. Incominciò allora a rivelare il Suo commento della Sura di Kawthar. Come posso descrivere questa scena d’inesprimibile maestà? I versetti scaturivano dalla Sua penna con rapidità davvero stupefacente. La velocità incredibile con cui scriveva 5, il soave e gentile mormorio della Sua voce e la stupenda forza del Suo stile mi stupirono e mi sconvolsero. Egli continuò in questo modo fino all’avvicinarsi del tramonto. Non Si fermò finché l’intero commento della Sura non fu finito. Allora depose la penna e chiese il tè. Subito dopo, incominciò a leggerlo ad alta voce in mia presenza. Mi batteva il cuore all’impazzata mentre Lo ascoltavo riversare, con accenti d’ineffabile dolcezza, i tesori racchiusi in quel sublime commento 6. Fui così estasiato dalla sua bellezza, che per tre volte fui sul punto di venire meno. Egli cercò di risvegliare le forze che m’abbandonavano facendomi spruzzare sul volto alcune gocce d’acqua di rose. Ciò mi restituì le forze e mi permise di seguire la Sua lettura fino alla fine.

« Terminata la recitazione, il Báb Si alzò per andarSene. Uscendo, m’affidò alle cure di Suo zio materno. “Dev’essere tuo ospite”, gli disse, “finché, in collaborazione con Mullá ‘Abdu’l-Karím, non avrà finito di trascrivere il commento che ho appena rivelato e non avrà controllato che la copia trascritta sia esatta”. Mullá ‘Abdu’l-Karím ed io dedicammo tre giorni e tre notti a questo lavoro. A turno ci leggevamo l’uno all’altro una parte del commento finch’esso non fu trascritto. Verificammo tutte le tradizioni nel testo e trovammo che erano tutte esatte. Tale era il grado di certezza al quale ero pervenuto che le potenze della terra, se si fossero tutte alleate contro di me, non sarebbero riuscite a scuotere la mia fiducia nella grandezza della Sua Causa 7.

« Poiché, sin dal mio arrivo a Shíráz, avevo abitato nella casa di Husayn Khán, il governatore del Fárs, pensai che la mia prolungata assenza dalla sua casa avrebbe potuto suscitare i suoi sospetti ad accendere la sua ira. Perciò decisi di prendere commiato da Hájí Mirza Siyyid ‘Alí e da Mullá ‘Abdu’l-Karím e di ritornare nella residenza del governatore. Al mio arrivo trovai che Husayn Khán, il quale nel frattempo mi aveva cercato, era ansioso di sapere se ero caduto vittima della magica influenza del Báb. “Solo Dio”, risposi, “l’unico che possa cambiare il cuore degli uomini, è capace di far prigioniero il cuore di Siyyid Yahyá. Chi può irretire il suo cuore viene da Dio e la Sua parola è senza dubbio la voce della verità”. La mia risposta fece tacere il governatore. Parlando con altri, appresi in seguito, egli aveva detto che, secondo lui, anch’io ero caduto irreparabilmente vittima del fascino di quel Giovane. Aveva anche scritto a Muhammad Sháh lamentandosi che durante la mia permanenza a Shíráz mi ero rifiutato di avere qualsiasi rapporto con gli ‘ulamá’ della città. “Benché nominalmente mio ospite”, scrisse al sovrano, “spesso si assenta dalla mia casa per molti giorni e notti consecutivi. Sul fatto che sia diventato Bábí e sia stato soggiogato anima e corpo dalla volontà del Siyyid-i- Báb, ho cessato di nutrire il minimo dubbio”.

« Si diceva che, durante una delle cerimonie ufficiali nella capitale, Muhammad Sháh, rivolse a Hájí Mirza Áqásí queste parole: “Abbiamo appreso di recente 8 che Siyyid Yahyáy-i-Dárábí è divenuto Bábí. Se questo è vero, dobbiamo smettere di sottovalutare la causa di quel siyyid”. Husayn Khán, da parte sua, ricevette il seguente ordine imperiale: “È rigorosamente proibito a tutti i nostri sudditi proferire parole che tendano a sminuire l’alto rango di Siyyid Yahyáy-i-Dárábí. Egli è di nobile lignaggio, uomo di grande dottrina, di perfetta e consumata virtù. Per nessuna ragione porgerebbe ascolto a una causa, se non credesse che questa possa contribuire a promuovere i supremi interessi del nostro reame e la prosperità della Fede dell’Islám”.

« Quando ricevette questa ingiunzione imperiale, Husayn Khán, non potendomi resistere apertamente, cercò nascostamente di indebolire la mia autorità. Il suo volto tradiva un’inimicizia e un odio implacabili. Ma, per il grande favore di cui godevo presso lo Scià, non riuscì né a danneggiare la mia persona né a screditare il mio nome.

« Il Báb mi ordinò in seguito di mettermi in viaggio per Burújird e d’informare mio padre 9 del nuovo Messaggio. Mi raccomandò di usare con lui la massima tolleranza e il massimo rispetto. Dalle mie conservazioni confidenziali con lui compresi che egli non voleva ripudiare la verità del Messaggio che gli avevo portato. Tuttavia preferì che lo lasciassi solo e gli permettessi di seguire la sua strada ».

Un altro dignitario del regno che spassionatamente esaminò e alla fine abbracciò il Messaggio del Báb fu Mullá Muhammad-‘Alí 10, nato a Zanján, che il Báb soprannominò Hujjat-i-Zanjání. Questi era uomo dalla mente indipendente, noto per la sua estrema originalità e libertà da ogni forma di remora tradizionale. Condannava apertamente l’intera gerarchia dei capi ecclesiastici del paese, dagli Abváb-i-Arba‘ih 11, fino al più umile dei Mullá suoi contemporanei. Ne disprezzava il carattere, ne deplorava la degenerazione e parlava diffusamente dei loro vizi. Prima di convertirsi, mostrò un atteggiamento d’incurante disprezzo anche verso Shaykh Ahmad-i-Ahsá’í e Siyyid Kázim-i-Rashtí 12. Era così pieno d’orrore per le malvagità di cui era macchiata la storia dell’Islám sciita che tutti coloro che appartenevano a quella setta, per quanto grande potesse esserne la preparazione personale, erano da lui reputati indegni della sua considerazione. Non di rado si accesero feroci controversie tra lui e i teologi di Zanján che, se non fosse stato per l’intervento personale dello Scià, avrebbero portato a gravi disordini e a spargimento di sangue. Egli fu infine convocato alla capitale e, in presenza dei suoi avversari, che rappresentavano i capi ecclesiastici di Tihrán e di altre città, fu invitato a difendere le proprie affermazioni. Solo e senza aiuto dimostrò la propria superiorità sugli avversari e fece cessare il loro clamore. Benché in cuor loro dissentissero dalle sue opinioni e ne condannassero la condotta, essi furono costretti a fingere di riconoscere la sua autorità e a confermarne le opinioni.

Non appena gli giunse all’orecchio l’Appello da Shíráz, Hujjat incaricò uno dei suoi discepoli, Mullá Iskandar, in cui aveva la massima fiducia, di indagare l’intera faccenda e di riferirgli i risultati delle sue ricerche. Del tutto indifferente alle lodi e al biasimo dei suoi concittadini, sulla cui integrità nutriva molti dubbi e il cui giudizio disdegnava, inviò il suo delegato a Shíráz con esplicite istruzioni di condurre un’indagine minuziosa e indipendente. Mullá Iskandar giunse in presenza del Báb e sentì immediatamente la forza rigeneratrice della Sua influenza. Si trattenne a Shíráz quaranta giorni, durante i quali assimilò i princìpi della Fede e acquisì, secondo le sue capacità, una conoscenza della misura della sua gloria.

Con l’approvazione del Báb, ritornò a Zanján. Quando arrivò, tutti i principali ‘ulamá’ della città erano riuniti alla presenza di Hujjat. Appena egli comparve, Hujjat gli chiese se credesse nella nuova Rivelazione o la respingesse. Mullá Iskandar presentò gli scritti del Báb che aveva portato con sé e asserì che, qualsiasi fosse stato il verdetto del suo maestro, questo si sarebbe sentito obbligato a seguire. « Cosa! » esclamò furente Hujjat. « Se non fosse per la presenza di questo illustre consesso, ti castigherei severamente. Come osi pensare che le questioni di fede possano dipendere dall’approvazione o dal rifiuto di altri? ». Ricevuta dalle mani del suo messaggero la copia del Qayyúmu’l-Asmá’, appena ebbe letto una pagina del libro, cadde prostrato al suolo ed esclamò: « Attesto che queste parole che ho letto provengono dalla stessa Fonte del Corano. Chi ha conosciuto la verità di quel sacro Libro deve necessariamente attestare l’origine Divina di queste parole e deve necessariamente sottomettersi ai precetti propugnati dal loro Autore. Prendo voi, membri di questa assemblea, come testimoni: prometto tale devozione all’Autore di questa Rivelazione che, se Egli mai dicesse che la notte è giorno e dichiarasse che il sole è ombra, mi assoggetterei senza riserve al Suo giudizio e considererei il Suo verdetto come la voce della verità ». Con queste parole pose fine al corso della riunione 13.

Nelle pagine precedenti, abbiamo accennato all’espulsione di Quddús e di Mullá Sádiq da Shíráz e abbiamo cercato di descrivere, per quanto inadeguatamente, il castigo inflitto loro dal tirannico e rapace Husayn Khán. Dobbiamo ora dire qualche parola sulla natura delle attività che essi svolsero dopo essere stati espulsi dalla città. Per alcuni giorni continuarono a viaggiare insieme, poi si separarono. Quddús partì per Kirmán per parlare con Hájí Mirza Karím Khán, e Mullá Sádiq s’incamminò verso Yazd con l’intenzione di proseguire tra gli ‘ulamá’ della provincia il lavoro che era stato Così crudelmente costretto ad abbandonare nel Fárs. Quddús fu accolto, al suo arrivo, nella casa di Hájí Siyyid Javád-i-Kirmání, che aveva conosciuto a Karbilá, la cui cultura, maestria e competenza erano riconosciute da tutto il popolo di Kirmán. In tutte le riunioni tenute in casa sua, questi assegnò sempre al giovane ospite il posto d’onore e lo trattò con estremo riguardo e cortesia. Una preferenza così spiccata verso una persona così giovane e in apparenza mediocre accese l’invidia dei discepoli di Hájí Mirza Karím Khán, i quali, descrivendo con linguaggio vivace ed esagerato gli onori elargiti a Quddús, cercarono di suscitare l’ostilità assopita del loro capo. « Guarda », gli bisbigliarono all’orecchio, « il prediletto, il più fido e intimo compagno del Siyyid-i- Báb è ora ospite onorato del più potente abitante di Kirmán. Se gli sarà permesso di vivere in stretta intimità con Hájí Siyyid Javád, egli instillerà senza dubbio il proprio veleno nella sua anima e ne farà lo strumento con cui riuscirà a infrangere la tua autorità e a distruggere la tua fama ». Allarmato da questi maligni mormorii, il vile Hájí Mirza Karím Khán si appellò al governatore e lo indusse ad andare di persona da Hájí Siyyid Javád per chiedergli di porre fine a quella pericolosa amicizia. Le rimostranze del governatore infiammarono l’ira dell’intemperante Hájí Siyyid Javád. « Quante volte », costui protestò violentemente, « t’ho consigliato d’ignorare i mormorii di questo malvagio intrigante! La mia sopportazione l’ha imbaldanzito. Che faccia attenzione a non passare i limiti. Desidera forse usurpare la mia posizione? Non è lui l’uomo che riceve in casa migliaia di persone abiette e ignobili e le copre di lusinghe servili? Non ha cercato più volte di esaltare l’empio e di far tacere l’innocente? Non ha tentato, anno dopo anno, di allearsi con il malfattore rinforzandone la mano e di soddisfare i propri desideri carnali? Non continua fino ad oggi a bestemmiare contro tutto ciò che vi è di puro e santo nell’Islám? Pare che il mio silenzio abbia accresciuto la sua temerarietà e la sua insolenza. Si prende la libertà di commettere le azioni peggiori e si rifiuta di permettermi di ricevere e onorare in casa mia un uomo Così integro, dotto e nobile. Se si rifiuta di desistere da questo atteggiamento, l’avverto che i peggiori elementi della città, per mia istigazione, lo espelleranno da Kirmán ». Sconcertato da queste veementi accuse, il governatore si scusò per ciò che aveva fatto. Prima di ritirarsi, assicurò Hájí Siyyid Javád che non doveva avere alcun timore, che avrebbe cercato lui stesso di far capire a Hájí Mirza Karím Khán la follia del suo comportamento e l’avrebbe indotto a pentirsene.

Il messaggio del Siyyid offese Hájí Mirza Karím Khán. Sconvolto da un sentimento di grande rancore che non poteva né sopprimere né sfogare, perse ogni speranza di conquistare l’indiscusso primato sul popolo di Kirmán. Quell’aperta sfida inferse un duro colpo alle sue vagheggiate ambizioni.

Nell’intimità della sua casa, Hájí Siyyid Javád ascoltò Quddús raccontare tutti i dettagli delle sue attività dal giorno in cui era partito da Karbilá fino a quando era arrivato a Kirmán. I particolari della sua conversione e del suo successivo pellegrinaggio con il Báb accesero l’immaginazione e attizzarono la fiamma della fede nel cuore del suo ospite, il quale preferì, tuttavia, celare questa sua fede nella speranza di poter difendere con maggiore efficacia gl’interessi della comunità da poco costituita. « La tua nobile decisione », Quddús lo rassicurò amorevolmente, « sarà in se stessa considerata un notevole servigio reso alla Causa di Dio. L’Onnipotente rafforzerà i tuoi sforzi e imporrà per sempre la tua supremazia sui tuoi oppositori ».

Il fatto mi è stato raccontato da un certo Mirza Abu’lláh-i-Ghawghá, il quale mentre stava a Kirmán, l’aveva sentito dalla bocca dello stesso Hájí Siyyid Javád. La sincerità delle intenzioni espresse dal Siyyid fu pienamente dimostrata dallo splendido modo con cui, grazie ai suoi sforzi, egli riuscì a opporsi agli abusi dell’insidioso Hájí Mirza Karím Khán, il quale, se nessuno l’avesse sfidato, avrebbe arrecato alla Fede danni incalcolabili.

Da Kirmán, Quddús decise di partire per Yazd e di andare quindi ad Ardikán, Náyin, Ardistán, Isfáhán, Káshán, Qum e Tihrán. In ciascuna di queste città, nonostante gli ostacoli che costellavano il suo cammino, riuscì a istillare nella mente dei suoi ascoltatori i princìpi che era Così coraggiosamente sorto a perorare. Ho sentito Áqáy-i-Kalím, fratello di Bahá’u’lláh, descrivere il suo incontro con Quddús a Tihrán con le seguenti parole: « Il fascino della sua persona, la sua estrema affabilità, la dignità del portamento colpivano anche l’osservatore più distratto. Chi stava vicino a quel giovane era preso da un’insaziabile ammirazione per il suo fascino. Lo guardavamo un giorno mentre faceva le abluzioni e fummo colpiti dalla grazia che lo distingueva dal resto dei devoti nell’esecuzione di un rito così comune. Egli pareva, ai nostri occhi, la personificazione della purezza e della grazia ».

A Tihrán, Quddús fu ammesso alla presenza di Bahá’u’lláh; proseguì poi per il Mázindarán, dove rimase a Bárfurúsh, sua città natale, in casa del padre, per circa due anni, durante i quali fu circondato dall’amorevole devozione della famiglia e dei parenti. Suo padre si era risposato, alla morte della prima moglie, con una signora che trattò Quddús con una gentilezza e una cura tali che neppure una madre avrebbe potuto sperare di superare. Ella desiderava vederlo sposato e la sentirono spesso esprimere il suo timore di dover portare con sé nella tomba la « gioia suprema del suo cuore ». « Il giorno del mio matrimonio », osservò Quddús, « non è ancora giunto. Quel giorno sarà ineffabilmente glorioso. Non entro i confini di questa casa, ma fuori, all’aria aperta, sotto la volta del cielo, nel mezzo del Sabzih-Maydán, sotto gli sguardi delle moltitudini, là celebrerò le mie nozze e vedrò il coronamento delle mie speranze ». Tre anni più tardi, quando apprese i particolari del martirio di Quddús nel Sabzih-Maydán, quella signora ricordò le sue parole prof etiche e ne comprese il significato 14. Quddús rimase a Bárfurúsh, finché non lo raggiunse Mullá Husayn, che tornava da una visita al Báb nel castello di Máh-Kú. Da Bárfurúsh essi partirono per il Khurásán; questo viaggio fu reso memorabile da s eroiche gesta che nessuno dei loro concittadini potrà mai emulare.

In quanto a Mullá Sádiq, appena giunse a Yazd, chiese a un amico fidato, nativo del Khurásán, le ultime novità sul progresso della Causa nella provincia. Egli era particolarmente ansioso di essere illuminato sulle attività di Mirza Ahmad-i-Azghandí ed espresse la propria sorpresa per l’apparente inattività di uno che, in un momento in cui il mistero della Fede non era ancora divulgato, aveva mostrato sí gran zelo nel preparare la gente ad accettare l’attesa Manifestazione.

« Mirza Ahmad », gli fu detto, « si isolò per un lungo periodo di tempo nella sua casa e li concentrò le proprie energie nella preparazione di una dotta e voluminosa compilazione di tradizioni e profezie islamiche relative al tempo e al carattere della promessa Dispensazione. Raccolse più di dodicimila delle più esplicite tradizioni, la cui autenticità è universalmente riconosciuta; e decise di fare tutto il necessario per copiare e divulgare il libro. Incoraggiando i suoi discepoli a citarne pubblicamente il contenuto, in ogni congregazione e riunione, sperò di riuscire a rimuovere gli ostacoli che avrebbero potuto impedire il progresso della Causa che gli stava a cuore.

« Quando giunse a Yazd, fu calorosamente accolto dallo zio materno, Siyyid Husayn-i-Azghandí, il più eminente mujtahid della città, il quale, pochi giorni prima del suo arrivo, gli aveva mandato una richiesta scritta di correre a Yazd per liberarlo dai complotti di Hájí Mirza Karím Khán, che considerava un pericoloso, anche se non dichiarato, nemico dell’Islám. Il mujtahid invitò Mirza Ahmad a combattere con ogni mezzo in suo potere la perniciosa influenza di Hájí Mirza Karím Khán, e desiderava ch’egli si stabilisse in permanenza nella città, per riuscire a illuminare, con esortazioni e appelli incessanti, la mente della popolazione sulle vere mire e intenzioni di quel maligno nemico.

« Mirza Ahmad, nascondendo allo zio la sua intenzione originaria di partire per Shíráz, decise di prolungare la sua permanenza a Yazd. Gli mostrò il libro che aveva compilato e ne comunicò il contenuto agli ‘ulamá’ che accorrevano da ogni quartiere della città per incontrarlo. Furono tutti molto colpiti dall’ingegnosità, dall’erudizione e dallo zelo che il compilatore del celebre lavoro aveva dimostrato.

« Tra coloro che vennero a far visita a Mirza Ahmad c’era un certo Mirza Taqí, uomo malvagio, ambizioso e arrogante, che era recentemente tornato da Najaf, dove aveva completato gli studi ed era stato insignito del titolo di mujtahid. Durante la sua conversazione con Mirza Ahmad, costui espresse il desiderio di leggere il libro e chiese il permesso di tenerlo per un po’ di giorni, si da poter acquistare una più completa comprensione del suo contenuto. Siyyid Husayn e il nipote esaudirono entrambi il suo desiderio. Mirza Taqí, che doveva restituire il libro, non mantenne la promessa. Mirza Ahmad, che aveva già sospettato l’insincerità delle intenzioni di Mirza Taqí, esortò lo zio a ricordare al mujtahid la promessa fatta. “Dí al tuo padrone”, fu l’insolente risposta al messaggero inviato a chiedere il libro, “che dopo essermi convinto che la compilazione è pericolosa, ho deciso di distruggerla. La notte scorsa l’ho gettata nello stagno, cancellandone così le pagine”.

« Mosso da un profondo e risoluto sdegno davanti a tale sconvenienza e impertinenza, Siyyid Husayn decise di vendicarsi di lui. Ma Mirza Ahmad riuscì, con i suoi saggi consigli, a placare l’ira dello zio infuriato e a dissuaderlo dal porre in atto le misure che si era proposto di prendere. “Questa punizione”, insistette, “che hai divisato, sommuoverebbe l’animo della gente e susciterebbe malanimo e sedizione. Intralcerebbe gravemente gli sforzi che tu desideri io faccia per distruggere l’influenza di Hájí Mirza Karím Khán. Egli coglierebbe senza dubbio l’occasione per denunziarti come Bábí e mi riterrebbe responsabile della tua conversione. Con questi mezzi riuscirebbe nello stesso tempo a distruggere la tua autorità e a guadagnarsi la stima e la gratitudine del popolo. Lascialo nelle mani di Dio” ».

Mullá Sádiq fu molto compiaciuto nell’apprendere dal racconto di questo fatto che Mirza Ahmad abitava ancora a Yazd e che poteva incontrano senza ostacoli. Andò immediatamente nel masjid dove Siyyid Husayn guidava la preghiera collettiva e dove Mirza Ahmad teneva il sermone. Sedutosi in prima fila tra i devoti, si uni a loro nella preghiera e poi andò direttamente da Siyyid Husayn e l’abbracciò davanti a tutti. Senza essere invitato, sali subito dopo sul pulpito e si accinse ad arringare i fedeli. Siyyid Husayn, anche se fu dapprima sorpreso, preferì non fare obiezioni, curioso di scoprire cosa spingesse questo inatteso intruso e di accertarsi della profondità della sua cultura. Fece cenno al nipote di frenarsi e di non contrastano.

Mullá Sádiq iniziò il discorso con una delle più note e squisitamente scritte omelie del Báb e poi rivolse alla congregazione queste parole: « Rendete grazie a Dio, o uomini dotti, poiché, ecco, la Porta della Conoscenza Divina, che voi credete sia stata chiusa, è ora spalancata. Dalla città di Shíráz è scaturito il Fiume della vita eterna; esso sta donando incalcolabili benedizioni al popolo di questa terra. Chi ha bevuto una sola goccia di quest’Oceano di grazia celestiale, per quanto umile e illetterato, ha scoperto in se stesso la facoltà di svelare i più profondi misteri e si è sentito capace di spiegare i temi più astrusi dell’antica saggezza. E chi, anche se fosse il più dotto esponente della Fede dell’Islám, ha preferito basarsi sulla propria competenza e sulla propria forza e ha disdegnato il Messaggio di Dio, si è condannato a una degradazione e a una perdita irrimediabili ».

Un’ondata di sdegno e di costernazione sommerse l’intera congregazione quando, con queste parole, Mullá Sádiq fece risuonare questo grave annuncio. Il masjid echeggiò di gridi di « Bestemmia! » che la congregazione infuriata lanciava inorridita contro l’oratore. « Scendi dal pulpito! », si levò la voce di Siyyid Husayn sul clamore e sul tumulto della gente, mentre faceva cenno a Mullá Sádiq di tacere e di ritirarsi. Appena questi fu giunto a terra, tutti i devoti riuniti si gettarono in massa contro di lui e lo coprirono di colpi. Siyyid Husayn intervenne immediatamente, disperse con vigore la folla e, afferrato Mullá Sádiq per la mano, lo trascinò con forza accanto a sé. « Giù le mani! », gridò alla moltitudine; « affidatelo alla mia custodia. Lo porterò a casa mia e indagherò a fondo sull’argomento. Un’improvvisa ventata di follia può avergli fatto dire queste frasi. Lo esaminerò io stesso. Se scopro che le sue parole sono premeditate e che crede fermamente nelle cose che ha dichiarato, gli infliggerò con le mie stesse mani la punizione imposta dalla legge dell’Islám ».

Dopo questa solenne promessa, Mullá Sádiq fu liberato dai furiosi attacchi dei suoi assalitori. Spogliato dell’‘abá 15 e del turbante, privato dei sandali e del bastone, graffiato e fiaccato dai colpi che aveva ricevuto, fu affidato alle cure dei servitori di Siyyid Husayn, i quali, aprendosi a forza un varco tra la folla, riuscirono alla fine a condurlo nella casa del loro padrone.

Anche Mullá Yúsuf-i-Ardibílí subì in quei giorni una persecuzione ancora più feroce e risoluta del selvaggio assalto che il popolo di Yazd aveva lanciato contro Mullá Sádiq. Se non fosse stato per l’intervento di Mirza Ahmad e l’aiuto di suo zio, sarebbe caduto vittima dell’ira d’un feroce nemico.

Arrivati a Kirmán, Mullá Sádiq e Mullá Yúsuf-i-Ardibílí dovettero ancora subire altri oltraggi e sopportare altre afflizioni per mano di Hájí Mirza Karím Khán e dei suoi alleati 16. Con i suoi tenaci sforzi, Hájí Siyyid Javád li liberò alla fine dalle mani dei loro persecutori e permise loro di proseguire per il Khurásán.

Sebbene perseguitati e martoriati dai nemici, i primi discepoli del Báb, assieme ai loro compagni provenienti da diverse parti della Persia, non permisero che quegli atti criminali li distogliessero dallo svolgimento del loro compito. Fermi nei loro propositi e irremovibili nelle loro convinzioni, continuarono a combattere contro le forze oscure che li assalivano a ogni passo del loro cammino. Con la loro illimitata devozione e la loro straordinaria forza, poterono dimostrare a molti dei loro concittadini l’influenza nobilitante della Fede di cui s’erano fatti paladini.

Mentre Váhíd 17 era a Shíráz, giunse Hájí Siyyid Javád-i-Karbilá’í 18, che fu introdotto da Hájí Mirza Siyyid ‘Alí alla presenza del Báb. In una Tavola indirizzata a Váhíd e a Hájí Siyyid Javád, il Báb esaltò la fermezza della loro fede e mise in rilievo l’inalterabilità della loro devozione. Quest’ultimo aveva incontrato e conosciuto il Báb prima della dichiarazione della Sua Missione ed era stato un fervente ammiratore degli straordinari tratti di carattere che Lo avevano contraddistinto sin dalla Sua fanciullezza. Più tardi, incontrò Bahá’u’lláh a Baghdád e divenne oggetto del Suo speciale favore. Quando, pochi anni dopo, Bahá’u’lláh fu esiliato a Adrianopoli, egli, già molto avanti negli anni, ritornò in Persia, si fermò per un po’ nella provincia dell’‘Iráq e quindi proseguì per il Khurásán. Il suo carattere gentile, la sua estrema pazienza e la sua immacolata semplicità gli valsero l’appellativo di Siyyid-i-Núr 19.

Hájí Siyyid Javád, un giorno, mentre attraversava una strada di Tihrán, d’un tratto vide lo Sci che passava a cavallo. Affatto turbato dalla presenza del sovrano, gli si avvicinò tranquillamente e lo salutò. Tale fu l’accoglienza accordatagli dallo Scià, che i cortigiani furono punti dall’invidia. « Non capisce vostra Maestà Imperiale », protestarono, « che questo Hájí Siyyid Javád si è proclamato Bábí e ha giurato eterna fedeltà al Siyyid-i- Báb ancor prima della sua dichiarazione? ». Lo Scià scorgendo la malizia che animava le loro accuse, fu molto dispiaciuto e li rimproverò per la loro temerarietà e bassezza d’animo. « Com’è strano! » si dice abbia esclamato; « chiunque si distingua per rettitudine di condotta e cortesia di modi, il mio popolo l’accusa subito d’essere Bábí e lo considera una persona degna della mia condanna! ».

Hájí Siyyid Javád trascorse gli ultimi giorni della sua vita a Kirmán e rimase fino all’ultimo un devoto sostenitore della Fede. Non vacillò mai nelle sue convinzioni né rallentò i suoi prodighi sforzi per la diffusione della Causa.

Anche Shaykh Sultán-i-Karbilá’í, i cui avi figuravano tra i più grandi ‘ulamá’ di Karbilá e che era stato risoluto sostenitore e intimo amico di Siyyid Kázim, fu tra coloro che, in quei giorni, incontrarono il Báb a Shíráz. Egli in seguito andò a Sulaymáníyyih alla ricerca di Bahá’u’lláh e sua figlia fu successivamente data in matrimonio ad Áqáy-i-Kalím. Quando giunse a Shíráz, lo accompagnava Shaykh Hasan-i-Zunúzí, che abbiamo menzionato nelle prime pagine di questa narrazione. A lui il Báb affidò il compito di trascrivere, in collaborazione con Mullá ‘Abdu’l-Karím, le Tavole che aveva rivelato negli ultimi tempi. Shaykh Sultán, che al suo arrivo stava troppo male per incontrare il Báb, una notte, mentre era ancora a letto ammalato, ricevette dal suo Diletto un messaggio, che lo informava che due ore dopo il tramonto Egli sarebbe venuto a fargli visita di Persona. Quella notte il servo etiope, che portava la lanterna per il suo Padrone, ebbe istruzioni di camminare avanti a una distanza tale da distogliere da Lui l’attenzione della gente e di spegnere la lanterna appena giunto a destinazione.

Ho sentito Shaykh Sultán in persona descrivere quella visita notturna: « Il Báb, che mi aveva invitato a spegnere la lampada in camera prima del Suo arrivo, venne direttamente accanto al mio letto. Nell’oscurità che ci avvolgeva, mi afferrai strettamente all’orlo della Sua veste e Lo implorai: “Esaudisci il mio desiderio, o Diletto del mio cuore, e concedimi di sacrificarmi per Te; perché nessun altro all’infuori di Te può farmi questa grazia”. “O Shaykh!” rispose il Báb, “Anch’Io desidero immolarMi sull’altare del sacrificio. Entrambi dobbiamo aggrapparci alla veste del Dilettissimo e cercare di ottenere da Lui la gioia e la gloria del martirio sul Suo sentiero. Sta tranquillo; supplicherò in tuo nome l’Onnipotente che ti conceda di giungere al Suo cospetto. RicordaMi quel giorno, un Giorno quale il mondo mai ha veduto prima”. Quando fu il momento di separarci, mi pose in mano un dono che mi chiese di spendere per me stesso. Io cercai di rifiutare; ma Egli mi pregò di accettarlo. Alla fine acconsentii alla Sua richiesta e allora Si alzò e Se ne andò.

« L’allusione del Báb, quella notte, al Suo “Dilettissimo” suscitò in me meraviglia e curiosità. Negli anni che seguirono, spesso credetti che la persona a cui il Báb aveva accennato fosse Táhirih. Pensai perfino a Siyyid-i-‘Uluvv. Ero molto perplesso e non sapevo risolvere questo mistero. Quando arrivai a Karbilá e giunsi in presenza di Bahá’u’lláh, mi convinsi fermamente che solo Lui poteva meritare un tale affetto da parte del Báb, che Lui, solo Lui, poteva essere degno di tale adorazione ».

Il secondo Naw-Rúz dopo la dichiarazione della Missione del Báb, che cadeva il ventunesimo giorno del mese di Rabí‘u’l-Avval, dell’anno 1262 A.H. 20, trovò ancora il Báb a Shíráz; qui Egli godeva indisturbato, in condizioni di relativa quiete e tranquillità, le benedizioni della vicinanza della Sua famiglia e dei Suoi parenti. Nella quiete e senza cerimonie, celebrò la festa di Naw-Rúz a casa Sua e, secondo le Sue immutabili abitudini, elargì generosamente alla madre e alla moglie i segni del Suo affetto e del Suo favore. Con la saggezza dei Suoi consigli e la tenerezza del Suo amore, consolò il loro cuore e dissipò le loro apprensioni. Affidò loro tutti i Suoi possedimenti e trasferì a loro nome le Sue proprietà. In un documento che scrisse e firmò di Suo pugno, dispose che la Sua casa con la mobilia, come il resto dei Suoi possedimenti, fossero considerati esclusiva proprietà della madre e della moglie e che, alla morte della prima, la sua parte di proprietà fosse trasferita alla moglie.

La madre del Báb non riuscì da principio a comprendere il significato della Missione proclamata dal Figlio. Rimase per un po’ di tempo inconsapevole della grandezza delle forze latenti nella Sua Rivelazione. Ma quando si avvicinò alla fine dei suoi giorni, riuscì a capire la qualità inestimabile del Tesoro che aveva concepito e dato alla luce. Bahá’u’lláh alla fine le permise di scoprire il valore di quel Tesoro nascosto che era rimasto per tanti anni celato ai suoi occhi. Abitava in ‘Iraq, dove sperava di passare i giorni che le rimanevano da vivere, quando Bahá’u’lláh incaricò due dei Suoi seguaci, Hájí Siyyid Javád-i-Karbilá’í e la moglie di Hájí Abu’l-Majíd-i-Shírází, che la conoscevano intimamente, di insegnarle i principi della Fede. Ella riconobbe la verità della Causa e rimase, fino agli ultimi anni del tredicesimo secolo A.H. 21, quando si diparti da questa vita, pienamente consapevole dei munifici doni che l’Onnipotente aveva voluto conferirle.

La moglie del Báb, a differenza della suocera, capí ai primi albori della Sua Rivelazione la gloria e l’unicità della Sua Missione e senti fin dall’inizio l’intensità della Sua forza. Tranne Táhirih, nessuna tra le donne della sua generazione la superò per la spontaneità della devozione o sorpassò il fervore della sua fede. A lei il Báb confidò il segreto delle Sue future sofferenze e davanti ai suoi occhi dispiegò il significato degli eventi che dovevano accadere nel Suo Giorno. L’invitò a non palesare questo segreto a Sua madre e le consigliò d’essere paziente e rassegnata alla volontà di Dio. Le affidò una preghiera speciale, rivelata e scritta da Lui Stesso, la cui lettura, Egli le assicurò, avrebbe rimosso le sue difficoltà e alleviato il peso delle sue tribolazioni. « Nei momenti di perplessità », le disse, « recita questa preghiera prima di andare a dormire. Ti apparirò Io e dissiperò la tua ansietà ». Ella fu fedele al Suo consiglio e, ogni volta che a Lui si rivolse in preghiera, la luce della Sua infallibile guida rischiarò il suo cammino e risolse i suoi problemi 22.

Dopo aver sistemato gli affari della Sua casa e aver provveduto al futuro sostentamento della madre e della moglie, il Báb Si trasferì dalla Sua casa a quella di Hájí Mirza Siyyid ‘Alí. Là Egli attese che arrivasse l’ora delle sofferenze. Sapeva che le afflizioni in serbo per Lui non potevano essere più ritardate, che presto sarebbe stato travolto in un vortice di avversità che L’avrebbero rapidamente condotto sul campo del martirio, il coronamento della Sua vita. Invitò i discepoli che si erano stabiliti a Shíráz, tra cui c’erano Mullá ‘Abdu’l-Karím e Shaykh Hasan-i-Zunúzí, ad andare a Isfáhán e ad attendere là Sue ulteriori istruzioni. Anche Siyyid Husayn-i-Yazdí, una delle Lettere del Vivente, che era appena giunto a Shíráz, ebbe istruzioni di proseguire per Isfáhán e di unirsi al gruppo dei suoi condiscepoli nella città.

Frattanto, Husayn Khán, governatore del Fárs, faceva ogni sforzo per mettere il Báb in nuove difficoltà e per umiliarLo ulteriormente agli occhi del pubblico. Il fuoco represso della sua ostilità avvampò, quando seppe che al Báb era concesso di proseguire senza molestie il corso delle Sue attività, che Egli poteva ancora incontrare alcuni dei compagni e continuava liberamente a godere dei benefici della vicinanza alla famiglia e ai parenti 23. Con l’aiuto dei suoi agenti segreti, riuscì a ottenere precise informazioni sul carattere e sull’influenza del Movimento a cui il Báb aveva dato inizio. Egli aveva segretamente osservato le Sue mosse, accertato il grado di entusiasmo che aveva sollevato e controllato moventi, condotta e numero di coloro che avevano abbracciato la Sua Causa.

Una notte andò da Husayn Khán il capo degli emissari con la notizia che il numero di coloro che si accalcavano per vedere il Báb aveva raggiunto tali proporzioni da richiedere un’azione immediata da parte di coloro che avevano il compito di vigilare sulla sicurezza della città. « La folla impaziente che si raduna ogni notte per far visita al Báb », osservò, « sorpassa per numero la moltitudine di persone che fa ressa ogni giorno davanti alle porte della sede del governo. Tra la folla si vedono uomini celebri sia per l’alto rango sia per il vasto sapere 24. Tali sono il tatto e la munifica generosità che suo zio materno dimostra nel comportamento verso i funzionari del tuo governo, che nessuno dei tuoi subordinati è incline a informarti sulla realtà della situazione. Se me lo permetti, con l’aiuto dei tuoi servitori, sorprenderò il Báb nel cuore della notte e consegnerò ammanettati nelle tue mani alcuni dei suoi amici, che t’illumineranno sulle sue attività e confermeranno la verità delle mie affermazioni ». Husayn Khán si rifiutò di accogliere la sua richiesta. « Posso dire meglio di te », fu la sua risposta, « cosa richiedono gl’interessi dello Stato. Guardami da lontano; saprò occuparmi di lui ».

In quello stesso momento, il governatore convocò ‘Abdu’l-Hamíd Khán, capo della polizia della città. « Va subito », gli comandò, o a casa di Hájí Mirza Siyyid ‘Alí 25. In silenzio e senza farti notare, scala il muro e sali sul tetto e quindi entra all’improvviso a casa sua. Arresta immediatamente il Siyyid-i- Báb e conducilo qui assieme a tutti gli eventuali visitatori che troverai presenti e confisca tutti i libri e i documenti che riuscirai a trovare in quella casa. In quanto a Hájí Mirza Siyyid ‘Alí, è mia intenzione imporgli, il giorno seguente, la penalità per non aver mantenuto la promessa. Giuro sul diadema imperiale di Muhammad Sháh che stanotte stessa metterò a morte il Siyyid-i- Báb assieme ai suoi vili compagni. La loro morte ignominiosa spegnerà la fiamma che hanno acceso e aprirà gli occhi a ogni possibile seguace di quel credo sul pericolo che corrono tutti coloro che disturbano la pace di questo regno. Con questo atto estirperò un’eresia la cui perpetuazione costituisce la più grave minaccia per gl’interessi dello Stato ».

‘Abdu’l-Hamíd Khán si ritirò per dare esecuzione all’impresa. Insieme con i suoi aiutanti, fece irruzione nella casa di Hájí Mirza Siyyid ‘Alí e trovò il Báb in compagnia dello zio materno e di un certo Siyyid Kázim-i-Zanjání, che fu più tardi martirizzato nel Mázindarán, e il cui fratello, Siyyid Murtadá, fu uno dei Sette Martiri di Tihrán. Li arrestò immediatamente, raccolse tutti i documenti che poté trovare, ordinò a Hájí Mirza Siyyid ‘Alí di rimanere in casa e condusse gli altri alla sede del governo. Qualcuno sentì il Báb ripetere intrepido e calmo questo versetto del Corano: « Ciò che li minaccia è per il mattino. E non è vicino forse il mattino? ».

Appena giunse nella piazza del mercato, il capo della polizia vide con meraviglia che la gente della città stava fuggendo costernata da tutte le parti, come se fosse stata colpita da una calamità spaventosa. Si senti inorridire quando vide una lunga fila di bare frettolosamente trasportate per le strade, ciascuna seguita da una processione di uomini e donne che lanciavano a gran voce urla di angoscia e di dolore. Quest’improvviso tumulto, i lamenti, i volti atterriti, le imprecazioni della moltitudine lo angosciarono e lo sconvolsero. Ne chiese la ragione. « Proprio questa notte », gli fu detto, « è scoppiata un’epidemia 26 di eccezionale virulenza. Siamo percossi dalla sua forza devastatrice. Da mezzanotte ha già spento la vita di più di cento persone. L’allarme e la disperazione regnano in ogni casa. Tutti stanno abbandonando le abitazioni e nei loro guai invocano l’aiuto dell’Onnipotente ». 27

‘Abdu’l-Hamíd Khán, atterrito da questa spaventosa notizia, corse a casa di Husayn Khán. Un vecchio che custodiva l’abitazione e fungeva da portiere l’informò che la casa del suo padrone era deserta, che la rovina della pestilenza aveva devastato il suo focolare e colpito i membri della famiglia. « Due delle ancelle etiopi », gli fu detto, « e un servo sono già caduti vittime del suo flagello e alcuni membri della famiglia sono ora gravemente ammalati. Disperato, il mio padrone ha abbandonato la casa e, lasciati i morti insepolti, è fuggito col resto della famiglia nel Bágh-i-Takht ». 28

‘Abdu’l-Hamíd Khán decise di condurre il Báb a casa sua e di tenerLo in custodia in attesa di istruzioni da parte del governatore. Avvicinandosi alla sua casa, fu colpito dal suono dei pianti e dei lamenti dei membri della sua famiglia. Suo figlio era stato contagiato dalla pestilenza ed era sospeso tra la vita e la morte. Disperato, si gettò ai piedi del Báb e piangendo Lo pregò di salvare la vita a suo figlio. Lo implorò di perdonargli le passate trasgressioni e malefatte. « Ti scongiuro », egli supplicò il Báb, afferrandosi all’orlo della Sua veste, « in nome di Colui che t’ha innalzato a questo eccelso rango, d’intercedere in mio favore e d’innalzare una preghiera per la guarigione di mio figlio. Non permettere che mi sia sottratto, nel fiore della gioventù. Non punire lui per la colpa che ha commesso suo padre. Mi pento di ciò che ho fatto, e in questo momento rassegno le dimissioni. Do solennemente la mia parola che mai più accetterò una tale posizione, anche se dovessi morire di fame ».

Il Báb, che stava facendo le abluzioni e Si accingeva a offrire la preghiera mattutina, gli dette istruzioni di portare al figlio un po’ dell’acqua con cui Si stava lavando il viso e di fargliela bere. Questo, disse, gli avrebbe salvato la vita.

Appena ebbe visto i segni della guarigione del figlio, ‘Abdu’l-Hamíd Khán scrisse una lettera al governatore informandolo di tutta la situazione e implorandolo di desistere dai suoi attacchi contro il Báb. « Abbi pietà di te stesso », gli scrisse, « e di coloro che la Provvidenza ha affidato alle tue cure. Se la furia di questa pestilenza dovesse continuare il suo corso fatale, nessuno in questa città, temo, prima che il giorno finisca, sopravvivrà all’orrore del suo attacco ». Husayn Khán rispose che il Báb doveva essere immediatamente rimesso in libertà e lasciato libero di andare dove Gli piacesse 29.

Appena il racconto di questi fatti giunse a Tihrán e fu portato all’attenzione dello Scià, fu emanato e spedito a Shíráz un editto imperiale che licenziava Husayn Khán dal suo incarico. Dal giorno del suo licenziamento, quello spudorato tiranno cadde vittima d’innumerevoli disgrazie e non fu alla fine nemmeno in grado di guadagnarsi il pane. Nessuno sembrò desideroso o capace di salvarlo dai suoi guai. Quando in seguito Bahá’u’lláh fu esiliato a Baghdád, Husayn Khán Gli inviò una lettera in cui esprimeva il suo pentimento e prometteva di far ammenda per le passate malefatte, a condizione di riacquistare la precedente posizione. Bahá’u’lláh Si rifiutò di rispondergli. Sprofondato nella miseria e nella vergogna, egli languì fino alla morte.

Il Báb, che stava nella casa di ‘Abdu’l-Hamíd Khán, mandò Siyyid Kázim a chiedere a Hájí Mirza Siyyid ‘Alí di venire a trovarLo. Informò lo zio della Sua intenzione di partire da Shíráz, gli affidò la madre e la moglie e lo incaricò di comunicare a ciascuna di loro l’espressione del Suo affetto e l’assicurazione dell’infallibile assistenza di Dio. « Dovunque saranno », disse a Suo zio, dicendogli addio, « l’amore onnicomprensivo di Dio e la Sua protezione le circonderanno. Ti incontrerò ancora tra le montagne dell’Ádhirbáyján e quindi ti manderò a conquistare la corona del martirio. Anch’Io ti seguirò, assieme a uno dei Miei leali discepoli, e ti raggiungerò nel reame dell’eternità ».

CAPITOLO X
IL SOGGIORNO DEL Báb A ISFÁHÁN

L’ESTATE dell’anno 1262 A.H. 1 stava volgendo al termine, quando il Báb dette l’ultimo addio a Shíráz, Sua città natale, e andò a Isfáhán. Lo accompagnò nel viaggio Siyyid Kázim-i-Zanjání. Quando fu vicino ai sobborghi della città, Egli scrisse al governatore della provincia, Manúchihr Khán, il Mu‘tamidu’d-Dawlih 2, una lettera nella quale gli chiedeva di indicare dove voleva che abitasse. La lettera, affidata a Siyyid Kázim, esprimeva una tale cortesia ed era scritta con una calligrafia così squisita, che il Mu‘tamid fu spinto a dare istruzioni al Sultánu’l-‘Ulamá’, l’Imám-Jum‘ih di Isfáhán 3, la più importante autorità ecclesiastica della provincia, di ospitare il Báb nella sua casa e di riservarGli un’accoglienza gentile e generosa. Oltre al messaggio, il governatore mandò all’Imám-Jum‘ih la lettera che aveva ricevuto dal Báb. Il Sultánu’l-‘Ulamá’ di conseguenza ordinò a suo fratello, il quale per la selvaggia crudeltà negli anni successivi ebbe da Bahá’u’lláh l’appellativo di Raqshá’ 4, di andare con alcuni dei suoi compagni favoriti incontro al Visitatore atteso e di scortarLo fino alle porte della città. Quando il Báb fu vicino, l’Imám-Jum‘ih Gli andò incontro per darGli il benvenuto di persona e Lo condusse cerimoniosamente a casa sua.

Tali furono gli onori accordati al Báb in quei giorni, che un venerdì, mentre ritornava a casa dal bagno pubblico, si vide una moltitudine di persone reclamare con insistenza l’acqua ch’Egli aveva usato per le abluzioni. I Suoi ferventi ammiratori credevano fermamente nella sua infallibile efficacia e nella sua capacità di guarire i loro mali e dolori. L’Imám-Jum‘ih stesso si era, fin dalla prima notte, così invaghito di Colui che era oggetto di tanta devozione, che, assumendosi i compiti di un servitore, si era messo a provvedere ai bisogni e ai desideri del suo amato Ospite. Prendendo la brocca dalle mani del maggiordomo e ignorando completamente l’usuale dignità del suo rango, egli incominciò a versare l’acqua sulle mani del Báb.

Una notte dopo cena, l’Imám-Jum‘ih, la cui curiosità era stata stimolata dagli straordinari tratti di carattere che il suo giovane Ospite aveva mostrato, ardì chiederGli di rivelare un commento della Sura di Va’l-‘Asr 5. La sua richiesta fu prontamente esaudita. Chieste penna e carta, il Báb, con stupefacente rapidità e senza la minima premeditazione, incominciò a rivelare, in presenza del Suo ospite, un’interpretazione molto illuminante della summenzionata Sura. Si avvicinava la mezzanotte e il Báb era ancora intento a esporre i molteplici significati impliciti nella prima lettera della Sura. Quella lettera, la lettera váv, a cui Shaykh Ahmad-i-Ahsá’í aveva già dato tanta importanza nei suoi scritti, simboleggiava per il Báb l’avvento di un nuovo ciclo della Rivelazione Divina; ad essa accennò poi Bahá’u’lláh nel « Kitáb-i-Aqdas » in passi come « il mistero della Grande Riforma » e « il Segno del Sovrano ». Il Báb subito dopo incominciò a cantare, in presenza del Suo ospite e dei suoi compagni, l’omelia che aveva premesso al commento della Sura. Quelle potenti parole riempirono gli ascoltatori di meraviglia. Essi parevano come incantati dalla magia della Sua voce. Istintivamente balzarono in piedi e, insieme con l’Imám-Jum‘ih, Gli baciarono con riverenza l’orlo della veste. Mullá Muhammad-Taqíy-i-Haratí, eminente mujtahid, proruppe in un’improvvisa espressione di esultanza e di lode. « Incomparabili e uniche », esclamò, « sono le parole sgorgate da questa penna; eppure, essere capaci di rivelare, in un tempo così breve e in una scrittura così leggibile, un numero così grande di versetti, tali da eguagliare un quarto, anzi un terzo del Corano, è di per sé opera che nessun mortale, senza l’intervento di Dio, può sperare di eseguire. Né lo spaccamento della luna né l’animazione dei ciottoli del mare possono paragonarsi a un atto così possente ».

Man mano che la fama del Báb andava spargendosi per tutta la città di Isfáhán, da ogni quartiere affluiva alla casa dell’Imám-Jum‘ih un fiume incessante di visitatori: alcuni per soddisfare la propria curiosità, altri per conseguire una comprensione più profonda delle verità fondamentali della Sua Fede e altri ancora per trovare rimedio ai propri mali e alle proprie sofferenze. Il Mu‘tamid stesso venne un giorno a far visita al Báb e, mentre era seduto in mezzo a un’assemblea formata dai teologi più brillanti e profondi di Isfáhán, Gli chiese di spiegare la natura e di dimostrare la validità della Nubuvvat-i-Khássih 6. In precedenza, nella stessa riunione, egli aveva invitato i presenti a produrre, a sostegno di questo articolo fondamentale della loro Fede, prove e dimostrazioni che costituissero una testimonianza inoppugnabile per coloro che erano inclini a ripudiarne la verità. Ma sembrò che nessuno fosse capace di rispondere al suo invito. « Come preferisci », chiese il Báb, « che Io risponda alla tua domanda: verbalmente o per iscritto? ». « Una risposta scritta », egli rispose, « non solo sarà gradita a coloro che sono presenti alla riunione, ma edificherà e istruirà sia le presenti sia le future generazioni ».

Il Báb prese immediatamente la penna e incominciò a scrivere. In meno di due ore, aveva riempito circa cinquanta pagine con un’indagine edificante e circostanziata sull’origine, il carattere e l’influenza dell’Islám. L’originalità della Sua dissertazione, il vigore e la vivacità del suo stile, la precisione dei più minuti dettagli conferirono al Suo trattato sul nobile tema un’eccellenza che nessuno dei presenti poté mancare di osservare. Con magistrale intuizione, Egli collegò l’idea centrale dei passi conclusivi di questa esposizione all’avvento del promesso Qá’im e all’atteso « Ritorno » dell’Imám Husayn 7. Argomentò con tale forza e coraggio che coloro che Lo sentirono recitare i versetti furono stupiti dalla grandezza della Sua rivelazione. Nessuno osò sollevare la minima obiezione o, ancor meno, mettere apertamente in dubbio le Sue affermazioni. Il Mu‘tamid non poté trattenersi dal dare sfogo al suo entusiasmo e alla sua gioia. « Ascoltatemi! » esclamò. « Membri di questa riverita assemblea, vi prendo come testimoni. Mai fino ad oggi sono stato fermamente convinto in fondo al cuore della verità dell’Islám. D’ora in poi, grazie alla spiegazione scritta da questo Giovane, posso dichiarare di credere con certezza nella Fede proclamata dall’Apostolo di Dio. Confesso solennemente la mia fede nella forza sovrumana di cui questo Giovane è dotato, forza che nessun sapere potrà mai conferire ». Con queste parole pose fine alla riunione.

La crescente popolarità del Báb suscitò il risentimento delle autorità ecclesiastiche di Isfáhán, le quali vedevano con preoccupazione e invidia l’influenza che quel Giovane illetterato stava a poco a poco acquistando sul pensiero e sulla coscienza dei loro seguaci. Erano fermamente convinti che, se non si fossero mossi per arginare la marea dell’entusiasmo popolare, le fondamenta stesse della loro esistenza sarebbero state indebolite. Alcuni dei più sagaci tra loro ritennero saggio astenersi da atti di diretta ostilità contro la persona e gl’insegnamenti del Báb, perché tali azioni, essi pensavano, sarebbero solo servite ad aumentare il Suo prestigio e a consolidare la Sua posizione. Ma i sobillatori si adoperarono attivamente per diffondere le più strane notizie sul carattere e sulle affermazioni del Báb. Queste notizie giunsero rapidamente a Tihrán e furono sottoposte all’attenzione di Hájí Mirza Áqásí, Gran Visir di Muhammad Sháh. Questo superbo e arrogante ministro intravide con apprensione la possibilità che il suo sovrano un giorno si sentisse incline a mostrarsi amico del Báb, inclinazione che, era sicuro, avrebbe affrettato la sua caduta. Lo Hájí aveva inoltre timore che il Mu‘tamid, il quale godeva della fiducia dello Scià, potesse riuscire a organizzare un colloquio tra il sovrano e il Báb. Si rendeva pienamente conto che, se quel colloquio avesse avuto luogo, l’impressionabile e tenero Muhammad Sháh sarebbe stato completamente conquistato dal fascino e dalla novità di quel credo. Spronato da tali riflessioni, indirizzò all’Imám-Jum‘ih una comunicazione concepita in termini forti, in cui lo rimproverava per aver gravemente trascurato il suo dovere di difendere gl’interessi dell’Islám. « Ci aspettavamo », Hájí Mirza Áqásí gli scrisse, « che tu resistessi con tutte le forze a ogni causa che contrastasse con i supremi interessi del governo e del popolo di questa terra. Sembra invece che tu abbia favorito, anzi glorificato l’iniziatore di questo oscuro e spregevole movimento ». Scrisse anche alcune lettere d’incoraggiamento agli ‘ulamá’ di Isfáhán, che prima aveva ignorato, ma ai quali ora concesse il suo speciale favore. L’Imám-Jum‘ih, pur rifiutandosi di modificare il rispettoso atteggiamento verso l’Ospite, fu indotto dal tono del messaggio che aveva ricevuto dal Gran Visir a dare istruzioni ai suoi subordinati di trovare il mezzo per diminuire il numero sempre crescente di visitatori che si affollavano ogni giorno alla presenza del Báb. Muhammad-Mihdí soprannominato il Safíhu‘l-‘Ulamá’, figlio del defunto Hájí Kalbásí, desideroso di soddisfare i desideri e di guadagnarsi la stima di Hájí Mirza Áqásí, incominciò a calunniare il Báb dal pulpito nel linguaggio più sconveniente.

Il Mu‘tamid, appena fu informato di questi sviluppi, mandò all’Imám-Jum‘ih un messaggio in cui gli ricordava la visita che come governatore aveva fatto al Báb, e invitava a casa tanto lui quanto il suo Ospite. Il Mu‘tamid invitò a presenziare all’incontro Hájí Siyyid Asadu’lláh, figlio del defunto Hájí Siyyid Muhammad-Báqir-i-Rashtí, Hájí Muhammad-Ja‘far-i-(bádiyí, Muhammad-Mihdí, Mirza Hasan-i-Núrí e alcuni altri. Hájí Siyyid Asadu’lláh ricusò l’invito e si sforzò di dissuadere coloro che erano stati invitati dal partecipare alla riunione. « Ho cercato di esimermi », egli li informò, « e senz’altro vi esorto a fare la stessa cosa. Penso che sia molto imprudente per voi incontrare il Siyyid-i- Báb faccia a faccia. Senza dubbio, egli ribadirà le sue pretese e, a sostegno del suo argomento, addurrà tutte le prove che voi potrete desiderare da lui e, senza la minima esitazione, rivelerà, come testimonianza della verità che sostiene, un numero di versetti pari alla metà del Corano. Alla fine vi sfiderà con queste parole: “Fate lo stesso, se siete uomini sinceri”. Non possiamo in alcun modo resistergli fruttuosamente. Se disdegniamo di rispondegli, la nostra impotenza sarà messa in evidenza. D’altra parte, se ci sottomettiamo alle sue pretese, non solo perderemo reputazione, privilegi e diritti, ma ci impegneremo ad accettare tutte le affermazioni che egli potrà sentirsi incline a fare in futuro ».

Hájí Muhammad-Ja‘far ascoltò il consiglio e si rifiutò di accettare l’invito del governatore. Muhammad-Mihdí, Mirza Hasan-i-Núrí e alcuni altri che non gli dettero ascolto si presentarono all’ora stabilita a casa del Mu‘tamid. Per invito dell’ospite, Mirza Hasan, noto Platonico, chiese al Báb di spiegare certe astruse dottrine filosofiche relative all’‘Arshíyyih di Mullá Sadrá 8, il cui significato solo pochi erano stati in grado di districare 9. Con linguaggio semplice e informale, il Báb rispose a ciascuna delle sue domande. Mirza Hasan, benché non fosse capace di comprendere il significato delle risposte che aveva ricevuto, capí quanto il sapere dei cosiddetti esponenti delle scuole di pensiero platonica e aristotelica dei suoi giorni fosse inferiore alla sapienza mostrata da quel Giovane. Muhammad-Mihdí a sua volta provò a interrogare il Báb su certi aspetti della Legge Islamica. Non soddisfatto della spiegazione ricevuta, incominciò a polemizzare a vuoto con Lui. Ma il Mu‘tamid lo fece subito tacere; troncando la sua conversazione, egli si rivolse a un servitore e, dicendogli di accendere la lanterna, diede ordine che Muhammad-Mihdí fosse immediatamente condotto a casa sua. Il Mu‘tamid in seguito confidò le sue apprensioni all’Imám-Jum‘ih. « Temo le macchinazioni dei nemici del Siyyid-i- Báb », gli disse. « Lo Scià Lo ha convocato a Tihrán. Ho avuto l’ordine di organizzare la Sua partenza. Penso sia più saggio che Egli rimanga nella mia casa fino al momento in cui potrà lasciare la città ». L’Imám-Jum‘ih acconsentì alla sua richiesta e ritornò a casa da solo.

Il Báb era rimasto quaranta giorni nella residenza dell’Imám-Jum‘ih. Mentre era ancora là, un certo Mullá Muhammad-Taqíy-i-Haratí, che aveva il privilegio di incontrare il Báb ogni giorno, aveva incominciato, col Suo consenso, a tradurre in persiano dall’originale arabo una delle Sue opere, intitolata Risáliy-i-Furú‘-i-‘Adlíyyih. Ma il servizio che in questo modo rese ai credenti persiani fu vanificato dal suo successivo comportamento: fu preso all’improvviso dal timore e alla fine fu indotto a rompere i rapporti con i compagni di fede.

Prima che il Báb Si trasferisse nella casa del Mu‘tamid, Mirza Ibráhím, padre del Sultánu’sh-Shuhadá’ e fratello maggiore di Mirza Muhammad-‘Alíy-i-Nahrí, a cui abbiamo già accennato, una notte invitò il Báb a casa sua. Mirza Ibráhím era amico dell’Imám-Jum‘ih, gli era molto vicino e teneva l’amministrazione di tutti i suoi affari. Il banchetto imbandito per il Báb quella notte fu di una magnificenza insuperabile. Tutti osservarono che né i funzionari né i notabili della città avevano mai offerto una festa così grandiosa e splendida. Il Sultánu’sh-Shuhadá’ e suo fratello, il Mahbúbu’ sh-Shuhadá, che erano due ragazzini di nove e undici anni rispettivamente, servirono a quel banchetto e ricevettero dal Báb speciali attenzioni. Quella notte, durante il pranzo, Mirza Ibráhím si rivolse al suo Ospite e disse: « Mio fratello, Mirza Muhammad-‘Alí, non ha figli. Ti prego d’intercedere in suo favore e di soddisfare il desiderio del suo cuore ». Il Báb prese una parte del cibo che Gli era stato servito, lo mise con le Sue mani su un vassoio e lo porse al Suo ospite, chiedendogli di portarlo a Mirza Muhammad-‘Alí e a sua moglie. « Che ne mangino entrambi », disse; « il loro desiderio sarà esaudito ». Per virtù di quella porzione che il Báb aveva deciso di darle, la moglie di Mirza Muhammad-‘Alí concepì e a suo tempo dette alla luce una bambina, che fu unita poi in matrimonio col Più Grande Ramo 10, e questa unione fu considerata la consumazione delle speranze nutrite dai suoi genitori.

I grandi onori accordati al Báb servirono a infiammare ulteriormente l’ostilità degli ‘ulamá’ di Isfáhán. Con grande costernazione, essi videro da tutte le parti i segni attestanti che la Sua influenza penetrante stava invadendo la roccaforte dell’ortodossia e sovvertendone le fondamenta. Indirono allora una riunione, in cui stilarono per iscritto un documento firmato e sigillato da tutti i capi ecclesiastici della città, che condannava a morte il Báb 11.

Furono tutti d’accordo su questa condanna tranne Hájí Siyyid Asadu’lláh e Hájí Muhammad-Ja‘far-i-(bádiyí, i quali si rifiutarono entrambi di aderire al contenuto di un documento così chiaramente abusivo. L’Imám-Jum‘ih si rifiutò di avvallare la condanna a morte del Báb, ma fu indotto, a causa della sua estrema codardia e ambizione, ad aggiungere di proprio pugno al documento la seguente testimonianza: « Attesto che nel corso della mia associazione con questo giovane non ho potuto scoprire alcun atto che indichi in qualsiasi modo che egli abbia ripudiato le dottrine dell’Islám. Al contrario l’ho conosciuto come un pio e leale osservatore dei suoi precetti. Ma la stravaganza delle sue affermazioni e il suo sdegnoso disprezzo per le cose del mondo mi fanno pensare che sia privo di senno e di giudizio ».

Appena fu informato della condanna pronunciata dagli ‘ulamá’ di Isfáhán, il Mu‘tamid decise di vanificare gli effetti del crudele verdetto, per mezzo di un piano che preparò personalmente. Dette subito istruzioni che verso l’ora del tramonto il Báb, con una scorta di cinquecento cavalieri della guardia equestre personale del governatore, lasciasse la città e partisse alla volta di Tihrán. Ordini tassativi erano stati dati che a ogni farsang 12 cento guardie equestri tornassero direttamente a Isfáhán. Al capo del contingente che sarebbe rimasto per ultimo, persona in cui aveva completa fiducia, il Mu‘tamid espresse in segreto il suo desiderio che a ogni maydán 12 comandasse a venti delle altre cento guardie di ritornare in città. Dei venti cavalieri rimasti, il Mu‘tamid ordinò che dieci fossero inviati ad Ardistán, per riscuotere le tasse imposte dal governo, e gli altri, tutti scelti tra i suoi uomini più provati e fidati, riportassero a Isfáhán il Báb travestito, percorrendo una strada non frequentata 13. Essi, inoltre, ricevettero istruzioni di regolare la loro marcia in modo tale che, prima dell’alba del giorno successivo, il Báb potesse arrivare a Isfáhán e venire affidato alla sua custodia. Questo piano fu subito messo in atto ed eseguito a dovere. A un’ora insospettata, il Báb rientrò in città, fu direttamente condotto nella residenza privata del Mu‘tamid, nota con il nome di ‘Imárat-i-Khurshíd 14, e introdotto, attraverso un’entrata secondaria riservata al Mu‘tamid, nei suoi appartamenti privati. Il governatore si occupò di persona del Báb, Gli servì i pasti e provvide a tutto quanto occorreva perché stesse comodo e fosse al sicuro 15.

Nel frattempo circolarono in città le più strane congetture sul viaggio del Báb a Tihrán, sulle sofferenze che Gli erano state inflitte mentre andava alla capitale, sul verdetto pronunciato contro di Lui e sulla punizione che aveva subito. Queste voci turbarono molto i credenti che abitavano a Isfáhán. Il Mu‘tamid, il quale ben comprendeva il loro dolore e la loro ansietà, intercesse per loro presso il Báb e Lo pregò di permettergli di condurli in Sua presenza. Il Báb indirizzò poche parole di Suo pugno a Mullá ‘Abdu’l-Karím-i-Qazvíní, che aveva preso alloggio nella madrisih di Ním-Ávard, e dette istruzioni al Mu‘tamid che gliele inviasse per mezzo di un messaggero fidato. Un’ora più tardi, Mullá ‘Abdu’l-Karím fu introdotto alla presenza del Báb. Del suo arrivo non fu informato nessuno tranne il Mu‘tamid. Egli ricevette dal suo Maestro alcuni dei Suoi scritti ed ebbe istruzioni di trascriverli in collaborazione con Siyyid Husayn-i-Yazdí e Shaykh Hasan-i-Zunúzí. Ritornò subito da loro, portando la gradita notizia che il Báb stava bene ed era al sicuro. Tra tutti i credenti che abitavano a Isfáhán, a questi tre soltanto fu permesso di vederLo.

Un giorno, mentre era seduto con il Báb nel suo giardino privato entro la corte della sua casa, il Mu‘tamid, confidandosi con Lui, Gli rivolse queste parole: « L’Onnipotente Donatore mi ha concesso grandi ricchezze 16. Non conosco il modo migliore per usarle. Ora che, con l’aiuto di Dio, sono pervenuto a riconoscere questa Rivelazione, ho un ardente desiderio di consacrare tutti i miei beni alla promozione dei suoi interessi e alla diffusione della sua fama. Ho intenzione di andare, col Tuo permesso, a Tihrán, e di fare il possibile per convertire a questa Causa Muhammad Sháh, che ha in me una fiducia ferma e incrollabile. Sono certo che l’abbraccerà con ardore e si leverà per diffonderla dappertutto. Cercherò anche d’indurre lo Scià a licenziare lo scellerato Hájí Mirza Áqásí, la follia della cui amministrazione ha portato questo paese quasi sull’orlo della rovina. Poi, cercherò di ottenere per Te la mano di una delle sorelle dello Scià, e farò io stesso i preparativi per le Tue nozze. Infine, spero di poter guidare il cuore dei governanti e dei re della terra verso questa meravigliosa Causa e di poter estirpare ogni traccia della corrotta gerarchia ecclesiastica che ha macchiato il buon nome dell’Islám. ». « Possa Iddio ricompensarti per le tue nobili intenzioni », rispose il Báb. « Un’intenzione così nobile è per Me ancor più preziosa dell’atto stesso. Ma i tuoi e i Miei giorni sono contati; sono troppo brevi per permettere a Me di vedere e a te di realizzare le tue speranze. Non con i mezzi che tu vanamente immagini la Provvidenza onnipotente attuerà il trionfo della Sua Fede. Per mezzo dei poveri e degli umili di questa terra, col sangue che essi verseranno sul Suo sentiero, l’onnipotente Sovrano garantirà la conservazione e consoliderà le fondamenta della Sua Causa. Quello stesso Dio, nel mondo avvenire, potrà sul tuo capo una corona di gloria immortale e riverserà su di te le Sue inestimabili benedizioni. Della tua breve vita terrena rimangono solo tre mesi e nove giorni, dopo di che ti avvierai, con fede e certezza, verso la tua eterna dimora ». Il Mu‘tamid si rallegrò molto di queste parole. Rassegnato alla volontà di Dio, si preparò alla dipartita che le parole del Báb avevano così chiaramente predetto. Fece testamento, sistemò i suoi affari privati e lasciò in eredità al Báb tutto ciò che possedeva. Ma subito dopo la sua morte, suo nipote, il rapace Gurgín Khán, scoprì e distrusse il suo testamento, s’impossessò delle sue proprietà e ignorò sprezzantemente i suoi desideri.

Mentre s’avvicinava la fine dei suoi giorni, il Mu‘tamid sempre più spesso cercò la presenza del Báb e, nelle sue ore di intimità con Lui, conseguì una più profonda comprensione dello spirito che animava la Sua Fede. « Man mano che l’ora della mia dipartita s’avvicina », un giorno disse al Báb, « sento una gioia indicibile pervadermi l’anima. Ma ho timore per Te, tremo al pensiero d’essere costretto a lasciarTi alla mercé di un successore così spietato come Gurgín Khán. Egli scoprirà, senza dubbio, la Tua presenza in questa casa e, temo, Ti maltratterà gravemente ». « Non temere », protestò il Báb; « Mi sono messo nelle mani di Dio. Ho fiducia in Lui. Tale è il potere ch’Egli Mi ha dato, che, se lo volessi, potrei trasformare queste pietre in gemme di valore inestimabile e instillare nel cuore del più malvagio criminale i pensieri più elevati di rettitudine e di dovere. Per Mia volontà ho scelto d’essere afflitto dai Miei nemici, sí che Iddio possa “far realtà quel che aveva destinato” » 17. Mentre quelle ore preziose fuggivano, un senso di devozione irresistibile, di crescente consapevolezza della vicinanza a Dio colmò il cuore del Mu‘tamid. Ai suoi occhi la pompa e il fasto del mondo, messi davanti alle realtà eterne racchiuse nella Rivelazione del Báb, diventarono insignificanti. La visione delle sue glorie, potenzialità infinite, incalcolabili benedizioni gli divenne sempre più chiara, mentre egli sempre più comprendeva la vanità dell’ambizione terrena e le limitazioni degli sforzi umani. Continuò a ponderare in cuore questi pensieri, fino al momento in cui un leggero attacco di febbre, che durò solo una notte, pose improvvisamente fine alla sua vita. Sereno e fiducioso prese il volo verso il grande Aldilà 18.

Mentre la vita del Mu‘tamid stava giungendo al suo epilogo, il Báb convocò in Sua presenza Siyyid Husayn-i-Yazdí e Mullá ‘Abdu’l-Karím, li informò di ciò che aveva predetto al Suo ospite e ordinò loro di dire ai credenti che si erano radunati in città di separarsi e di andare a Káshán, Qum e Tihrán e di aspettare ciò che la Provvidenza, nella Sua saggezza, avrebbe deciso di decretare.

Pochi giorni dopo la morte del Mu‘tamid, una persona che era al corrente del progetto che questi aveva ideato e realizzato per proteggere il Báb, informò il suo successore, Gurgín Khán 19, che il Báb abitava effettivamente nell’‘Imárat-i-Khurshíd, e gli descrisse gli onori che il suo predecessore aveva riversato sul suo Ospite nell’intimità della sua casa. Appena ricevuta questa inattesa informazione, Gurgín Khán inviò a Tihrán un messaggero dandogli istruzioni di consegnare personalmente il seguente messaggio a Muhammad Sháh: « Quattro mesi fa a Isfáhán tutti avevano creduto, che, obbediente all’invito di vostra Maestà imperiale, il Mu‘tamidu’d-Dawlih, mio predecessore, avesse mandato il Siyyid-i- Báb alla sede del governo di vostra Maestà. Abbiamo ora scoperto che il siyyid abita attualmente nell’‘Imárat-i-Khurshíd, residenza privata del Mu‘tamidu’d-Dawlih. Abbiamo accertato che il mio predecessore ha dato lui stesso ospitalità nella sua casa al Siyyid-i- Báb e ha tenuto accuratamente nascosto questo segreto sia al popolo sia ai funzionari della città. Ciò che a vostra Maestà piacerà decretare, prometto che farò senza esitazione ».

Lo Scià, che era fermamente persuaso della lealtà del Mu‘tamid, quando ricevette questo messaggio, comprese che la sincera intenzione del defunto governatore era stata di attendere l’occasione favorevole per organizzare un incontro tra lui e il Báb e che la sua morte improvvisa aveva impedito l’esecuzione del piano. Emanò un ordine imperiale che convocava il Báb alla capitale. Nel suo messaggio scritto a Gurgín Khán, lo Scià gli ordinò di mandare a Tihrán in incognito il Báb, accompagnato da una scorta equestre 20 comandata da Muhammad Big-i-Chápárchí 21, della setta degli ‘Alíyu’lláhí, di trattarLo con il massimo rispetto durante il viaggio e di tenere strettamente segreta la Sua partenza 22.

Gurgín Khán andò subito dal Báb e consegnò nelle Sue mani l’ordine scritto del sovrano. Convocò poi Muhammad Big, gli comunicò i desideri di Muhammad Sháh e gli ordinò di prepararsi immediatamente a partire. « Attento », lo ammonì, « che nessuno scopra la sua identità o sospetti la natura della tua missione. Fa in modo che, all’infuori di te, non lo riconosca nessuno, nemmeno i membri della sua scorta. Se qualcuno ti chiede qualcosa di lui, dí che è un mercante che abbiamo avuto ordine di condurre nella capitale e la cui identità ignoriamo completamente ». Subito dopo mezzanotte il Báb, secondo le istruzioni, lasciò la città e partì alla volta di Tihrán.

CAPITOLO XI
LA PERMANENZA DEL Báb A KÁSHÁN

ALLA vigilia dell’arrivo del Báb a Káshán, Hájí Mirza Jání, detto Parpá, noto abitante della città, sognò di trovarsi a tarda ora nel pomeriggio alla porta di ‘Attár, una delle porte della città; in sogno vide d’un tratto il Báb a cavallo che portava, invece del solito turbante, il kuláh 1 abitualmente indossato dai mercanti persiani. Davanti e dietro a Lui marciavano alcuni cavalieri, alla cui custodia pareva ch’Egli fosse stato affidato. Quando furono vicini alla porta, il Báb lo salutò e disse: « Hájí Mirza Jání, dobbiamo essere tuo Ospite per tre notti. Preparati a riceverCi ».

Quando si svegliò, la chiarezza del sogno lo convinse della realtà della visione. Quest’inattesa apparizione costituì ai suoi occhi un provvidenziale avvertimento che si sentì in dovere di ascoltare e osservare. Di conseguenza, si mise a preparare la casa per ricevere il Visitatore e per provvedere a tutto ciò che gli sembrava necessario per farLo star comodo. Appena ebbe terminato i primi preparativi per il banchetto che aveva deciso d’offrire al Báb quella notte, Hájí Mirza Jání andò alla porta di ‘Attár e li aspettò i segni dell’atteso arrivo del Báb. All’ora stabilita, mentre scrutava l’orizzonte, scorse in lontananza qualcosa che gli sembrò una compagnia di cavalieri che si avvicinavano alla porta della città. Andando loro incontro, riconobbe il Báb circondato dalla scorta con le stesse vesti e la stessa espressione che aveva visto in sogno la notte prima. Hájí Mirza Jání Gli si avvicinò con gioia e si chinò per baciarGli le staffe. Il Báb glielo impedì, dicendo: « Dobbiamo essere tuo Ospite per tre notti. Domani è il giorno di Naw-Rúz; lo celebreremo insieme in casa tua ». Muhammad Big, che cavalcava vicino al Báb, pensò ch’Egli fosse intimo amico di Hájí Mirza Rivolgendosi a questi, disse: « Sono pronto a fare tutto ciò che il Siyyid-i- Báb desidera. Ma ti chiedo di procurarti il consenso del mio collega che divide con me l’incarico di condurre il Siyyid-i- Báb a Tihrán ». Hájí Mirza Jání presentò la sua richiesta e si trovò di fronte a un netto rifiuto. « Respingo il tuo suggerimento », gli fu detto. « Ho avuto precise istruzioni di non permettere a questo giovane di entrare in nessuna città finché non arriverà alla capitale. Mi hanno comandato in modo particolare di trascorrere la notte fuori dalla porta della città, d’interrompere la marcia al tramonto e riprenderla il giorno successivo all’alba. Non posso allontanarmi dagli ordini che mi sono stati dati ». Questo dette origine a un acceso alterco che si concluse alla fine in favore di Muhammad Big, il quale riuscì a indurre il suo oppositore ad affidare il Báb alla custodia di Hájí Mirza Jání, con l’espressa intesa che questi, tre mattine dopo, avrebbe riconsegnato il suo Ospite sano e salvo nelle loro mani. Hájí Mirza Jání aveva l’intenzione di invitare a casa sua tutta la scorta del Báb, ma Questi gli consigliò di rinunziare. « Solo tu », insistette, « devi accompagnarMi a casa tua ». Hájí Mirza Jání, chiese che gli fosse permesso di pagare le spese del soggiorno a Káshán dei cavalieri per tre giorni. « Non è necessario », osservò il Báb; « se non fosse stato per il Mio volere, nulla avrebbe potuto indurli a consegnarMi nelle tue mani. Tutte le cose sono racchiuse nel pugno della Sua potenza. Nulla Gli è impossibile. Egli rimuove ogni difficoltà e piega ogni ostacolo ». I cavalieri alloggiarono in un caravanserraglio nelle immediate vicinanze della porta della città. Muhammad Big, seguendo le istruzioni del Báb, Lo accompagnò, finché non giunsero vicino alla casa di Hájí Mirza Jání. Dopo aver controllato dov’era situata la casa, tornò indietro e raggiunse i suoi compagni.

La notte in cui il Báb arrivò a Káshán coincideva con la vigilia del terzo Naw-Rúz, dopo la dichiarazione della Sua Missione, che cadeva il secondo giorno del mese di Rabí‘u’th-Thání, dell’anno 1263 A.H. 2. Quella stessa notte, Siyyid Husayn-i-Yazdí, che secondo le direttive del Báb si trovava già a Káshán, fu invitato a casa di Hájí Mirza Jání e introdotto alla presenza del Maestro. Il Báb stava dettandogli una Tavola in onore del Suo ospite, quando giunse un amico di quest’ultimo, un certo ‘Abdu’l-Báqí, noto a Káshán per il suo sapere. Il Báb lo invitò a entrare, gli permise di ascoltare i versetti che stava rivelando, ma Si rifiutò di rivelare la Propria identità. Nei passi conclusivi della Tavola che stava indirizzando a Hájí Mirza Jání, Egli pregò per questi, supplicò l’Onnipotente d’illuminare il suo cuore con la luce della sapienza Divina e di sciogliere la sua lingua per servire e proclamare la Sua Causa. Benché analfabeta e illetterato, Hájí Mirza Jání riuscì, in virtù di quella preghiera, a influenzare coi suoi discorsi anche i più profondi teologi di Káshán. Acquistò una tale potenza che riuscì a far tacere ogni stolto simulatore che osasse sfidare i precetti della Fede. Neppure l’altezzoso e imperioso Mullá Ja‘far-i-Naráqí, nonostante la sua consumata eloquenza, fu capace di resistere alla forza della sua argomentazione e fu costretto a riconoscere esteriormente i meriti della Causa del suo avversario, anche se in fondo al cuore si rifiutò di credere nella sua verità.

Siyyid ‘Abdu’l-Báqí si sedette e ascoltò il Báb; udì la Sua voce, osservò i Suoi movimenti, vide l’espressione del Suo volto e ascoltò le parole che sgorgavano incessantemente dalle Sue labbra, e tuttavia non fu toccato dalla loro maestà e forza. Avviluppato dai veli della sua fantasia e della sua vana dottrina, non ebbe la forza di apprezzare il significato delle parole del Báb. Non si preoccupò nemmeno di informarsi sul nome o sul carattere dell’Ospite alla cui presenza era stato introdotto. Insensibile alle cose che aveva udito e visto, si ritirò da quella presenza, inconsapevole dell’opportunità unica che, con la sua apatia, aveva irrimediabilmente perduto. Pochi giorni più tardi, quando apprese il nome del Giovane che aveva trattato con tale noncurante indifferenza, si riempì di rammarico e di rimorso. Ma era troppo tardi per poter cercare la Sua presenza e riparare al mal fatto, perché il Báb era già partito da Káshán. Addolorato, rinunciò alla compagnia dei suoi simili e condusse, fino alla fine dei suoi giorni, una vita di assoluto isolamento. Tra coloro che ebbero il privilegio d’incontrare il Báb nella casa di Hájí Mirza Jání vi fu un uomo chiamato Mihdí, che era destinato a subire il martirio a Tihrán in seguito, nell’anno 1268 A.H. 3. Egli e alcuni altri furono, durante quei tre giorni, affettuosamente intrattenuti da Hájí Mirza Jání, che fu così generoso e ospitale da meritare la lode e l’approvazione del suo Maestro. Anche verso i membri della scorta del Báb egli usò la stessa bontà e, con la sua liberalità e il fascino delle sue maniere, si guadagnò la loro perenne gratitudine. La mattina del secondo giorno dopo Naw-Rúz, memore della promessa fatta, consegnò il Prigioniero nelle loro mani e, col cuore colmo di dolore, Gli dette il suo ultimo commosso addio.

CAPITOLO XII
IL VIAGGIO DEL Báb DA KÁSHÁN A TABRÍZ

ACCOMPAGNATO dalla Sua scorta, il Báb proseguì alla volta di Qum 1. Il Suo seducente fascino, unito a un’irresistibile dignità e ad una inesauribile benevolenza, avevano, a quel punto, completamente disarmato e trasformato le guardie, le quali sembrava avessero abdicato a tutti i loro diritti e doveri e si fossero arrese alla Sua volontà e al Suo compiacimento. Un giorno, desiderose di servirLo e compiacerLo, osservarono: « Il governo ci ha rigorosamente proibito di permetterTi di entrare nella città di Qum e ci ha ordinato di proseguire direttamente per Tihrán, seguendo una strada abbandonata. Ci hanno in particolare comandato di tenerci lontani dal Haram-i-Ma‘súmih 2, l’inviolabile santuario alla cui ombra i criminali più noti godono dell’immunità e non possono essere arrestati. Ma per amor Tuo siamo pronti a ignorare completamente tutte le istruzioni ricevute. Se vuoi, Ti condurremo senza esitare attraverso le strade di Qum e Ti permetteremo di far visita al suo santo mausoleo ». « Il cuore del vero credente è il trono di Dio! » osservò il Báb. « Colui che è l’arca della salvezza e l’inespugnabile roccaforte dell’Onnipotente viaggia ora con voi in questa landa selvaggia. Preferisco la strada di campagna piuttosto che entrare in quest’empia città. L’immacolata i cui resti sono sepolti entro questo mausoleo, suo fratello e i suoi illustri avi senza dubbio deplorano lo stato di questo popolo malvagio, che con le labbra le rende omaggio, mentre con gli atti, getta il disonore sul suo nome. In apparenza servono e riveriscono il suo mausoleo; ma nel loro intimo offendono la sua dignità ».

Questi nobili sentimenti avevano infuso tale fiducia nel cuore di coloro che accompagnavano il Báb che, se a un certo momento Egli avesse deciso d’allontanarsi all’improvviso e di abbandonarli, nessuna delle guardie si sarebbe sentita minimamente turbata o avrebbe tentato d’inseguirLo. Percorrendo una strada che costeggiava la parte settentrionale della città di Qum, si fermarono nel villaggio di Qumrúd proprietà di un parente di Muhammad Big, i cui abitanti appartenevano tutti alla setta degli ‘Alíyu’lláhí. Invitato dal capo del villaggio, il Báb vi trascorse una notte e fu toccato dal calore e dalla spontaneità dell’accoglienza che quella gente semplice Gli accordò. Prima di riprendere il viaggio, invocò le benedizioni dell’Onnipotente su di loro e rallegrò il loro cuore assicurandoli del Suo apprezzamento e del Suo amore.

Dopo due giorni di marcia, arrivarono, il pomeriggio dell’ottavo giorno dopo Naw-Rúz, alla fortezza di Kinár-Gird 3, che si trova a sei farsang a sud di Tihrán. Si erano proposti di raggiungere la capitale il giorno successivo e avevano deciso di passare la notte nelle vicinanze della fortezza, quando giunse inaspettatamente da Tihrán un messaggero che portava un ordine scritto di Hájí Mirza Áqásí per Muhammad Big. Il messaggio gli dava istruzioni di andare subito con il Báb nel villaggio di Kulayn 4, dove era sepolto Shaykh-i-Kulayní, Muhammad ibn-i-Ya‘qúb, autore dell’Usúl-i-Káfí, che in quel luogo era nato; costui era stato sepolto con il padre e le loro tombe erano molto onorate dalla gente dei dintorni 5. Muhammad Big, considerato che le case del villaggio erano inadatte, ebbe ordine di piantare una tenda speciale per il Báb e di tenere la scorta nelle vicinanze fino all’arrivo di ulteriori istruzioni. La mattina del nono giorno dopo Naw-Rúz, l’undicesimo giorno del mese di Rabí‘u’th-Thání, dell’anno 1263 dell’A.H. 6, nelle immediate vicinanze del villaggio, che apparteneva a Hájí Mirza Áqásí, sui pendii di una collina piacevolmente situata in mezzo a vaste distese di frutteti e di prati ridenti fu drizzata per il Báb una tenda che era servita per l’uso personale del Visir quando questi visitava il villaggio. La pace del luogo, il rigoglio della vegetazione e l’incessante mormorio dei ruscelli deliziarono molto il Báb. Lo raggiunsero due giorni più tardi, Siyyid Husayn-i-Yazdí, Siyyid Hasan, suo fratello, Mullá ‘Abdu’l-Karím e Shaykh Hasan-i-Zunúzí, che furono tutti invitati ad alloggiare nelle immediate vicinanze della Sua tenda. Il quattordicesimo giorno del mese di Rabí‘u’th-Thání 7, dodici giorni dopo Naw-Rúz, giunsero da Tihrán Mullá Mihdíy-i-Khú’í e Mullá Muhammad-Mihdíy-i-Kandí. Quest’ultimo, che a Tihrán era stato molto vicino a Bahá’u’lláh, era stato da Lui incaricato di porgere al Báb una lettera sigillata insieme con certi doni che, appena Gli furono consegnati, suscitarono nell’anima del Báb sentimenti d’insolita delizia. Il Suo volto risplendeva di gioia, mentre elargiva al latore i segni della Sua gratitudine e del Suo favore.

Il messaggio, ricevuto in un’ora d’incertezza e di ansia, impartì al Báb sollievo e forza. Dissipò le tenebre calate sui Suo cuore e dette alla Sua anima la certezza della vittoria. La mestizia, che aveva a lungo dimorato sul Suo viso, e che i pericoli della Sua prigionia avevano contribuito ad accentuare, diminuì sensibilmente. Non versò più quelle lacrime d’angoscia che erano sgorgate così profusamente dai Suoi occhi sin dal giorno del Suo arresto e della Sua partenza da Shíráz. Le parole « Diletto, Mio Prediletto », che nel Suo amaro dolore e nella Sua solitudine era solito pronunziare, cedettero il posto a espressioni di ringraziamento e di lode, di speranza e di trionfo. L’esultanza che brillò sui Suo viso non Lo abbandonò più, fino al giorno in cui la notizia del grande disastro che aveva colpito gli eroi di Shaykh Tabarsí non oscurò nuovamente la radiosità dei Suo sembiante e non offuscò la gioia del Suo cuore.

Ho sentito Mullá ‘Abdu’l-Karím raccontare il seguente fatto: « i miei compagni e io eravamo profondamente addormentati nei pressi della tenda del Báb, quando fummo risvegliati all’improvviso da uno scalpitio di cavalieri. Venimmo ben presto a sapere che la tenda del Báb era vuota e che coloro che erano andati a cercarLo non erano riusciti a trovarLo. Sentimmo Muhammad Big fare le sue rimostranze con le guardie. “Perché siete preoccupati? La Sua magnanimità e la nobiltà della Sua anima non sono forse sufficientemente dimostrate ai vostri occhi, per convincervi che mai Egli, per amore della Propria salvezza, acconsentirà di mettere altri in imbarazzo? Senza dubbio dev’esserSi appartato, nel silenzio di questa notte di luna, in un luogo dove possa volgere indisturbato lo spirito a Dio. Senza dubbio ritornerà nella Sua tenda. Non ci abbandonerà mai”. Desideroso di rassicurare i colleghi, Muhammad Big s’incamminò lungo la strada che porta a Tihrán. Anch’io, con i miei compagni, lo seguii. Poco dopo vedemmo il resto delle guardie marciare a cavallo dietro di noi. Avevamo percorso circa un maydán 8 quando, alla pallida luce dei primi albori, scorgemmo in lontananza la figura del Báb. Stava venendo verso di noi dalla parte di Tihrán. “Credevate che fossi fuggito?” furono le Sue parole a Muhammad Big, mentre gli Si avvicinava. “Lungi da me”, fu la sua immediata risposta, mentre si gettava ai piedi del Báb, “l’avere certi pensieri”. Muhammad Big era troppo soggiogato dalla serena maestà che il Suo volto radioso rivelava quel mattino per permettersi di fare ulteriori osservazioni. Uno sguardo fiducioso era comparso sul Suo volto, le Sue parole possedevano una forza trascendente tale, che un sentimento di profonda riverenza pervase le nostre anime. Nessuno osò chiederGli la causa di un mutamento così evidente nel Suo modo di parlare e di agire. Ed Egli non volle soddisfare la nostra curiosità e la nostra meraviglia ».

Per due settimane 9 il Báb Si fermò in quel luogo. La tranquillità di cui godeva in quel sito delizioso fu rudemente disturbata dall’arrivo di una lettera che Muhammad Sháh 10 in persona aveva indirizzato al Báb e che era concepita in questi termini 11: « Per quanto desideriamo incontrarti, ci troviamo nell’impossibilità di riceverti in modo conveniente nella nostra capitale a causa della nostra immediata partenza da Tihrán. Abbiamo espresso il desiderio che tu sia condotto a Máh-Kú e abbiamo dato le istruzioni necessarie ad ‘Alí Khán, il guardiano del castello, dicendogli di trattarti con rispetto e considerazione. Abbiamo la speranza e l’intenzione d’invitarti qui al nostro ritorno nella sede del governo e allora pronunceremo il nostro giudizio. Confidiamo di non averti deluso e speriamo che non esiterai mai ad informarci nel caso tu riceva qualche torto. Speriamo che tu continui a pregare per la prosperità del nostro reame ». (Datata Rabí‘u’th-Thání, 1263 A.H.) 12.

Hájí Mirza Áqásí 13 fu senza dubbio responsabile di aver indotto Muhammad Sháh a inviare questa comunicazione al Báb. Egli era spinto solo da un sentimento di timore 14 che il previsto colloquio lo privasse della sua posizione di indiscussa preminenza negli affari di Stato e portasse infine alla sua caduta dal potere. Non nutriva alcun sentimento di malanimo o di rancore verso il Báb. Alla fine riuscì 15 a persuadere il sovrano a trasferire il temuto oppositore in un angolo remoto e isolato del reame e poté così liberarsi la mente da un pensiero che lo ossessionava continuamente 16. Come fu tremendo il suo errore, come fu doloroso il suo fallo! Non comprese, in quel momento, che coi suoi continui intrighi toglieva al re e al paese gl’incomparabili benefici di una Rivelazione Divina, la sola cosa che avesse la forza di riscattare il paese dallo spaventoso stato di degradazione in cui era caduto. Col suo atto quel cieco ministro non solo tolse allo Scià lo strumento con cui avrebbe potuto riabilitare l’impero in rapido declino, ma lo privò anche di quell’Agente spirituale che avrebbe potuto permettergli di affermare la sua supremazia indiscussa sui popoli e sulle nazioni della terra. Con la sua follia, la sua prodigalità e i suoi perfidi consigli, indebolì le fondamenta dello Stato, umiliò il suo prestigio, distrusse la lealtà dei sudditi e li gettò in un abisso di miseria 17. Incapace di comprendere la lezione dell’esempio dei suoi predecessori, ignorò sprezzantemente le richieste e gl’interessi del popolo, persegui con infaticabile zelo le proprie mire di grandezza personale e con la sua scelleratezza e prodigalità coinvolse il paese in rovinose guerre contro i vicini. Sa‘d-i-Ma‘ádh, che non era di sangue reale e non aveva alcun potere raggiunse, per la rettitudine della sua condotta e per la sua generosa devozione alla causa di Muhammad, una posizione così elevata che fino ad oggi i notabili e i governanti dell’Islám continuano a riverirne la memoria e a lodarne le virtù; mentre Buzurg-Mihr, il più abile, il più saggio e il più esperto amministratore tra i Visir di Núshíraván-i-‘(dil, nonostante la sua posizione di comando, alla fine fu degradato pubblicamente, gli fu teso un tranello e divenne oggetto di disprezzo e derisione per il popolo. Si lamentò della sua sorte e pianse così amaramente che alla fine perse la vista. Né l’esempio del primo né la sorte dell’ultimo sembra che abbiano aperto gli occhi al presuntuoso ministro facendogli vedere i pericoli della sua posizione. Persistette nei suoi pensieri finché anch’egli perse rango e ricchezze 18 e sprofondò nell’umiliazione e nella vergogna. Le numerose proprietà che aveva carpito con la forza agli umili e obbedienti sudditi dello Scià, i costosi arredamenti con cui le aveva abbellite, il grande dispendio di fatica e di denaro che aveva ordinato per le opere di miglioria, tutto fu irrimediabilmente perduto due anni dopo ch’ebbe emanato il decreto che condannava il Báb a un crudele incarceramento nelle inospitali montagne dell’Ádhirbáyján. Tutti i suoi beni furono confiscati. Egli fu degradato dal sovrano, fu ignominiosamente espulso da Tihrán e cadde preda della malattia e della povertà. Disperato e in miseria, languì a Karbilá si fino all’ora della morte 19.

Al Báb fu perciò ordinato di proseguire per Tabríz 20. La stessa scorta, sotto il comando di Muhammad Big, Lo accompagnò nel Suo viaggio verso la provincia nord-occidentale dell’Ádhirbáyján. Gli fu concesso di sceglierSi, tra i seguaci, un compagno e un servitore che stessero con Lui durante il soggiorno nella provincia. Egli scelse Siyyid Husayn-i-Yazdí e Siyyid Hasan, suo fratello. Rifiutò di spendere per Sé i fondi forniti dal governo per le spese del viaggio. Tutta la sovvenzione data dallo Stato, Egli la elargì ai poveri e ai bisognosi e spese per le proprie necessità personali il denaro che aveva guadagnato, come mercante, a Búshihr e a Shíráz. Essendo stato dato l’ordine di evitare le città durante il viaggio verso Tabríz, alcuni fedeli di Qazvín, informati che il loro amato Maestro Si stava avvicinando, partirono per il villaggio di Síyáh-Dihán 21 e là riuscirono a incontrarLo.

Uno di questi era quel Mullá Iskandar, che era stato delegato da Hujjat a far visita al Báb a Shíráz e a indagare sulla Sua Causa. Il Báb lo incaricò di portare a Sulaymán Khán-i-Afshár, che era un grande ammiratore del defunto Siyyid Kázim, il seguente messaggio: « Colui le cui virtù il defunto Siyyid incessantemente esaltava e all’avvicinarsi della cui Rivelazione continuamente alludeva è ora rivelato. Io sono Quel Promesso. Sorgi e liberaMi dalle mani dell’oppressore ». Quando il Báb affidò questo messaggio a Mullá Iskandar, Sulaymán Khán era a Zanján e si stava accingendo a partire per Tihrán. Il messaggio lo raggiunse nel giro di tre giorni. Ma egli non rispose all’appello.

Due giorni più tardi, un amico di Mullá Iskandar comunicò l’appello del Báb a Hujjat, il quale per istigazione degli ‘ulamá’ di Zanján era stato incarcerato nella capitale. Immediatamente Hujjat dette istruzioni ai credenti della sua città natale di fare tutti i preparativi che occorrevano e di raccogliere le forze necessarie per liberare il loro Maestro. Li esortò a procedere con cautela e a tentare, al momento opportuno, di rapirLo e portarLo via, ovunque Egli potesse desiderare. In breve ad essi si unirono alcuni credenti di Qazvín e Tihrán, che partirono, secondo le direttive di Hujjat, per mettere in atto il piano. Essi sorpresero le guardie nel cuore della notte e, trovandole profondamente addormentate, si avvicinarono al Báb e Lo supplicarono di partire. « Anche le montagne dell’Ádhirbáyján hanno i loro diritti », fu la Sua fiduciosa risposta mentre li consigliava amorevolmente di abbandonare il loro progetto e di ritornare a casa 22.

Avvicinandosi alle porte di Tabríz, Muhammad Big, sentendo che l’ora della separazione dal Prigioniero era vicina, andò in Sua presenza e con gli occhi pieni di lacrime Lo pregò di perdonargli i suoi falli e le sue colpe. « Il viaggio da Isfáhán », disse, « è stato lungo e difficile. Non sono riuscito a fare il mio dovere e a servirTi come avrei dovuto. Desidero ardentemente il Tuo perdono e Ti prego di concedermi la Tua benedizione ». « Sta tranquillo », rispose il Báb, « Ti considero un membro del Mio gregge. Coloro che abbracceranno la Mia Causa ti benediranno e glorificheranno in eterno, loderanno la tua condotta ed esalteranno il tuo nome » 23. Le altre guardie, seguendo l’esempio del loro capo, implorarono la benedizione del Prigioniero, Gli baciarono i piedi e con le lacrime agli occhi Gli dettero l’ultimo addio. A ciascuno il Báb espresse il Proprio apprezzamento per le devote attenzioni e assicurò ciascuno delle Sue preghiere per loro. Lo consegnarono con riluttanza nelle mani del governatore di Tabríz, l’erede al trono di Muhammad Sháh. A coloro che in seguito incontrarono, questi devoti servitori del Báb, testimoni della Sua saggezza e forza sovrumane, raccontarono con reverenza e ammirazione la storia delle meraviglie che avevano veduto e sentito e con questi mezzi contribuirono a loro modo a diffondere la conoscenza della Nuova Rivelazione.

La notizia dell’imminente arrivo del Báb a Tabríz mise in subbuglio i credenti della città. Partirono tutti per andarGli incontro, desiderosi di dare il benvenuto alloro Maestro così amato. I funzionari del governo alla cui custodia il Báb doveva essere affidato si rifiutarono di permettere loro di avvicinarGlisi e di ricevere la Sua benedizione. Ma un giovane, incapace di frenarsi, uscì di corsa scalzo dalla porta della città e, impaziente di guardare il volto del suo Amato, Gli corse incontro per mezzo farsang 24. Quando fu vicino ai cavalieri che trottavano davanti al Báb, dette loro un gioioso benvenuto e, afferrato l’orlo della veste di uno di loro, gli baciò devotamente le staffe. « Siete i compagni del mio Diletto », esclamò lacrimante. « Mi siete cari come le pupille dei miei occhi ». Il suo insolito comportamento e l’intensità della sua emozione li stupirono. Soddisfecero subito la sua richiesta di essere condotto in presenza del Suo Maestro. Appena i suoi occhi si posarono su di Lui, un grido di esultanza proruppe dalle sue labbra e gettandosi con la faccia a terra, scoppiò in lacrime. Il Báb scese da cavallo, lo abbracciò, gli asciugò le lacrime e calmò l’agitazione del suo cuore. Tra tutti i credenti di Tabríz, solo quel giovane riuscì a porgere il suo omaggio al Báb e ad essere benedetto dal tocco della Sua mano. Tutti gli altri dovettero accontentarsi di dare al loro Amato uno sguardo da lontano e con quello sguardo dovettero soddisfare il loro desiderio.

Giunto a Tabríz, il Báb fu condotto in una delle case più importanti della città, che era stata riservata per il Suo confino 25. Un distaccamento del reggimento Násirí montò la guardia all’entrata della Sua casa. Ad eccezione di Siyyid Husayn e suo fratello, né al pubblico né ai Suoi seguaci fu permesso d’incontrarLo. Quello stesso reggimento, che era stato reclutato tra gli abitanti di Khamsih e al quale erano stati conferiti onori speciali, fu in seguito incaricato di sparare la scarica che causò la Sua morte. Le circostanze del Suo arrivo avevano sconvolto profondamente il popolo di Tabríz. Una folla tumultuante si era riunita per assistere al Suo ingresso in città 26. Alcuni erano spinti dalla curiosità, altri desideravano ardentemente accertare la verità degli strani racconti che circolavano sul Suo conto e altri ancora erano spinti dalla fede e dalla devozione ad andare da Lui per assicurarLo della loro lealtà. Mentre camminava per le strade, le acclamazioni della moltitudine risuonavano da ogni parte. La grande maggioranza delle persone che videro il Suo volto Lo salutarono col grido di « Alláh-u-Akbar », altri Lo glorificarono a gran voce e Lo applaudirono, alcuni invocarono su di Lui le benedizioni dell’Onnipotente, si videro altri baciare con riverenza la polvere ch’Egli aveva calpestato. Tale fu il clamore sollevato dal Suo arrivo che si ordinò a un banditore di ammonire la popolazione del pericolo che correvano coloro che osassero cercare d’incontrarLo. « Chiunque cercherà di avvicinare il Siyyid-i- Báb », diceva il bando, « o tenterà di incontrano gli saranno immediatamente confiscati tutti i beni e sarà condannato alla prigione a vita ».

Il giorno dopo l’arrivo del Báb, Hájí Muhammad-Taqíy-i-Milání, noto mercante della città, insieme con Hájí ‘Alí-‘Askar, osò andare a trovare il Báb. I loro amici e sostenitori li avvertirono che con un tale tentativo avrebbe rischiato di perdere non solo i beni, ma anche la vita. Ma essi si rifiutarono di dare ascolto a questi consigli. Quando si avvicinarono alla porta della casa in cui il Báb era confinato, furono subito arrestati. Siyyid Hasan, che era appena stato alla presenza del Báb, intervenne subito. « Ho l’ordine del Siyyid-i- Báb », protestò vivacemente, « di portarvi questo messaggio: “Permettete a questi visitatori di entrare, poiché li ho invitati Io stesso a venirmi a trovare” ». Ho sentito Hájí ‘Alí-‘Askar testimoniare quello che segue: e Questo messaggio fece subito tacere gli oppositori. Fummo direttamente introdotti in Sua presenza. Egli ci salutò con queste parole: “Questi poveri disgraziati che vigilano al cancello della Mia casa Io li ho destinati a proteggerMi dall’afflusso delle moltitudini che premono attorno alla casa. Essi non possono impedire a coloro che voglio incontrare di giungere in Mia presenza”. Ci fermammo con Lui per quasi due ore. Quando ci congedò, mi affidò due corniole per anello, dicendomi di far incidere su di esse due versetti che mi aveva dato in precedenza; di farle montare e di portarGliele appena pronte. Ci assicurò che ogni volta che avessimo voluto incontrarLo, nessuno ci avrebbe impedito di essere ammessi alla Sua presenza. Molte volte osai andare da Lui per accertarmi dei Suoi desideri su certi dettagli relativi alla commissione che mi aveva affidato. Neppure una volta incontrai la minima opposizione da parte di coloro che sorvegliavano l’entrata della casa. Non una sola parola offensiva essi pronunziarono contro di me, né pareva che si aspettassero la minima ricompensa per la loro indulgenza.

« Ricordo che, stando vicino a Mullá Husayn, rimasi colpito dai molti segni della sua perspicacia e delle sue straordinarie facoltà. Ebbi il privilegio di accompagnarlo nel suo viaggio da Shíráz a Mashhad e visitai con lui le città di Yazd, Tabas, Bushrúyih e Turbat. In quei giorni mi lamentavo con tristezza perché non ero riuscito a incontrare il Báb a Shíráz. “Non addolorarti”, Mullá Husayn mi rassicurò fiduciosamente; “l’Onnipotente può senza dubbio ricompensarti a Tabríz per la perdita subita a Shíráz. Non una sola, ma sette volte, Egli può permetterti di godere della gioia della Sua presenza, in cambio della visita che hai perduto”. Fui stupito dalla sicurezza con cui disse queste parole. Solo al momento della mia visita al Báb a Tabríz, quando nonostante le circostanze sfavorevoli fui ammesso alla Sua presenza, ricordai le parole di Mullá Husayn e mi meravigliai della sua straordinaria preveggenza. Grande fu la mia sorpresa quando, alla settima visita, sentii il Báb dire queste parole: “Sia lodato Iddio, che t’ha permesso di completare il numero delle tue visite e t’ha concesso la Sua amorevole protezione” ».

CAPITOLO XIII
LA RECLUSIONE DEL Báb NEL CASTELLO DI MÁH-KÚ

HANNO sentito Siyyid Husayn-i-Yazdí raccontare quello che segue: « Durante i primi dieci giorni della reclusione del Báb a Tabríz, nessuno sapeva che cosa sarebbe stato di Lui. In città circolavano le voci più strane. Un giorno mi permisi di chiederGli se avrebbe continuato a rimanere dov’era o se sarebbe stato ancora trasferito altrove. “Hai dimenticato”, fu la Sua risposta immediata, “la domanda che Mi hai fatto a Isfáhán. Per un periodo di non meno di nove mesi, rimarremo confinati nel Jabal-i-Básit 1, e poi saremo trasferiti nel Jabal-i-Shadíd 2. Entrambi questi luoghi sono tra le montagne di Khuy e sono situati l’uno da una parte e l’altro dall’altra della città che porta quel nome”. Cinque giorni dopo che il Báb aveva fatto questa predizione, fu dato ordine di trasferire Lui e me al castello di Máh-Kú e di affidarci alla custodia di ‘Alí Khán-i-Máh-Kú’í ».

Il castello, un solido edificio di pietra munito di quattro torri, è situato sulla sommità d’una montagna ai cui piedi si trova la città di Máh-Kú. La sola strada che vi conduce attraversa la città e termina presso un portone adiacente alla sede del governo, che viene tenuto invariabilmente chiuso e che è distinto da quello del castello. Situato ai confini degl’Imperi Ottomano e Russo, questo castello è stato usato, per la sua posizione dominante e per i suoi vantaggi strategici, come centro per scopi di ricognizione. L’ufficiale a cui era affidata la postazione osservava, in tempo di guerra, i movimenti del nemico, sorvegliava le regioni circostanti e riferiva al governo i casi di emergenza che giungevano alla sua osservazione. Il castello è delimitato ad ovest dal fiume Arasse, che segna il confine tra il territorio dello Scià e l’Impero Russo. A sud si estende il territorio del Sultano Turco; la città di confine di Báyazíd dista solo quattro farsang 3 dal monte di Máh-Kú. L’ufficiale di frontiera al quale era affidato il castello era un certo ‘Alí Khán. Gli abitanti della città sono tutti Curdi e appartengono alla setta sunnita dell’Islám 4. Gli Sciiti, che costituiscono la grande maggioranza degli abitanti della Persia, sono sempre stati loro dichiarati e accaniti nemici. Questi Curdi odiano in modo particolare i siyyid di denominazione sciita, che considerano le guide spirituali e i principali agitatori dei loro avversari. Essendo la madre di ‘Alí Khán curda, il figlio era tenuto in grande considerazione e la popolazione di Máh-Kú gli obbediva ciecamente. Lo consideravano un membro della loro comunità e nutrivano per lui la massima fiducia.

Hájí Mirza Áqásí aveva deliberatamente fatto in modo di relegare il Báb in un angolo così remoto, inospitale e situato in una posizione così pericolosa del territorio dello Scià, con il solo proposito di arrestare la marea della Sua crescente influenza e di recidere ogni vincolo che Lo legasse al corpo dei Suoi discepoli in tutto il paese. Confidando che pochi — e forse nessuno — si sarebbero avventurati a penetrare in quella regione selvaggia e turbolenta, abitata da un popolo così ribelle, insensatamente si immaginava che questo forzato allontanamento del Prigioniero dalle ricerche e dagl’interessi dei Suoi seguaci sarebbe servito a soffocare a poco a poco il Movimento sin dalla nascita e avrebbe infine provocato la sua estinzione 5. I fatti gli fecero presto capire, tuttavia, che aveva di gran lunga frainteso la natura della Rivelazione del Báb e sottovalutato la forza della sua influenza. I turbolenti spiriti di questo popolo riottoso furono presto soggiogati dalle maniere gentili del Báb e il loro cuore fu intenerito dall’influenza nobilitante del Suo amore. Il loro orgoglio fu umiliato dalla Sua impareggiabile modestia e la loro irragionevole arroganza fu addolcita dalla saggezza delle Sue parole. Tale era il fervore che il Báb aveva acceso in quei cuori che la loro prima azione, ogni mattina, era di cercare un posto da dove potessero dare anche solo uno sguardo fugace al Suo volto, rivolgere lo spirito a Lui e implorare la Sua benedizione sul loro lavoro quotidiano. In casi di disputa, istintivamente correvano là e, fissando lo sguardo sulla Sua prigione, invocavano il Suo nome e si scongiuravano l’un l’altro di dire la verità. Spesso ‘Alí Khán tentò di indurli ad abbandonare questa abitudine, ma si vide incapace di frenare il loro entusiasmo. Egli svolgeva le sue funzioni con la massima severità e si rifiutava di permettere ai devoti discepoli del Báb di soggiornare, anche solo per una notte, nella città di Máh-Kú 6.

« Per le prime due settimane », Siyyid Husayn raccontò inoltre, « a nessuno fu permesso di far visita al Báb. Mio fratello e io solamente eravamo ammessi alla Sua presenza. Siyyid Hasan scendeva ogni giorno in città, accompagnato da una delle guardie, e acquistava il necessario per la giornata. Shaykh Hasan-i-Zunúzí, che era arrivato a Máh-Kú, passava le notti in un masjid fuori dalle porte della città. Egli fungeva da intermediario tra quei seguaci del Báb che facevano occasionalmente visita a Máh-Kú e Siyyid Hasan, mio fratello, il quale a sua volta presentava le petizioni dei credenti alloro Maestro e comunicava a Shaykh Hasan la Sua risposta.

« Un giorno il Báb incaricò mio fratello d’informare Shaykh Hasan che avrebbe chiesto Lui Stesso ad ‘Alí Khán di cambiare atteggiamento verso i credenti che visitavano Máh-Kú e di abbandonare la sua severità. “Digli”, aggiunse, “che domani darò istruzioni al custode di condurlo qui”. Fui molto sorpreso da questo messaggio. Com’era possibile indurre il tirannico e ostinato ‘Alí Khán, pensai tra me, a mitigare la severità della sua disciplina? Il giorno successivo di buon mattino, quando la porta del castello era ancora chiusa, fummo sorpresi da un colpo improvviso alla porta, ben sapendo che era stato dato ordine di non lasciare entrare nessuno prima del levar del sole. Riconoscemmo la voce di ‘Alí Khán, che sembrava stesse protestando con le guardie, una delle quali entrò subito e mi informò che il custode del castello chiedeva con insistenza di essere ammesso alla presenza del Báb. Riferii il messaggio e mi fu ordinato di accompagnarlo subito in Sua presenza. Uscendo dalla porta della Sua anticamera, trovai ‘Alí Khán sulla soglia in atteggiamento di completa sottomissione, mentre il suo volto esprimeva un’insolita umiltà e meraviglia. La sua arroganza e il suo orgoglio sembravano completamente svaniti: con umiltà ed estrema cortesia, ricambiò il saluto e mi pregò di permettergli di entrare alla presenza del Báb. Lo condussi nella stanza dove stava il Maestro. Gli tremavano le membra mentre mi seguiva. Dal suo volto traspariva un’intima agitazione ch’egli non riusciva a nascondere. Il Báb Si alzò e gli dette il benvenuto. Inchinandosi con riverenza, ‘Alí Khán si avvicinò e si gettò ai Suoi piedi. “Liberami”, supplicò, “dalla mia perplessità. In nome del Profeta di Dio, Tuo illustre Avo, Ti scongiuro: dissipa i miei dubbi, perché il loro peso mi ha quasi spezzato il cuore. Stavo cavalcando in aperta campagna e mi stavo avvicinando alla porta della città, quando d’un tratto, era l’alba, Ti vidi coi miei occhi sulla riva del fiume assorto in preghiera. Le braccia protese e gli occhi rivolti al cielo, stavi invocando il nome di Dio. Mi fermai a guardarTi. Stavo aspettando che Tu finissi di pregare per avvicinarmi e rimproverarTi d’aver osato uscire dal castello senza il mio permesso. Nella Tua comunione con Dio, sembravi così rapito in preghiera da esserTi completamente dimenticato di Te Stesso. In silenzio mi avvicinai; tale era il Tuo rapimento, che non Ti accorgesti affatto della mia presenza. D’un tratto fui colto da un gran timore e tremai al pensiero di destarTi dalla Tua estasi. Decisi di lasciarTi e di andare a rimproverare le guardie per la loro negligenza. Ma con grande sorpresa vidi subito che entrambe le porte, quella esterna e quella interna, erano chiuse. Furono aperte per mia richiesta, fui introdotto alla Tua presenza e ora Ti trovo, con meraviglia, seduto davanti a me. Sono completamente confuso. Temo di essere uscito di senno”. Il Báb rispose e disse: “Ciò che hai visto è vero e innegabile. Hai sottovalutato questa Rivelazione e hai sdegnosamente disprezzato il suo Autore. Dio, il Misericordiosissimo, non desiderando affliggerti col Suo castigo, ha voluto rivelare ai tuoi occhi la Verità. Per Sua Divina intercessione, ha instillato nel tuo cuore l’amore per il Suo Eletto e t’ha fatto riconoscere l’invincibile potenza della Sua Fede” ».

Questa straordinaria esperienza trasformò completamente il cuore di ‘Alí Khán. Quelle parole avevano placato la sua agitazione e domato la violenza della sua animosità. Con ogni mezzo di cui disponeva, egli decise di fare ammenda per il suo comportamento passato. « Un pover’uomo, uno shaykh », si affrettò ad informare il Báb, « desidera giungere in Tua presenza. Abita in un masjid fuori dalle porte di Máh-Kú. Ti prego di permettermi di condurlo qui perché possa incontrarTi. Con questo atto spero di essere perdonato per le mie cattive azioni e di poter cancellare le macchie del mio crudele comportamento verso i Tuoi amici ». La sua richiesta fu accolta e quindi egli andò direttamente da Shaykh Hasan-i-Zunúzí e lo condusse alla presenza del suo Maestro.

‘Alí Khán incominciò a procurare, entro i limiti che gli erano stati imposti, tutto ciò che potesse servire ad alleviare il rigore della prigionia del Báb. Di notte, la porta del castello rimaneva ancora chiusa; ma durante il giorno, coloro che il Báb desiderava vedere potevano accedere alla Sua presenza, conversare con Lui e ricevere le Sue istruzioni.

Mentre era confinato entro le mura del castello, Egli dedicò il Suo tempo a comporre il Bayán Persiano, la più ponderosa, illuminante e vasta di tutte le Sue opere 7. In esso espose le leggi e i precetti della Sua Dispensazione, annunziò con chiarezza ed enfasi l’avvento di una successiva Rivelazione ed esortò con insistenza i Suoi seguaci a cercare di trovare « Colui che Iddio manifesterà » 8, ammonendoli di non permettere che i misteri e le allusioni del Bayán impedissero loro di riconoscere la Sua Causa 9.

Ho sentito Shaykh Hasan-i-Zunúzí testimoniare ciò che segue: « La voce del Báb, mentre dettava gl’insegnamenti e i princìpi della Sua Fede, poteva essere chiaramente udita da coloro che abitavano ai piedi del monte. La melodia del Suo canto, il ritmico fluire dei versetti che sgorgavano dalle Sue labbra avvincevano la nostra attenzione e ci penetravano in fondo all’anima. La montagna e la valle riecheggiavano la maestà della Sua voce. L’appello della Sua parola ci faceva vibrare fino in fondo al cuore ». 10

La graduale mitigazione della rigida disciplina imposta al Báb incoraggiò i Suoi discepoli a venire sempre più numerosi a farGli visita nel castello di Máh-Kú dalle diverse provincie della Persia. Un fiume incessante di ardenti e devoti pellegrini si dirigeva verso le sue porte grazie alla gentilezza e all’indulgenza di ‘Alí Khán 11. Dopo una permanenza di tre giorni, i pellegrini venivano invariabilmente accomiatati dal Báb, con l’ordine di ritornare ai loro rispettivi campi di servizio e di riprendere il lavoro per il consolidamento della Sua Fede. ‘Alí Khán non mancò mai di presentare i suoi omaggi al Báb ogni venerdì e di assicurarGli la sua eterna lealtà e devozione. Spesso Gli portava in dono la frutta più rara e più scelta disponibile nel contado di Máh-Kú e Gli offriva continuamente le leccornie che pensava potessero essere conformi al Suo gusto e alle Sue preferenze.

In questo modo il Báb trascorse l’estate e l’autunno dentro le mura del castello. Segui un inverno così eccezionalmente rigido che perfino gli utensili di rame furono danneggiati dall’intensità del freddo. L’inizio della stagione invernale coincise col mese di Muharram dell’anno 1264 A.H. 12. L’acqua che il Báb usava per le abluzioni era così gelida, che le gocce luccicavano ghiacciandosi sul Suo volto. Dopo aver finito di pregare era solito chiamare in Sua presenza Siyyid Husayn e chiedergli di leggere ad alta voce alcuni passi dal Muhriqu’l-Qulúb, opera scritta dal defunto Hájí Mullá Mihdí, bisnonno di Hájí Mirza Kamálu’d-Dín-i-Naráqí, in cui l’autore loda le virtù, piange la morte e narra i particolari del martirio dell’Imám Husayn. Il racconto di quelle sofferenze suscitava un’intensa emozione nel cuore del Báb. Il Suo volto si rigava di lacrime mentre ascoltava la storia degl’indicibili oltraggi e delle dolorose afflizioni che l’Imám aveva subito per mano d’un perfido nemico. E mentre i particolari di quella tragica vita venivano spiegati davanti a Lui, il Báb pensava costantemente alla ben più grande tragedia, destinata a segnalare l’avvento del promesso Husayn. Per Lui quelle atrocità passate erano solo un simbolo e adombravano le amare afflizioni che il Suo amato Husayn avrebbe presto patito per mano dei Suoi concittadini. Piangeva, mentre Si figurava nella mente le calamità che Colui che doveva manifestarSi era predestinato a patire, calamità quali l’Imám Husayn mai aveva dovuto sopportare 13, neppure nel colmo delle sofferenze.

In uno dei Suoi scritti rivelato nell’anno ‘60 A.H., il Báb dichiara quanto segue: « Lo spirito di preghiera che muove la Mia anima è la conseguenza diretta di un sogno che ho fatto l’anno precedente alla dichiarazione della Mia Missione. In quella visione vidi la testa dell’Imám Husayn, il Siyyidu’sh-Shuhadá, che pendeva da un albero. Il sangue sgocciolava a profusione dalla Sua gola lacerata. Con un sentimento d’insuperata letizia, M’accostai all’albero e, stendendo le mani, raccolsi alcune gocce di quel sacro sangue e le bevvi con devozione. Quando Mi destai, sentii che lo Spirito di Dio aveva permeato la Mia anima e ne aveva preso possesso. Il Mio cuore fremeva per la gioia della Sua Divina presenza e i misteri della Sua Rivelazione Mi furono dispiegati innanzi agli occhi in tutta la loro gloria ».

Muhammad Sháh aveva appena condannato il Báb alla prigionia tra le fortezze montane dell’Ádhirbáyján, quando subì un improvviso rovescio di fortuna, quale mai aveva provato prima, che colpí lo Stato proprio alle fondamenta. Le sue forze impegnate a mantenere l’ordine interno nelle province 14 furono travolte da uno spaventoso disastro. Nel Khurásán venne issato lo stendardo della rivolta e così grande fu la paura provocata dall’insurrezione che lo Scià abbandonò immediatamente il progetto della sua campagna a Hirát. L’avventatezza e la prodigalità di Hájí Mirza Áqásí avevano fatto divampare il fuoco represso del malcontento, avevano esasperato le masse incoraggiandole a fomentare sedizione e discordia. Gli elementi più turbolenti del Khurásán che abitavano nelle regioni di Qúchán, Bujnúrd, e Shíraván fecero lega con il Sálár, figlio dell’(sifu’d-Dawlih, il più anziano zio materno dello Scià, governatore della provincia, e si rifiutarono di riconoscere l’autorità del governo centrale. Tutte le forze inviate dalla capitale furono immediatamente sconfitte per mano dei capi istigatori della ribellione. Ja’far-Qulí Khán-i-Námdár e Amír Arslán Khán, figlio del Sálár, che guidavano le operazioni contro le forze dello Scià, dettero prova di estrema crudeltà e, respinti gli attacchi del nemico, misero spietatamente a morte i prigionieri.

Mullá Husayn a quel tempo abitava a Mashhad 15 e stava cercando, nonostante il tumulto che la rivolta aveva scatenato, di diffondere la conoscenza della nuova Rivelazione. Appena seppe che il Sálár, desideroso di allargare il campo della ribellione, aveva deciso di avvicinarlo per ottenere il suo appoggio, risolse immediatamente di lasciare la città per evitare d’esser coinvolto nei complotti di quel condottiero orgoglioso e ribelle. Nel cuore della notte, con il solo Qambar-‘Alí come servitore, si mise in cammino verso Tihrán, luogo da cui aveva deciso di andare nell’Ádhirbáyján, dove sperava d’incontrare il Báb. I suoi amici, quando seppero in che modo era partito, procurarono subito tutto quello che poteva servire a rendere più comodo il suo lungo e difficile viaggio e si affrettarono a raggiungerlo. Mullá Husayn declinò cortesemente il loro aiuto. « Ho fatto voto », disse, « di percorrere a piedi tutta la distanza che mi separa dal mio Diletto. Non desisterò dalla mia determinazione, finché non sarò giunto alla meta ». Cercò perfino di indurre Qambar-‘Alí a ritornare a Mashhad, ma fu infine obbligato a cedere alle sue suppliche di permettergli di servirlo durante tutto il suo pellegrinaggio nell’Ádhirbáyján.

Durante il suo cammino verso Tihrán, Mullá Husayn fu entusiasticamente salutato dai credenti nelle diverse città che attraversò. Essi gli rivolsero la stessa domanda e ricevettero la stessa risposta. Ho sentito la seguente testimonianza dalle labbra di Áqáy-i-Kalím: « Quando Mullá Husayn giunse a Tihrán, andai a fargli visita con un gran numero di credenti. Egli ci apparve come una personificazione di costanza, pietà e virtù. E con la sua rettitudine di condotta e appassionata lealtà fu per noi fonte di ispirazione. Tali erano la forza del suo carattere e l’ardore della sua fede che — eravamo convinti da solo e senza alcun aiuto, sarebbe stato capace di far trionfare la Fede di Dio ». Fu introdotto segretamente alla presenza di Bahá’u’lláh e, subito dopo il colloquio, partì per l’Ádhirbáyján.

La notte prima del suo arrivo a Máh-Kú, che era la vigilia del quarto Naw-Rúz dopo la dichiarazione della Missione del Báb e che cadeva quell’anno, l’anno 1264 A.H. 16, il tredici del mese di Rabí‘u’th-Thání, ‘Alí Khán fece un sogno. « Nel sonno », egli così racconta la sua storia, « appresi la strabiliante notizia che Muhammad, il Profeta di Dio, sarebbe presto arrivato a Máh-Kú e sarebbe andato direttamente al castello per fare visita al Báb e porgerGli gli auguri in occasione della festa di Naw-Rúz. Nel sogno, Gli corsi incontro, desideroso di esprimere a quel santo Visitatore i sensi del mio umile benvenuto. In uno stato di letizia indescrivibile, corsi in direzione del fiume e quando giunsi al ponte, che dista un maydán 17 dalla città di Máh-Kú, vidi due uomini avanzare verso di me. Pensai che uno fosse il Profeta, mentre l’altro, che camminava dietro di Lui, supposi che fosse uno dei Suoi illustri compagni. Corsi a gettarmi ai Suoi piedi e stavo chinandomi a baciare l’orlo della Sua veste, quando all’improvviso mi svegliai. Una grande gioia aveva invaso la mia anima. Era come se il Paradiso stesso, con tutte le sue delizie, mi fosse sceso nel cuore. Convinto della realtà di quella visione, feci le abluzioni, recitai la preghiera, mi abbigliai con le mie vesti più ricche, mi profumai e andai nel luogo dove, la notte prima in sogno, avevo mirato il sembiante del Profeta. Avevo dato istruzioni ai miei servitori di sellare tre dei miei destrieri migliori e più veloci e di condurli immediatamente al ponte. Si era appena levato il sole, quando, solo e senza scorta, uscendo dalla città di Máh-Kú mi incamminai verso il fiume. Avvicinandomi al ponte, riconobbi con un sussulto di meraviglia i due uomini che avevo visto in sogno; essi camminavano l’uno dietro l’altro e avanzavano verso di me. Istintivamente mi gettai a terra davanti a colui che credevo fosse il Profeta e gli baciai devotamente i piedi. Pregai Lui e il Suo compagno di montare i cavalli che avevo preparato per il loro ingresso a Máh-Kú. “No”, Egli rispose, “ho fatto voto di percorrere tutto il viaggio a piedi. Camminerò fino alla sommità del monte e li farò visita al tuo Prigioniero” ».

Questa strana esperienza, rese più profonda la riverenza di ‘Alí Khán nei confronti del Báb. La sua fede nella potenza della Sua Rivelazione divenne ancor più grande e la sua devozione verso di Lui crebbe immensamente. In atteggiamento di umile sottomissione, segui Mullá Husayn fino al portone del castello. Appena posò gli occhi sul sembiante del suo Maestro, apparso sulla soglia del portone, Mullá Husayn si fermò subito e, inchinandosi profondamente davanti a Lui, Gli rimase immobile accanto. Il Báb tese le braccia e lo abbracciò con affetto, indi presolo per mano, lo condusse nella Sua camera. Invitò poi i Suoi amici a venire da Lui e celebrò in loro compagnia la festa di Naw-Rúz. Davanti a Lui erano stati imbanditi piatti di dolci e della frutta più squisita che Egli distribuì tra gli amici riuniti; offrendo a Mullá Husayn cotogne e mele, disse: « Questi deliziosi frutti ci sono arrivati da Mílán, l’Ard-i-Jannat 18, e sono stati raccolti e consacrati appositamente per questa festa dall’Ismu’lláhu’l-Fatíq, Muhammad-Taqí ».

Fino a quel momento nessuno dei discepoli del Báb, tranne Siyyid Husayn-i-Yazdí e suo fratello, aveva avuto il permesso di passare la notte nel castello. Quel giorno ‘Alí Khán si recò dal Báb e disse: « Se desideri trattenere Mullá Husayn con Te questa notte, sono pronto a esaudire il Tuo desiderio, perché non ho una mia volontà. Per quanto a lungo Tu possa desiderare ch’Egli stia con Te, prometto d’eseguire il Tuo comando ». I discepoli del Báb continuarono ad arrivare in numero crescente a Máh-Kú e venivano ammessi alla Sua presenza immediatamente e senza la minima restrizione.

Un giorno, mentre in compagnia di Mullá Husayn stava ammirando dal tetto del castello il panorama della campagna circostante, il Báb guardò verso occidente e, vedendo l’Arasse che scorreva serpeggiando lontano sotto di Lui, Si rivolse a Mullá Husayn dicendo: « Quello è il fiume e questa è la riva, di cui il poeta Háfiz ha così scritto: “O zefiro, dovessi tu passar vicino alle rive d’Arasse, getta un bacio sulla terra di quella valle, e da’ fragranza al tuo soffio. Salute, mille volte salute a te, o dimora di Salmá! Quant’è cara la voce dei tuoi cammellieri, e quant’è dolce il suono delle tue campane!” 19. I giorni della tua permanenza in questo paese stanno volgendo alla fine. Se non fosse stato per la brevità della tua permanenza, ti avremmo mostrato “la dimora di Salmá” come abbiamo rivelato ai tuoi occhi “le rive dell’Arasse” ». Dicendo « dimora di Salma », il Báb intendeva la città di Salmás, che è situata nelle vicinanze di Chihríq e che i Turchi chiamano Salmás. Proseguendo nelle Sue osservazioni, il Báb disse: « la diretta influenza dello Spirito Santo che fa uscire dalla bocca dei poeti parole come queste, il cui significato spesso nemmeno loro sono capaci di comprendere. Anche il verso seguente è ispirato da Dio: “Shíráz sarà gettata in un tumulto; apparirà un Giovane dalla gola di miele. Temo che l’alito della Sua bocca agiterà e sconvolgerà Baghdád”. Il mistero racchiuso in questo verso è ora nascosto; sarà rivelato nell’anno dopo Hín ». 20 Il Báb citò poi questa ben nota tradizione: « Molti tesori giacciono celati sotto il trono di Dio; la chiave di quei tesori è la lingua dei poeti ». Quindi, l’uno dopo l’altro, raccontò a Mullá Husayn gli eventi che dovevano accadere nel futuro e gli ordinò di non farne menzione ad alcuno. 21 « Pochi giorni dopo la tua partenza da questo luogo », il Báb lo informò, « Ci trasferiranno su un’altra montagna. La notizia della Nostra partenza da Máh-Kú ti arriverà, ancor prima che tu sia giunto a destinazione ».

La predizione fatta dal Báb si avverò subito. Coloro che erano stati incaricati di sorvegliare segretamente i movimenti e la condotta di ‘Alí Khán presentarono a Hájí Mirza Áqásí un rapporto dettagliato in cui parlarono diffusamente della sua estrema devozione al Prigioniero e descrissero certi avvenimenti che servivano a confermare ciò che avevano asserito. « Giorno e notte », gli scrissero, « si può vedere il custode del castello di Máh-Kú in compagnia dei suoi prigionieri in condizioni d’assoluta libertà e amicizia. ‘Alí Khán, che si era ostinatamente rifiutato di far sposare sua figlia con l’erede al trono di Persia, col pretesto che un tale atto avrebbe tanto irritato i parenti sunniti di sua madre che essi avrebbero senza esitazione ucciso lui e sua figlia, ora con ardente sollecitudine desidera che quella stessa figlia si sposi con il Báb. Quest’ultimo s’è rifiutato, ma ‘Alí Khán insiste ancora nella sua richiesta. Se non fosse stato per il rifiuto del prigioniero, le nozze della fanciulla sarebbero già state celebrate ». ‘Alí Khán aveva fatto veramente una tale richiesta e aveva anche pregato Mullá Husayn d’intercedere in suo favore presso il Báb, ma non era riuscito ad ottenere il Suo consenso.

Questi malevoli racconti ebbero un effetto immediato su Hájí Mirza Áqásí. Il timore e il risentimento spinsero ancora una volta il capriccioso ministro a dare ordini perentori che il Báb fosse trasferito nel castello di Chihríq.

Venti giorni dopo Naw-Rúz, il Báb Si congedò dalla popolazione di Máh-Kú che, durante i Suoi nove mesi di prigionia, aveva notevolmente riconosciuto la forza della Sua personalità e la grandezza del Suo carattere. Mullá Husayn, che per ordine del Báb era già partito da Máh-Kú, era ancora a Tabríz quando gli giunse la notizia del previsto trasferimento del suo Maestro a Chihríq. Dandogli il Suo ultimo addio, il Báb rivolse a Mullá Husayn queste parole: « Hai percorso a piedi tutta la strada dalla tua provincia natale fin qui. E a piedi devi ritornare, finché non arriverai alla meta; perché i giorni in cui potrai andare a cavallo devono ancora arrivare. È scritto nel destino che tu debba mostrare tale coraggio, destrezza ed eroismo da eclissare le imprese più grandi degli eroi del passato. Le tue audaci gesta conquisteranno la lode e l’ammirazione degli abitanti dell’eterno Regno. Strada facendo devi visitare i credenti di Khuy, Urúmíyyih, Marághih, Mílán, Tabríz, Zanján, Qazvín e Tihrán. A tutti porgerai l’espressione del Mio amore e del Mio tenero affetto. Cercherai d’infiammare nuovamente il loro cuore col fuoco dell’amore per la Bellezza di Dio e ti sforzerai di fortificare la loro fede nella Sua Rivelazione. Da Tihrán devi proseguire per il Mázindarán, dove ti sarà palesato il tesoro nascosto di Dio. Sarai chiamato a compiere gesta così grandi che le più possenti imprese del passato impallidiranno. Là ti sarà rivelata la natura del tuo compito e ti saranno date la forza e la guida necessarie perché tu possa essere pronto a prestare servizio alla Sua Causa ».

Il mattino del nono giorno dopo Naw-Rúz, Mullá Husayn, come ordinava il suo Maestro, si mise in viaggio verso il Mázindarán. A Qambar-‘Alí il Báb rivolse queste parole di commiato: « Il Qambar-‘Alí dell’era passata si glorierebbe perché un suo omonimo ha potuto vedere il Giorno per cui perfino Colui 22 che era il Signore del suo signore ha sospirato invano; di cui Egli, con ardente desiderio, ha detto: “Volesse il cielo che i Miei occhi potessero mirare il volto dei Miei fratelli che hanno avuto il privilegio di pervenire al Suo Giorno!” ».

CAPITOLO XIV
IL VIAGGIO DI MULLÁ HUSAYN NEL MÁZINDARÁN

‘ALÍ Khán invitò cordialmente Mullá Husayn a fermarsi un po’ di giorni nella sua casa prima di partire da Máh-Kú. Espresse il suo profondo desiderio di provvedere a tutto ciò che gli poteva servire per il viaggio nel Mázindarán. Mullá Husayn, però, si rifiutò di rinviare la partenza o di godere delle comodità che ‘Alí Khán aveva così devotamente messo a sua disposizione.

Fedele alle istruzioni ricevute, egli si fermò in ogni città e villaggio che il Báb gli aveva ordinato di visitare, riunì i fedeli, portò loro l’amore, i saluti e le assicurazioni del loro amato Maestro, ravvivò il loro zelo e li esortò a rimanere fermi nella Sua via. A Tihrán ebbe ancora il privilegio di accedere alla presenza di Bahá’u’lláh e di ricevere dalle Sue mani il sostentamento spirituale che gli permise di affrontare con indomito coraggio i pericoli che così brutalmente lo assalirono negli ultimi giorni della sua vita.

Da Tihrán Mullá Husayn proseguì per il Mázindarán sperando ardentemente di assistere alla rivelazione del tesoro nascosto che gli era stato promesso dal suo Maestro. A quel tempo Quddús abitava a Bárfurúsh nella casa che era originariamente appartenuta a suo padre. Egli frequentava liberamente persone d’ogni classe e con la gentilezza del suo carattere e la vastità del suo sapere s’era conquistato l’affetto e l’incondizionata ammirazione degli abitanti della città. Arrivato a Bárfurúsh, Mullá Husayn andò direttamente a casa di Quddús, che lo accolse con affetto. Quddús servi personalmente il suo ospite e si prodigò per procurargli tutto quanto gli sembrava necessario per farlo stare comodo. Con le sue stesse mani gli tolse la polvere e lavò la pelle piagata dei suoi piedi. Gli offri il posto d’onore nell’adunanza dei suoi amici riuniti e gli presentò, con estrema riverenza, ciascuno dei credenti che si erano radunati per incontrarlo.

La notte dell’arrivo di Mullá Husayn, appena i credenti che erano stati invitati a pranzo per incontrano furono ritornati nelle loro case, Quddús, rivolgendosi al suo ospite, gli chiese di illustrargli in modo più dettagliato le sue esperienze interiori col Báb nel castello di Máh-Kú. « Molte e diverse », rispose Mullá Husayn, « sono le cose che ho sentito e visto durante i nove giorni trascorsi in Sua compagnia. Mi ha parlato di cose che riguardano in modo diretto o indiretto la Sua Fede. Non mi ha dato, però, istruzioni precise sull’itinerario che devo seguire per propagare la Sua Causa. Questo è tutto quel che m’ha detto: “Nel tuo viaggio verso Tihrán, devi far visita ai credenti di ogni città e villaggio che attraversi. Da Tihrán devi proseguire per il Mázindarán, poiché li si trova un tesoro nascosto che ti sarà palesato, tesoro che svelerà ai tuoi occhi la natura del compito che sei destinato a eseguire”. Dalle Sue allusioni ho potuto, per quanto vagamente, percepire la gloria della Sua Rivelazione e discernere i segni del futuro prestigio della Sua Causa. Dalle Sue parole ho dedotto che sarò alla fine chiamato a sacrificare la mia indegna persona sul Suo sentiero, perché in occasioni precedenti, quando mi congedava dalla Sua presenza, il Báb mi assicurava sempre che sarei stato ancora invitato a incontrarLo: questa volta, invece, quando m’ha rivolto le Sue parole di commiato, non m’ha fatto la stessa promessa e non ha accennato alla possibilità che io Lo incontri ancora faccia a faccia in questo mondo. “La Festa del Sacrificio”, furono le ultime parole che mi rivolse, “si sta rapidamente avvicinando. Sorgi e apprestati ad agire e fa che nulla ti distolga dal perseguire il tuo destino. Giunto alla meta, preparati a riceverCi, perché entro breve tempo ti seguiremo anche Noi” ».

Quddús gli chiese se avesse portato con sé qualche scritto del Maestro e, informato che non ne aveva con sé alcuno, presentò al suo ospite le pagine di un manoscritto ch’era in suo possesso e gli chiese di leggerne alcuni passi. Appena ebbe letto una pagina del manoscritto, il sembiante di Mullá Husayn subì un improvviso e completo mutamento. I suoi lineamenti tradivano un’indefinibile espressione d’ammirazione e di sorpresa. La sublimità, la profondità, soprattutto l’influenza penetrante delle parole che aveva letto, suscitarono un’intensa agitazione nel suo cuore e gli fecero salire alle labbra le più alte lodi. Deponendo il manoscritto, disse: « Posso ben comprendere che l’Autore di queste parole ha tratto ispirazione da una sorgente immensamente superiore alle fonti da cui abitualmente deriva il sapere degli uomini. Attesto pertanto che riconosco con tutto il cuore la sublimità di queste parole e che accetto senza discutere la verità ch’esse rivelano ». Dal silenzio di Quddús e dall’espressione del suo volto, Mullá Husayn concluse che solo il suo ospite poteva aver scritto quelle parole. Si alzò immediatamente e, stando a capo chino sulla soglia della porta, dichiarò con riverenza: « Il tesoro nascosto di cui il Báb ha parlato è qui ora senza veli davanti ai miei occhi. La sua luce ha fugato le tenebre della perplessità e del dubbio. Anche se il mio Maestro è ora lontano tra le fortezze montuose dell’Ádhirbáyján, il segno del Suo splendore e la rivelazione della Sua potenza sono palesi davanti a me. Ho trovato nel Mázindarán il riflesso della Sua gloria ».

Come fu grave e terribile l’errore di Hájí Mirza Áqásí! Quello sciocco ministro, condannando il Báb a una vita di esilio senza speranza in un angolo remoto e isolato dell’Ádhirbáyján, si era stolta- mente immaginato di riuscire a celare agli occhi dei suoi concittadini quella Fiamma dell’immortale Fuoco di Dio. Non si rese conto che ponendo la Luce di Dio su una altura, contribuiva a diffonderne la radiosità e a proclamarne la gloria. Con le sue stesse azioni, con i suoi sorprendenti errori di calcolo, invece di nascondere quella Fiamma celestiale agli occhi degli uomini, egli la mise in rilievo e contribuì a farla ardere più intensamente. Quanto fu giusto, d’altro canto, Mullá Husayn e quanto fu acuto ed equo il suo giudizio! Nessuno di coloro che conobbero e videro questo giovane poté, neppure per un istante, metterne in dubbio l’erudizione, il fascino, la grande integrità e il sorprendente coraggio. Se egli, dopo la morte di Siyyid Kázim, avesse dichiarato di essere il promesso Qá’im, i suoi più illustri condiscepoli avrebbero all’unanimità accettato la sua affermazione e si sarebbero sottomessi alla sua autorità. Mullá Muhammad-i-Mámáqání, il noto e dotto discepolo di Shaykh Ahmad-i-Ahsá’í, dopo essere stato informato a Tabríz da Mullá Husayn delle proposizioni della nuova Rivelazione, dichiarò: « Che Dio mi sia testimone! Se ciò che ha affermato il Siyyid-i- Báb lo avesse detto Mullá Husayn, in considerazione dei notevoli tratti del suo carattere e della profondità della sua sapienza, sarei stato il primo a difendere la sua causa e a proclamarla a tutto il popolo. Ma poiché egli ha preferito assoggettarsi a un’altra persona, ho cessato di avere fiducia nelle sue parole e mi sono rifiutato di rispondere al suo appello ». Siyyid Muhammad Báqir-i-Rashtí, quando udì Mullá Husayn risolvere con tanta abilità le perplessità che avevano a lungo afflitto la sua mente, attestò con queste ardenti parole la sua grande cultura: « Io, che scioccamente immaginavo di essere capace di confondere e di far tacere Siyyid Kázim-i-Rashtí, compresi, la prima volta che m’incontrai e conversai con costui che afferma di essere solo un suo umile discepolo, com’era stato grande il mio errore di giudizio. Tale è la forza di cui questo giovane sembra dotato, che se dichiarasse che la notte è giorno, lo crederei ancora capace di esporre delle prove che dimostrerebbero in modo conclusivo, agli occhi dei dotti teologi, la verità della sua affermazione ».

La stessa notte in cui incontrò il Báb, Mullá Husayn, benché dapprima conscio della propria infinita superiorità e incline a sottovalutare le pretese avanzate dal figlio di un oscuro mercante di Shíráz, non mancò di percepire, appena il suo Ospite incominciò a esporre il Suo tema, gl’incalcolabili benefici latenti nella Sua Rivelazione. Abbracciò con ardore la Sua Causa e abbandonò sdegnosamente ciò che poteva ostacolare i suoi sforzi per comprendere adeguatamente e promuovere efficacemente i suoi interessi. E quando, a suo tempo, ebbe l’occasione di valutare la trascendente sublimità degli scritti di Quddús, Mullá Husayn, con la sua solita sagacia e con il suo infallibile giudizio, fu ugualmente capace di apprezzare il valore e il merito reali dei doni speciali di cui la persona e le parole di Quddús erano dotate. La vastità della sua conoscenza acquisita divenne insignificante davanti alle immense, divine virtù che lo spirito di questo giovane mostrava. In quello stesso momento, egli promise eterna fedeltà a colui che così possentemente rispecchiava la radiosità dell’amato Maestro. Sentì che il suo primo obbligo era di assoggettarsi completamente a Quddús, seguirne le orme, rispettarne la volontà e garantirne con ogni mezzo di cui disponeva il benessere e la sicurezza. Fino all’ora del suo martirio, Mullá Husayn rimase fedele alla promessa. Nell’estrema deferenza che da quel momento in poi mostrò verso di lui, fu spinto soltanto da una ferma e inalterabile convinzione della realtà di quei doni soprannaturali che così chiaramente distinguevano Quddús dal resto dei suoi condiscepoli. Nessun’altra considerazione lo indusse a mostrare tale deferenza e umiltà nel suo comportamento verso uno che non sembrava altro che un suo pari. L’intuizione penetrante di Mullá Husayn comprese subito la grandezza della forza latente in lui e la nobiltà del suo carattere lo spinse a dimostrare in modo adeguato che riconosceva quella verità.

L’atteggiamento di Mullá Husayn verso Quddús subì una totale trasformazione: i credenti che si riunirono la mattina successiva a casa sua videro con grande sorpresa che l’ospite, che la sera prima aveva occupato il posto d’onore e a cui tanta gentilezza e ospitalità erano state prodigate, aveva ceduto il suo posto a Quddús e stava ora sulla soglia in atteggiamento di completa umiltà. Le prime parole che Quddús, nell’adunanza dei credenti riuniti, rivolse a Mullá Husayn, furono le seguenti: « Ora, in questo stesso momento, devi sorgere e, armato dello scettro della saggezza e della potenza, devi far tacere la schiera di malvagi intriganti che cercano di screditare il buon nome della Fede di Dio. Devi affrontare quella moltitudine e sconfiggere le loro forze. Devi riporre la tua fiducia nella grazia di Dio e considerare le loro macchinazioni un futile tentativo per oscurare la radiosità della Causa. Devi avere un colloquio con il Sa‘ídu’l-‘Ulamá’, quel noto perfido tiranno, e devi coraggiosamente svelare davanti ai suoi occhi i caratteri principali di questa Rivelazione. Quindi devi proseguire per il Khurásán. Nella città di Mashhad, devi costruire una casa concepita in modo tale che ci possa tanto servire come residenza privata quanto fornire le comodità adeguate per ricevere i nostri ospiti. Da lí faremo brevi viaggi e in quella casa abiteremo. In essa inviterai ogni persona ricettiva che speriamo possa essere guidata verso il Fiume della vita eterna. Li prepareremo e li inviteremo a riunirsi in gruppo per proclamare la Causa di Dio ».

Mullá Husayn partì il giorno successivo all’alba per andare a parlare con il Sa‘ídu’l-‘Ulamá’. Solo e senza aiuto, lo cercò e gli portò, come Quddús aveva ordinato, il messaggio del nuovo Giorno. Con intrepidità ed eloquenza, perorò, in mezzo ai discepoli riuniti, la Causa del suo amato Maestro, lo invitò a demolire gli idoli che la sua stessa vana fantasia aveva forgiato e a impiantare sui loro frantumi lo stendardo della guida Divina. Si appellò a lui perché si liberasse la mente dagli ostacoli delle dottrine del passato e corresse, libero e senza legami, sulle rive dell’eterna salvazione. Con tipico vigore, demolì ogni argomento con cui quel mago specioso cercò di confutare la verità del Messaggio Divino e mise in evidenza, per mezzo della sua logica inattaccabile, i falli d’ogni dottrina che quello tentava di proporre. Assalito dal timore che la congregazione dei suoi discepoli si stringesse unanime attorno alla persona di Mullá Husayn, il Sa‘ídu’l-‘Ulamá’ ricorse agli espedienti più meschini e si abbandonò al linguaggio più oltraggioso nella speranza di difendere l’integrità della sua posizione. Gettò le sue calunnie in faccia a Mullá Husayn e, ignorando sprezzantemente le prove e le testimonianze addotte dal suo oppositore, asserì presuntuosamente, senza la minima giustificazione da parte sua, la futilità della Causa che era stato invitato ad abbracciare. Appena si rese conto che egli era del tutto incapace di comprendere il significato del Messaggio che gli aveva portato, Mullá Husayn si alzò e disse: « I miei argomenti non sono riusciti a destarti dal tuo sonno. Le mie azioni ti dimostreranno nei giorni avvenire la forza del Messaggio che hai preferito disprezzare ». Parlò con tale veemenza ed emozione che il Sa‘ídu’l-‘Ulamá’ fu completamente confuso. Tale fu la costernazione della sua anima che non fu capace di rispondere. Mullá Husayn allora si rivolse a un membro dell’uditorio che sembrava aver sentito l’influenza delle sue parole e lo incaricò di raccontare a Quddús i particolari del colloquio. « Digli », aggiunse: « “Poiché non mi hai specificamente comandato di cercarti, ho deciso di partire immediatamente per il Khurásán. Proseguo per eseguire tutte le cose che mi hai ordinato di fare” ».

Solo e con il cuore completamente distaccato da ogni cosa tranne Dio, Mullá Husayn si mise in viaggio verso Mashhad. Suo unico compagno, mentre percorreva la strada verso il Khurásán, fu il pensiero di esaudire i desideri di Quddús e suo unico sostentamento, la consapevolezza dell’infallibilità della sua promessa. Andò direttamente nella casa di Mirza Muhammad-Báqir-i-Qá’iní e ben presto comperò, nelle vicinanze di quella abitazione nel Bálá-Khíyábán, un lotto di terreno sul quale incominciò a erigere la casa che gli era stato comandato di costruire, alla quale dette il nome di Bábíyyih, nome che porta fino ad oggi. Poco tempo dopo che era stata completata, arrivò a Mashhad Quddús e andò ad abitarvi. Un continuo fiume di visitatori, che l’energia e lo zelo di Mullá Husayn avevano preparato ad accettare la Fede, affluì alla presenza di Quddús, riconobbe le affermazioni della Causa e si arruolò prontamente sotto le sue bandiere. La vigile accortezza con cui Mullá Husayn lavorò per diffondere la conoscenza della nuova Rivelazione e il modo magistrale in cui Quddús ammaestrò i suoi sempre più numerosi seguaci dettero origine a un’ondata d’entusiasmo che passò su tutta la città di Mashhad, i cui effetti si propagarono rapidamente oltre i confini del Khurásán. La casa di Bábíyyih si trasformò presto in un centro di raccolta per una moltitudine di devoti, animati da una volontà inflessibile di dimostrare, con ogni mezzo di cui disponevano, le grandi energie insite nella loro Fede.

CAPITOLO XV
IL VIAGGIO DI TÁHIRIH DA KARBILÁ AL KHURÁSÁN

QUANDO fu vicina l’ora stabilita in cui, secondo i decreti della Provvidenza, doveva squarciarsi il velo che ancora celava le verità fondamentali della Fede, divampò nel cuore del Khurásán un incendio ditale intensità distruttrice che gli ostacoli più ardui che si trovavano sulla via del definitivo riconoscimento della Causa si dileguarono e svanirono 1. Quel fuoco provocò un tale incendio nel cuore degli uomini che gli effetti della sua forza vivificante si fecero sentire nelle provincie più remote della Persia, cancellando ogni traccia dell’apprensione e dei dubbi che permanevano ancora nel cuore dei credenti e che ad essi avevano fino a quel momento impedito di comprendere tutta la grandezza della sua gloria. Il decreto del nemico aveva condannato a un perpetuo isolamento Colui che era la personificazione della bellezza di Dio e aveva cercato così di spegnere per sempre la fiamma del Suo amore. Ma la mano dell’Onnipotenza lavorava attivamente, nel momento in cui la schiera dei malevoli stava nell’oscurità complottando contro di Lui, per mandare in rovina i loro piani e vanificare i loro sforzi. Nella provincia più orientale di Persia, l’Onnipotente aveva acceso, per mezzo della mano di Quddús, un fuoco la cui fiamma ardeva vigorosa nel petto della gente del Khurásán. E a Karbilá, oltre i confini occidentali di quella terra, Egli aveva fatto sorgere la luce di Táhirih, luce destinata a irraggiare il suo splendore su tutta la Persia.

Dall’oriente e dall’occidente del paese, la voce dell’Invisibile invitò quelle due luci gemelle ad accorrere nella terra di Tá 2, oriente della gloria, patria di Bahá’u’lláh. Egli ordinò a ciascuno di loro di cercare la presenza di quella Stella Mattutina di Verità e di gravitare attorno alla Sua persona, di chiedere il Suo consiglio, di appoggiare i Suoi sforzi e di preparare la via per la Sua futura Rivelazione.

Secondo il decreto Divino, nei giorni in cui Quddús abitava ancora a Mashhad, fu rivelata dalla penna del Báb una Tavola indirizzata a tutti i credenti della Persia, in cui Egli intimava a ciascun leale seguace della Fede di « accorrere nella Terra di Khá », la provincia del Khurásán 3. La notizia di questa ingiunzione suprema dilagò con straordinaria rapidità e suscitò l’entusiasmo generale. Giunse alle orecchie di Táhirih, che, a quel tempo, abitava a Karbilá e concentrava tutti i suoi sforzi per divulgare la Fede che aveva abbracciato 4. Ella aveva lasciato Qazvín, sua città natale, ed era giunta, dopo la morte di Siyyid Kázim, in quella santa città, sperando ardentemente di vedere i segni che il defunto siyyid aveva predetto. Nelle pagine precedenti abbiamo visto con quanta semplicità ella giunse a scoprire la Rivelazione del Báb e con quanta spontaneità ne riconobbe la verità. Senza che nessuno l’avesse avvertita o invitata, ella percepì la luce albeggiante della Rivelazione promessa sorta sulla città di Shíráz e si sentì ispirata a scrivere il suo messaggio e a giurare fedeltà a Colui che era il Rivelatore di quella luce.

L’immediata risposta del Báb alla dichiarazione di fede che, senza giungere in Sua presenza, ella fu spinta a fare, animò il suo zelo e accrebbe immensamente il suo coraggio. Ella si levò a diffondere i Suoi insegnamenti, denunciò con veemenza la corruzione e la perversità della sua generazione e propugnò intrepidamente una rivoluzione fondamentale negli usi e costumi del suo popolo 5. Il suo spirito indomito fu ravvivato dal fuoco dell’amore per il Báb e la gloria della sua visione fu ulteriormente accresciuta dalla scoperta dei beni inestimabili latenti nella Sua Rivelazione. L’innata intrepidità e la forza del suo carattere furono centuplicate dalla sua ferma convinzione della vittoria finale della Causa che aveva abbracciato; e la sua illimitata energia ricevette nuova vita dal suo riconoscimento del valore imperituro della Missione di cui s’era fatta paladina. Tutti coloro che la incontrarono a Karbilá furono avvinti dalla sua affascinante eloquenza e sentirono la malia delle sue parole. Nessuno poté resistere al suo fascino; pochi riuscirono a sfuggire al contagio della sua fede. Tutti riconobbero gli aspetti straordinari del suo carattere, si meravigliarono della sua sorprendente personalità e si persuasero della sincerità delle sue convinzioni.

Ella riuscì a convertire alla Causa la riverita vedova di Siyyid Kázim, che era nata a Shíráz e che fu la prima tra le donne di Karbilá a riconoscere la sua verità. Ho sentito Shaykh Sultán descrivere la sua grandissima devozione a Táhirih, che ella riveriva come sua guida spirituale e reputava una compagna affezionata. Anch’egli ammirava con fervore il carattere della vedova del Siyyid, la cui gentilezza di modi elogiò spesso con calore. « Tale era il suo attaccamento a Táhirih », sentirono spesso dire Shaykh Sultán, « che era molto riluttante a permettere all’eroina, la quale era ospite nella sua casa, di allontanarsi, anche solo per un’ora, dalla sua presenza. Un attaccamento così grande da parte sua non mancò di suscitare la curiosità e di ravvivare la fede delle sue amiche persiane e arabe, che erano ospiti abituali della sua casa. Lo stesso anno in cui accettò il Messaggio, ella cadde improvvisamente ammalata, e, com’era successo a Siyyid Kázim, dopo tre giorni cessò di vivere ».

Tra gli uomini che grazie agli sforzi di Táhirih abbracciarono con ardore la Causa del Báb a Karbilá vi fu un certo Shaykh Sálih, un arabo che abitava nella città e che fu il primo a versare il proprio sangue sul sentiero della Fede, a Tihrán. Ella fu così prodiga di lodi verso Shaykh Sálih, che alcuni sospettarono che questi fosse pari per rango a Quddús. Anche Shaykh Sultán fu tra coloro che caddero sotto il fascino di Táhirih. Al suo ritorno da Shíráz, egli dette il suo appoggio incondizionato alla Fede, ne promosse gl’interessi con coraggio e assiduità e fece del suo meglio per dare effetto alle istruzioni e ai desideri di Táhirih. Un altro suo ammiratore fu Shaykh Muhammad-i-Shibl, padre di Muhammad Mustafá, un arabo nato a Baghdád che occupava un’alta posizione tra gli ‘ulamá della città. Con l’aiuto di questo eletto gruppo di devoti e capaci sostenitori, Táhirih riuscì ad accendere l’immaginazione e a conquistare la devozione di un considerevole numero degli abitanti persiani e arabi dell’‘Iráq, la maggior parte dei quali furono da lei indotti a unire le loro forze con quei confratelli di Persia che dovevano presto essere chiamati a forgiare con le loro gesta il destino della Causa di Dio e a suggellare con il loro sangue il suo trionfo.

L’appello del Báb indirizzato in origine ai Suoi seguaci in Persia, fu presto trasmesso ai seguaci della Sua Fede in ‘Iráq. Táhirih rispose con infinita gioia e il suo esempio fu subito seguito da un gran numero dei suoi fedeli ammiratori, che dissero di essere tutti pronti ad andare subito nel Khurásán. Gli ‘ulamá’ di Karbilá cercarono di dissuaderla dall’intraprendere il viaggio. Comprendendo immediatamente il motivo che li spingeva a darle questo consiglio e conscia delle loro cattive intenzioni, ella indirizzò a ciascuno di questi sofisti una lunga epistola in cui esponeva i propri motivi e smascherava la loro ipocrisia 6.

Da Karbilá ella andò a Baghdád 7. Una delegazione di rappresentanti, costituita dai più abili capi delle comunità sciite, sunnita, cristiana ed ebraica della città, andò da lei e tentò di convincerla della follia delle sue azioni. Ma ella riuscì a far tacere le loro proteste e li sbalordì con la forza dei suoi argomenti. Delusi e confusi essi si ritirarono profondamente consapevoli della loro impotenza 8.

Gli ‘ulamá’ di Kirmánsháh la accolsero rispettosamente e le offersero molti doni in segno della loro stima e ammirazione 9. Ma a Hamadán 10 i capi ecclesiastici della città si divisero nel loro atteggiamento verso di lei. Alcuni cercarono furtivamente di istigare la popolazione e di indebolire il suo prestigio. Altri furono spinti a esaltare apertamente le sue virtù e ad applaudire al suo coraggio. « È nostro dovere », dichiararono dai pulpiti questi amici, « seguire il suo nobile esempio e chiederle rispettosamente di rivelarci i misteri del Corano e di risolvere i problemi intricati del santo Libro: infatti la nostra più grande cultura non è che una goccia in paragone all’immensità della sua scienza ». Mentre Táhirih era a Hamadán, andarono da lei coloro che suo padre, Hájí Mullá Sálih, aveva inviato da Qazvín per darle il benvenuto ed esortarla, in suo nome, ad andare nella sua città natale e a protrarre la sua permanenza tra loro 11. Ella acconsentì con riluttanza. Prima di partire, ordinò a coloro che l’avevano accompagnata dall’‘Iráq di andare nella propria terra natale. Tra questi vi erano Shaykh Sultán, Shaykh Muhammad-i-Shibl e il suo giovane figlio, Muhammad Mustafá, ‘(bid e suo figlio Násir, a cui fu successivamente dato il nome di Hájí ‘Abbás. Anche certi suoi compagni che erano vissuti in Persia, come Siyyid Muhammad-i-Gulpáyigání, il cui nome d’arte era Tá’ir, e che Táhirih aveva soprannominato Fata’l-Malíh, e altri ricevettero l’ordine di ritornare alle proprie case. Rimasero con lei solo due dei suoi compagni, Shaykh Sálih e Mullá Ibráhim-i-Gulpáyigání, i quali vuotarono ambedue la coppa del martirio, il primo a Tihrán e l’altro a Qazvín. Tra i suoi familiari percorsero con lei tutta la strada da Karbilá a Qazvín, Mirza Muhammad-‘Alí, una delle Lettere del Vivente che era suo cognato, e Siyyid ‘Abdu‘l-Hádí, che era stato promesso a sua figlia. Quando ella arrivò in casa del padre, suo cugino, il superbo e sleale Mullá Muhammad, figlio di Mullá Taqí, che reputava d’essere il più dotto tra tutti i mujtahid della Persia, dopo il padre e lo zio, mandò alcune donne della sua casa per convincere Táhirih a trasferirsi dall’abitazione del padre alla sua. « Dite al mio presuntuoso e arrogante congiunto », fu la sua coraggiosa risposta ai messaggeri: « “Se tu avessi veramente desiderato di essere un coniuge e un compagno fedele, mi saresti corso incontro a Karbilá e, a piedi, avresti guidato la mia howdah 12 per tutta la strada fino a Qazvín. Viaggiando con te ti avrei risvegliato dal sonno della negligenza e ti avrei mostrato la via della verità. Ma questo non doveva essere. Sono passati tre anni dalla nostra separazione. Né in questo mondo né nell’altro potrò mai unirmi a te. Ti ho gettato per sempre fuori dalla mia vita” ».

Una risposta così dura e categorica fece andare su tutte le furie Mullá Muhammad e suo padre. Essi la dichiararono immediatamente eretica e cercarono giorno e notte di indebolire la sua posizione e di macchiare il suo buon nome. Táhirih si difese con forza e continuò a denunziare la depravazione del loro carattere 13. Suo padre, uomo giusto e amante della pace biasimò questa disputa acrimoniosa e tentò di farli riconciliare e di riportare tra loro l’armonia, ma non riuscì nel suo intento.

Questo stato di tensione perdurò fino a quando all’inizio del mese di Ramadán, nell’anno 1263 A.H. 14, arrivò a Qazvín un certo Mullá ‘Abdu’lláh, nato a Shíráz, fervente ammiratore di Shaykh Ahmad e Siyyid Kázim. In seguito, durante il suo processo a Tihrán, alla presenza del Sáhib-i-Díván, Mullá ‘Abdu’lláh raccontò egli stesso quanto segue: « Non sono mai stato un Bábí convinto. Quando giunsi a Qazvín, ero in viaggio per Máh-Kú, perché avevo intenzione di far visita al Báb e di indagare sulla natura della Sua Causa. Il giorno del mio arrivo a Qazvín, mi accorsi che la città era in gran subbuglio. Mentre attraversavo la piazza del mercato, vidi una folla di manigoldi che avevano strappato a un uomo il turbante e le scarpe, gli avevano avvolto il turbante attorno al collo e con questo lo trascinavano per le strade. Una moltitudine furibonda lo tormentava con minacce, percosse e maledizioni. “La sua colpa imperdonabile”, mi dissero in risposta alle mie domande, “è che ha osato lodare in pubblico le virtù di Shaykh Ahmad e Siyyid Kázim. Di conseguenza Hájí Mullá Taqí, lo Hujjatu’l-Islám, l’ha dichiarato eretico e ha decretato la sua espulsione dalla città”.

« Fui meravigliato dalla spiegazione ricevuta. Com’era possibile che uno Shaykhí, pensai tra me stesso, fosse considerato eretico e ritenuto degno d’un trattamento così crudele? Desideroso di sapere da Mullá Taqí stesso se questa voce era vera, mi recai alla sua scuola e gli chiesi se avesse veramente pronunziato una simile condanna contro di lui. “Si”, rispose bruscamente “il dio che il defunto Shaykh adorava è un dio in cui non potrò mai credere. Considero tanto lui quanto i suoi seguaci personificazioni dell’errore”. Mi venne la voglia di colpirlo in quello stesso momento sulla faccia davanti ai suoi discepoli riuniti. Ma mi trattenni e feci voto di trafiggergli, a Dio piacendo, le labbra con la mia lancia, così che mai più avrebbe potuto dire una simile bestemmia.

« Mi ritirai subito dalla sua presenza e mi incamminai verso il mercato, dove comprai un pugnale e una punta di lancia di affilatissimo e finissimo acciaio. Me li nascosi in seno, pronto a sfogare la collera che ardeva dentro di me. Stavo aspettando l’occasione buona quando, una notte, entrai nel masjid dove egli era solito guidare la congregazione nella preghiera. Attesi fino all’alba, allorché vidi entrare nel masjid una vecchia la quale portava con sé un tappeto, che stese a terra nel mihráb 15. Subito dopo, vidi Mullá Taqí entrare da solo, camminare verso il mihráb e dire la preghiera. Lo seguii con circospezione e senza far rumore, e mi fermai dietro di lui. Mentre si stava prosternando al suolo, mi gettai addosso a lui, estrassi la punta di lancia e gliela affondai nella parte posteriore del collo. Egli lanciò un forte grido. Lo rovesciai sul dorso e, sguainato il pugnale, glielo immersi profondamente nella bocca. Col medesimo pugnale, lo colpii in più parti al petto e ai fianchi e lo abbandonai sanguinante nel mihráb.

« Salii immediatamente sul tetto del masjid e osservai la frenesia e l’agitazione della moltitudine. Una folla si precipitò nel masjid e, dopo averlo caricato su una lettiga, lo trasportò a casa sua. Non riuscendo a identificare l’assassino, la popolazione colse l’occasione per sfogare i propri istinti più bassi. Si presero per la gola, si attaccarono con violenza e si accusarono reciprocamente in presenza del governatore. Vedendo che erano state gravemente molestate e gettate in prigione un gran numero di persone innocenti, fui spinto dalla voce della mia coscienza a confessare la mia azione. Pertanto chiesi di essere ricevuto dal governatore e gli dissi: “Se consegno nelle tue mani l’autore di questo delitto, mi prometti di liberare tutte le persone innocenti che stanno soffrendo al suo posto?”. Appena ebbi ottenuto da lui l’assicurazione necessaria, gli confessai di essere io l’autore del misfatto. Dapprima non fu disposto a credermi. Per mia richiesta, chiamò la vecchia che aveva steso il tappeto nel mihráb, ma si rifiutò di lasciarsi convincere dalla sua testimonianza. Fui infine condotto alletto di Mullá Taqí, che era in punto di morte. Appena mi vide, egli riconobbe il mio viso. Sconvolto, puntò il dito verso di me indicando che lo avevo assalito io. Fece capire che desiderava fossi allontanato dalla sua presenza. Poco dopo, spirò. Fui immediatamente arrestato, dichiarato colpevole di omicidio e gettato in prigione. Ma il governatore non mantenne la promessa e si rifiutò di liberare i prigionieri ».

Il candore e la sincerità di Mullá ‘Abdu’lláh piacquero molto al Sáhib-i-Díván. In segreto, questi dette ordine ai suoi servitori di lasciarlo scappare di prigione. Nel cuore della notte, il prigioniero si rifugiò nella casa di Ridá Khán-i-Sardár, che si era recentemente sposato con la sorella del Sipah-Sálár e in quella casa rimase nascosto fino alla grande battaglia di Shaykh Tabarsí, allorché decise di unire la sua sorte a quella degli eroici difensori del forte. Non solo lui, ma anche Ridá Khán, che lo seguì nel Mázindarán, vuotarono alla fine la coppa del martirio.

I particolari dell’assassinio fecero montare su tutte le furie gli eredi legittimi di Mullá Taqí, i quali decisero allora di vendicarsi su Táhirih. Essi riuscirono a farla mettere nel più rigoroso isolamento in casa di suo padre e ordinarono alle donne che avevano scelto per sorvegliarla di non permettere alla prigioniera di lasciare la sua camera se non per eseguire le abluzioni quotidiane. L’accusarono di essere la vera istigatrice del crimine. « Tu sola » affermarono, « sei colpevole dell’uccisione di nostro padre. Tu hai dato l’ordine che fosse assassinato ». Condussero a Tihrán coloro che avevano arrestato e confinato e li imprigionarono nella casa di uno dei kad-khudá 16 della capitale. Gli amici ed eredi di Mullá Taqí si sparpagliarono dappertutto, accusando i loro prigionieri di aver ripudiato la legge dell’Islám e chiedendo che fossero immediatamente messi a morte.

Bahá’u’lláh, che a quel tempo abitava a Tihrán, fu informato delle condizioni in cui versavano i prigionieri che erano stati compagni e sostenitori di Táhirih. Dato che già conosceva il kad-khudá nella cui casa erano incarcerati, Egli decise di far loro visita e di intervenire in loro favore. Quell’avido e disonesto funzionario, che ben conosceva la grande generosità di Bahá’u’lláh, sperando di ricavarne un sostanzioso vantaggio pecuniario per se stesso, esagerò molto le disavventure capitate agli sventurati prigionieri. « Non hanno neppure lo stretto necessario per vivere », incalzò il kad-khudá. « Muoiono di fame, e le loro vesti sono misere e insufficienti ». Bahá’u’lláh offerse immediatamente un aiuto economico per soccorrerli ed esortò il kad-khudá a mitigare la severità delle regole della loro prigionia. Quest’ultimo acconsentì a liberare alcuni che non potevano sopportare il peso delle catene e per gli altri fece tutto ciò che poteva per alleggerire il rigore della loro prigionia. Spinto dall’avidità, informò della cosa i suoi superiori e fece notare che Bahá’u’lláh forniva regolarmente cibo e denaro per coloro che erano prigionieri nella sua casa.

Questi funzionari furono a loro volta tentati di trarre il massimo vantaggio dalla liberalità di Bahá’u’lláh. Lo convocarono davanti a loro, protestarono contro la Sua azione e Lo accusarono di complicità nell’atto per cui i prigionieri erano stati condannati. « Il kad-khudá », rispose Bahá’u’lláh, « ha perorato la loro causa davanti a Me e ha esagerato le loro sofferenze e i loro bisogni. Egli stesso ha attestato la loro innocenza e si è appellato a Me perché li aiutassi. In cambio dell’aiuto che, in risposta al suo invito, Mi sono sentito spinto a offrire, voi ora Mi accusate di un crimine di cui sono innocente ». Sperando d’intimidire Bahá’u’lláh con la minaccia di una punizione immediata, si rifiutarono di lasciarLo tornare a casa. Il confino a cui fu sottoposto fu la prima afflizione che colpì Bahá’u’lláh nel sentiero della Causa di Dio, il primo arresto che subì per amore dei Suoi amati. Rimase in prigione per alcuni giorni, finché Ja’far-Qulí Khán, fratello di Mirza Áqá Khán-i-Núrí, che fu in un tempo successivo nominato Gran Visir dello Scià, e alcuni altri amici intervennero in Suo favore e, minacciando il kad-khudá con parole severe, riuscirono a farLo liberare. I responsabili del Suo confino avevano fiduciosamente sperato di ricevere, in cambio della Sua liberazione, la somma di mille túmán 17, ma si resero presto conto che erano costretti a secondare i desideri di Ja’far-Qulí Khán senza la speranza di ricevere, né da lui né da Bahá’u’lláh, la minima ricompensa. Profondendosi in scuse e con grande rammarico, consegnarono il Prigioniero nelle sue mani.

Gli eredi di Mullá Taqí stavano nel frattempo facendo ogni sforzo per vendicare il sangue del loro illustre congiunto. Insoddisfatti di ciò che avevano già ottenuto, rivolsero un appello a Muhammad Sháh in persona e cercarono di conquistarsi la sua simpatia alla loro causa. Si dice che lo Scià abbia dato questa risposta: « Vostro padre, Mullá Taqí, non avrebbe sicuramente potuto affermare d’essere superiore all’Imám ‘Alí, il Comandante dei Fedeli. Ed egli dette queste istruzioni ai suoi discepoli: che, se fosse caduto vittima sotto la spada di Ibn-i-Muljam, solo l’assassino avrebbe dovuto espiare il suo atto con la morte e nessun altro all’infuori di lui avrebbe dovuto essere messo a morte. Perché non dovrebbe essere vendicato allo stesso modo anche l’assassinio di vostro padre? Ditemi chi è l’assassino e io ordinerò ch’egli sia consegnato nelle vostre mani, si che possiate infliggergli la punizione che si merita ».

L’atteggiamento intransigente dello Scià li indusse ad abbandonare le speranze che avevano nutrito. Dichiararono che l’assassino di loro padre era Shaykh Sálih, ottennero che fosse arrestato e lo misero a morte con ignominia. Egli fu il primo a versare il proprio sangue in terra persiana sul sentiero della Causa di Dio, il primo di quella schiera gloriosa destinata a suggellare col proprio sangue il trionfo della santa Fede di Dio. Mentre veniva condotto al luogo del martirio, il suo volto risplendeva di zelo e di gioia. Egli corse ai piedi del patibolo e andò incontro al suo carnefice come se andasse a dare il benvenuto a un caro vecchio amico. Dalle sue labbra continuarono a uscire parole di trionfo e di speranza. « Ho rinunziato », gridò con giubilo mentre s’avvicinava la sua fine, « alle speranze e alle credenze degli uomini dal momento in cui ho riconosciuto Te, che sei la mia Speranza e la mia Fede! ». I suoi resti furono sepolti nel cortile del mausoleo dell’Imám-Zádih Zayd a Tihrán.

L’odio implacabile che li animava spinse i responsabili del martirio di Shaykh Sálih a cercare altri strumenti per attuare i loro piani. Il Sáhib-i-Díván era riuscito a convincere Hájí Mirza Áqásí che gli eredi di Mullá Taqí si comportavano in modo sleale, e perciò questi si rifiutò di prendere in considerazione il loro ricorso. Non scoraggiati dal suo rifiuto, essi esposero il loro caso al Sadr-i-Ardibílí, uomo notoriamente presuntuoso, uno dei più arroganti tra i capi ecclesiastici di Persia. « Guarda », implorarono, « l’oltraggio che è stato fatto a coloro che hanno il compito supremo di vigilare sull’integrità della legge. Come puoi tu, che sei il suo principale e illustre esponente, permettere che un affronto così grave alla sua dignità rimanga impunito? Sei veramente incapace di vendicare il sangue d’un ministro del Profeta di Dio, che è stato assassinato? Capisci che il solo tollerare un crimine così odioso provocherebbe un fiume di calunnie contro coloro che sono i principali depositari degl’insegnamenti e dei princìpi della nostra Fede? Il tuo silenzio non incoraggerà i nemici dell’Islám a infrangere la struttura che hai innalzato con le tue stesse mani? E di conseguenza, non rischierai la vita anche tu? ».

Il Sadr-i-Ardibílí fu molto spaventato e sentendosi impotente cercò d’ingannare il sovrano. Rivolse a Muhammad Sháh la seguente richiesta: « Imploro umilmente vostra Maestà di concedere che i prigionieri accompagnino gli eredi del capo martirizzato alloro ritorno a Qazvín, sì che essi possano, spontaneamente, perdonare in pubblico la loro azione e ridare loro la libertà. Questo gesto farà crescere molto il loro prestigio e conquisterà loro la stima dei concittadini ». Lo Scià, completamente ignaro dei malvagi piani di quell’astuto intrigante, accolse subito la sua richiesta, con l’esplicita condizione che gli fosse mandata da Qazvín una dichiarazione scritta, per rassicurarlo che le condizioni dei prigionieri dopo la loro liberazione erano del tutto soddisfacenti e che nessun male sarebbe loro accaduto per il futuro.

Appena i prigionieri furono consegnati nelle mani dei sobillatori, questi incominciarono a sfogare i sentimenti d’odio implacabile che nutrivano verso di loro. La notte in cui furono consegnati ai loro nemici, Hájí Asadu’lláh, fratello di Hájí Alláh-Vardí e zio paterno di Muhammad Hádí e di Muhammad-Javád-i-Farhádí, noto mercante di Qazvín, il quale s’era fatto un nome per la sua pietà e rettitudine che erano all’altezza di quelle del suo illustre fratello, fu spietatamente messo a morte. Ben sapendo che nella sua città non avrebbero potuto infliggergli la punizione che volevano, decisero di togliergli la vita a Tihrán in modo da essere protetti dal sospetto di averlo assassinato. Nel cuore della notte, essi perpetrarono il vergognoso atto; e, la mattina dopo, annunciarono che una malattia era stata la causa della sua morte. I suoi amici e conoscenti, la maggior parte nati a Qazvín, nessuno dei quali era riuscito a scoprire il crimine che aveva estinto una vita così nobile, gli tributarono funerali degni del suo rango.

Gli altri suoi compagni, tra i quali vi erano Mullá Táhir-i-Shírází e Mullá Ibráhim-i-Mahallátí, che erano ambedue molto stimati per il loro sapere e il loro carattere, furono messi a morte in un modo selvaggio subito dopo il loro arrivo a Qazvín. Tutta la popolazione, che era stata diligentemente istigata, reclamò a gran voce la loro immediata esecuzione. Una banda di svergognati ribaldi, armati di coltelli, spade, lance e asce, si gettò su di loro e li fece a pezzi. Mutilarono i loro corpi con tale perversa barbarie che non si riuscì a trovare nessun frammento delle loro membra sparse da seppellire.

Dio benedetto! Atti di così incredibile barbarie sono stati perpetrati in una città come Qazvín, che si vanta di ospitare entro le sue porte non meno di cento dei più grandi capi ecclesiastici dell’Islám, eppure nessuno tra tutti i suoi abitanti alzò una voce di protesta contro delitti così rivoltanti. Sembrò che nessuno mettesse in dubbio il loro diritto di perpetrare tali atti iniqui e vergognosi. Sembrò che nessuno si rendesse conto dell’assoluta incompatibilità tra gli atti così feroci commessi da coloro che pretendevano di essere i soli depositari dei misteri dell’Islám e la condotta esemplare di coloro che per primi palesarono al mondo la sua luce. Nessuno si sentì di esclamare con indignazione: « O generazione perversa e malvagia! In quali abissi d’infamia e di vergogna sei sprofondata! Le abominazioni che hai commesso hanno sorpassato per crudeltà gli atti degli uomini più abietti. Non ammetterai che né gli animali dei campi né alcuna cosa che si muova sulla terra ha mai eguagliato la ferocia dei tuoi atti? Quanto tempo durerà la tua negligenza? Non credi che l’efficacia d’ogni preghiera collettiva dipenda dall’integrità di colui che guida la preghiera? Non hai tu più volte dichiarato che nessuna di queste preghiere è accettabile agli occhi di Dio finché e a meno che l’Imám che guida la congregazione non abbia purificato il proprio cuore da ogni traccia di malizia? Eppure tu ritieni che coloro che istigano tali atrocità e partecipano alla loro attuazione siano le vere guide della tua Fede, le personificazioni della rettitudine e della giustizia. Non hai forse riposto nelle loro mani le redini della tua Causa e non li consideri i padroni dei tuoi destini? ».

La notizia di questo oltraggio giunse a Tihrán e dilagò con straordinaria rapidità per la città. Hájí Mirza Áqásí protestò con veemenza. « In base a quale passo del Corano », si dice che abbia esclamato, « a quale tradizione di Muhammad, è stato giustificato il massacro di tanta gente per vendicare l’assassinio di una persona sola? ». Anche Muhammad Sháh espresse la sua ferma disapprovazione della condotta sleale del Sadr-i-Ardibílí e dei suoi alleati. Ne denunziò la codardia, lo bandì dalla capitale e lo condannò a una vita oscura a Qum. La sua destituzione dalla carica fu molto gradita al Gran Visir, che si era fino allora affaticato invano per provocarne la caduta; ora il suo improvviso allontanamento da Tihrán lo liberò dalle apprensioni che l’estendersi della sua autorità gli aveva procurato. La sua denuncia del massacro di Qazvín fu ispirata, non tanto da simpatia per la causa delle vittime indifese, quanto dalla speranza di mettere il Sadr-i-Ardibílí in tali difficoltà da farlo cadere inevitabilmente in disgrazia agli occhi del Sovrano.

Lo Scià e il suo governo non inflissero un’immediata punizione ai malfattori e ciò li incoraggiò a cercare altri mezzi per soddisfare il loro odio implacabile contro gli oppositori. Essi rivolsero allora la loro attenzione verso la stessa Táhirih e decisero di farle subire la stessa sorte che avevano subito i suoi compagni. Táhirih, che era ancora confinata, appena la informarono dei piani dei suoi nemici, rivolse a Mullá Muhammad, che era subentrato nel posto del padre ed era ora l’Imám-Jum‘ih riconosciuto di Qazvín, il seguente messaggio: « “Vorrebbero spegnere la luce di Dio con le loro bocche, ma Dio vuole solo render perfetta la Sua luce, anche se vi ripugnino gli empi” 18. Se la Mia Causa è la Causa della Verità, se il Signore che adoro non è altro che l’unico vero Dio, Egli, prima che siano trascorsi nove giorni, mi libererà dal giogo della tua tirannia. S’Egli non riuscirà a ottenere la mia scarcerazione, sei libero di fare quel che vuoi. Avrai irrevocabilmente dimostrato la falsità del mio credo ». Mullá Muhammad, rendendosi conto di non poter accettare una sfida così audace, preferì ignorare completamente il messaggio e cercò con ogni astuzia di raggiungere il proprio scopo.

In quei giorni, prima che scadesse il termine fissato da Táhirih per la sua liberazione, Bahá’u’lláh espresse il desiderio ch’ella fosse liberata dalla prigionia e condotta a Tihrán. Egli decise di dimostrare, davanti agli avversari, la verità delle sue parole e di frustrare le macchinazioni che i suoi nemici avevano tramato per farla morire. Pertanto convocò Muhammad Hádíy-i-Farhádí e gli affidò il compito di trasferirla immediatamente nella Sua casa di Tihrán. Incaricò quindi Muhammad Hádí di consegnare una lettera sigillata alla moglie, Khátún-Ján, e di darle istruzioni di andare, travestita da mendicante, nella casa dove Táhirih era confinata; di consegnare la lettera nelle sue mani; di aspettare per un po’ all’ingresso della casa, finché ella non l’avesse raggiunta, e poi di correre via con lei e di affidarla alle sue cure. « Appena Táhirih ti avrà raggiunto », Bahá’u’lláh ordinò all’emissario, « parti immediatamente per Tihrán. Stanotte, manderò nei pressi della porta di Qazvín un servitore, con tre cavalli; li prenderai con te e li apposterai in un luogo che sceglierai tu stesso fuori dalle mura di Qazvín. Condurrai colà Táhirih, monterete a cavallo e, seguendo una strada abbandonata, farete in modo di giungere sul far del mattino alla periferia della capitale. Appena si apriranno le porte, entrerete in città e verrete immediatamente a casa Mia. Sta bene attento che nessuno scopra la sua identità. L’Onnipotente guiderà sicuramente i tuoi passi e ti concederà la Sua infallibile protezione ».

Rinvigorito dall’assicurazione di Bahá’u’lláh, Muhammad Hádí partì immediatamente per eseguire le istruzioni ricevute. Senza lasciarsi fermare da nessun ostacolo, egli eseguì il suo compito con destrezza e fedeltà e riuscì a condurre Táhirih sana e salva, all’ora stabilita, nella casa del suo Padrone. Il suo improvviso e misterioso allontanamento da Qazvín riempì di costernazione tanto gli amici quanto i nemici. Per tutta la notte, la cercarono per le case, ma i loro sforzi per trovarla furono vani. L’adempimento della predizione ch’ella aveva fatto stupì anche i più scettici dei suoi oppositori. Alcuni furono indotti a comprendere il carattere soprannaturale della Fede ch’ella aveva abbracciato e si sottomisero liberamente ai suoi princìpi. Mirza ‘Abdu’l-Vahháb, suo fratello, riconobbe, quello stesso giorno, la verità della Rivelazione, ma mancò in seguito di dimostrare con le azioni la sincerità della sua fede 19.

L’ora che Táhirih aveva fissato per la propria liberazione la trovò già sistemata al sicuro all’ombra protettrice di Bahá’u’lláh. Ella sapeva bene chi era Colui alla cui presenza era stata ammessa ed era profondamente conscia della santità dell’ospitalità che le era stata così benignamente accordata 20. Come era accaduto allorché aveva accettato la Fede proclamata dal Báb, quando, senza che nessuno l’avesse avvertita o invitata, aveva acclamato il Suo Messaggio e ne aveva riconosciuto la verità, così ora grazie alla sua conoscenza intuitiva ella comprese la gloria futura di Bahá’u’lláh. Nell’anno ‘60, mentre era a Karbilá, alluse nelle sue lodi al suo riconoscimento della Verità che Egli doveva rivelare. Io stesso ho visto a Tihrán, in casa di Siyyid Muhammad, che Táhirih aveva soprannominato Fata’l-Malíh, i versi che ella aveva scritto di suo pugno, ogni lettera dei quali era un’eloquente testimonianza della sua Fede nella sublime Missione del Báb e di Bahá’u’lláh. In quell’ode vi sono i seguenti versi: « Lo splendore della Bellezza di Abhá ha trapassato il velo della notte; guardate: le anime dei suoi amanti danzano come falene dinanzi alla luce che ha brillato dal Suo volto! ». La sua ferma convinzione che la potenza di Bahá’u’lláh era invincibile la spinse a fare la sua predizione con tanta fiducia e a lanciare così audacemente la sua sfida in faccia ai nemici. Solo una fede incrollabile nell’infallibile efficacia di quella potenza poté indurla, proprio nelle ore più buie della sua prigionia, ad asserire con tanto coraggio e sicurezza l’avvicinarsi della sua vittoria.

Pochi giorni dopo l’arrivo di Táhirih a Tihrán, Bahá’u’lláh decise di mandarla nel Khurásán in compagnia dei credenti che si preparavano a partire per quella provincia. Anch’Egli aveva deciso di lasciare la capitale e di far lo stesso viaggio pochi giorni dopo. Convocò pertanto Áqáy-i-Kalím e gli dette istruzioni di prendere subito i provvedimenti necessari per il trasferimento di Táhirih, con la sua ancella, Qánitih, in un luogo fuori dalle porte della capitale, da cui, in seguito, avrebbe proseguito per il Khurásán. Gli raccomandò di fare molta attenzione e di vigilare perché le guardie che erano di guarnigione all’ingresso della città e che avevano l’ordine di proibire alle donne di attraversare le porte senza lasciapassare non scoprissero la sua identità e non le impedissero di partire.

Ho sentito Áqáy-i-Kalím raccontare quanto segue: « Confidando in Dio, Táhirih, la sua ancella e io cavalcammo finché arrivammo nelle vicinanze della capitale. Nessuna delle guardie che erano di guarnigione alla porta di Shimírán sollevò la minima obiezione o s’informò sulla nostra destinazione. A due farsang 21 di distanza dalla capitale ci fermammo nel mezzo di un irriguo frutteto situato ai piedi d’un monte, nel centro del quale vi era una casa che sembrava completamente abbandonata. Mentre andavo alla ricerca del proprietario, mi imbattei in un uomo che innaffiava le piante. In risposta alle mie domande, mi spiegò che era sorta una disputa tra il proprietario e i suoi affittuari, in seguito alla quale gli inquilini avevano abbandonato la casa. “Il proprietario mi ha chiesto”, aggiunse, “di fare la guardia alla proprietà fino alla risoluzione della disputa”. L’informazione che mi dette mi fece molto piacere e gli chiesi di dividere con noi la colazione. Quando più tardi quel giorno, decisi di partire per Tihrán, compresi che egli era disposto a sorvegliare e proteggere Táhirih e la sua ancella. Affidandole alle sue cure, lo assicurai che sarei ritornato io stesso la sera oppure avrei mandato un servitore di fiducia, seguendolo la mattina successiva con tutto il necessario per il viaggio nel Khurásán.

« Giunto a Tihrán, mandai Mullá Báqir, una delle Lettere del Vivente, con un servitore, a raggiungere Táhirih. Informai Bahá’u’lláh che ella era partita sana e salva dalla capitale. Egli fu molto contento dell’informazione che Gli detti e chiamò il frutteto ‘Bágh-i-Jannat’ 22. “Quella casa”, Egli notò, “è stata provvidenzialmente preparata per accoglierti, perché tu potessi ospitare in essa gli amati di Dio”.

« Táhirih sostò sette giorni in quel luogo e poi partì per il Khurásán, accompagnata da Muhammad-Hasan-i-Qazvíní, soprannominato Fatá, e pochi altri. Bahá’u’lláh mi comandò di organizzare la sua partenza e di provvedere a tutto ciò che le potesse occorrere per il viaggio ».

CAPITOLO XVI
LA CONFERENZA DI BADASHT

SUBITO dopo che Táhirih si fu messa in viaggio, Bahá’u’lláh dette istruzioni ad Áqáy-i-Kalím di portare a termine i preparativi necessari per la Sua progettata partenza per il Khursn. Affidò alle sue cure la famiglia e gli chiese di provvedere a tutto ciò che potesse contribuire al loro benessere e alla loro sicurezza.

Giunto a Sháh-Rúd, incontrò Quddús, che era partito da Mashhad, dove abitava, ed era venuto a salutarLo, non appena aveva sentito del Suo arrivo. L’intera provincia del Khurásán era in quei giorni in preda a una violenta agitazione. Le attività che Quddús e Mullá Husayn avevano iniziato, il loro zelo, il loro coraggio, il loro linguaggio aperto avevano risvegliato la popolazione dal suo letargo, avevano acceso nel cuore di alcuni i più nobili sentimenti di fede e di devozione e avevano eccitato nel petto di altri gl’istinti d’un fanatismo appassionato e del malanimo. Una moltitudine di ricercatori continuava a riversarsi a Mashhad da ogni direzione, cercava ansiosamente la residenza di Mullá Husayn e per suo tramite veniva introdotta alla presenza di Quddús.

Il loro numero si gonfiò presto a tal segno da suscitare l’apprensione delle autorità. Il capo della polizia vedeva con preoccupazione e sgomento la folla di gente agitata che affluiva incessantemente in tutti i quartieri della santa città. Desideroso di affermare i propri diritti, d’intimidire Mullá Husayn e d’indurlo a ridurre le sue attività, dette ordine di arrestare subito il servitore personale di quest’ultimo, che si chiamava Hasan, e d’infliggergli un trattamento crudele e infamante. Gli forarono il naso, passarono una corda attraverso il foro e con questa cavezza lo trascinarono per le strade.

Mullá Husayn era in presenza di Quddús quando gli giunse la notizia della turpe afflizione che aveva colpito il suo servo. Temendo che questa triste notizia potesse addolorare il cuore del suo amato capo, si alzò e in silenzio si ritirò. I suoi compagni si riunirono subito intorno a lui, espressero la loro indignazione per questo oltraggioso assalto contro un cos innocente seguace della Fede e lo esortarono a vendicare l’insulto. Mullá Husayn cercò di placare la loro ira. « Non lasciatevi affliggere e disturbare » implorò, « dall’affronto che ha subito Hasan, perché Husayn è ancora con voi e domani lo riconsegnerà sano e salvo nelle vostre mani ».

Davanti a una promessa così solenne, i compagni non osarono fare ulteriori osservazioni. Ma il loro cuore bruciava per l’impazienza di riparare quella dolorosa ingiustizia. Infine alcuni di loro decisero di uscire in gruppo e di gridare ad alta voce, per le strade di Mashhad, « Yá Sáhibu’z-Zamán! » 1 in segno di protesta contro questo inaspettato affronto alla dignità della loro Fede. Fu questa la prima volta che tale grido venne lanciato nel Khurásán in nome della Causa di Dio. La città rimbombò del suono di quelle voci. Gli echi delle loro grida giunsero fino alle regioni più remote della provincia, scatenarono un gran tumulto nel cuore della gente e dettero il via ai terribili avvenimenti destinati ad accadere nel futuro.

In mezzo alla confusione che ne seguì, coloro che tenevano la cavezza e trascinavano Hasan per le strade perirono di spada. I compagni di Mullá Husayn condussero il prigioniero liberato in presenza del loro capo, che informarono della sorte subita dall’oppressore. « Vi siete rifiutati », si dice che Mullá Husayn abbia osservato, « di tollerare le prove a cui è stato sottoposto Hasan; come potrete rassegnarvi al martirio di Husayn? ». 2

La città di Mashhad, che aveva appena ritrovato la pace e la tranquillità dopo la ribellione scatenata dal Sálár, precipitò ancora nella confusione e nel dolore. Il principe Hamzih Mirza era accampato con i suoi uomini e le sue munizioni a quattro farsang 3 di distanza dalla città, pronto a far fronte a qualsiasi emergenza, quando gli giunse improvvisamente la notizia di questi nuovi disordini. Egli inviò subito in città un distaccamento con l’ordine di procurarsi l’appoggio del governatore per arrestare Mullá Husayn e di condurre questi in sua presenza. ‘Abdu’l-‘Alí Khán-i-Marághiyí, il capitano dell’artiglieria del Principe, intervenne subito. « Mi considero », implorò, « uno di coloro che amano e ammirano Mullá Husayn. Se hai intenzione di fargli del male, ti prego di prendere la mia vita e poi di procedere all’esecuzione del tuo piano; poiché, finché vivrò, non potrò tollerare la minima mancanza di riguardo verso di lui ».

Il Principe, ben sapendo quanto quell’ufficiale gli era necessario, rimase molto imbarazzato davanti a questa inattesa dichiarazione. « Anch’io ho incontrato Mullá Husayn », rispose cercando di dissipare l’apprensione di ‘Abdu’l-‘Alí Khán. « Anch’io nutro una grandissima devozione per lui. Invitandolo nel mio campo, spero di contenere le dimensioni dei disordini che sono stati provocati e di proteggere la sua persona ». Il Principe scrisse poi di suo pugno una lettera a Mullá Husayn in cui metteva in evidenza quanto fosse desiderabile che egli si trasferisse per un po’ di giorni nel suo quartier generale e lo assicurava del suo sincero desiderio di proteggerlo dalle aggressioni dei suoi infuriati oppositori. Dette ordine di piantare la sua tenda personale, che era adorna di molti fregi, vicino al suo campo e di riservarla ad accogliere l’ospite atteso.

Quando ricevette questa comunicazione, Mullá Husayn la presentò a Quddús, il quale lo consigliò di accettare l’invito del Principe. « Nessun male può accaderti », lo rassicurò Quddús. « In quanto a me, stanotte partirò per il Mázindarán in compagnia di Mirza Muhammad-‘Alíy-i-Qazvíní, una delle Lettere del Vivente. Se Dio vorrà, in seguito partirai anche tu e mi raggiungerai alla testa di una vasta schiera di fedeli, preceduto dagli “Stendardi Neri”. Ci incontreremo là dove l’Onnipotente avrà decretato ».

Mullá Husayn rispose con gioia. Si gettò ai piedi di Quddús e lo assicurò della sua ferma determinazione di assolvere fedelmente gli obblighi che gli aveva imposto. Quddús lo prese con amore tra le braccia e, baciandogli gli occhi e la fronte, l’affidò all’infallibile protezione dell’Onnipotente. Nelle prime ore del pomeriggio, Mullá Husayn montò a cavallo e cavalcò con dignità e tranquillità verso l’accampamento del principe Hamzih Mirza ove fu cerimoniosamente condotto nella tenda eretta appositamente per il suo uso personale da ‘Abdu’l-‘Alí Khán, che, con alcuni ufficiali, era stato prescelto dal Principe per andargli incontro a riceverlo.

Durante la notte, Quddús chiamò in sua presenza Mirza Muhammad-Báqir-i-Qá’iní, che aveva costruito il Bábíyyih, insieme con alcuni dei più eminenti tra i suoi compagni e ingiunse loro di tributare fedeltà inconcussa a Mullá Husayn e di eseguire ciecamente tutto ciò che egli avesse desiderato. « Violente sono le tempeste che ci attendono », disse. « Si stanno rapidamente avvicinando giorni di tensione e di grande turbamento. Siategli devoti, poiché nell’obbedienza al suo comando sta la vostra salvezza ».

Con queste parole, Quddús disse addio ai suoi compagni e, seguito da Mirza Muhammad-‘Alíy-i-Qazvíní, Partì’ da Mashhad. Pochi giorni dopo incontrò Mirza Sulaymán-i-Núrí, che gli comunicò i particolari della liberazione di Táhirih dal confino a Qazvín, del suo viaggio nel Khurásán e della successiva partenza di Bahá’u’lláh dalla capitale. Mirza Sulaymán e Mirza Muhammad-‘Alí rimasero in compagnia di Quddús finché arrivarono a Badasht. Giunsero nel piccolo villaggio all’alba e trovarono lí riunita un’imponente adunanza in cui riconobbero i loro confratelli. Decisero, tuttavia, di riprendere il viaggio e di proseguire direttamente per Sháh-Rúd. Mentre stavano avvicinandosi al villaggio, Mirza Sulaymán, che li seguiva a una certa distanza, incontrò Muhammad-i-Haná-Sáb, il quale era in viaggio per Badasht. In risposta alla sua domanda sullo scopo della riunione, Mirza Sulaymán fu informato che Bahá’u’lláh e Táhirih avevano lasciato pochi giorni prima Sháh-Rúd per andare in quel piccolo villaggio e che da Isfáhán, Qazvín e altre città della Persia erano già arrivati molti credenti, i quali erano in attesa di accompagnare Bahá’u’lláh nel Suo progettato viaggio nel Khurásán. «Dì’ a Mullá Ahmad-i-Ibdál che è ora a Badasht », osservò Mirza Sulaymán, « che questa mattina ha brillato su di te una luce la cui radiosità non sei stato capace di riconoscere ». 4

Appena Muhammad-i-Haná-Sáb lo informò dell’arrivo di Quddús a Sháh-Rúd, Bahá’u’lláh decise di raggiungerlo. Accompagnato da Mullá Muhammad-i-Mu‘allim-i-Núrí, partì a cavallo per il villaggio la sera stessa e ritornò a Badasht con Quddús la mattina successiva al levar del sole.

L’estate era allora appena iniziata. Al Suo arrivo, Bahá’u’lláh prese in affitto tre giardini, dei quali uno assegnò a Quddús per il suo uso personale, un altro tenne per Táhirih e la sua ancella e il terzo, riservò a Se Stesso. Coloro che si erano riuniti a Badasht erano ottantuno e, dal momento del loro arrivo fino al giorno della loro separazione, furono tutti ospiti di Bahá’u’lláh. Ogni giorno Egli rivelò una Tavola, che Mirza Sulaymán-i-Núrí cantava poi in presenza dei credenti riuniti. A ciascuno conferì un nuovo nome: Egli fu d’allora in poi designato col nome di Bah all’ultima lettera del Vivente fu imposto il nome di Quddús e a Qurratu’l-’Ayn fu dato il titolo di Táhirih. Per ciascuno di coloro che erano convenuti a Badasht, il Báb rivelò in seguito una Tavola speciale e a ciascuno di loro Egli Si rivolse chiamandolo con il nome recentemente conferitogli. Quando, in seguito, alcuni dei più rigidi e conservatori tra i suoi condiscepoli vollero accusare Táhirih di respingere indiscriminatamente le tradizioni del passato da lungo tempo onorate, il Báb, al quale queste lamentele erano state rivolte, rispose con le seguenti parole: « Cosa devo dire di colei che la Lingua della Potenza e della Gloria ha chiamato Táhirih [la Pura]? ».

Ciascun giorno di quella memorabile riunione vide l’abrogazione di una legge e il ripudio di una tradizione da lungo tempo onorata. I veli che custodivano la santità delle ordinanze dell’Islam furono recisamente squarciati e gl’idoli che per tanto tempo avevano preteso la venerazione dei loro ciechi adoratori furono bruscamente demoliti. Ma nessuno riconobbe la Fonte da cui provenivano queste innovazioni coraggiose e provocatorie, nessuno sospettò di chi fosse la Mano che guidava fermamente e infallibilmente il loro cammino. L’identità di Colui che aveva imposto un nuovo nome a ciascuno di coloro che si erano raccolti nel piccolo villaggio rimase ignota anche a coloro che ricevettero quei nomi. Ciascuno fece congetture secondo il proprio grado di comprensione. Pochi, seppur qualcuno, supposero vagamente che l’Autore degli importanti cambiamenti introdotti con tanto coraggio era Bahá’u’lláh.

Si dice che Shaykh Abú-Turáb, uno dei più informati sulla natura degli avvenimenti di Badasht, abbia raccontato il seguente episodio: « Un giorno un malessere confinò Bahá’u’lláh a letto. Quddús, appena seppe della Sua indisposizione, si affrettò a farGli visita. Quando fu ammesso in presenza di Bahá’u’lláh, si sedette alla Sua destra. A poco a poco furono ammessi alla Sua presenza anche gli altri compagni che si raggrupparono intorno a Lui. Si erano appena riuniti, quando giunse inatteso Muhammad-Hasan-i-Qazvíní, il messo di Táhirih, al quale era stato recentemente conferito il nome di Fata’l-Qazvíní e che informò Quddús che Táhirih lo invitava calorosamente a farle visita nel suo giardino. “Ho rotto ogni rapporto con lei”, egli rispose con fermezza e decisione. “Mi rifiuto d’incontrarla” 5. Il messaggero se ne andò immediatamente ma ritornò subito, ripetendo lo stesso messaggio e domandandogli di accettare l’urgente invito di Táhirih. “Ella insiste nel chiederti di farle visita”, furono le sue parole. “Se persisti nel tuo rifiuto, verrà lei da te”. Visto che Quddús era irremovibile, il messaggero sguainò la spada, la depose ai suoi piedi e disse: “Mi rifiuto di ritornare senza di te. Scegli: o mi accompagni in presenza di Táhirih o mi tagli la testa con questa spada”. “Ho già dichiarato che non ho alcuna intenzione di fare visita a Táhirih”, Quddús ribatté furente. “Sono pronto a seguire l’alternativa che mi hai proposto”.

« Muhammad-Hasan, che si era seduto ai piedi di Quddús, tese avanti il collo per ricevere il colpo fatale, quando all’improvviso apparve agli occhi dei compagni riuniti, adorna e senza veli, Táhirih. L’intera adunanza piombò subito nella costernazione 6. Rimasero tutti senza parola a questa improvvisa e inaspettata apparizione: guardare il suo volto senza veli era per loro inconcepibile; perfino guardare la sua ombra era cosa che reputavano sconveniente, in quanto la consideravano l’incarnazione di Fátimih 7, che era ai loro occhi il simbolo più nobile della castità.

« Con calma, in silenzio e con grandissima dignità, Táhirih si fece avanti e, andando verso Quddús, si sedette alla sua destra. La sua imperturbata serenità contrastava nettamente con le espressioni sgomente di coloro che guardavano il suo viso. Paura, rabbia, smarrimento li sconvolgevano fino in fondo all’anima. Quell’improvvisa apparizione sembrava averli storditi. ‘Abdu’l-Kháliq-i-Isfáhání fu così gravemente scosso che si tagliò la gola con le sue stesse mani: coperto di sangue e gridando per l’agitazione, fuggì davanti a Táhirih. Alcuni, seguendo il suo esempio, lasciarono i compagni e abbandonarono la Fede; altri restarono ammutoliti davanti a lei, confusi per lo stupore. Intanto Quddús era rimasto seduto al suo posto, con la spada sguainata in mano; il suo volto tradiva un sentimento di ira indicibile. Pareva che stesse aspettando il momento opportuno per vibrare il colpo fatale a Táhirih.

« Ma il suo atteggiamento minaccioso non riuscì a smuoverla. Il suo volto esprimeva la stessa dignità e la stessa fiducia che aveva mostrato quando era comparsa davanti ai credenti riuniti. Un sentimento di gioia e di trionfo illuminava ora il suo viso. Si alzò e, imperturbata nonostante il tumulto che aveva scatenato nel cuore dei suoi compagni, incominciò a parlare a coloro che erano rimasti. Nonostante non si fosse affatto preparata in precedenza, ella pronunziò con impareggiabile eloquenza e profondo fervore un appello, in un linguaggio molto simile a quello del Corano, concludendo il discorso con questo versetto del Corano: “In verità, tra giardini e fiumi i pii dimoreranno sul seggio della verità, in presenza del potente Re”. E nel pronunziare queste parole, gettò uno sguardo furtivo verso Bahá’u’lláh e Quddús in modo tale che coloro che la stavano guardando non capirono a quale dei due volesse alludere. Subito dopo dichiarò: “Io sono la Parola che il Qá’im deve proferire, la Parola che metterà in fuga i capi e i nobili della terra!” 8.

« Rivolse poi il viso verso Quddús e lo rimproverò di non essere riuscito a fare nel Khurásán ciò che ella riteneva essenziale per il bene della Fede. “Sono libero di seguire i dettami della mia coscienza”, ribatté Quddús. “Non sono soggetto al piacere e al volere dei miei condiscepoli”. Distogliendo lo sguardo da lui, Táhirih invitò i presenti a celebrare degnamente la grande occasione. “Oggi è un giorno di festa e di allegrezza universale”, aggiunse, “il giorno in cui sono state infrante le catene del passato. Coloro che hanno partecipato a questa grande impresa si alzino e si abbraccino” ».

Quel memorabile giorno e i giorni immediatamente successivi videro i cambiamenti più rivoluzionari nella vita e nelle abitudini dei seguaci riuniti del Báb. Le loro pratiche religiose subirono una trasformazione improvvisa e sostanziale. Le preghiere e le cerimonie alle quali quei devoti fedeli erano stati educati furono irrevocabilmente abbandonate. Tuttavia tra coloro che con tanto zelo erano insorti a propugnare queste riforme sorse una grande confusione. Alcuni condannarono questo cambiamento così radicale, dicendo che era l’essenza dell’eresia e si rifiutarono di abrogare quelli che essi consideravano precetti inviolabili dell’Islám. Alcuni considerarono Táhirih il solo giudice in tali questioni e la sola persona qualificata a pretendere obbedienza assoluta dai fedeli. Altri che condannarono il suo comportamento si appoggiarono a Quddús, che reputavano il solo rappresentante del Báb, l’unico che avesse il diritto di pronunciarsi su argomenti così importanti. Altri ancora che riconoscevano l’autorità sia di Táhirih sia di Quddús videro l’intera vicenda come una prova mandata da Dio, destinata a separare il vero dal falso e a distinguere il fedele dall’infedele. Táhirih osò a volte disconoscere l’autorità di Quddús. « Lo considero », si dice che ella abbia dichiarato, « un allievo che il Báb mi ha mandato da ammaestrare e istruire. Non lo considero in nessun’altra luce ». Quddús non mancò da parte sua di accusare Táhirih di essere « autrice di eresia » e stigmatizzò coloro che difendevano le sue opinioni come « vittime dell’errore ». Questo stato di tensione perdurò alcuni giorni, finché non intervenne Bahá’u’lláh, il quale, nella Sua maniera magistrale, li portò a una completa riconciliazione. Egli guarì le ferite che quella vivace controversia aveva prodotto e indirizzò gli sforzi di entrambi verso una strada di servizio costruttivo 9.

L’obiettivo di quella memorabile riunione era stato raggiunto 10. Lo squillo di tromba del nuovo Ordine era stato suonato. Le convenzioni obsolete che avevano incatenato le coscienze furono coraggiosamente sfidate e spazzate via senza timori. La via verso la proclamazione delle leggi e dei precetti destinati a inaugurare la nuova Dispensazione era aperta. Quelli che rimasero dei compagni che si erano riuniti a Badasht decisero di conseguenza di partire per il Mázindarán. Quddús e Táhirih si sedettero nella stessa howdah 11, che Bahá’u’lláh aveva preparato per il loro viaggio. Strada facendo, Táhirih componeva ogni giorno un’ode e poi invitava coloro che l’accompagnavano a cantarla mentre seguivano la sua howdah. Monti e valli riecheggiavano le grida con cui il drappello entusiasta, viaggiando verso il Mázindarán, salutava la fine del vecchio Giorno e la nascita del Nuovo.

Il soggiorno di Bahá’u’lláh a Badasht durò ventidue giorni. Durante il viaggio per il Mázindarán, alcuni seguaci del Báb cercarono di abusare della libertà che il ripudio delle leggi e delle sanzioni di una fede desueta aveva loro conferito. Essi videro nell’azione senza precedenti compiuta da Táhirih, quando s’era tolta il velo, un incitamento a varcare i limiti della moderazione e a soddisfare i propri desideri egoistici. Gli eccessi a cui alcuni si abbandonarono scatenarono l’ira dell’Onnipotente e causarono la loro immediata sconfitta: nel villaggio di Níyálá, essi furono messi dolorosamente alla prova e subirono gravi danni per mano dei loro nemici. Questa sconfitta estinse il male che pochi irresponsabili tra i seguaci della Fede avevano cercato di provocare e mantenne immacolati il suo onore e la sua dignità.

Ho sentito Bahá’u’lláh in persona raccontare quell’episodio: « Eravamo tutti riuniti nel villaggio di Níyálá e stavamo riposando ai piedi di un monte, quando, all’alba, fummo improvvisamente destati dalle pietre che la popolazione dei dintorni ci stava scagliando addosso dalla cima del monte. La violenza del loro attacco indusse i nostri compagni a fuggire terrorizzati e costernati. Vestii Quddús con le mie vesti e lo mandai in un luogo sicuro, dove intendevo raggiungerlo. Ma quando arrivai, egli se n’era andato. Nessuno dei nostri compagni era rimasto a Níyálá tranne Táhirih e un giovanotto di Shíráz, Mirza Abu’lláh. La violenza dell’assalto sferrato contro di noi aveva seminato la desolazione nel nostro campo. Non trovai nessuno a cui affidare in custodia Táhirih, tranne quel giovanotto, che mostrò in quell’occasione un coraggio e una determinazione veramente sorprendenti. Con la spada in pugno, imperterrito davanti al selvaggio assalto degli abitanti del villaggio, che avevano fatto irruzione per depredarci dei nostri averi, egli balzò avanti per fermare la mano degli assalitori. Benché ferito in molte parti del corpo, rischiò la vita per proteggere i nostri beni. Gli ordinai di fermarsi. Quando il tumulto si fu placato, mi avvicinai ad alcuni degli abitanti del villaggio e riuscii a convincerli della crudeltà e dell’infamia del loro comportamento. In seguito riuscii a recuperare una parte dei nostri beni rapinati ».

Bahá’u’lláh proseguì per Núr, accompagnato da Táhirih e dalla sua ancella. Incaricò Shaykh Abú-Turáb di vegliare su di lei, di proteggerla e di condurla in salvo. Nel frattempo i sobillatori si stavano affannando per fomentare l’ira di Muhammad Sháh contro Bahá’u’lláh e, presentando Questi come il primo motore dei tumulti di Sháh-Rúd e del Mázindarán, riuscirono alla fine a indurre il sovrano a farLo arrestare. « Finora », si dice che lo Scià abbia osservato furente, « mi sono rifiutato di prendere in considerazione tutto ciò che dicevano contro di lui. La mia indulgenza è stata dettata dalla riconoscenza verso suo padre per i servigi ch’egli ha reso al paese. Ma questa volta, sono deciso a metterlo a morte ».

Di conseguenza comandò a uno dei suoi ufficiali a Táhirih di dare istruzioni al proprio figlio che abitava nel Mázindarán di arrestare Bahá’u’lláh e di condurLo nella capitale. Il figlio di quest’ufficiale ricevette la comunicazione il giorno prima di un ricevimento che intendeva offrire a Bahá’u’lláh, a cui era devotamente legato. Egli fu molto sconvolto e non rivelò la notizia a nessuno. Ma Bahá’u’lláh si accorse della sua tristezza e lo consigliò di aver fiducia in Dio. Il giorno successivo, mentre il Suo amico L’accompagnava a casa, incontrarono un cavaliere che veniva dalla parte di Tihrán. « Muhammad Sháh è morto! » esclamò l’amico nel dialetto mázindarání, correndo verso di Lui dopo una breve conversazione col messaggero. Trasse fuori l’ordine imperiale e glielo mostrò. Il documento aveva perduto la sua efficacia. Bahá’u’lláh trascorse la notte in compagnia del Suo ospite in un’atmosfera di calma e letizia indisturbate.

Quddús nel frattempo era caduto nelle mani dei suoi oppositori ed era stato confinato a Sárí nella casa di Mirza Muhammad-Taqí, il principale mujtahid della città. Il resto dei suoi compagni, dopo essere stati dispersi a Níyálá, erano andati in direzioni diverse portando ai compagni di fede la notizia degl’importanti avvenimenti di Badasht.

CAPITOLO XVII
LA RECLUSIONE DEL Báb NEL CASTELLO DI CHIHRÍQ

L’INCIDENTE di Níyalá avvenne alla metà del mese di Sha‘bán, nell’anno 1264 A.H. 1 Verso la fine dello stesso mese, il Báb fu condotto a Tabríz, dove subì per mano dei Suoi oppressori una grave e umiliante offesa. Quel deliberato affronto alla Sua dignità quasi coincise con l’attacco che gli abitanti di Níyalá sferrarono contro Bahá’u’lláh e i Suoi compagni. Gli uni furono presi a sassate da gente ignorante e battagliera; l’altro fu frustato da un nemico crudele e sleale.

Racconterò ora i fatti che si conclusero con l’odioso affronto che i persecutori del Báb decisero di infliggerGli. Egli era stato trasferito, secondo gli ordini dati da Hájí Mirza Áqásí, nel castello di Chihríq 2 e affidato alla custodia di Yahyá Khán-i-Kurd, la cui sorella era moglie di Muhammad Sháh, madre del Náyibu’s-Saltanih. Il Gran Visir aveva dato a Yahyá Khán istruzioni rigide ed esplicite, intimandogli di non permettere a nessuno di accedere alla presenza del Prigioniero e ammonendolo in modo particolare di non seguire l’esempio di ‘Alí Khán-i-Máh-Kú’í, che era stato a poco a poco indotto a trascurare gli ordini ricevuti 3.

Nonostante la perentorietà dell’ingiunzione e a dispetto dell’opposizione irriducibile dell’onnipotente Hájí Mirza Áqásí, Yahyá Khán si vide nell’impossibilità di attenersi a queste istruzioni. Anch’egli giunse presto a sentire il fascino del Prigioniero; anch’egli dimenticò, appena venne in contatto con il Suo spirito, il dovere che gli altri si aspettavano osservasse. Sin dall’inizio, l’amore per il Báb penetrò nel suo cuore e conquistò l’intero suo essere. Anche i Curdi che vivevano a Chihríq, il cui fanatismo e il cui odio contro gli Sciiti era superiore all’avversione che gli abitanti di Máh-Kú nutrivano per quel popolo, subirono l’influenza trasformatrice del Báb. Tale era l’amore ch’Egli aveva acceso nel loro cuore che ogni mattina, prima d’incominciare il lavoro quotidiano, si incamminavano verso la Sua prigione e, guardando da lontano il castello che conteneva la Sua amata persona, Ne invocavano il nome e Ne imploravano la benedizione. Si prostravano al suolo e cercavano di corroborarsi l’anima con il ricordo di Lui. Si raccontavano liberamente l’un l’altro le meraviglie della Sua potenza e della Sua gloria e narravano i sogni che testimoniavano la potenza creatrice della Sua influenza. A nessuno Yahyá Khán negò l’accesso al castello 4. Poiché Chihríq non era in grado di accogliere il numero crescente di visitatori che affluivano alle sue porte, fu loro permesso di procurarsi gli alloggi necessari a Iskí-Shahr, la vecchia Chihríq, che si trovava a un’ora di distanza dal castello. Le provviste che servivano per il Báb venivano acquistate nella città vecchia e portate nella Sua prigione.

Un giorno il Báb chiese che Gli comprassero un po’ di miele. SembrandoGli però eccessivo il prezzo al quale era stato acquistato, lo rifiutò, dicendo: « Sarebbe stato indubbiamente possibile comprare miele di qualità migliore a un prezzo inferiore. Io, che sono il vostro esempio, ho fatto il commerciante. Voi dovete seguire il Mio esempio in tutte le vostre transazioni. Non dovete né defraudare il prossimo né permettere che egli defraudi voi. Questo era il metodo del vostro Maestro. Gli uomini più accorti e più abili non riuscirono a imbrogliarLo e, d’altra parte, Egli non volle mai agire senza generosità verso le creature umili e sprovvedute ». Pretese che il servitore che aveva fatto l’acquisto restituisse il miele e Gliene portasse dell’altro di qualità superiore a un prezzo inferiore.

Durante la cattività del Báb nel castello di Chihríq, alcuni fatti allarmanti misero il governo in grande agitazione. Fu presto evidente che alcuni dei più eminenti siyyid, ‘ulamá e funzionari governativi di Khuy avevano abbracciato la Causa del Prigioniero e avevano dato il loro incondizionato e completo appoggio alla Sua Fede. Tra questi vi erano Mirza Muhammad-‘Alí e suo fratello Búyúk-(qá, ambedue siyyid di alti meriti; essi si erano levati con febbrile sollecitudine a proclamare la Fede tra i loro concittadini, a gente di tutti i tipi e di tutte le condizioni. Un continuo fiume di ricercatori e di saldi credenti faceva la spola tra Khuy e Chihríq.

Accadde a quel tempo che un eminente funzionario e letterato di grande talento, Mirza Asadu’lláh, che il Báb in seguito soprannominò Dayyán, le cui veementi accuse contro il Suo messaggio avevano deluso coloro che avevano cercato di convertirlo, ebbe un sogno. Quando si risvegliò, decise di non raccontarlo a nessuno e, fermando la propria scelta su due versetti del Corano, indirizzò al Báb la seguente richiesta: « Ho in mente tre pensieri ben precisi. Ti chiedo di rivelarmene la natura ». Chiese poi a Mirza Muhammad-‘Alí di presentare al Báb questa richiesta scritta. Pochi giorni più tardi, ricevette una risposta scritta di persona dal Báb, in cui Questi esponeva per intero i particolari del sogno e rivelava il testo esatto dei versetti. L’accuratezza della risposta fu causa della sua conversione improvvisa. Benché non fosse abituato a camminare, Mirza Asadu’lláh corse a piedi lungo il sentiero ripido e pietroso che portava da Khuy al castello. I suoi amici cercarono di convincerlo ad andare a Chihríq a cavallo, ma egli respinse la loro offerta. L’incontro con il Báb lo confermò nella sua fede e suscitò l’impetuoso ardore che egli continuò a manifestare fino alla fine dei suoi giorni.

Nello stesso anno il Báb aveva espresso il desiderio che quaranta dei suoi compagni si dedicassero ciascuno alla composizione di un trattato per cercare di dimostrare, con l’aiuto di versetti e tradizioni, la validità della Sua Missione. I Suoi desideri furono subito esauditi e i risultati delle loro fatiche furono debitamente portati in Sua presenza. Il trattato di Asadu’lláh conquistò l’ammirazione incondizionata del Báb e fu quello che Egli apprezzò di più. Gli conferì allora il nome di Dayyán e rivelò in suo onore il Lawh-i-Hurúfát 5 in cui espresse il seguente giudizio: « Se il Punto del Bayán 6 non avesse altra prova con cui dimostrare la Sua verità, questa sarebbe sufficiente che Egli ha rilevato una Tavola come questa, Tavola che nessun sapere umano, per quanto vasto, potrebbe produrre ».

La gente del Bayán travisò completamente lo scopo implicito della Tavola e pensò che essa fosse una pura e semplice esposizione della scienza del Jafr 7. Quando, in seguito, nei primi anni della reclusione di Bahá’u’lláh nella città-prigione di ‘Akká, Janá-i-Muballigh chiese da Shíráz che Egli svelasse i misteri della Tavola, fu rivelata dalla Sua penna una spiegazione sulla quale coloro che fraintesero le parole del Báb farebbero bene a ponderare. Bahá’u’lláh ricavò dalle affermazioni del Báb prove irrefutabili che dimostrano che l’apparizione del Man-Yuzhiruhu’lláh 8 doveva necessariamente aver luogo non meno di diciannove anni dopo la Dichiarazione del Báb. Il mistero del Mustagháth 9 aveva a lungo confuso le menti più indagatrici tra la gente del Bayán e si era rivelato un ostacolo insormontabile al loro riconoscimento del Promesso. Il Báb aveva Egli stesso in quella Tavola svelato il mistero; ma nessuno riuscì a comprendere la spiegazione che aveva dato. Fu lasciato a Bahá’u’lláh il compito di svelarla agli occhi di tutti.

Lo zelo infaticabile di Mirza Asadu’lláh indusse il padre, che era intimo amico di Hájí Mirza Áqásí, a riferire a costui i fatti che avevano condotto alla conversione del figlio e a informarlo della sua negligenza nell’assolvere le mansioni che lo Stato gli aveva affidato. Si soffermò sulla diligenza con cui quell’abile servitore del governo si era levato a servire il nuovo Maestro e sul successo che aveva arriso ai suoi sforzi.

Un ulteriore motivo di apprensione per le autorità governative fu fornito dall’arrivo a Chihríq di un derviscio venuto dall’India, che, appena incontrò il Báb, riconobbe la verità della Sua Missione. Tutti coloro che incontrarono quel derviscio, che il Báb aveva chiamato Qahru’lláh, durante il suo soggiorno a Iskí-Shahr, sentirono il calore del suo entusiasmo e furono profondamente impressionati dalla tenacia della sua convinzione. Un numero crescente di persone s’innamorò del fascino della sua personalità e riconobbe prontamente la forza irresistibile della sua Fede; tale era l’influenza da lui esercitata sui credenti che alcuni tendevano a considerarlo un esponente della Rivelazione Divina, benché egli sconfessasse tali dichiarazioni. Lo sentirono spesso raccontare ciò che segue: « Nei giorni in cui occupavo in India l’alta posizione di Navvab ebbi una visione in cui mi apparve il Báb. Egli mi fissò e conquistò tutto il mio cuore. Mi alzai e avevo preso a seguirLo, quand’Egli mi guardò intensamente e disse: “Spogliati del tuo sfarzoso abbigliamento, parti dalla tua terra natale e vieni subito a piedi a trovarMi nell’Ádhirbáyján. A Chihríq appagherai il desiderio del tuo cuore”. Seguii le Sue istruzioni e ora ho raggiunto la mia meta ».

La notizia della confusione che l’umile derviscio era stato capace di creare a Chihríq tra i capi curdi raggiunge Tabríz e fu quindi comunicata a Tihrán. Appena l’informazione giunse alla capitale, fu dato ordine di trasferire immediatamente il Báb a Tabríz nella speranza di sedare l’eccitazione che la Sua ininterrotta permanenza nella località aveva suscitato. Prima che l’annunzio di questo nuovo ordine pervenisse a Chihríq, il Báb aveva incaricato ‘Azím d’informare Qahru’lláh del Suo desiderio ch’egli ritornasse in India e li consacrasse la propria vita al servizio della Sua Causa. « Solo e a piedi », gli comandò, « deve ritornare là donde è venuto. Con lo stesso ardore e lo stesso distacco con cui è venuto in pellegrinaggio in questo paese, deve ora ritornare nella sua terra natale e lavorare senza posa per promuovere gl’interessi della Causa ». Gli ordinò anche di dare istruzioni a Mirza ‘Abdu’l-Vahháb-i-Turshízí, che viveva a Khuy, di andare subito a Urúmíyyih, dove, disse, l’avrebbe presto raggiunto. In quanto ad ‘Azím, fu invitato a partire per Tabríz per informare Siyyid Ibráhím-i-Khalíl del Suo prossimo arrivo in città. « Digli », aggiunse il Báb, « che tra breve si accenderà a Tabríz il fuoco di Nimrod, ma nonostante l’intensità della fiamma nessun male accadrà ai nostri amici ».

Appena ricevette il messaggio dal suo Maestro, Qahru’lláh si mosse per esaudire i suoi desideri. A chi voleva accompagnarlo, diceva: « Non resisteresti mai alle tribolazioni di questo viaggio. Abbandona il pensiero di venire con me, periresti sicuramente lungo la strada, poiché il B4b mi ha comandato di ritornare da solo nella mia terra natale ». La forza irresistibile della sua risposta fece tacere tutti coloro che lo pregavano di permetter loro di viaggiare con lui. Si rifiutò di accettare sia vesti sia denaro da chiunque: solo, vestito nel modo più umile, col bordone in mano, percorse a piedi tutta la strada fino al suo paese. Nessuno sa cosa gli sia accaduto alla fine.

Tra coloro che seppero del messaggio del Báb a Tabríz, vi fu Muhammad-‘Alíy-i-Zunúzí, soprannominato Anís, che fu preso dal desiderio di andare a Chihríq e di giungere alla Sua presenza. Quelle parole avevano acceso in lui un desiderio irresistibile di sacrificarsi sul Suo sentiero. Siyyid ‘Alíy-i-Zunúzí, suo patrigno, notabile di Tabríz, si oppose strenuamente alla sua partenza dalla città e fu alla fine indotto a confinano in casa e a sorvegliarlo strettamente. Egli languí nel suo confino fino al momento in cui il suo Amato, giunto a Tabríz fu ricondotto nella Sua prigione di Chihríq.

Ho sentito Shaykh Hasan-i-Zunúzí raccontare ciò che segue: « Quasi nello stesso tempo in cui congedò dalla Sua presenza ‘Azím, il Báb mi disse di raccogliere le Tavole disponibili che aveva rivelato durante la Sua reclusione nei castelli di Máh-Kú e di Chihríq, di consegnarle nelle mani di Siyyid Ibráhím-i-Khalíl, che abitava allora a Tabríz e di esortarlo a nasconderle e conservarle con la massima cura.

« Durante la permanenza in quella città, feci spesso visita a Siyyid ‘Alíy-i-Zunúzí, che era mio parente, e lo sentii spesso piangere per la triste sorte di suo figlio. “Pare che sia uscito di senno”, si lamentava con amarezza. “Con il suo comportamento, mi ha gettato nel disonore e nella vergogna. Cerca tu di placare l’agitazione del suo cuore e di convincerlo a celare le sue idee”. Ogni volta che gli feci visita, vidi le lacrime che gli sgorgavano dagli occhi. Dopo che il Báb fu partito da Tabríz, un giorno lo andai a trovare; rimasi sorpreso nel vedere la gioia e l’allegrezza che illuminavano il suo viso. Il suo bel volto era tutto un sorriso, mentre mi si faceva incontro per ricevermi. “Gli occhi del mio Diletto”, mi disse abbracciandomi, “hanno visto questo volto e questi occhi hanno visto il Suo sembiante”. “Permettimi”, aggiunse, “di dirti il segreto della mia felicità. Dopo che il Báb è stato ricondotto a Chihríq, un giorno, mentre languivo confinato nella mia cella, rivolsi il cuore verso di Lui e Lo pregai con queste parole: ‘Tu vedi, o mio Diletto, la mia cattività e la mia impotenza e sai con quanto ardore desidero vedere il Tuo volto. Disperdi, con la luce del Tuo sembiante, l’oscurità che mi opprime il cuore’. Quante lacrime di pena dolorosa versai in quel momento! Ero così sopraffatto dall’emozione che mi sembrò di aver perduto i sensi. All’improvviso sentii la voce del Báb ed, ecco! Egli mi chiamò ordinandomi di alzarmi. Vidi la maestà del Suo sembiante mentre Egli mi compariva davanti. Sorrise guardandomi negli occhi. Corsi verso di Lui e mi gettai ai Suoi piedi. ‘Rallegrati’, disse; ‘si avvicina l’ora in cui, in questa stessa città, sarò appeso davanti agli occhi della moltitudine e cadrò vittima del fuoco del nemico. Sceglierò proprio te per dividere con Me la coppa del martirio. Sii certo che questa promessa che ti faccio sarà mantenuta’ ». Rimasi estasiato dalla bellezza della visione. Quando mi ripresi, mi trovai immerso in un oceano di gioia, una gioia il cui splendore tutti i dolori del mondo mai potranno offuscare. Quella voce continua a risonarmi nelle orecchie. Quella visione mi segue giorno e notte. Il ricordo di quel sorriso indescrivibile ha dissipato la solitudine del mio confino. Sono fermamente convinto che l’ora in cui la promessa sarà mantenuta non può esser molto lontana”. « Lo esortai a essere paziente e a nascondere la sua emozione. Egli mi promise di non divulgare il suo segreto e s’impegnò di avere molta pazienza con Siyyid ‘Alí. Mi affrettai ad assicurare il padre della sua decisione e riuscii a ottenere che fosse liberato dal confino. Il giovane continuò a vivere assieme ai genitori e ai parenti, con assoluta serenità e completa gioia, fino al giorno del suo martirio. Tale era il suo comportamento verso amici e familiari che, il giorno in cui offri la vita per il suo Diletto, tutta la popolazione di Tabríz lo pianse e lo compatì ».

CAPITOLO XVIII
L’INTERROGATORIO DEL Báb A TABRÍZ

IL Báb, in attesa dell’ora dell’afflizione ormai vicina, aveva disperso i Suoi discepoli che si erano riuniti a Chihríq e aspettava con calma e rassegnazione l’ordine che Lo doveva convocare a Tabríz. Coloro alla cui custodia era stato affidato non ritennero saggio attraversare la città di Khuy, che si trovava sulla loro strada verso la capitale dell’Ádhirbáyján. Decisero di andare a Tabríz passando da Urúmíyyih, evitando così le dimostrazioni che l’eccitata popolazione di Khuy avrebbe probabilmente inscenato in segno di protesta contro la tirannia del governo. Quando il Báb arrivò a Urúmíyyih, Malik Qásim Mirza Lo accolse con molte cerimonie e Gli offrì la più cordiale ospitalità. In Sua presenza, il Principe si comportò con straordinaria deferenza e si rifiutò di permettere la minima irriverenza da parte di coloro a cui fu permesso d’incontrarLo.

Un venerdì, mentre il Báb stava andando al bagno pubblico, il Principe, che era curioso di mettere alla prova il coraggio e la forza del suo Ospite, ordinò allo stalliere di offrirGli da cavalcare uno dei suoi cavalli più selvaggi. Timoroso che al Báb potesse succedere qualcosa di male, il servitore Gli si avvicinò di nascosto e cercò d’indurLo a rifiutarSi di montare un cavallo che aveva già disarcionato i cavalieri più coraggiosi ed esperti. « Non temere », fu la Sua risposta. « Fa quello che ti hanno ordinato di fare e affidaCi alla protezione dell’Onnipotente ». Gli abitanti di Urúmíyyih, che erano stati informati dell’intenzione del Principe, avevano riempito la pubblica piazza, desiderosi di vedere cosa sarebbe successo al Báb. Appena Gli fu portato il cavallo, Egli Si avvicinò tranquillamente ad esso, prendendo le briglie che lo stalliere Gli offriva, lo accarezzò con gentilezza e mise il piede nella staffa. Il cavallo rimase fermo e immobile accanto a Lui come se fosse consapevole della forza che lo dominava. La moltitudine che vide questo insolito spettacolo fu meravigliata dal comportamento dell’animale. Alle loro semplici menti questo fatto straordinario apparve poco meno di un miracolo. Essi corsero entusiasti per baciare le staffe del Báb, ma furono fermati dai servitori del Principe, il quale temeva che l’assalto di tante persone potesse nuocerGli. Il Principe accompagnò a piedi l’Ospite fino nelle vicinanze del bagno, ma prima che arrivassero all’ingresso Questi lo invitò a ritornare nella sua residenza. Per tutta la strada, i valletti del Principe si affannarono ad arrestare la gente che, da tutte le parti, si accalcava per riuscire a vedere il Báb. Al Suo arrivo, Egli congedò tutti coloro che L’avevano accompagnato tranne il servitore personale del Principe e Siyyid Hasan, che aspettarono nell’anticamera e L’aiutarono a spogliarSi. Al Suo ritorno dal bagno, montò ancora il medesimo cavallo e fu acclamato dalla medesima moltitudine. Il Principe Gli andò incontro a piedi e Lo scortò fino alla sua residenza.

Appena il Báb usci dal bagno, la gente di Urúmíyyih ci si precipitò dentro per portar via, sino all’ultima goccia, l’acqua che Egli aveva usata per le abluzioni. Quel giorno vi fu grande agitazione. Il Báb, mentre osservava questi segni di entusiasmo sfrenato, Si ricordò della ben nota tradizione, comunemente attribuita all’Imám ‘Alí, il Comandante dei Fedeli, che si riferiva in modo specifico all’Ádhirbáyján. Il lago di Urúmíyyih, afferma quella tradizione nei passi conclusivi, ribollirà, strariperà e inonderà la città. Quando in seguito apprese che la stragrande maggioranza della gente si era levata spontaneamente a proclamare completa lealtà alla Sua Causa, Egli osservò con calma: « Pensano gli uomini che si lascerà loro dire “crediamo”, senza che siano messi alla prova? » 1. Questo commento fu giustificato appieno dall’atteggiamento che quello stesso popolo assunse verso di Lui quando gli giunse la notizia dell’orribile trattamento che Egli aveva subito a Tabríz. Solo un manipolo di coloro che avevano con tanta ostentazione dichiarato d’aver fede in Lui rimase, nell’ora della tribolazione, leale alla Sua Causa. E tra questi il più eminente fu Mullá Imám-Vardí, la tenacia della cui fede nessuno poté superare, tranne Mullá Jalíl-i-Urúmí, nato a Urúmíyyih, una delle Lettere del Vivente. Le avversità servirono solo ad accrescere l’ardore della sua devozione e a rafforzare la sua fiducia nella giustizia della Causa che aveva abbracciato. Egli giunse in seguito in presenza di Bahá’u’lláh, la verità della cui Missione riconobbe prontamente e per il cui progresso si adoperò con la stessa febbrile assiduità con cui aveva compiuto i suoi primi sforzi per la promozione della Causa del Báb. In riconoscimento dei passati servigi, egli e la sua famiglia ebbero l’onore di ricevere numerose Tavole dalla penna di Bahá’u’lláh, nelle quali Egli lodava le sue imprese e invocava la benedizione dell’Onnipotente sui suoi sforzi. Con risoluta determinazione, egli continuò a lavorare per il progresso della Fede fino a più d’ottant’anni, quando si dipartí da questo mondo.

I racconti dei segni e delle meraviglie che gl’innumerevoli ammiratori del Báb avevano visto furono presto trasmessi da bocca a bocca e dettero origine a un’ondata di entusiasmo senza precedenti che dilagò con straordinaria rapidità per tutto il paese, raggiunse Tihrán e stimolò i dignitari ecclesiastici del reame a compiere nuovi sforzi contro di Lui. Essi tremavano davanti al progresso di un Movimento che, se gli avessero lasciato seguire il suo corso, erano certi che avrebbero presto inghiottito le istituzioni da cui dipendeva la loro autorità, anzi la loro stessa esistenza. Vedevano crescere da ogni parte i segni di una fede e di una devozione che essi non erano riusciti a evocare, di una lealtà che colpiva proprio alla base la costruzione che essi avevano eretto con le loro stesse mani, fede e devozione che tutte le risorse di cui disponevano non erano ancora riuscite a indebolire.

Tabríz, in particolare, era in preda all’eccitazione più sfrenata. La notizia del prossimo arrivo del Báb aveva infiammato l’immaginazione dei suoi abitanti e acceso la più feroce animosità nel cuore dei capi ecclesiastici dell’Ádhirbáyján. Solo questi, tra tutta la popolazione di Tabríz, si astennero dal partecipare alle dimostrazioni con cui la popolazione grata salutò il ritorno del Báb nella loro città. Tale fu il fervore dell’entusiasmo popolare suscitato da quella notizia che le autorità decisero di alloggiare il Báb in un luogo fuori dalle porte della città. Soltanto a coloro che Egli desiderava incontrare fu accordato il privilegio di avvicinarsi a Lui. A tutti gli altri fu rigorosamente vietato l’accesso.

La seconda notte dopo il Suo arrivo, il Báb invitò ‘Azím alla Sua presenza e, durante la Sua conversazione con lui, sostenne con vigore la Sua asserzione di non essere altri che il promesso Qá’im. Ma lo trovò riluttante ad accettare senza riserve questa affermazione. Comprendendo la sua intima agitazione, disse: « Domani, in presenza del Valí-‘Ahd 2 e in mezzo agli ‘ulamá e ai notabili della città riuniti, proclamerò la Mia Missione. Chi si sentirà incline a chiederMi altre prove oltre i versetti che ho rivelato, chieda al Qá’im soddisfazione per le proprie vane fantasie ».

Ho sentito ‘Azím attestare quanto segue: « Quella notte ero in uno stato di grande turbamento. Rimasi sveglio e agitato fino al levar del sole. Ma appena ebbi recitato la preghiera mattutina, sentii che un grande cambiamento era avvenuto dentro di me. Pareva che fosse stata disserrata e lasciata aperta davanti al mio viso una nuova porta. Presto si fece strada in me la convinzione che, se ero leale verso la mia fede in Muhammad, l’Apostolo di Dio, dovevo necessariamente accettare senza riserve anche le affermazioni fatte dal Báb e dovevo sottomettermi senza timore o esitazione a ciò che Egli avesse deciso di decretare. Questa conclusione alleviò l’agitazione del mio cuore. Corsi dal Báb e Gli chiesi perdono. “È una prova ulteriore della grandezza di questa Causa”, Egli osservò, “che anche ‘Azím 3 si sia sentito così travagliato e scosso dalla sua forza e dall’immensità delle sue affermazioni”. “Sii certo”, aggiunse, “la grazia dell’Onnipotente ti permetterà di fortificare i deboli di cuore e di rendere fermo il passo di chi vacilla. Così grande sarà la tua Fede che se il nemico mutilasse e facesse a pezzi il tuo corpo, nella speranza di diminuire di uno jota l’ardore del tuo amore, non riuscirebbe a raggiungere il suo intento. Senza dubbio, nei giorni a venire, incontrerai a faccia a faccia Colui che è il Signore di tutti i mondi e sarai partecipe della gioia della Sua presenza”. Queste parole dissiparono le tenebre delle mie apprensioni. Da quel giorno in poi, nessuna traccia di timore o agitazione gettò mai più ombra su di me ».

Nonostante il Báb fosse trattenuto fuori dalle porte di Tabríz, non si riuscí ad allentare la tensione che regnava nella città. Tutte le misure precauzionali, tutte le restrizioni, che le autorità avevano imposto, servirono solo ad aggravare una situazione che era ormai divenuta sinistra e minacciosa. Hájí Mirza Áqásí dette ordine di convocare immediatamente i dignitari ecclesiastici di Tabríz nella residenza ufficiale del governatore dell’Ádhirbáyján con lo scopo specifico di chiamare in giudizio il Báb e di cercare i mezzi più efficaci per distruggere la Sua influenza. Tra coloro che si erano riuniti allo scopo, c’erano Hájí Mullá Mahmúd, chiamato il Nizámu’l-‘Ulamá’ che era il tutore di Násiri’d-Dín Mirza il Valí-‘Ahd 4, Mullá Muhammad-i-Mámáqání, Mirza ‘Alí-Asghar lo Shaykhu’l-Islám, e altri tra i più illustri shaykhí e dottori in teologia 5. Anche Násiri’d-Dín Mirza partecipò alla riunione. La presidenza spettava al Nizámu’l-‘Ulamá’, il quale, appena la riunione ebbe inizio, in nome dell’assemblea incaricò un ufficiale dell’esercito d’introdurre il Báb in loro presenza. Una moltitudine di gente aveva nel frattempo assediato l’ingresso della sala e stava aspettando con impazienza il momento in cui avrebbe potuto dare un rapido sguardo al Suo volto. Si accalcarono in così gran numero, che dovettero aprirGli con la forza un passaggio tra la folla che si era raccolta davanti al cancello.

Al Suo arrivo, il Báb vide che tutti i seggi della sala erano stati occupati tranne quello riservato al Valí-‘Ahd. Salutò l’assemblea e, senza la minima esitazione, andò a occupare il seggio vuoto. La maestà del Suo portamento, l’espressione d’irresistibile fiducia che era sul Suo volto soprattutto lo spirito di forza che emanava da tutto il Suo essere — sembrarono avere per un momento scacciato l’anima dal corpo di coloro ch’Egli aveva salutato. Un profondo e misterioso silenzio cadde d’un tratto in mezzo a loro. Nessuno nell’illustre assemblea osò sussurrare una sola parola. Alla fine il silenzio che regnava tra loro fu rotto dal Nizámu’l-‘Ulamá’. « Chi sostieni di essere », chiese al Báb, « e qual è il messaggio che hai portato? » « Io sono », esclamò tre volte il Báb, « Io sono, Io sono il Promesso! Io sono Colui il cui nome avete invocato per mille anni, alla cui menzione vi siete alzati, il cui avvento avete desiderato di vedere e l’ora della cui Rivelazione avete pregato Iddio di affrettare. In verità vi dico, i popoli d’oriente e d’occidente devono obbedire alla Mia parola e promettere fedeltà alla Mia persona ». Nessuno osò rispondere tranne Mullá Muhammad-i-Mámáqání, capo della comunità shaykhí, che era stato discepolo di Siyyid Kázim. Il siyyid aveva commentato piangendo la sua infedeltà e insincerità e aveva deplorato la perversità della sua natura. Shaykh Hasan-i-Zunúzí che aveva sentito Shaykh Kázim muovere queste critiche, mi raccontò quanto segue: « Fui molto sorpreso dal tono con cui egli faceva menzione di Mullá Muhammad ed ero curioso di sapere quale sarebbe stato il suo futuro comportamento per meritarsi tali espressioni di compassione e di condanna dal suo maestro. Finché non scoprii il suo atteggiamento verso il Báb quel giorno, non compresi la misura della sua arroganza e cecità. Ero insieme con altre persone fuori dalla sala e potei seguire la conversazione di coloro che erano dentro. Mullá Muhammad era seduto alla sinistra del Valí-‘Ahd. Il Báb occupava un seggio in mezzo a loro. Immediatamente dopo che Egli ebbe dichiarato di essere il Promesso, un senso di reverente timore colse i presenti. Essi avevano chinato la testa silenziosi e confusi. Il pallore del loro volto tradiva l’agitazione del loro cuore. Mullá Muhammad, quell’orbo rinnegato dalla barba bianca, Lo rimproverò con insolenza, dicendo: “Disgraziato e immaturo ragazzo di Shíráz! Hai già turbato e sovvertito l’‘Iráq; vuoi ora creare la stessa confusione nell’Ádhirbáyján?” “Vostro Onore”, rispose il Báb, “Non sono venuto qui per Mia volontà. Sono stato convocato in questo luogo”. “Sta zitto”, ritorse furiosamente Mullá Muhammad, “perverso e spregevole seguace di Satana!” “Vostro Onore”, rispose ancora il Báb, “mantengo ciò che ho già dichiarato”.

« Il Nizámu’l-‘Ulamá’pensò che fosse meglio mettere in discussione apertamente la Sua Missione. “L’affermazione che tu hai fatto”, disse al Báb, “è enorme; deve essere necessariamente suffragata dalle prove più inconfutabili “. “La prova più possente, la più convincente della verità della Missione del Profeta di Dio”, rispose il Báb, “è, per riconoscimento generale, la Sua Parola. Egli stesso attesta questa verità: ‘O non basta loro dunque che Ti abbiamo rivelato il Libro?’ 6 Iddio Mi ha dato la forza di fornire una simile prova. Dichiaro di essere capace di rivelare nello spazio di due giorni e due notti un numero di versetti tale da eguagliare l’intero Corano”. “Descrivi verbalmente, se dici il vero”, chiese il Nizámu’l-‘Ulamá’, “la procedura di questa riunione con un linguaggio che assomigli alla fraseologia dei versetti del Corano, così che il Valí-‘Ahd e i teologi riuniti possano testimoniare la verità delle tue affermazioni”. Il Báb esaudì prontamente il suo desiderio. Aveva appena detto le parole, “Nel nome di Dio, il Misericordioso, il Compassionevole, sia lode a Lui che ha creato il cielo e la terra”, che Mullá Muhammad-i-Mámáqání Lo interruppe e richiamò la Sua attenzione su un’infrazione delle regole grammaticali. “Questo nostro sedicente Qá’im”, egli gridò con borioso disprezzo, “proprio all’inizio del discorso ha tradito la sua ignoranza delle più elementari regole di grammatica!” “Il Corano stesso”, disse il Báb, “non concorda affatto con le regole e le convenzioni correnti tra gli uomini. La parola di Dio non può mai essere soggetta alle limitazioni delle Sue creature. Al contrario, le regole e i canoni che gli uomini hanno adottato sono stati dedotti dal testo della Parola di Dio e sono basati su di essa. Questi uomini hanno scoperto, proprio nei testi del Libro santo, non meno di duecento esempi di errori di grammatica, come quello che ora tu critichi. In quanto si trattava della parola di Dio, essi non ebbero altra alternativa che rassegnarsi alla Sua volontà” 7.

« Egli ripeté quindi le stesse parole che aveva pronunziato, al che Mullá Muhammad sollevò la medesima obiezione. Subito dopo un’altra persona si avventurò a porre al Báb questa domanda: “A quale tempo appartiene la parola Ishtartanna?” Come risposta, il Báb recitò questo versetto del Corano: “Lungi sia la gloria del tuo Signore, il Signore di ogni grandezza, da ciò che essi Gli attribuiscono, e la pace sia sui Suoi Apostoli! E sia lodato Iddio, il Signore dei mondi”. Subito dopo Si alzò e abbandonò la riunione » 8.

Il Nizámu’l-‘Ulamá’ fu molto contrariato per il modo in cui la riunione era stata condotta. « Com’è vergognosa », lo sentirono esclamare più tardi, « la scortesia del popolo di Tabríz! Quale rapporto poteva esistere tra queste sciocche osservazioni e la considerazione di argomenti così ponderosi, così importanti? » Anche altri furono inclini a denunciare il vergognoso trattamento inflitto al Báb in quell’occasione. Ma Mullá Muhammad-i-Mámáqání persisté nelle sue veementi denuncie. « Vi avverto », protestò a gran voce, « se permettete a questo giovane di continuare indisturbato il corso delle sue attività, verrà il giorno in cui l’intera popolazione di Tabríz si sarà riunita sotto la sua bandiera. Se egli, quando arriverà quel giorno, esprimerà il desiderio che tutti gli ‘ulamá’ di Tabríz, che il Valí-‘Ahd stesso siano espulsi dalla città e che lui solo debba assumere le redini dell’autorità civile ed ecclesiastica, nessuno di voi, che ora considerate con indifferenza e apatia la sua causa, sarà capace di resistergli con efficacia. Tutta la città, anzi l’intera provincia dell’Ádhirbáyján, lo appoggerà quel giorno all’unanimità ».

Le insistenti denuncie di quel malvagio intrigante suscitarono le apprensioni delle autorità di Tabríz. Coloro che tenevano in pugno le redini del potere si consultarono sulle misure più efficaci da prendere per opporsi al progresso della Fede. Alcuni raccomandarono che in considerazione della notevole mancanza di rispetto che aveva mostrato verso il Valí-‘Ahd, occupando il suo seggio senza il suo permesso, e perché non aveva chiesto il consenso del presidente della riunione quando Si era alzato per andarSene, il Báb fosse nuovamente invitato a una simile riunione e ricevesse dalle mani dei suoi membri una punizione umiliante. Ma Násiri’d-Dín Mirza si rifiutò di accettare la proposta. Alla fine fu deciso che il Báb fosse condotto nella casa di Mirza ‘Alí-Asghar, che era contemporaneamente Shaykhu’l-Islám di Tabríz e siyyid, e ricevesse per mano del corpo di guardia del governatore il castigo che meritava. Le guardie si rifiutarono di accettare la richiesta, preferendo non interferire in una questione che essi consideravano di pertinenza esclusiva degli ‘ulamá della città. Lo Shaykhu’l-Islám decise di infliggere lui stesso la punizione. Convocò il Báb a casa sua e con le sue stesse mani Gli dette undici colpi di bastone sui piedi 9. Nello stesso anno quell’arrogante tiranno fu colpito da una paralisi e, dopo avere sopportato i dolori più strazianti, fece un’orribile morte. Tutta la gente a Tabríz conosceva il suo carattere sleale, avaro ed egoista. Notoriamente crudele e sordido, era temuto e disprezzato dalla gente che si lamentava sotto il suo giogo e pregava di esserne liberata. Le circostanze miserabili in cui mori ricordarono sia ai suoi amici sia ai suoi oppositori la punizione che attende inevitabilmente coloro che né il timor di Dio né la voce della coscienza trattengono dal comportarsi con tale perfida crudeltà verso il prossimo. Dopo la sua morte la carica di Shaykhu’l-Islám a Tabríz fu abolita. Tale era stata la sua infamia che perfino il nome dell’istituzione a lui associata divenne odioso alla gente.

Eppure il suo comportamento, per quanto abietto e sleale, fu solo un esempio della malvagia condotta che caratterizzò l’atteggiamento verso il Báb dei capi ecclesiastici suoi concittadini. Quanto e quanto dolorosamente si allontanarono dalla via della giustizia e della rettitudine! Con quanto disprezzo respinsero i consigli del Profeta di Dio e gli ammonimenti degli imám della Fede! Essi, infatti, dichiararono esplicitamente: « Se si dovesse palesare un Giovane dei Baní-Háshim 10 invitando la gente a un Libro nuovo e a leggi nuove, tutti devono correre da Lui e abbracciare la Sua Causa ». Benché questi stessi imám abbiano chiaramente affermato che « la maggior parte dei Suoi nemici saranno ‘ulamá a, tuttavia questo popolo cieco e ignobile ha preferito seguire l’esempio dei suoi capi e considerare la loro condotta come la via della rettitudine e della giustizia. Essi seguono le loro orme, obbediscono senza discutere ai loro ordini e li considerano « gente della salvezza a, « eletti di Dio » e « custodi della Sua Verità ».

Da Tabríz il Báb fu ricondotto a Chihríq, dove fu nuovamente affidato alla custodia di Yahyá Khán. ConvocandoLo alla loro presenza, i Suoi persecutori avevano stoltamente immaginato di indurLo, con le minacce e l’intimidazione, ad abbandonare la Sua Missione. Quella riunione permise invece al Báb di esporre con forza, in presenza dei pili illustri dignitari riunitisi nella capitale dell’Ádhirbáyján, i caratteri salienti delle Sue affermazioni e di confutare con parole brevi e convincenti le argomentazioni dei Suoi avversari. La notizia di quell’importante dichiarazione, gravida di conseguenze di così ampia portata, dilagò rapidamente per tutta la Persia ed esaltò ancor più profondamente i sentimenti dei discepoli del Báb. Ne rianimò lo zelo, ne rafforzò la posizione e dette il via a quei tremendi avvenimenti che dovevano presto sconvolgere il paese.

Appena fu tornato a Chihríq, il Báb scrisse con parole coraggiose e commoventi una denuncia del carattere e delle azioni di Hájí Mirza Áqásí. Nel passo iniziale dell’epistola, a cui fu dato il titolo di Khutbiy-i-Qahríyyih 11, l’Autore Si rivolse al Gran Visir di Muhammad Sháh con queste parole: « O tu che non hai creduto in Dio e che hai distolto il viso dai Suoi segni! ». Quella lunga epistola fu inoltrata a Hujjat, il quale, in quei giorni, era confinato a Tihrán. Egli ebbe istruzioni di consegnarla personalmente a Hájí Mirza Áqásí.

Ebbi il privilegio di sentire il seguente racconto dalle labbra di Bahá’u’lláh mentre era nella città-prigione di ‘Akká: « Mullá Muhammad-Alíy-i-Zanjání venne a farMi visita subito dopo aver consegnato la Tavola a Hájí Mirza Áqásí. Quando arrivò, ero in compagnia di Hàjf Hájí Mirza Masíh-i-Núrí e di altri credenti. Mi raccontò i particolari della consegna della Tavola e ne recitò davanti a noi il testo intero, che era lungo circa tre pagine e che egli aveva imparato a memoria ». Il tono delle parole di Bahá’u’lláh su Hujjat indicava quanto Egli apprezzasse la purezza e la nobiltà della sua vita e quanto ammirasse il suo indomito coraggio, la sua inflessibile volontà, il suo distacco dal mondo e la sua costanza incrollabile.

CAPITOLO XIX
I MOTI DEL MÁZINDARÁN

NELLO stesso mese di Sha’bán che aveva visto gli affronti subiti dal Báb a Tabríz e le afflizioni inflitte a Bahá’u’lláh e ai Suoi compagni a Níyalá, Mullá Husayn ritornò dal campo del principe Hamzih Mirza, a Mashhad, luogo dal quale doveva proseguire sette giorni più tardi per Karbilá, con un compagno di sua scelta. Il Principe gli offrì una somma per pagare le spese del viaggio, offerta che egli declinò, restituendo il danaro insieme con un messaggio in cui chiedeva che esso fosse speso per il bene dei poveri e dei bisognosi. Anche ‘Abdu’l-‘Alí Khán si offrì di fornire tutto il necessario per il pellegrinaggio che Mullá Husayn intendeva fare ed espresse anche il desiderio di pagare le spese per il compagno che avrebbe scelto. Ma egli accettò da lui solo una spada e un cavallo, che avrebbe poi utilizzato con consumato valore e destrezza per respingere gli assalti di uno sleale nemico.

La mia penna non potrà mai descrivere in modo adeguato la devozione che Mullá Husayn aveva acceso nel cuore della gente di Mashhad, né può tentare di misurare la profondità della sua influenza. La sua casa in quei giorni era continuamente assediata da turbe di gente ansiosa che implorava di poterlo accompagnare. Madri portavano i figli, sorelle i fratelli e piangendo lo supplicavano di accettarli come la loro più preziosa offerta sull’Altare del Sacrificio.

Mullá Husayn era ancora a Mashhad, quando giunse un messaggero a portargli il turbante del Báb e la notizia che gli era stato conferito dal Maestro un nuovo nome, Siyyid ‘Alí. « Adornati il capo », diceva il messaggio, « con il Mio turbante verde, l’emblema del Mio lignaggio e, con lo Stendardo Nero 1 spiegato davanti a te, va subito nella Jazíriy-i-Khadrá’ 2 e offri il tuo aiuto al Mio diletto Quddús ».

Appena gli giunse il messaggio, Mullá Husayn si accinse ad eseguire i desideri del suo Maestro. Partí da Mashhad e si fermò in un luogo sito a un farsang 3 di distanza dalla città; qui issò lo Stendardo Nero, si avvolse al capo il turbante del Báb, riunì i compagni, montò a cavallo e dette il segnale della marcia verso la Jazíriy-i-Khadrá’. I suoi compagni, che erano duecento e due, lo seguirono con entusiasmo. Quel memorabile giorno era il diciannove di Sha’bán, dell’anno 1264 A.H. 4 Dovunque si fermarono, in ogni villaggio e borgata che attraversarono, Mullá Husayn e i suoi condiscepoli proclamarono intrepidamente il messaggio dei Nuovo Giorno, invitarono la gente ad abbracciarne la verità e tra coloro che risposero all’appello scelsero alcuni ai quali chiesero di unirsi a loro nel viaggio.

Nella città di Níshápúr si arruolò sotto le insegne di Mullá Husayn Hájí ‘Abdu’l-Majíd, il padre di Badí‘ 5, che era un influente mercante. Benché suo padre godesse di una posizione privilegiata, in quanto proprietario della più nota miniera di turchesi di Níshápúr, egli, abbandonando tutti gli onori e i benefici materiali che la sua città natale gli aveva elargito, promise assoluta lealtà a Mullá Husayn. Nel villaggio di Míyámay, trenta borghigiani dichiararono la propria fede e si unirono alla compagnia. Ad eccezione di Mullá ‘Ísá, essi caddero tutti martiri nel forte di Shaykh Tabarsí 6.

Arrivato a Chashmih-‘Alí, luogo situato vicino alla città di Dámghán sulla strada maestra per il Mázindarán, Mullá Husayn decise d’interrompere il viaggio e di fermarsi alcuni giorni. Si accampò all’ombra di un grande albero, sulla riva di un fiumiciattolo. « Siamo a un bivio », disse ai compagni. « Aspetteremo il Suo decreto per sapere quale direzione dobbiamo prendere ». Verso la fine del mese di Shavvál 7, ci fu una furiosa tempesta che abbatté un grosso ramo dell’albero, per cui Mullá Husayn osservò: « L’albero della sovranità di Muhammad Sháh è stato, per volontà di Dio, sradicato e gettato al suolo ». Tre giorni dopo che egli ebbe fatto questa profezia, arrivò da Tihrán un messaggero, che era in cammino per Mashhad, annunziando la morte del sovrano 8. Il giorno successivo, la compagnia decise di mettersi in viaggio per il Mázindarán. Il loro capo, mentre si accingeva a partire, indicò in direzione del Mázindarán e disse: « Questa è la strada che porta alla nostra Karbilá. Chi non è preparato alle grandi tribolazioni che ci attendono, ritorni a casa ora e rinunci al viaggio ». Ripeté l’avvertimento molte volte e, quando fu vicino a Savád-Kúh, dichiarò esplicitamente: « Io morirò, insieme a settantadue dei miei compagni, per amore del mio Diletto. Chi non sa rinunziare al mondo, parta in questo stesso istante, perché in seguito non potrà più fuggire ». Venti compagni decisero di tornare indietro, non sentendosi capaci di sopportare le tribolazioni a cui il loro capo continuamente alludeva.

La notizia che essi si stavano avvicinando alla città di Bárfurúsh allarmò il Sa‘ídu’l-‘Ulamá’. La grande e crescente popolarità di Mullá Husayn, i particolari della sua partenza da Mashhad, lo Stendardo Nero spiegato davanti a lui e soprattutto il numero, la disciplina e l’entusiasmo dei suoi compagni contribuirono a suscitare l’odio implacabile di quel crudele e arrogante mujtahid. Egli ordinò al banditore d’invitare la gente di Bárfurúsh ad andare nel masjid e di annunziare che egli avrebbe pronunciato un sermone così grande e importante che nessun leale seguace dell’Islám della zona avrebbe potuto permettersi d’ignorarlo. L’immensa moltitudine di uomini e di donne che affollava il masjid lo vide salire sul pulpito, gettare il turbante al suolo, strapparsi il collo della camicia e piangere sullo stato pietoso in cui la Fede era caduta. « Risvegliatevi », tuonò dal pulpito, « poiché i nemici sono alle porte, pronti a distruggere ogni cosa pura e santa che amiamo nell’Islám! Se non ci opporremo, nessuno sopravviverà al loro assalto. Un giorno colui che è il capo di quella banda venne da solo e partecipò alle mie lezioni. Mi ignorò completamente e mi trattò con grande disprezzo in presenza dei miei discepoli riuniti. Poiché mi rifiutai di accordargli gli onori che si aspettava, si alzò rabbiosamente e mi lanciò la sua sfida. Quest’uomo ebbe la temerarietà, al tempo in cui Muhammad Sháh sedeva sul trono ed era all’apice della sua potenza, di aggredirmi con grande animosità. Quali eccessi perpetrerà questo sobillatore, che sta avanzando alla testa della sua banda di selvaggi, ora che la mano protettrice di Muhammad Sháh ci è stata improvvisamente tolta! Tutti gli abitanti di Bárfurúsh, giovani e vecchi, uomini e donne, hanno il dovere di armarsi contro questi spregevoli distruttori dell’Islám e di resistere alloro assalto con ogni mezzo di cui dispongono. Domani all’alba alzatevi e mettetevi in marcia per sterminare le loro forze ».

L’intera congregazione rispose al suo appello. La sua appassionata eloquenza, l’autorità indiscussa che esercitava su di loro e il timore di perdere la vita e i beni contribuirono a indurre gli abitanti della città a fare ogni possibile preparativo per l’imminente scontro. Si munirono con ogni arma che riuscirono a trovare o a mettere insieme e partirono sul far del giorno dalla città di Bárfurúsh, ben decisi ad affrontare e uccidere i nemici della loro Fede e a depredarne i beni 9.

Appena ebbe deciso di seguire la strada che conduceva nel Mázindarán, Mullá Husayn, subito dopo aver recitato la preghiera mattutina, invitò i compagni a gettar via tutto ciò che possedevano. « Lasciate tutte le vostre cose », li esortò, « e accontentatevi dei cavalli e delle spade, s che tutti vedano la vostra rinunzia alle cose terrene e capiscano che questa piccola banda di eletti compagni di Dio non ha alcun desiderio di difendere i propri beni e tanto meno di appetire quelli altrui ». Tutti obbedirono all’istante e, scaricati i cavalli, si mossero e lo seguirono con gioia. Il padre di Badí‘ fu il primo a gettar via la sua bisaccia, contenente un gran numero di turchesi che aveva portato con sé dalla miniera del padre. Una sola parola di Mullá Husayn bastò a indurlo a gettare per la strada quello che era indubbiamente il suo possedimento più prezioso, in ossequio al desiderio del suo capo.

A un farsang 10 di distanza da Bárfurúsh, Mullá Husayn e i suoi compagni incontrarono i nemici. Si era radunata una moltitudine di gente, ben equipaggiata di armi e munizioni che bloccò la loro strada. Una selvaggia espressione di ferocia era dipinta sul loro volto e dalle loro labbra uscivano ininterrottamente le più turpi imprecazioni. I compagni, davanti al frastuono della popolazione infuriata, fecero l’atto di sguainare le spade. « Non ancora », ordinò il loro capo, « finché l’aggressore non ci avrà costretti a proteggerci, le nostre spade non dovranno uscire dal loro fodero ». Non aveva ancora finito di dire queste parole, che i nemici aprirono il fuoco contro di loro. Sei compagni furono subito stesi al suolo. « Amato capo », esclamò uno dei compagni, « ci siamo mossi e ti abbiamo seguito con il solo desiderio di sacrificarci sul sentiero della Causa che abbiamo abbracciato. Permettici, ti preghiamo, di difenderci e non lasciarci cadere, con tanto disonore, vittime sotto il fuoco del nemico ». « Non è ancora arrivato il momento », rispose Mullá Husayn; « il numero è ancora incompleto ». Subito dopo un proiettile trapassò il petto di un altro compagno, un siyyid di Yazd 11 che aveva percorso a piedi tutta la strada da Mashhad fino a quel luogo, e che figurava tra i suoi più coraggiosi sostenitori. Alla vista di quel devoto compagno caduto morto ai suoi piedi, Mullá Husayn levò gli occhi al cielo e pregò: « Guarda, o Dio, mio Dio! la triste sorte dei Tuoi eletti compagni e osserva il benvenuto che questa gente ha dato ai Tuoi amati. Sai che non abbiamo altro desiderio che quello di guidarli alla via della Verità e di conferire loro la conoscenza della Tua Rivelazione. Tu Stesso ci hai comandato di difendere la vita contro gli assalti del nemico. Fedele al Tuo comando, insorgo ora coi miei compagni per resistere all’attacco che essi hanno sferrato contro di noi » 12.

Sguainata la spada e spronato il destriero a gettarsi in mezzo ai nemici, Mullá Husayn inseguì con straordinaria intrepidità l’aggressore del compagno caduto. Il suo avversario, che aveva paura di affrontarlo, si rifugiò dietro un albero e, tenendo in alto il moschetto, cercò di farsi scudo. Mullá Husayn lo riconobbe immediatamente, balzò avanti, e con un solo colpo di spada troncò il fusto dell’albero, le canne del moschetto e il corpo dell’avversario 13. La forza sorprendente del colpo disorientò il nemico e ne paralizzò i tentativi. Tutti fuggirono costernati davanti a una manifestazione così straordinaria di abilità, di forza e di coraggio. Questo gesto, attestante la prodezza e l’eroismo di Mullá Husayn, fu il primo del genere e gli valse la lode del Báb. Anche Quddús espresse la propria ammirazione per il freddo coraggio che Mullá Husayn mostrò in quell’occasione. Si dice che quando gli fu riferita la notizia, egli abbia citato il seguente versetto del Corano: « Così, non tu li hai uccisi, ma Iddio li ha uccisi; e quegli strali erano di Dio, non tuoi! Egli mise alla prova il fedele con una Sua prova benigna; in verità Iddio ascolta e sa. Questo accadde a che Dio potesse anche vanificare l’opera degl’infedeli ».

Mentre ero a Tihrán, nell’anno 1265 A.H. 14, un mese dopo la conclusione della memorabile battaglia di Shaykh Tabarsí, sentii personalmente Mirza Ahmad raccontare i particolari di questo fatto in presenza di alcuni fedeli, tra i quali c’erano Mirza Muhammad-Husayn-i-Hakamíy-i-Kirmání, Hájí Mullá Ismá’íl-i-Faráhání, Mirza Habíbu’lláh-i-Isfáhání e Siyyid Muhammad-i-Isfáhání.

Quando, in seguito, andai nel Khurásán, mentre abitavo nella casa di Mullá Sádiq-i-Khurásání a Mashhad, dove ero stato invitato per insegnare la Causa, chiesi a Mirza Muhammad-i-Furúghí, in presenza di alcuni credenti, tra cui vi erano Nabíl-i-Akbar e il padre di Badí‘, d’illuminarmi su quanto c’era di vero in quel racconto stupefacente. Mirza Muhammad dichiarò con veemenza: « Sono stato testimone io stesso di questo gesto di Mullá Husayn. Se non l’avessi visto coi miei occhi, non l’avrei mai creduto ». A questo proposito lo stesso Mirza Muhammad mi ha raccontato la seguente storia: « Dopo lo scontro di Vás-Kas, quando il principe Mihdí-Qulí Mirza fu completamente sconfitto e fuggi scalzo davanti ai compagni del Báb, l’Amír-Nizám 15 lo rimproverò severamente. “Ti ho affidato”, gli scrisse, “il compito di soggiogare un pugno di giovani e insignificanti studenti. Ho messo a tua disposizione l’esercito dello Scià, eppure hai permesso che esso subisse una disonorevole disfatta. Cosa ti sarebbe successo, mi chiedo, se ti avessi affidato il compito di sconfiggere le forze alleate del governo russo e di quello ottomano?” Il Principe pensò che la miglior cosa da fare fosse quella di affidare a un messaggero i pezzi delle canne del moschetto che era stato tagliato in due dalla spada di Mullá Husayn, dandogli istruzioni di presentarli personalmente all’Amír-Nizám. “Questa è”, diceva nel suo messaggio all’Amír, “la forza insignificante di un avversario che, con un sol colpo di spada, ha spaccato in sei pezzi l’albero, il moschetto e il suo proprietario”.

« Una prova Così convincente della forza del nemico costituì, agli occhi dell’Amír-Nizám, una sfida che nessun uomo della sua posizione e della sua autorità poteva permettersi d’ignorare. Egli decise di imbrigliare la potenza che, con un atto Così audace, aveva cercato di affermare se stessa contro le sue forze. Incapace, nonostante la preponderanza numerica dei suoi uomini, di sconfiggere Mullá Husayn e i suoi compagni con mezzi corretti e onorevoli, ricorse subdolamente all’inganno e alla frode servendosene per raggiungere il suo scopo. Ordinò al Principe di apporre il sigillo sul Corano e di promettere sull’onore dei suoi ufficiali che si sarebbero d’allora in poi astenuti da ogni atto di ostilità verso gli occupanti del forte. Con questi mezzi riuscì a indurli a deporre le armi e a infliggere ai suoi inermi avversari un’ingloriosa e schiacciante sconfitta ».

Una dimostrazione Così notevole di destrezza e di forza non poté mancare di attrarre l’attenzione di un considerevole numero di osservatori la cui mente era rimasta ancora incontaminata dal pregiudizio o dalla malizia. Evocò l’entusiasmo di poeti, i quali, in diverse città della Persia, furono ispirati a celebrare le gesta dell’autore di un’azione Così audace. I loro poemi contribuirono a rendere famoso quell’atto possente e a immortalarne il ricordo. Tra coloro che offrirono un tributo al valore di Mullá Husayn vi fu un certo Ridá-Qulí Khán-i-Lalih-Báshí, che nel Táríkh-i-Násirí tessé gli elogi della forza prodigiosa e dell’abilità ineguagliata che avevano dato lustro a quel colpo.

Mi avventurai a chiedere a Mirza Muhammad-i-Furúghí se sapeva che nel Násikhu’t-Tavárikh si accenna al fatto che Mullá Husayn, in gioventù, era stato istruito nell’arte della scherma e che era divenuto Così abile solo dopo un lungo periodo d’allenamento. « Questa è pura invenzione », affermò Mullá Muhammad. « Lo conoscevo fin dall’infanzia e gli sono stato vicino come compagno di classe e come amico, per un lungo periodo di tempo. Non ho mai saputo che possedesse tanta forza e tanta potenza. Penso perfino d’essere superiore a lui per vigore e resistenza fisica. Gli tremava la mano, quando scriveva, e affermò molte volte di non essere in grado di scrivere così a lungo e così spesso come avrebbe desiderato e questo era per lui un grave svantaggio di cui continuò a subire le conseguenze fino al suo viaggio nel Mázindarán. Ma nel momento in cui sguainò la spada per respingere questo attacco selvaggio, sembrò che una forza misteriosa l’avesse improvvisamente trasformato. In tutti gli scontri successivi fu il primo a balzare avanti e a spronare il destriero nel campo dell’aggressore. Senza aiuto, affrontava e metteva in fuga le forze unite dei suoi avversari e conseguiva lui stesso la vittoria: noi, che lo seguivamo alle spalle, dovevamo accontentarci di coloro che erano già stati mutilati e indeboliti dai colpi ricevuti. Il suo nome bastava da solo a gettare il terrore nel cuore dei suoi oppositori, che fuggivano appena lo sentivano nominare e tremavano al suo avvicinarsi. Perfino i suoi compagni più fedeli rimanevano muti di stupore davanti a lui. Eravamo sbalorditi dalle manifestazioni della sua forza meravigliosa, della sua volontà indomabile e del suo intrepido coraggio, convinti che avesse cessato di essere il Mullá Husayn che avevamo conosciuto e che in lui dimorasse uno spirito che solo Iddio poteva elargire ».

Lo stesso Mirza Muhammad-i-Furúghí mi raccontò quanto segue: « Non appena ebbe vibrato il suo memorabile colpo all’avversario, Mullá Husayn scomparve. Non sapevamo dove fosse andato. Solo il suo servitore, Qambar-‘Alí, riuscì a seguirlo e in seguito ci raccontò che il suo padrone si gettò a capo fitto contro i nemici e riuscì ad abbattere con un sol colpo di spada coloro che osarono assalirlo. Incurante delle pallottole che grandinavano su di lui, si fece strada attraverso i ranghi del nemico si diresse verso Bárfurúsh, e si recò direttamente alla residenza del Sa‘ídu’l-‘Ulamá’. Fece tre volte il giro della casa gridando: “Quello spregevole codardo che ha incitato gli abitanti di questa città a combattere la guerra santa contro di noi e che si è ignominiosamente nascosto dietro le pareti di questa casa, esca dal suo inglorioso nascondiglio. Dimostri con l’esempio la sincerità del suo appello e l’onestà della sua causa. Ha forse dimenticato che chi predica una guerra santa deve marciare lui stesso alla testa dei suoi seguaci e deve accendere la loro devozione e sostenere il loro entusiasmo con le sue proprie azioni?” ».

La voce di Mullá Husayn coprì il clamore della moltitudine. Gli abitanti di Bárfurúsh si arresero invocando subito: « Pace, pace! ». Il grido della resa era appena stato lanciato, quando si senti da ogni parte il clamore dei seguaci di Mullá Husayn che in quel momento stavano galoppando verso Bárfurúsh. L’invocazione « Yá Sáhibu’z-Zamán » 16, che essi gridarono a squarciagola, gettò la costernazione nel cuore di coloro che li sentirono. I compagni, che avevano perso la speranza di trovare Mullá Husayn ancora vivo, furono molto sorpresi quando lo videro diritto in sella al suo cavallo, illeso e imperturbato nonostante la ferocia dell’attacco. Gli si avvicinarono tutti con riverenza e gli baciarono le staffe.

Nel pomeriggio, fu concessa la pace che gli abitanti di Bárfurúsh avevano implorato. Alla folla riunita intorno a lui, Mullá Husayn rivolse queste parole: « O seguaci del Profeta di Dio, e sciiti degl’imám della Sua Fede! Perché siete insorti contro di noi? Perché pensate che versare il nostro sangue sia un atto meritorio agli occhi di Dio? Abbiamo forse ripudiato la verità della vostra Fede? questa l’ospitalità che l’Apostolo di Dio ha ordinato che i Suoi seguaci accordino sia al credente sia al miscredente? Cosa abbiamo fatto per meritare da voi questa condanna? Considerate: da solo, senz’altra arma tranne la mia spada, sono riuscito ad affrontare la pioggia di proiettili che gli abitanti di Bárfurúsh mi hanno scagliato addosso e sono passato illeso attraverso il fuoco con cui m’avete bersagliato da ogni parte. Sia la mia persona sia il mio cavallo sono usciti incolumi dal vostro impetuoso assalto. A parte la lieve scalfittura che ho riportato sul viso, non siete riusciti a ferirmi. Dio mi ha protetto e ha voluto dimostrare ai vostri occhi il potere della Sua Fede ».

Subito dopo, Mullá Husayn andò al caravanserraglio del Sabzih-Maydán. Smontò da cavallo e, stando sulla porta della locanda, attese l’arrivo dei compagni. Appena si furono riuniti e sistemati, mandò a prendere pane e acqua, ma coloro che avevano avuto quell’incarico, ritornarono a mani vuote e lo informarono che non erano riusciti a procurarsi né pane dal fornaio né acqua dalla pubblica piazza. « Ci hai esortati », gli dissero, « ad aver fiducia in Dio e a rassegnarci alla Sua volontà. “Non ci capiterà che quel che Dio ha decretato per noi. È Lui il nostro Signore e Padrone: in Dio dunque confidino i credenti!” » 17.

Mullá Husayn ordinò che le porte del caravanserraglio fossero chiuse. Radunati i compagni, li pregò di rimanere riuniti in sua presenza fino all’ora del tramonto. Quando la sera fu vicina, chiese se tra loro vi fosse qualcuno disposto a salire sul tetto del caravanserraglio per cantare l’adhán, rinunciando alla propria vita per amore della Fede 18. Un giovane rispose gioiosamente. Gli erano appena uscite di bocca le parole iniziali « Alláh-u-Akbar » che una pallottola lo colpì all’improvviso, uccidendolo sul colpo. « Si alzi un altro », Mullá Husayn li esortò, « e, con lo stesso spirito di rinuncia, continui la preghiera che quel giovane non è riuscito a finire ». Un altro giovane si levò in piedi e aveva appena recitato le parole « faccio testimonianza che Muhammad è l’Apostolo di Dio », che anche lui fu abbattuto da una pallottola nemica. Un terzo giovane, seguendo l’invito di Mullá Husayn, tentò di completare la preghiera che i compagni martirizzati erano stati costretti a lasciare interrotta. Ma anche lui subì la stessa sorte. Mentre stava per finire la preghiera, pronunziando le parole « non v’è altro Dio che Dio », cadde morto a sua volta.

La caduta del terzo compagno convinse Mullá Husayn a spalancare il cancello del caravanserraglio e a muoversi, insieme con i suoi amici, per respingere l’inaspettato assalto di quello sleale nemico. Balzato in sella, dette il segnale della carica contro gli assalitori che si erano assembrati davanti ai cancelli e avevano riempito il Sabzih-Maydán. Con la spada in pugno, seguito dai compagni, riuscì a decimare le forze che si erano schierate contro di lui. I pochi che scamparono alle loro spade fuggirono davanti a loro in preda al panico, invocando ancora la pace, implorando ancora misericordia. Al calar della sera, tutta la folla si era dileguata. Il Sabzih-Maydán, che poche ore prima traboccava di uno stuolo di nemici in fermento, era ora deserto. Il clamore della moltitudine si era spento. Cosparsi di cadaveri, il Maydán e i suoi dintorni offrivano uno spettacolo triste e desolante, una scena che era la testimonianza della vittoria di Dio sui Suoi nemici.

Quella vittoria così allarmante 19 indusse alcuni dei nobili e dei capi del popolo a intervenire e a chiedere pietà a Mullá Husayn in nome dei loro concittadini. Costoro andarono da lui a piedi a presentargli la loro petizione. « Dio ci è testimone », si giustificarono, « che non abbiamo altra intenzione tranne quella di portare la pace e la riconciliazione tra noi. Rimani un istante in sella al tuo cavallo, finché non ti avremo esposto le nostre ragioni ». Vedendo l’ardore del loro appello, Mullá Husayn smontò da cavallo e li invitò a seguirlo nel caravanserraglio. « Diversamente dalla gente di questa città, sappiamo come accogliere tra noi gli stranieri », disse invitandoli a sedersi accanto a lui e ordinando che fosse loro servito il tè. « Il Sa‘ídu’l-‘Ulamá’ », risposero, « è l’unico responsabile d’aver acceso il fuoco di tanta discordia. La popolazione di Bárfurúsh non deve essere affatto coinvolta nel crimine ch’egli ha commesso. Dimentichiamo il passato. Proponiamo, nell’interesse di ambo le parti, che tu e i tuoi compagni partiate domani per Ámul. Bárfurúsh è in preda a una profonda agitazione; temiamo che la gente venga ancora istigata ad attaccarvi ». Mullá Husayn, pur accennando all’insincerità di quella gente, accettò la loro proposta; perciò ‘Abbás-Qulí Khán-i-Láríjání 20 e Hájí Mustafá Khán si alzarono insieme e, giurando sul Corano che avevano portato con sé, dichiararono solennemente che per quella notte intendevano considerarli loro ospiti e che il giorno successivo avrebbero dato istruzioni a Khusraw-i-Qádí-Kalá’í 21 e a cento cavalieri di far loro attraversare Shír-Gáh sani e salvi. « La maledizione di Dio e dei Suoi Profeti ricada su di noi, tanto in questo mondo quanto nell’altro », aggiunsero, « se permetteremo che il minimo torto venga arrecato a te e al tuo gruppo ».

Appena ebbero fatto questa dichiarazione, arrivarono i loro amici, che erano andati a procurarsi cibo per i compagni e foraggio per i cavalli. Mullá Husayn invitò i suoi confratelli a rompere il digiuno, dato che nessuno di loro quel giorno, che era venerdì, il dodici del mese di Dhi’l-Qa‘dih 22, aveva mangiato e bevuto fin dall’alba. Così grande era il numero dei notabili e dei loro servitori che si erano affollati nel caravanserraglio quel giorno, che né lui né alcuno dei compagni riuscì a bere il tè offerto ai visitatori.

Quella notte, circa quattro ore dopo il tramonto, Mullá Husayn, insieme con i suoi amici, cenò in compagnia di ‘Abbás-Qulí Khán e Hájí Mustafá Khán. Nel cuore della stessa notte, il Sa‘ídu’l-‘Ulamá’ chiamò Khusraw-i-Qádí-Kalá’í e gli palesò confidenzialmente il desiderio che s’impossessasse di tutto ciò che apparteneva al gruppo affidato alle sue cure e che li mettesse a morte tutti, senza eccezioni, in un momento e in un luogo che era libero di scegliere lui stesso. « Non sono seguaci dell’Islám? » osservò Khusraw. « Non hanno queste stesse persone, come ho già appreso, preferito sacrificare tre dei loro compagni piuttosto che lasciare interrotto l’invito alla preghiera che avevano iniziato? Come potremo essere considerati degni di quel nome noi, che progettiamo tali disegni e perpetriamo tali atti? ». Quello spudorato miscredente insistette perché i suoi ordini fossero fedelmente eseguiti. « Uccidili », disse puntandosi le dita al collo, « e non aver paura. Mi considero io stesso responsabile della tua azione. Il Giorno del Giudizio, risponderò io per te davanti a Dio. Noi, che teniamo lo scettro dell’autorità, siamo sicuramente meglio informati di te e possiamo giudicare quale sia il miglior modo per estirpare quest’eresia ».

Al levar del sole, ‘Abbás-Qulí Khán chiese che Khusraw fosse condotto in sua presenza e gli ordinò di usare la massima considerazione verso Mullá Husayn e i suoi compagni, di fare in modo che attraversassero Shír-Gáh sani e salvi e di rifiutare qualsiasi ricompensa essi potessero desiderare di offrirgli. Khusraw finse di accettare queste istruzioni e lo assicurò che egli e i suoi cavalieri non avrebbero rallentato la vigilanza né sarebbero venuti meno alla devozione verso di loro. « Al ritorno », aggiunse, « ti leggeremo le espressioni scritte della sua soddisfazione per i servigi che gli avremo reso ».

Quando ‘Abbás-Qulí Khán e Hájí Mustafá Khán e altri capi che rappresentavano Bárfurúsh condussero Khusraw in presenza di Mullá Husayn e glielo presentarono, quest’ultimo osservò: « “Se farete del bene, lo farete in favore vostro e se farete del male, lo farete a voi stessi” 23. Se quest’uomo ci tratterà bene, grande sarà la sua ricompensa; se agirà verso di noi con slealtà, grande sarà la sua punizione. A Dio affidiamo la nostra Causa e al Suo volere siamo totalmente rassegnati ».

Pronunziate queste parole, Mullá Husayn dette il segnale della partenza. Ancora una volta si sentì Qambar-‘Alí levare il grido del suo maestro « In sella ai vostri destrieri, o eroi di Dio! », esortazione che egli gridava sempre in tali occasioni. Al suono di quelle parole, i compagni corsero tutti ai cavalli. Un distaccamento dei cavalieri di Khusraw marciava davanti a loro, subito dietro venivano Khusraw e Mullá Husayn che cavalcavano l’uno accanto all’altro nel centro della compagnia. Alla retroguardia seguiva il resto dei compagni e a destra e a sinistra marciava il rimanente dei cento cavalieri che Khusraw aveva armato, strumenti consenzienti per l’attuazione dei suoi piani. Erano d’accordo che il gruppo sarebbe partito da Bárfurúsh al mattino presto e sarebbe arrivato a Shír-Gáh nella stessa giornata a mezzogiorno. Due ore dopo il levar del sole, partirono verso la loro destinazione e Khusraw prese intenzionalmente la via della foresta, strada che egli pensava sarebbe stata più adatta ai suoi scopi.

Appena vi furono penetrati, dette il segnale dell’attacco. I suoi uomini si gettarono selvaggiamente sui compagni, saccheggiarono i loro averi, ne uccisero alcuni, tra cui il fratello di Mullá Sádiq, e catturarono gli altri. Non appena il loro grido di angoscia e di dolore giunse alle sue orecchie, Mullá Husayn si fermò e, scendendo da cavallo, protestò contro lo sleale comportamento di Khusraw. « Mezzogiorno è passato da molto tempo », gli disse, « non siamo ancora arrivati a destinazione. Mi rifiuto di procedere oltre con te; posso fare a meno della tua guida e della compagnia tua e di quella dei tuoi uomini ». Rivolgendosi a Qambar-‘Alí, gli chiese di stendere il tappeto da preghiera, sí che potesse dire le devozioni. Stava facendo le abluzioni, quando Khusraw, che era anche lui sceso da cavallo, chiamò uno dei suoi servitori e gli ordinò d’informare Mullá Husayn che, se voleva giungere a destinazione sano e salvo, doveva consegnargli la spada e il cavallo. Rifiutandosi di dare una risposta, Mullá Husayn si accinse a recitare la preghiera. Poco dopo, Mirza Muhammad-Taqíy-i-Juvayníy-i-Sabzivárí, uomo colto e coraggioso, andò da un servitore che stava preparando il qalyán 24 e gli chiese che gli permettesse di portarlo personalmente a Khusraw; richiesta che fu prontamente accolta. Mirza Muhammad-Taqí si stava chinando per accendere il fuoco del qalyán, quando, afferrato all’improvviso Khusraw per il petto, estrasse il pugnale dalla guaina e glielo conficcò profondamente nel cuore 25.

Mullá Husayn era ancora intento a pregare, quando i suoi compagni nuovamente gridarono « Yá Sáhibu’z-Zamán » 26, poi si gettarono sui loro sleali aggressori e con un solo assalto li abbatterono tutti, tranne il servitore che aveva preparato il qalyán. Spaventato e incapace di difendersi, questi cadde ai piedi di Mullá Husayn e implorò il suo aiuto. Gli fu dato il prezioso qalyán che era appartenuto al suo padrone e gli fu ordinato di tornare a Bárfurúsh e di raccontare ad ‘Abbás-Qulí Khán tutto ciò che aveva visto. « Digli », disse Mullá Husayn, « con quanta fedeltà Khusraw ha svolto la sua missione. Quel falso miscredente ha scioccamente creduto che la mia missione fosse giunta alla fine e che la mia spada e il mio cavallo avessero esaurito il loro compito: ignorava certamente che il loro lavoro è appena incominciato e che né la sua forza né la forza di alcun uomo può strapparmeli, finché non avranno compiuto tutti i servigi che possono rendermi ».

Poiché stava scendendo la notte, la compagnia decise di sostare in quel luogo fino all’alba. Sul far del giorno, dopo aver recitato la preghiera, Mullá Husayn radunò i compagni e disse: « Ci stiamo avvicinando alla nostra Karbilá, la nostra ultima meta ». Immediatamente dopo parti a piedi e i suoi compagni lo seguirono. Accortosi che alcuni cercavano di portare con sé le cose di Khusraw e dei suoi uomini, ordinò che abbandonassero tutto tranne le spade e i cavalli. « È necessario », li esortò, « arrivare in quel sacro luogo in uno stato di assoluto distacco, completamente santificati da tutto ciò che appartiene a questo mondo » 27. Aveva percorso a piedi un maydán 28 quando giunse al santuario di Shaykh Tabarsí 29. Lo Shaykh era stato uno di coloro che tramandano le tradizioni attribuite agl’imám della Fede e la sua tomba era visitata dalla gente dei dintorni. Giungendo in quel luogo, egli recitò il seguente versetto del Corano: « O mio Signore, benedici il mio arrivo in questo luogo, perché Tu solo puoi concedere queste benedizioni ».

La notte precedente alloro arrivo, il custode del santuario sognò che era arrivato a Shaykh Tabarsí il Siyyidu’sh-Shuhadá, l’Imám Husayn, accompagnato da non meno di settantadue guerrieri e da un gran numero di compagni. Egli sognò che essi si erano fermati li, avevano ingaggiato un’eroica battaglia, trionfando in ogni scontro sulle forze del nemico e che una notte era arrivato il Profeta di Dio in Persona e Si era unito a quella benedetta compagnia. Quando, il giorno successivo, giunse Mullá Husayn, il custode riconobbe immediatamente in lui l’eroe che aveva visto nella visione, si gettò ai suoi piedi e li baciò devotamente. Mullá Husayn lo invitò a sederglisi accanto e lo ascoltò mentre raccontava la sua storia. « Tutto ciò che hai visto », egli assicurò il custode del santuario, « avverrà. Quelle scene gloriose si svolgeranno ancora davanti ai tuoi occhi ». Quel servo alla fine divise la sorte degli eroici difensori del forte e cadde martire dentro le sue mura.

Lo stesso giorno in cui arrivò, che era il quattordicesimo giorno di Dhi’l-Qa’dih 30, Mullá Husayn dette a Mirza Muhammad-Báqir, che aveva costruito la Bábíyyih, le istruzioni preliminari per il progetto del forte che dovevano costruire per difendersi. Verso sera i compagni si trovarono improvvisamente circondati da una moltitudine disordinata di cavalieri che, usciti dalla foresta, si stavano accingendo ad aprire il fuoco contro di loro. « Siamo gli abitanti di Qádí-Kalá », gridarono. « Veniamo a vendicare il sangue di Khusraw. Non saremo soddisfatti finché non vi avremo passati tutti per la spada ». Assediati da un’orda selvaggia pronta a scagliarsi su di loro, i compagni dovettero sguainare ancora le spade per difendersi. Gridando « Yá Sáhibu’z-Zamán », balzarono avanti, respinsero gli assalitori e li volsero in fuga. Così terribile fu il fragore, che i cavalieri scomparvero improvvisamente com’erano apparsi. Mirza Muhammad-Taqíy-i-Juvayníy, aveva chiesto e ottenuto il comando della battaglia.

Temendo che gli aggressori potessero ancora assalirli e massacrarli, li inseguirono finché giunsero a un villaggio che pensarono fosse il villaggio di Qádí-Kalá. Vedendoli, tutti gli uomini fuggirono stravolti dal terrore. Si scatenò un gran trambusto e nell’oscurità della notte la madre di Nazar Khán, il proprietario del villaggio, fu inavvertitamente uccisa. Le grida delle donne che protestavano energicamente dicendo di non aver alcun legame con la gente di Qádí-Kalá, giunsero presto alle orecchie di Mirza Muhammad-Taqí, il quale ordinò subito ai compagni di fermarsi e di accertarsi del nome e del carattere del luogo. Scoprirono rapidamente che il villaggio apparteneva a Nazar Khán e che la donna che aveva perso la vita era sua madre. Sconvolto dalla scoperta d’un errore Così doloroso da parte dei compagni, Mirza Muhammad-Taqí esclamò desolato: « Non avevamo intenzione di molestare né gli uomini né le donne di questo villaggio. Intendevamo solo frenare la violenza della gente di Qádí-Kalá, che era sul punto di metterci tutti a morte ». Si scusò umilmente per la penosa tragedia che i suoi compagni avevano involontariamente provocato.

Nazar Khán, che nel frattempo si era nascosto in casa, prestò fede alla sincerità delle scuse di Mirza Muhammad-Taqí. Benché affranto per la dolorosa perdita, volle chiamarlo e invitarlo a casa, chiedendogli di presentano a Mullá Husayn ed esprimendo un vivo desiderio di essere informato sui precetti di quella Causa che accendeva un tale fervore nel petto dei suoi seguaci.

Mirza Muhammad-Taqí, accompagnato da Nazar Khán, arrivò al santuario di Shaykh Tabarsí all’alba e trovò Mullá Husayn che guidava la preghiera collettiva. Il suo volto era così luminoso ed estatico che Nazar Khán sentì un impulso irresistibile di unirsi ai fedeli e di ripetere le stesse preghiere che uscivano dalle loro labbra. Terminata la preghiera, Mullá Husayn, informato della perdita che Nazar Khán aveva subito, espresse con parole molto toccanti la pietà che, assieme a tutta la schiera dei suoi condiscepoli, sentiva verso di lui per il lutto che lo aveva colpito. « Iddio sa », gli assicurò, « che intendevamo solo proteggere le nostre vite e non volevamo turbare la pace del vicinato ». Mullá Husayn continuò poi raccontando i fatti che avevano condotto all’attacco sferrato contro di loro dalla gente di Bárfurúsh e spiegò la condotta sleale di Khusraw. Gli assicurò ancora che la morte di sua madre l’aveva molto addolorato. « Non affliggerti », rispose spontaneamente Nazar Khán. « Se mi fosse dato di avere cento figli, con gioia li metterei tutti ai tuoi piedi e li offrirei in sacrificio al Sáhibu’z-Zamán! ». In quello stesso istante promise perenne lealtà a Mullá Husayn e andò subito nel villaggio per ritornare con le provviste che pensava occorressero alla compagnia.

Mullá Husayn ordinò ai compagni di dare inizio alla costruzione del forte che era stato progettato: a ciascun gruppo assegnò una parte del lavoro e li incoraggiò tutti a finire in fretta. Durante queste operazioni, essi furono continuamente molestati dalla gente dei villaggi vicini, che, istigata incessantemente dal Sa‘ídu’l-‘Ulamá’, avanzava e si gettava su di loro. Ogni attacco del nemico finì nel fallimento e nella vergogna. Imperterriti davanti alla ferocia delle loro ripetute irruzioni, i compagni resistettero con coraggio ai loro assalti, finché non riuscirono a soggiogare temporaneamente le forze che li avevano circondati da ogni parte. Quando il lavoro di costruzione fu terminato, Mullá Husayn dette inizio ai preparativi necessari per l’assedio che il forte era destinato a sostenere e procurò, nonostante gli ostacoli che incontrò, tutto ciò che gli sembrò essenziale per la sicurezza dei suoi occupanti.

Il lavoro era stato appena completato, quando giunse Shaykh Abú-Turáb con la notizia dell’arrivo di Bahá’u’lláh nel villaggio di Nazar Khán. Egli informò Mullá Husayn che Bahá’u’lláh gli aveva raccomandato in modo particolare di avvertirli che quella notte sarebbero stati tutti Suoi ospiti e che li avrebbe raggiunti nel pomeriggio. Ho sentito Mullá Mirza Muhammad-i-Furúghí raccontare ciò che segue: « La notizia portata da Shaykh Abú-Turáb arrecò una gioia inesprimibile al cuore di Mullá Husayn, che andò subito tra i compagni ordinando che si preparassero ad accogliere Bahá’u’lláh. Si mise con loro a spazzare e cospargere d’acqua le vie d’accesso al santuario e provvide personalmente a tutto ciò che era necessario per l’arrivo dell’amato Visitatore. Appena Lo vide avvicinarSi con Nazar Khán, corse fuori, Lo abbracciò teneramente e Lo condusse al posto d’onore che aveva riservato per Lui. Eravamo troppo ciechi in quei giorni per riconoscere la gloria di Colui che il nostro capo aveva condotto in mezzo a noi con tanta riverenza e tanto amore, la nostra ottusa percezione non era in grado di comprendere ciò che Mullá Husayn aveva già intuito. Con quanta sollecitudine Lo prese tra le braccia! Quali sentimenti di estasiata delizia gli riempirono il cuore nel vederLo! Era così perduto nella sua ammirazione che si dimenticò di tutti noi e la sua anima era Così assorta nella contemplazione di quel sembiante che ci tenne a lungo in piedi accanto a sé ad attendere il suo permesso per sederci. Fu Bahá’u’lláh che alla fine ci invitò a sederci e anche se sentimmo, per quanto in modo inadeguato, il fascino del Suo verbo, tuttavia nessuno intuì neppur vagamente l’infinita potenza latente nelle Sue parole.

« Bahá’u’lláh, durante la visita, ispezionò il forte ed espresse la Sua soddisfazione per il lavoro che era stato fatto. Nella Sua conversazione con Mullá Husayn, Egli spiegò dettagliatamente alcuni argomenti vitali per il benessere e la sicurezza dei compagni. “L’unica cosa di cui questo forte e questa compagnia hanno bisogno”, disse, “è la presenza di Quddús. La sua partecipazione renderebbe questa compagnia completa e perfetta”. Dette istruzioni a Mullá Husayn che inviasse a Sárí Mullá Mihdíy-i-Khú’í con sei persone per chiedere a Mirza Muhammad-Taqí di consegnare immediatamente Quddús nelle loro mani. “Il timor di Dio e la paura della Sua punizione”, Egli assicurò a Mullá Husayn, “lo spingeranno a liberare senza esitazioni il suo prigioniero”.

« Prima di partire, Bahá’u’lláh li invitò ad essere pazienti e rassegnati alla volontà dell’Onnipotente. “Se Iddio vorrà”, aggiunse, “verremo ancora a farvi visita in questo luogo e vi daremo il Nostro aiuto. Siete stati scelti da Dio come avanguardie del Suo esercito e fondatori della Sua Fede. Il Suo esercito, in verità, vincerà. Qualsiasi cosa accada, la vittoria è vostra, una vittoria completa e sicura”. Con queste parole, affidò quei valenti compagni alla protezione di Dio e ritornò nel villaggio con Nazar Khán e Shaykh Abú-Turáb. Quindi partì per Tihrán seguendo la strada di Núr ».

Mullá Husayn incominciò subito a eseguire le istruzioni ricevute. Chiamato Mullá Mihdí, gli ordinò di andare a Sárí con sei compagni per chiedere al mujtahid di liberare il suo prigioniero. Appena gli fu comunicato il messaggio, Mirza Muhammad-Taqí accettò la richiesta senza porre condizioni: la potenza conferita a quel messaggio parve averlo completamente disarmato. « L’ho considerato », si affrettò a dire ai messaggeri, « solo un ospite onorato nella mia casa. Sarebbe sconveniente da parte mia pretendere di averlo congedato o liberato. Egli è libero di fare come vuole. Se lo desiderasse, sarei disposto ad accompagnarlo ».

Nel frattempo Mullá Husayn aveva informato i compagni dell’arrivo di Quddús e li aveva invitati ad usare verso di lui la riverenza che si sarebbero sentiti spinti a mostrare verso il Báb Stesso. « In quanto a me », soggiunse « dovete considerarmi il suo umile servitore. Dovete essere verso di lui Così leali, che se vi comandasse di togliermi la vita, gli obbedireste prontamente. Se dubiterete o esiterete, mostrerete di non essere leali verso la vostra Fede. Finché non vi avrà invitati alla sua presenza, non dovrete in alcun modo azzardarvi a incomodarlo. Dovrete dimenticare i vostri desideri e attenervi alla sua volontà e al suo compiacimento; dovrete astenervi dal baciargli le mani o i piedi, perché il suo cuore benedetto non gradisce questi segni di riverente affetto. Tale dovrà essere il vostro comportamento che io possa sentirmi fiero di voi davanti a lui. La gloria e l’autorità che gli sono state conferite devono essere debitamente riconosciute anche dal più insignificante dei compagni. Chi si allontanerà dallo spirito e dalla lettera dei miei ammonimenti si esporrà sicuramente a una dolorosa punizione »

La detenzione di Quddús nella casa di Mirza Muhammad-Taqí, il più eminente mujtahid di cui egli era parente, durò novantacinque giorni. Benché confinato, Quddús fu trattato con grande deferenza e gli fu permesso di ricevere molti dei compagni che erano stati presenti alla riunione di Badasht. Ma a nessuno egli dette il permesso di rimanere a Sárí: con parole pressanti esortò tutti coloro che gli fecero visita ad arruolarsi sotto lo Stendardo Nero issato da Mullá Husayn. Era lo stesso stendardo di cui Muhammad, il Profeta di Dio, aveva così parlato: « Se i vostri occhi vedranno gli Stendardi Neri venire dal Khurásán, accorrete, anche se dovrete trascinarvi sulla neve, in quanto essi proclameranno l’avvento del promesso Mihdí 31, il vicario di Dio ». Quello stendardo fu spiegato per ordine del Báb, in nome di Quddús e per mano di Mullá Husayn e fu tenuto spiegato per tutta la strada dalla città di Mashhad fino al santuario di Shaykh Tabarsí. Per undici mesi, dall’inizio di Sha’bán dell’anno 1264 A.H. 32, alla fine di Jámádíyu’th-Thání dell’anno 1265 A.H. 33, quell’emblema terreno di una sovranità celestiale continuò a sventolare sulle teste di quel valoroso drappello, invitando le moltitudini che lo vedevano a rinunziare al mondo e ad abbracciare la Causa di Dio.

Mentre era a Quddús tentò spesso di convincere Mirza Muhammad-Taqí della verità del Messaggio Divino. Conversò apertamente con lui sugli argomenti più ponderosi e importanti relativi alla Rivelazione del Báb. Le sue osservazioni coraggiose e stimolanti erano concepite in termini Così gentili, persuasivi e cortesi ed espresse con tanta genialità e tale umorismo, che gli ascoltatori non si sentivano affatto offesi. Giunsero perfino a credere che le sue allusioni al Libro sacro fossero osservazioni umoristiche volte a intrattenere gli ascoltatori. Mirza Muhammad-Taqí, nonostante la crudeltà e la cattiveria latenti in lui e che in seguito manifestò perorando lo sterminio di quei difensori del forte di Shaykh Tabarsí che erano sopravvissuti, fu trattenuto da una forza interiore dal mostrare la minima mancanza di rispetto verso Quddús, mentre questi era confinato nella sua casa. Fu persino spinto a impedire che gli abitanti di Stiri offendessero Quddús e lo sentirono spesso rimproverarli per il male che desideravano fargli.

La notizia dell’imminente arrivo di Quddús entusiasmò gli occupanti del forte di Tabarsí Quando fu vicino alla meta, egli mandò avanti un messaggero perché annunziasse il suo arrivo e questa lieta notizia ridette ai compagni coraggio e forza. Trascinato da un empito di entusiasmo che non poté reprimere, Mullá Husayn balzò in piedi e, scortato da circa cento compagni, corse incontro all’atteso visitatore. Pose in mano a ciascuno due candele, le accese egli stesso e li invitò ad andare incontro a Quddús: l’oscurità della notte fu dissipata dal fulgore irradiato da quei cuori gioiosi mentre marciavano incontro alloro amato. Nel cuore della foresta del Mázindarán, i loro occhi riconobbero all’istante il volto che avevano anelato di vedere, si accalcarono ansiosi intorno al suo destriero e con ogni segno di devozione gli offrirono il loro tributo di amore e di eterna lealtà. Tenendo ancora in mano le candele accese, lo seguirono a piedi verso la meta; cavalcando in mezzo a loro, Quddús sembrava la stella del mattino che brilla in mezzo ai suoi satelliti. Mentre la compagnia procedeva lentamente verso il forte, risonò un inno di glorificazione e di lode intonato dalla banda dei suoi entusiasti ammiratori. « Santo, santo il Signore Iddio nostro, il Signore degli angeli e dello spirito! » squillavano le loro voci giubilanti attorno a lui. Mullá Husayn intonava il lieto ritornello e l’intera compagnia gli rispondeva. La foresta del Mázindarán riecheggiava del suono dei loro osanna.

In questo modo giunsero al santuario di Shaykh Tabarsí. Le prime parole che uscirono di bocca a Quddús dopo che fu sceso da cavallo e si fu appoggiato alla tomba furono le seguenti: « Meglio per voi sarà il Baqíyyatu’lláh 34 se siete credenti » 35. Con queste parole si adempì la profezia di Muhammad tramandata nella seguente tradizione: « E quando il Mihdí 36 si manifesterà, appoggerà il dorso alla Ka’bih e rivolgerà ai trecentotredici seguaci raggruppati attorno a lui, queste parole: “Meglio per voi sarà il Baqíyyatu’lláh, se siete credenti” Per « Baqíyyatu’lláh » Quddús non intendeva altri che Bahá’u’lláh. Attestò quest’episodio Mullá Mirza Muhammad-i-Furúghí, il quale mi raccontò ciò che segue: « Ero presente io stesso quando Quddús scese da cavallo. Lo vidi appoggiarsi alla tomba e lo sentii dire quelle parole. Appena le ebbe dette, menzionò Bahá’u’lláh e, rivolgendosi a Mullá Husayn, s’informò di Lui. Gli fu detto che Egli aveva espresso l’intenzione di ritornare prima dell’inizio di Muharram 37, se Dio non avesse decretato altrimenti.

« Poco dopo, Quddús dette a Mullá Husayn un certo numero di omelie che gli chiese di leggere ad alta voce ai compagni riuniti. La prima omelia era interamente dedicata al Báb, la seconda riguardava Bahá’u’lláh e la terza si riferiva a Táhirih. Ci avventurammo a esprimere a Mullá Husayn i nostri dubbi sul fatto che i riferimenti della seconda omelia potessero adattarsi a Bahá’u’lláh, che appariva vestito con gli abiti della nobiltà. Il fatto fu riferito a Quddús, il quale ci assicurò che, Dio volendo, il segreto delle sue parole ci sarebbe stato rivelato a suo tempo. Ignorando completamente, in quei giorni, il ruolo della missione di Bahá’u’lláh, non fummo capaci di comprendere il significato di quelle allusioni e facevamo vane congetture su quale potesse essere il loro probabile significato. Desideroso di comprendere le finezze delle tradizioni concernenti il promesso Qá’im, molte volte mi avvicinai a Quddús e gli chiesi d’illuminarmi sull’argomento. Benché dapprima riluttante, alla fine cedette al mio desiderio; il modo in cui mi rispose, le sue spiegazioni illuminanti e convincenti servirono ad accrescere il senso di soggezione e di venerazione che la sua presenza mi ispirava. Egli dissipò tutti i dubbi che ci si affacciavano alla mente e tali erano i segni della sua perspicacia che finimmo col credere che gli fosse stata conferita la capacità di leggere i nostri più profondi pensieri e di placare i più fieri tumulti del nostro cuore.

« Molte notti vidi Mullá Husayn girare attorno al santuario entro i cui recinti giaceva addormentato Quddús. Quante volte nell’oscurità della notte lo vidi uscire dalla sua camera e in silenzio volgere i passi verso quel luogo e sussurrare il versetto con cui noi tutti avevamo salutato l’arrivo dell’amato visitatore! Quanta emozione sento ancora nel ricordarlo mentre avanzava verso di me, nella tranquillità di quelle ore oscure e solitarie che dedicavo alla meditazione e alla preghiera, e mi sussurrava all’orecchio queste parole: “Bandisci dalla mente, o Mullá Mirza Muhammad, questi ingombranti cavilli e, libero dai loro impedimenti, sorgi e cerca di vuotare la coppa del martirio con me. Quando l’anno ‘80 38 sorgerà sul mondo, allora potrai comprendere il segreto delle cose che ora ti sono nascoste” ».

Quando giunse al santuario di Shaykh Tabarsí, Quddús incaricò Mullá Husayn di controllare il numero dei compagni riuniti. Egli li contò uno per uno e li fece entrare attraverso il cancello del forte: trecentododici in tutto. Stava entrando anche lui nel forte per informare Quddús del risultato, quando si precipitò dentro all’improvviso un giovane, che aveva percorso a piedi tutta la strada fino da Bárfurúsh, il quale, afferrato un lembo della sua veste, lo pregò di arruolarlo tra i compagni e di permettergli di offrire la vita, quando fosse necessario, sul sentiero del Diletto. Il suo desiderio fu prontamente esaudito. Quando Quddús fu informato del numero complessivo dei compagni, osservò: « Tutto ciò che la lingua del Profeta di Dio ha proferito sul Promesso si deve necessariamente adempiere 39, perché cos la Sua testimonianza possa essere completa agli occhi di quei teologi che si considerano i soli interpreti della legge e delle tradizioni dell’Islám. Per mezzo loro la gente riconoscerà la verità e si renderà conto dell’adempimento di queste tradizioni » 40.

Ogni mattina e ogni pomeriggio, in quei giorni, Quddús chiamava Mullá Husayn e i compagni più illustri e chiedeva loro di cantare gli scritti del Báb. Seduto nel Maydán, la piazza scoperta adiacente al forte, circondato dai suoi devoti amici, ascoltava assorto le parole del Maestro e a volte le commentava. Né le minacce del nemico né la violenza dei successivi attacchi riuscirono a indurlo a sminuire il fervore o a interrompere la regolarità delle sue devozioni. Sprezzante dei pericoli e dimentico dei propri bisogni e delle proprie necessità, continuò anche nelle condizioni più penose la sua quotidiana comunione con l’Amato, continuò a scrivere inni di lode in Suo onore e ad incitare i difensori del forte a compiere nuove imprese. Benché esposto ai proiettili che continuavano a piovere incessantemente sui compagni assediati, egli, impavido davanti alla ferocia dell’attacco, proseguiva il suo lavoro con calma imperturbata. « La mia anima è sposata alla Tua menzione! » era solito esclamare. « Il ricordarTi è la dimora e la consolazione della mia vita! Mi glorio perché sono stato il primo a soffrire con ignominia per amor Tuo a Shíráz. Desidero essere il primo a subire sul Tuo cammino una morte degna della Tua Causa ».

A volte chiedeva ai compagni iracheni di cantare vari passi del Corano e li ascoltava con profonda attenzione ed era spesso indotto a spiegarne il significato. Una volta mentre cantavano, s’imbatterono nel seguente versetto: « Con molto timore e fame, e perdita di beni e di vite e di frutti, ti proveremo sicuramente: ma porta buone notizie a chi sarà paziente ». « Queste parole », Quddús osservò, « furono rivelate originariamente a proposito di Giobbe e delle afflizioni che lo colpirono. Ma oggi sono adatte a noi, che siamo destinati a patire le stesse afflizioni. Tale sarà la misura della nostra sventura che nessuno potrà sopravvivere tranne chi è stato dotato di costanza e di pazienza ».

La saggezza e la sagacia di cui Quddús dette prova in quelle occasioni, la fiducia con cui parlava e le risorse e l’iniziativa che mostrava nelle istruzioni che dava ai compagni, rafforzarono la sua autorità e accrebbero il suo prestigio. Essi dapprima supposero che la profonda riverenza che Mullá Husayn mostrava verso di lui fosse più dettata dalle esigenze della situazione che ispirata da uno spontaneo sentimento di devozione alla sua persona, ma i suoi scritti e il suo comportamento generale a poco a poco dissiparono quei dubbi e servirono a rendere ancor più profonda la stima dei compagni. Nei giorni del suo confino nella città di Sárí, Quddús, al quale Mirza Muhammad-Taqí aveva chiesto di scrivere un commento sulla Sura di Ikhlás, più nota come Sura di Qul Huva’llàhu’l-Ahad, compose, solo per interpretare il Sád di Samad, un trattato di volume pari a tre volte il Corano. Quell’esposizione esauriente e magistrale aveva profondamente impressionato Mirza Muhammad-Taqí e fu la causa della straordinaria considerazione che egli mostrò verso Quddús, anche se alla fine si unì al Sa‘ídu’l-‘Ulamá’nel complottare per la morte degli eroici martiri di Shaykh Tabarsí. Durante l’assedio del forte, Quddús continuò a scrivere il suo commento della Sura e nonostante la veemenza dell’attacco nemico, riuscì a scrivere un numero di versetti pari a quelli che aveva scritto in precedenza a Sárí per interpretare quella stessa lettera. La rapidità e la copiosità della sua composizione, i tesori inestimabili rivelati nei suoi scritti colmarono di meraviglia i compagni e giustificarono il suo primato ai loro occhi. Essi lessero avidamente le pagine del commento che Mullá Husayn portava ogni giorno e al quale anche lui rese omaggio.

Il completamento del forte e l’approvvigionamento di tutto ciò che era considerato essenziale per la sua difesa animarono l’entusiasmo dei compagni di Mullá Husayn e suscitarono la curiosità della gente dei dintorni 41. Alcuni per pura curiosità, altri per interessi materiali e altri ancora spinti dalla devozione alla Causa che quell’edificio simboleggiava cercarono di farsi ammettere entro le sue mura e si meravigliarono della rapidità con cui era stato costruito. Appena ebbe controllato il numero degli occupanti, Quddús ordinò di non lasciare più entrare nessun visitatore. I copiosi elogi di coloro che avevano già visitato il forte passarono di bocca in bocca fino a giungere alle orecchie del Sa‘ídu’l-‘Ulamá’e accesero nel suo petto la fiamma di un’implacabile gelosia. Spinto dall’odio verso coloro che avevano promosso la sua costruzione, ordinò che fosse rigorosamente proibito a chiunque di avvicinarsi ai suoi recinti e invitò tutti a boicottare i compagni di Mullá Husayn. Nonostante la perentorietà degli ordini, alcuni furono scoperti mentre, ignorando la sua volontà, davano tutta l’assistenza che potevano a coloro che egli aveva Così immeritatamente perseguitati. Le afflizioni a cui queste vittime vennero sottoposte furono tali che a volte avvertirono un penoso bisogno delle più elementari necessità della vita. Ma nel triste momento dell’avversità, sorse d’improvviso su di loro la luce della liberazione divina aprendo davanti al loro volto la porta di un soccorso inatteso.

Il modo provvidenziale con cui gli occupanti del forte furono liberati dalle difficoltà che gravavano su loro fece avvampare l’ira del caparbio ed imperioso Sa‘ídu’l-‘Ulamá’. Spinto da un odio implacabile egli rivolse un rovente appello a Násiri’d-Dín Sháh, che era salito da poco tempo al trono, parlando a lungo del pericolo da cui la dinastia, anzi la monarchia stessa, era minacciata. « La spregevole setta dei Bábí ha issato lo stendardo della rivolta. Questa maledetta banda d’irresponsabili agitatori ha osato colpire proprio alle fondamenta l’autorità di cui vostra Maestà Imperiale è stata investita. Gli abitanti di alcuni villaggi nelle immediate vicinanze del loro quartier generale sono già affluiti sotto il loro stendardo e hanno giurato fedeltà alla loro causa. Essi si sono costruiti una fortezza e in quella solida roccaforte si sono trincerati, pronti a lanciare una campagna contro di voi. Con ostinazione irremovibile hanno deciso di proclamare la loro sovranità indipendente, sovranità che getterà nella polvere il diadema imperiale dei vostri illustri antenati. Voi siete alle soglie del vostro regno. Quale trionfo potrebbe dare maggior lustro all’inaugurazione del vostro impero dell’estirpazione di quest’abominevole credo che ha osato cospirare contro di voi? Ciò servirà a dare a vostra Maestà la fiducia del popolo, accrescerà il vostro prestigio e coprirà di gloria imperitura la vostra corona. Mi sento in dovere di avvertirvi che se vacillerete nella vostra politica, se mostrerete la minima indulgenza verso di loro, verrà presto il giorno in cui non solo la provincia del Mázindarán ma tutta la Persia, da un capo all’altro, ripudieranno la vostra autorità e si daranno alla loro causa ».

Násiri’d-Dín Sháh, che non aveva ancora esperienza negli affari di stato, deputò la questione agli ufficiali che comandavano l’esercito del Mázindarán e che erano al suo servizio 42, dando loro istruzioni di fare tutti i passi che ritenessero opportuni per distruggere i disturbatori del suo regno. Hájí Mustafá Khán-i-Turkamán Così espose le sue idee al suo sovrano: « Io stesso vengo dal Mázindarán e sono riuscito a valutare le forze a loro disposizione. Quel pugno di studenti inesperti e gracili che ho visto non è assolutamente in grado di resistere alle forze di cui vostra Maestà può disporre. Secondo me l’esercito che avete in animo d’inviare è inutile: per spazzarli via sarà sufficiente un piccolo distaccamento. Essi non sono affatto degni dell’attenzione e della considerazione del mio Sovrano. Se la Maestà vostra vorrà esprimere, in un messaggio imperiale indirizzato a mio fratello ‘Abdu’lláh Khán-i-Turkamán, il suo desiderio che venga a lui conferita l’autorità necessaria per soggiogare questa banda, sono certo che, nello spazio di due giorni, egli domerà la loro rivolta e distruggerà le loro speranze ».

Lo Scià dette il suo consenso e consegnò il farmán 43 allo stesso ‘Abdu’lláh Khán, ordinandogli di reclutare senza indugi, da qualsiasi parte del regno, le forze che gli occorrevano per attuare i suoi piani. Mandò col messaggio un’onorificenza regale, che gli concesse come segno di fiducia nelle sue capacità d’intraprendere quel compito. Quando ricevette il farmán imperiale e il segno dell’onorificenza che il Sovrano gli aveva concesso, egli si sentì incoraggiato a prendere nuove decisioni per compiere degnamente la missione. In breve tempo, aveva già raccolto un esercito di dodicimila uomini, composto in gran parte delle comunità Usanlú, Afghán e Kúdár 44: li equipaggiò di tutte le munizioni necessarie e li appostò nel villaggio di Afrá, che era proprietà di Nazar Khán e che dominava il forte di Tabarsí. Appena si fu accampato su quell’altura, si mise a intercettare il pane che veniva mandato tutti i giorni ai compagni di Mullá Husayn. Agli assediati fu presto negata perfino l’acqua, in quanto non potevano uscire dal forte sotto il fuoco dei nemici.

Ordinò poi all’esercito di alzare alcune barricate davanti al forte e di aprire il fuoco su chiunque uscisse dai suoi cancelli. Quddús proibì ai compagni di andare a prendere l’acqua nei dintorni. « I nemici hanno intercettato il nostro pane », si lamentò Rasúl-i-Bahnimírí. « Cosa ci accadrà se ci dovessero negare l’acqua? ». Quddús, che in quel momento — era il tramonto in compagnia di Mullá Husayn stava osservando dalla terrazza del forte l’esercito nemico, si rivolse a questi e disse: « La scarsità d’acqua ha sconvolto i nostri compagni. Se Dio vorrà, questa notte si abbatterà sui nostri oppositori un acquazzone seguito da un’abbondante nevicata, che ci aiuterà a respingere l’assalto che essi hanno progettato ».

Quella notte, l’esercito di ‘Abdu’lláh Khán fu sorpreso da una pioggia torrenziale che sommerse il reparto vicino al forte. La maggior parte delle munizioni fu irrimediabilmente distrutta. Dentro alle mura del forte si raccolse una quantità d’acqua che bastò per un lungo periodo al consumo degli assediati. Durante la notte successiva, una nevicata, quale la gente dei dintorni non aveva mai visto neppure nel cuore dell’inverno, moltiplicò i disagi che la pioggia aveva creato. La notte seguente, che era la sera precedente il cinque di Muharram, dell’anno 1265 AH. 45, Quddús decise di uscire dal forte. « Sia lodato Iddio », egli disse a Rasúl-i-Bahnimírí camminando con calma e serenità lungo la via d’accesso al cancello, « che ha benignamente risposto alla nostra preghiera e ha fatto piovere e nevicare sui nostri nemici, portando desolazione nel loro campo e ristoro nel nostro forte ».

Quando l’ora dell’attacco a cui l’esercito, nonostante le perdite subite, si stava febbrilmente preparando fu vicina, Quddús decise di fare una sortita e di sgominare le forze nemiche. Due ore dopo il levar del sole, montò a cavallo e, scortato da Mullá Husayn e da altri tre compagni, che cavalcavano tutti al suo fianco, usci dal cancello, seguito dall’intera compagnia che marciava dietro di loro. Appena furono usciti, risuonò il grido: « Yá Sáhibu’z-Zamán! » 46, grido che seminò il terrore nel campo nemico. Il ruggito che questi prodi seguaci del Báb lanciarono in mezzo alla foresta del Mázindarán mise in fuga l’atterrito nemico nascosto in agguato. Il luccichio delle loro armi sguainate li abbagliò e la loro minaccia fu sufficiente a sbigottirli e a sconfiggerli, sí che fuggirono sbandando ignominiosamente davanti al loro assalto e si lasciarono alle spalle tutto quello che avevano. In quarantacinque minuti, fu intonato il peana della vittoria. Quddús e Mullá Husayn erano riusciti a sopraffare i resti dell’esercito sconfitto. ‘Abdu’lláh Khán-i-Turkamán era perito con due dei suoi ufficiali, Hábíbu’lláh Khán-i-Afghán e Núrru’lláh Khán-i-Afghán, assieme a non meno di quattrocentotrenta dei loro uomini.

Quddús ritornò al forte, mentre Mullá Husayn era ancora intento a proseguire l’opera che era stata Così valorosamente compiuta. Ma presto si levò la voce di Siyyid ‘Abdu‘l-‘Azím-i-Khu’í che, in nome di Quddús, lo invitava a ritornare immediatamente nel forte. « Abbiamo respinto gli aggressori », Quddús osservò; « non abbiamo bisogno di persistere nella punizione. Il nostro scopo è di proteggerci, per essere in grado di continuare la nostra opera di rigenerazione degli uomini. Non abbiamo affatto intenzione di causare inutili danni a nessuno. Quello che abbiamo già ottenuto è una prova sufficiente della forza invincibile di Dio. Noi, un manipolo di Suoi seguaci, con l’aiuto della Sua grazia, siamo riusciti a sopraffare l’esercito organizzato e addestrato dei nostri nemici ».

Nonostante fossero riusciti a sconfiggere il nemico, neppure uno dei seguaci del Báb perse la vita durante lo scontro. Nessuno fu gravemente ferito tranne un uomo di nome Qulí, che cavalcava davanti a Quddús. Fu comandato che nessuno toccasse i beni degli avversari, fuorché le spade e i cavalli.

Quando fu chiaro che le forze che erano state comandate da ‘Abdu’lláh Khán si stavano nuovamente raccogliendo, Quddús ordinò ai compagni di scavare attorno al forte un fossato per proteggersi da nuovi attacchi. Trascorsero diciannove giorni durante i quali essi fecero il massimo sforzo per portare a termine il compito che erano stati incaricati di eseguire. Giorno e notte lavorarono con gioia per concludere rapidamente il lavoro che era loro stato affidato.

Appena il lavoro fu terminato, annunziarono che il principe Mihdí-Qulí Mirza 47 stava avanzando verso il forte alla testa d’un esercito numeroso e si era momentaneamente accampato a Shír-Gáh. Pochi giorni dopo, egli aveva trasferito il quartier generale a Vás-Kas. Al suo arrivo, il Principe mandò uno dei suoi uomini a informare Mullá Husayn che lo Scià gli aveva comandato di scoprire lo scopo delle sue attività e di chiedergli di chiarire quale fosse il fine a cui mirava. « Dí al tuo padrone », rispose Mullá Husayn, « che ripudiamo in modo assoluto qualsiasi intenzione tanto di sovvertire le fondamenta della monarchia quanto di usurpare l’autorità di Násiri’d-Dín Sháh. La nostra Causa concerne la rivelazione del promesso Qá’im e riguarda soprattutto gl’interessi dell’ordine ecclesiastico del paese. Possiamo presentare argomenti incontrovertibili e fornire prove infallibili a sostegno della verità del Messaggio che portiamo ». L’appassionata sincerità con cui Mullá Husayn aveva parlato in difesa della sua Causa e i dettagli che aveva citato per dimostrare la validità delle sue affermazioni toccarono il cuore del messaggero e gli fecero venire le lacrime agli occhi. « Cosa dobbiamo fare? » esclamò. « Che il Principe », rispose Mullá Husayn, « ordini agli ‘ulamá’ di Sárí e di Bárfurúsh di venire qui e di chiederci di dimostrare la validità della Rivelazione proclamata dal Báb. Decida il Corano chi di noi dice il vero. Che il Principe in persona giudichi il nostro caso e pronunci il verdetto. Decida lui inoltre come trattarci se non riusciremo a dimostrare, con l’aiuto dei versetti e delle tradizioni, la verità di questa Causa ». Il messaggero affermò di essere completamente soddisfatto della risposta ricevuta e promise che, entro tre giorni, i dignitari ecclesiastici sarebbero stati convocati nel modo da lui suggerito.

La promessa fatta dal messaggero era destinata a rimanere inadempiuta. Tre giorni dopo, il principe Mihdí-Qulí Mirza si preparò a sferrare contro gli occupanti del forte un attacco di proporzioni inaudite. Alla testa di tre reggimenti di fanteria e di molti reggimenti di cavalleria, egli piazzò l’esercito su un’altura che dominava il luogo e dette il segnale di aprire il fuoco contro il forte.

Il giorno non era ancora spuntato quando al segnale « In sella ai vostri destrieri, o eroi di Dio! » Quddús ordinò che venissero ancora spalancati i cancelli del forte. Mullá Husayn e duecentodue compagni corsero ai cavalli e seguirono Quddús che cavalcò verso Vás-Kas. Non li spaventarono le forze preponderanti schierate contro di loro e non li trattennero la neve e il fango che si erano accumulati sulle strade: proseguirono senza fermarsi, immersi nell’oscurità che li circondava, verso la roccaforte che serviva al nemico come base per le sue operazioni.

Il Principe che stava osservando dal suo forte le mosse di Mullá Husayn, lo vide avvicinarsi e ordinò ai suoi uomini di aprire il fuoco contro di lui. I colpi che spararono non riuscirono a fermare la sua avanzata. Egli forzò la porta e irruppe negli appartamenti privati del Principe, il quale, sentendosi all’improvviso in pericolo, si gettò nel fossato da una finestra del retro e fuggì a piedi nudi 48. Il suo esercito, senza capo e preso dal panico, fuggì sbandandosi ignominiosamente davanti a quel manipolo d’uomini, che, nonostante il loro numero preponderante e le risorse messe a disposizione dal tesoro imperiale, essi non riuscirono a sconfiggere 49.

Mentre i vincitori si aprivano la strada attraverso la parte del forte riservata al Principe, altri due principi di sangue reale 50 caddero nel tentativo di abbattere i loro avversari. Quando penetrarono nei suoi appartamenti, i compagni scoprirono, in una delle stanze, alcuni forzieri pieni d’oro e d’argento, che non si degnarono di toccare. Ad eccezione di un recipiente di polvere da sparo e della spada favorita del Principe che portarono a Mullá Husayn come prova del loro trionfo, i compagni ignorarono i costosi arredi che il disperato proprietario aveva abbandonato. Quando portarono la spada a Mullá Husayn, scoprirono che questi aveva scambiato la sua, che una pallottola aveva colpito, con quella di Quddús e con essa era intento a respingere l’aggressore.

Stavano spalancando le porte della prigione che era stata nelle mani del nemico, quando sentirono la voce di Mullá Yúsuf-i-Ardibílí, che era stato catturato mentre tentava di raggiungere il forte e languiva tra i detenuti. Egli intercesse per i suoi compagni di sventura e riuscì a ottenere la loro immediata liberazione.

Il mattino di quel memorabile scontro, Mullá Husayn riunì i compagni attorno a Quddús alla periferia di Vás-Kas, mentr’egli rimase a cavallo in attesa di un nuovo attacco. Stava osservando le mosse del nemico, quando d’un tratto vide un esercito sterminato che gli si stava avventando contro da ambo i lati. Balzarono tutti in piedi e, lanciando ancora il grido « Yá Sáhibu’z-Zamán! », si gettarono avanti per far fronte alla sfida. Mullá Husayn spronò il cavallo in una direzione e Quddús e i suoi compagni in un’altra. Il distaccamento che stava caricando Mullá Husayn d’un tratto cambiò strada e, fuggendo davanti a lui, si uni al resto del nemico e accerchiò Quddús e coloro che erano con lui. A un certo momento furono sparati mille colpi, uno dei quali colpì Quddús alla bocca, facendogli cadere molti denti e ferendolo alla lingua e alla gola. Il gran rumore prodotto da quella raffica di mille colpi, che si poté sentire fino a dieci farsang di distanza 51, riempì di apprensione Mullá Husayn il quale si precipitò a soccorrere gli amici. Appena li raggiunse, balzò da cavallo, affidandolo al suo servitore, Qambar-‘Alí, e corse verso Quddús. La vista del sangue che sgorgava dalla bocca del suo amato capo lo riempì di sgomento e costernazione. Levò le mani al cielo inorridito e stava per colpirsi al capo quando Quddús lo invitò a trattenersi. Obbedendo immediatamente al suo capo, lo pregò di dargli la sua spada con le sue stesse mani e, appena questa gli fu consegnata, la sguainò e se ne servi per sgominare le truppe che si erano ammassate attorno a lui. Seguito da centodieci condiscepoli, affrontò le truppe schieratesigli contro. Tenendo in una mano la spada del suo amato capo e nell’altra quella del suo sventurato avversario, combatté una battaglia disperata contro di loro e, in trenta minuti, durante i quali dette prova di meraviglioso eroismo, riuscì a mettere in fuga l’intero esercito.

L’ignominiosa ritirata dell’esercito del principe Mihdí-Qulí Mirza permise a Mullá Husayn e ai suoi compagni di riparare nel forte. Pieni di dolore e di rammarico, condussero il loro capo ferito nel rifugio della sua roccaforte. Appena arrivato, Quddús rivolse un appello scritto agli amici che piangevano per la sua ferita e con parole di conforto leni la loro pena. « Dobbiamo sottometterci », li esortò, « alla volontà di Dio, qualunque essa sia. Dobbiamo rimanere fermi e saldi nell’ora della tribolazione. La pietra d’un infedele ruppe i denti al Profeta di Dio; i miei sono caduti per una pallottola nemica. Anche se il mio corpo è afflitto, l’anima mia è immersa nella gioia. La mia gratitudine verso Dio non conosce limiti. Se mi amate, fate che questa gioia non venga offuscata dalla vista del vostro rammarico ».

Questa memorabile battaglia avvenne il venticinque di Muharram, 1265 A.H. 52 All’inizio del mese, fedele alla promessa fatta a Mullá Husayn, Bahá’u’lláh, seguito da un gruppo di amici, era partito da Núr alla volta del forte di Tabarsí. Tra coloro che Lo accompagnavano c’erano Hájí Mirza Jáníy-i-Káshání, Mullá Báqir-i-Tabrízí, una delle Lettere del Vivente, e Mirza Yahyá, Suo fratello. Bahá’u’lláh aveva espresso il desiderio di andare direttamente al forte e di non fare soste durante il viaggio. La Sua intenzione era di arrivare di notte perché sin da quando aveva preso il comando ‘Abdu’lláh Khán, erano stati dati ordini perentori di non far pervenire, per nessun motivo, alcun aiuto agli occupanti del forte. Erano state messe sentinelle in diversi luoghi per garantire l’isolamento degli assediati. Ma i Suoi compagni insistettero per interrompere il viaggio e prendersi alcune ore di riposo. Benché sapesse che con questo ritardo avrebbero corso seriamente il rischio di essere sorpresi dal nemico, Egli cedette alla loro pressante richiesta. Si fermarono in una casa solitaria lungo la strada; dopo cena, i Suoi compagni si ritirarono per dormire. Egli solo, nonostante i disagi sopportati, rimase sveglio: sapeva bene a quali pericoli Egli e i Suoi compagni fossero esposti e Si rendeva pienamente conto delle possibilità di successo che l’arrivare presto al forte avrebbe comportato.

Mentre Egli vegliava su di loro, gli emissari segreti del nemico informarono le sentinelle della zona dell’arrivo del gruppo e ordinarono d’impadronirsi immediatamente di tutto ciò che avessero trovato in loro possesso. « Abbiamo avuto ordini perentori », dissero a Bahá’u’lláh nel quale riconobbero subito il capo del gruppo, « di arrestare chiunque ci capitasse d’incontrare nei paraggi e ci è stato comandato di condurre gli arrestati ad Ámul, senza fare alcuna indagine e di consegnarli nelle mani del governatore ». « Avete travisato i fatti », osservò Bahá’u’lláh. « Avete frainteso le nostre intenzioni. Vi consiglio di comportarvi in modo da non dovervene alla fine rammaricare ». Questo ammonimento, pronunziato con calma e dignità, indusse il capo delle guardie a trattare con considerazione e cortesia coloro che aveva arrestato: li invitò a montare a cavallo e ad andare con lui ad Ámul. Mentre si avvicinavano alle rive di un fiume, Bahá’u’lláh fece segno ai Suoi compagni, che cavalcavano a una certa distanza dalle guardie, di gettare in acqua tutti i manoscritti che avevano con sé.

Sul far del mattino, quando furono vicini alla città, mandarono un messaggio al governatore reggente, per informarlo dell’arrivo di un gruppo che era stato catturato mentre era in cammino verso il forte di Tabarsí. Era stato deciso che il governatore, insieme con i membri della sua guardia del corpo, si unisse all’esercito del principe Mihdí-Qulí Mirza, perciò egli aveva incaricato un parente di sostituirlo durante la sua assenza. Appena gli giunse il messaggio, il governatore reggente andò nel masjid di Ámul e invitò gli ‘ulamá’ e i principali siyyid della città a riunirsi per incontrare il gruppo. Appena vide e riconobbe Bahá’u’lláh rimase molto sorpreso, si rammaricò profondamente degli ordini dati e, nella speranza di sedare il tumulto e di placare l’eccitazione di coloro che si erano riuniti nel masjid, finse di rimproverarLo aspramente per l’azione compiuta. « Siamo innocenti », dichiarò Bahá’u’lláh, « della colpa che ci imputate. La nostra irreprensibilità sarà alla fine provata ai vostri occhi. Vi consiglio di comportarvi in modo da non dovervene alla fine rammaricare ». Il governatore reggente chiese agli ‘ulamá’ presenti di fare tutte le domande che volevano. Ai loro quesiti Bahá’u’lláh rispose in modo esplicito e convincente. Mentre Lo interrogavano, scoprirono un manoscritto in possesso di uno dei Suoi compagni; vi riconobbero uno scritto del Báb e lo porsero al capo degli ‘ulamá’ presenti alla riunione. Appena ebbe letto poche righe del manoscritto, questi lo gettò da un lato e, rivolgendosi agli astanti, esclamò: « Questa gente, che fa affermazioni così stravaganti, ha tradito proprio nella frase che ho letto la sua ignoranza delle più elementari regole di ortografia ». « Stimato e dotto teologo », rispose Bahá’u’lláh, « queste parole che critichi non sono parole del Báb. Sono state proferite niente di meno che dall’Imám ‘Alí, il Comandante dei Fedeli, nella sua risposta a Kumayl-ibn-i-Zíyád, che aveva scelto come compagno ».

I particolari che Bahá’u’lláh Si mise a spiegare a proposito della risposta di ‘Ali e il modo in cui Si espresse, convinsero l’arrogante mujtahid della sua stupidità e del suo grossolano errore. Incapace di contraddire un’affermazione Così autorevole, preferì tacere. Un siyyid interloquì con rabbia: « Proprio questa affermazione dimostra in modo conclusivo che il suo autore è un Bábí anche lui e certamente un importante esponente delle dottrine di quella setta ». Raccomandò con parole veementi che i suoi seguaci fossero messi a morte. « Questi oscuri settari sono nemici giurati », gridò, « sia dello Stato sia della Fede dell’Islám! Dobbiamo, ad ogni costo, estirpare quest’eresia ». Fu assecondato nella sua denuncia dagli altri siyyid presenti, i quali imbaldanziti dalle imprecazioni pronunziate nella riunione, chiesero con insistenza che il governatore esaudisse prontamente i loro desideri.

Il governatore reggente fu molto imbarazzato e comprese che qualsiasi segno d’indulgenza da parte sua sarebbe stato carico di gravi conseguenze per la sicurezza della sua posizione. Desideroso di tenere a freno le passioni che erano state accese, ordinò ai servitori di preparare le verghe e d’infliggere subito un’adeguata punizione ai prigionieri. « Poi », aggiunse, « li terremo in prigione in attesa del ritorno del governatore che li manderà a Tihrán dove riceveranno dal sovrano il castigo che meritano ».

Il primo che venne legato per essere fustigato sulla pianta dei piedi fu Mullá Báqir. « Sono solo un servo di Bahá’u’lláh », si raccomandò. « Ero in viaggio per Mashhad, quando d’un tratto mi hanno fermato e condotto qui ». Bahá’u’lláh intervenne e riuscì a indurre i suoi persecutori a liberarlo. Intercesse anche per Hájí Mirza Jání, il quale, disse, era « un semplice negoziante » che Egli considerava Suo « ospite » e per questo Si sentiva « responsabile di ogni imputazione mossa contro di lui ». Mirza Yahyá, che si accinsero a legare, fu anche lui lasciato libero appena Bahá’u’lláh ebbe dichiarato che era un Suo servitore. « Nessuno di questi uomini », Egli disse al governatore reggente, « è colpevole di alcun crimine. Se insistete nel voler infliggere la vostra punizione, Mi offro volontario come Vittima del vostro castigo ». Il governatore reggente fu costretto contro voglia a dare ordini che solo Bahá’u’lláh fosse scelto per subire l’oltraggio che egli aveva concepito originariamente per i Suoi compagni 53.

Bahá’u’lláh subì davanti agli ‘ulamá’ di Ámul riuniti lo stesso trattamento che era stato inflitto al Báb cinque mesi prima a Tabríz. Il primo confino che il Báb subì per mano dei Suoi nemici fu nella casa di ‘Abdu’l-Hamíd Khán, capo della polizia di Shíráz. Il primo confino di Bahá’u’lláh fu nella casa di uno dei kad-khudá di Tihrán. Il secondo imprigionamento del Báb fu nel castello di Máh-Kú; quello di Bahá’u’lláh fu nella residenza privata del governatore di Ámul. Il Báb fu fustigato nel namáz-khánih 54 dello Shaykhu’l-Islám di Tabríz; lo stesso indegno trattamento fu inflitto a Bahá’u’lláh nel namáz-khánih del mujtahid di Ámul. Il terzo confino del Báb fu nel castello di Chihríq; quello di Bahá’u’lláh fu nel Síyáh-Chál 55 di Tihrán. Il Báb, le cui tribolazioni e sofferenze avevano preceduto, quasi in ogni caso, quelle di Bahá’u’lláh, Si era offerto come riscatto per liberare il Suo Amato dai pericoli che costellavano la Sua Vita preziosa; mentre Bahá’u’lláh, da parte Sua, non volendo che Colui che tanto Lo amava dovesse essere il Solo a soffrire, bevve ogni volta dalla coppa che aveva toccato le labbra di Lui. Tale amore nessun occhio ha mai veduto, né cuore mortale ha concepito una tale reciproca devozione. Se i rami di ogni albero fossero tramutati in penne e tutti i mari in inchiostro e la terra e il cielo si srotolassero in una sola pergamena, l’immensità di quell’amore rimarrebbe ancora inesplorata e la profondità di quella devozione insondata.

Bahá’u’lláh e i Suoi compagni rimasero per un certo tempo imprigionati in una delle stanze che facevano parte del masjid. Il governatore reggente che era ancora deciso a proteggere il Prigioniero dall’aggressione dei Suoi nemici, dette in segreto ai servitori l’ordine di aprire, in un’ora tale da non destare sospetti, una breccia in una parete della stanza in cui erano confinati i prigionieri e di trasferire immediatamente il loro Capo a casa sua. Stava conducendo lui stesso Bahá’u’lláh nella sua abitazione, quando comparve un siyyid, il quale, scagliando contro di Lui le ingiurie più feroci, alzò il bastone che aveva in mano per colpirLo. Il governatore reggente s’intromise subito e, rivolgendosi all’aggressore, « lo scongiurò in nome del Profeta di Dio » di fermare la sua mano. « Cosa! » esclamò il siyyid. « Come osi liberare un uomo che è nemico giurato della Fede dei nostri padri? ». Nel frattempo si era raccolto intorno a lui un branco di canaglie, i quali con lazzi e insulti aumentarono il chiasso che il siyyid stava facendo. Nonostante il tumulto crescente, i servitori del governatore reggente riuscirono a condurre Bahá’u’lláh in salvo nell’abitazione del loro padrone e dimostrarono in quella circostanza un coraggio e una presenza di spirito veramente sorprendenti.

Nonostante le proteste della marmaglia, anche gli altri prigionieri furono condotti alla sede del governo e sfuggirono così ai pericoli che li minacciavano. Il governatore reggente chiese mille scuse a Bahá’u’lláh per il trattamento che il popolo di Ámul Gli aveva riservato. « Se non fosse stato per l’intervento della Provvidenza », disse, « nessuna forza avrebbe potuto liberarti dalle grinfie di questa gente maligna. Se non fosse stato per l’efficacia del voto che feci di rischiare la vita per amor tuo, sarei caduto vittima anch’io della loro violenza e sarei stato da loro calpestato ». Si lamentò amaramente della condotta oltraggiosa dei siyyid di Ámul e denunciò la loro meschinità di carattere aggiungendo che era continuamente tormentato anche lui dalle conseguenze dei loro malvagi disegni. Si mise a servire Bahá’u’lláh con devozione e gentilezza e spesso lo sentirono dire, mentre conversava con Lui: « Sono lontano dal considerarti prigioniero nella mia casa, che anzi credo sia stata costruita per il solo scopo di offrirti un rifugio dai complotti dei tuoi nemici ».

Ho sentito Bahá’u’lláh in Persona raccontare ciò che segue: « A nessun prigioniero è stato mai accordato il trattamento che Io ricevetti da parte del governatore reggente di Ámul. Mi trattò con la massima considerazione e stima. Mi ospitò con generosità e fu molto premuroso per tutto ciò che riguardava la Mia sicurezza e il Mio benessere. Tuttavia, non potevo uscire dalla porta di casa. Il Mio ospite temeva che il governatore, il quale era imparentato con ‘Abbás-Qulí Khán-i-Láríjání, potesse tornare dal forte di Tabarsí e farMi del male. Cercai di dissipare le sue apprensioni. “La stessa Onnipotenza”, lo rassicurai, “che ci ha liberati dalle mani dei sobillatori di Ámul e che ha fatto si che tu ci accogliessi in questa casa con tanta ospitalità, può cambiare il cuore del governatore e fare in modo che egli ci tratti con pari considerazione e pari amore”.

« Una notte fummo improvvisamente destati dal clamore di una folla che si era raccolta fuori dalla porta di casa. Qualcuno aprì la porta e annunciò che il governatore era ritornato ad Ámul. I nostri compagni, che si aspettavano un nuovo attacco contro di loro, furono del tutto sorpresi nel sentire la voce del governatore che rimproverava coloro che ci avevano accusati così violentemente il giorno del nostro arrivo. “Per quale ragione”, lo sentimmo recriminare ad alta voce, “queste miserabili canaglie hanno deciso di trattare in modo così irriguardoso un ospite che ha le mani legate e al quale non è stata data la possibilità di difendersi? Qual è la loro giustificazione per aver chiesto che egli fosse subito messo a morte? Quale prova hanno con cui sostenere le loro accuse? Se sono sinceri, quando affermano di essere devotamente attaccati all’Islam e di essere i difensori dei suoi interessi, si rechino al forte di Shaykh Tabarsí e dimostrino lì se sanno difendere la Fede di cui pretendono di essere paladini.” ».

L’eroismo dei difensori del forte che aveva avuto modo di vedere, aveva completamente trasformato la mente e il cuore del governatore di Ámul, che ritornava pieno di ammirazione per una Causa che aveva prima disprezzato e al cui progresso si era strenuamente opposto. Le scene che aveva visto avevano disarmato la sua ira e domato il suo orgoglio. Con umiltà e con rispetto, andò da Bahá’u’lláh e si scusò per l’insolenza degli abitanti della città di cui era stato nominato governatore. Lo servi con estrema devozione, ignorando completamente la propria posizione e il proprio rango. Elogiò con ardore Mullá Husayn e parlò a lungo della sua intraprendenza, intrepidità, acume e nobiltà d’animo e pochi giorni dopo, riuscì a sistemare le cose in modo che Bahá’u’lláh e i Suoi compagni potessero partire sani e salvi per Tihrán.

L’intenzione di Bahá’u’lláh di dividere la sorte dei difensori del forte di Shaykh Tabarsí era destinata a rimanere inadempiuta. Benché Egli desiderasse vivamente porgere agli assediati ogni aiuto in Suo potere, attraverso le vie misteriose della Provvidenza Gli fu risparmiato il tragico destino che avrebbe presto colpito i protagonisti di quella memorabile battaglia. Se fosse riuscito a raggiungere il forte, se Gli fosse stato concesso di unirSi ai membri di quell’eroica schiera, come avrebbe potuto svolgere la Sua parte nel grande dramma che era destinato a sostenere? Come avrebbe potuto completare il lavoro che era stato così gloriosamente concepito e così meravigliosamente inaugurato? Era nel fiore degli anni quando Gli giunse l’appello di Shíráz. A ventisette anni di età, Si levò a consacrare la vita al suo servizio, accettò intrepidamente i suoi insegnamenti e Si distinse per la parte esemplare che svolse nella sua diffusione. Nessuno sforzo era troppo grande per l’energia di cui era dotato, nessun sacrificio troppo doloroso per la devozione che la Sua Fede Gli aveva ispirato. Mise da parte ogni considerazione di fama, ricchezza e rango per proseguire il compito che desiderava ardentemente svolgere. Né i rimproveri degli amici né le minacce dei nemici poterono indurLo a cessare di difendere una Causa che gli uni e gli altri consideravano la Causa di una setta oscura e proscritta.

La prima incarcerazione che subì in seguito all’aiuto dato ai prigionieri di Qazvín; l’abilità con cui ottenne la liberazione di Táhirih; il modo esemplare con cui diresse l’andamento della turbolenta riunione di Badasht; il modo in cui salvò la vita a Quddús a Níyalá; la saggezza che mostrò nel modo in cui Si occupò della delicata situazione creata dall’irruenza di Táhirih e la cautela che usò per proteggerla; i consigli che dette ai difensori del forte di Tabarsí; il piano che concepì di unire le forze di Quddús a quelle di Mullá Husayn e dei suoi compagni; la spontaneità con cui Si levò a sostenere gli sforzi di quegli eroici difensori; la magnanimità che Lo spinse a offrirSi come pegno per i Suoi compagni che erano sotto la minaccia di gravi offese; la serenità con cui affrontò la severa punizione inflittaGli in seguito all’attentato contro la vita di Násiri’d-Dín Sháh; gli insulti di cui fu coperto per tutta la strada da Lavásán al quartier generale dell’esercito imperiale e quindi alla capitale; il gravoso peso delle catene che portò mentre languiva nell’oscurità del Síyáh-Chál di Tihrán, tutti questi sono solo pochi esempi che provano in modo eloquente la posizione unica che Egli occupò di primo Motore delle forze che erano destinate a dare un nuovo volto alla Sua patria. Fu Lui che mise in libertà queste forze, diresse il loro corso, armonizzò la loro azione e le portò da ultimo al coronamento finale nella Causa che Egli Stesso era destinato a rivelare in un tempo successivo.

CAPITOLO XX
I MOTI DEL MÁZINDARÁN
(Continua)

LE truppe comandate dal principe Mihdí-Qulí Mirza si erano intanto riprese dalla demoralizzazione in cui erano cadute e si stavano preparando alacremente a rinnovare il loro attacco contro gli occupanti del forte di Tabarsí. Questi ultimi si trovarono ancora accerchiati da un esercito numeroso, alla cui testa marciavano ‘Abbás-Qulí Khán-i-Láríjání e Sulaymán Khán-i-Afshár-i-Shahríyárí, i quali erano accorsi con molti reggimenti di fanteria e cavalleria, a rinforzare le soldatesche del Principe 1. Le loro truppe riunite si accamparono in prossimità del forte 2 e incominciarono a innalzare attorno ad esso una serie di sette barricate. Con la massima arroganza, cercarono dapprima di mettere in mostra la vastità delle forze che comandavano e si abbandonarono con ardore crescente a quotidiane esercitazioni belliche. La scarsità d’acqua aveva, nel frattempo, costretto gli assediati a scavare un pozzo entro i recinti del forte. Il giorno in cui l’opera fu ultimata, l’ottavo giorno del mese di Rabí‘u’l-Avval 3, Mullá Husayn, che stava guardando i compagni mentre eseguivano questo lavoro, osservò: « Oggi avremo l’acqua che ci occorre per fare il bagno. Lavàti da ogni macchia terrena, ci rivolge- remo alla corte dell’Onnipotente e ci affretteremo a raggiungere la nostra eterna dimora. Chi desidera vuotare la coppa del martirio, si prepari e attenda l’ora in cui potrà suggellare col sangue la sua Fede nella Causa. Stanotte, prima dell’alba, coloro che vogliono seguirmi stiano pronti a uscire da dietro queste mura e a sgominare ancora una volta le forze che ci ingombrano il cammino, raggiungendo così’ senza intoppi l’apice della gloria ».

Quello stesso pomeriggio, Mullá Husayn fece le abluzioni, indossò vesti nuove, si avvolse al capo il turbante del Báb e si preparò per la battaglia. Una gioia indefinibile illuminava il suo volto. Egli accennò serenamente all’ora della sua dipartita e continuò fino all’ultimo momento ad animare lo zelo dei compagni. Negli ultimi istanti della sua vita, stando seduto ai piedi di Quddús, parlò a lungo da solo con lui di tutto ciò che la sua anima estasiata non poteva più contenere. Subito dopo mezzanotte, appena spuntò la stella del mattino, la stella che gli annunciava la luce albeggiante dell’eterna riunione col suo Diletto, balzò in piedi e, montato a cavallo, dette il segnale di aprire le porte del forte. Mentre a cavallo alla testa dei trecentotredici compagni andava ad affrontare il nemico, eruppe ancora il grido di « Yá Sáhibu’z-Zamán » 4 un grido così’ forte e possente che la foresta, il forte e il campo fremettero alla sua eco sonora.

Mullá Husayn dapprima caricò la barricata difesa da Zakaríyyáy-i-Qádí-Kalá’í, uno dei più valorosi ufficiali nemici. In breve tempo riuscì’ a sfondare quella barriera, si sbarazzò del comandante e sgominò i suoi uomini. Irrompendo con la stessa rapidità e intrepidità, sopraffece la resistenza sia della seconda sia della terza barricata e avanzò disseminando la disperazione e la costernazione tra i nemici. Imperterriti sotto le pallottole che piovevano continuamente addosso a loro, Mullá Husayn e i compagni si spinsero avanti fino a espugnare e a superare le altre barricate. In mezzo al trambusto che ne seguì, ‘Abbás-Qulí Khán-i-Láríjání si arrampicò su un albero e, nascostosi tra i rami, si mise in agguato ad aspettare gli avversari. Protetto dall’oscurità che lo circondava, riuscì a seguire dal suo nascondiglio le mosse di Mullá Husayn e dei compagni, i quali erano esposti al violento bagliore della conflagrazione che avevano acceso. Il destriero di Mullá Husayn d’un tratto s’impigliò nella corda di una tenda vicina e, prima che riuscisse a districarsi, egli fu colpito al petto da una pallottola del suo vile aggressore. Benché il colpo fosse arrivato a segno, ‘Abbás-Qulí Khán non riconobbe il cavaliere che aveva ferito. Mullá Husayn, che sanguinava profusamente, smontò da cavallo, fece alcuni passi barcollando e, incapace di andare oltre, stramazzò al suolo. Due dei suoi giovani compagni del Khurásán, Qulí e Hasan, vennero in suo soccorso e lo trasportarono al forte 5. Ho sentito da Mullá Sádiq e Mullá Mirza Muhammad-i-Furúghí il seguente racconto: « Eravamo tra coloro che erano rimasti al forte con Quddús. Appena Mullá Husayn, che pareva avesse perso i sensi, fu portato dentro, ci fu ordinato di ritirarci. “Lasciatemi solo con lui”, disse Quddús e invitò Mirza Muhammad-Báqir a chiudere la porta e a non far entrare nessuno di coloro che desideravano vederlo. “Ci sono alcune cose segrete che desidero solo lui sappia”. Fummo stupiti quando pochi momenti più tardi sentimmo la voce di Mullá Husayn rispondere alle domande di Quddús. Continuarono a conversare per due ore. Fummo sorpresi di vedere Mirza Muhammad-Báqir tanto agitato. “Osservavo Quddús”, egli ci informò in seguito, “attraverso una fessura della porta”. Appena egli lo chiamò per nome, Mullá Husayn si alzò e si sedette accanto a lui, come era solito fare, con le ginocchia piegate. A capo chino e con gli occhi bassi, ascoltava ogni parola che usciva dalle labbra di Quddús e rispondeva alle sue domande. « Hai affrettato l’ora della tua dipartita », riuscii a sentire che Quddús diceva, « e mi hai abbandonato alla mercé dei nemici. Se Dio vorrà, tra non molto ti raggiungerò e gusterò la dolcezza delle ineffabili delizie del paradiso ». Riuscii a sentire Mullá Husayn dire le seguenti parole: « Possa la mia vita riscattare la tua. Sei contento di me? ».

Passò molto tempo prima che Quddús invitasse Mirza Muhammad-Báqir ad aprire la porta e a far entrare i compagni. “Gli ho dato l’ultimo addio”, disse, mentre entravamo nella stanza. “Ho parlato ora con lui di cose che prima ritenevo inammissibile dire”. Al nostro arrivo trovammo che Mullá Husayn era spirato. Un pallido sorriso aleggiava ancora sul suo viso: tale era la pace del suo sembiante che pareva si fosse addormentato. Quddús si occupò delle esequie, lo abbigliò con la propria veste e dette istruzioni di metterlo a riposare a sud della tomba di Shaykh Tabarsí, accanto ad essa 6. “Felice te che sei rimasto fedele al patto di Dio fino all’ultimo istante”, disse, mentre deponeva un bacio d’addio sui suoi occhi e sulla sua fronte. “Prego Dio di concedermi che non si produca mai alcuna divisione tra te e me”. Parlò con tale intensità che i sette compagni che stavano in piedi accanto a lui piansero dirottamente e desiderarono di essersi immolati al suo posto. Quddús depose il corpo nella tomba con le sue stesse mani e raccomandò a coloro che gli erano vicini di tener segreta l’ubicazione della sua sepoltura e di tenerla nascosta anche ai compagni. In seguito dette loro istruzioni di sotterrare i corpi dei trentasei martiri caduti durante la battaglia in un’unica tomba al lato nord del santuario di Shaykh Tabarsí. “Gli amati di Dio”, lo sentirono osservare mentre li calava nella fossa, “prendano esempio da questi martiri della nostra Fede. Siano e restino uniti nella vita come questi lo sono ora nella morte” ».

Quella notte furono feriti non meno di novanta compagni, la maggior parte dei quali perirono. Dal giorno del loro arrivo a Bárfurúsh al giorno in cui furono attaccati per la prima volta, il che accadde il 12 di Dhi’l-Qa’dih dell’anno 1264 A.H. 7, al giorno della morte di Mullá Husayn, che ebbe luogo all’alba del nove di Rabí‘u’l-Avval dell’anno 1265 A.H. 8, secondo il calcolo di Mirza Muhammad-Báqir, il numero dei martiri raggiunse un totale di settantadue uomini.

Dal giorno in cui Mullá Husayn fu assalito dai nemici al momento del suo martirio trascorsero centosedici giorni; questo periodo fu reso memorabile da gesta così eroiche che anche i suoi più accaniti nemici si sentirono costretti a confessare il proprio stupore. In quattro diverse occasioni egli assurse a vette di coraggio e di forza tali che pochi potrebbero raggiungere. La prima battaglia ebbe luogo il dodici di Dhi’l-Qa’dih 9, nei sobborghi di Bárfurúsh; la seconda nelle immediate vicinanze del forte di Shaykh Tabarsí, il cinque del mese di Muharram 10, contro le forze di ‘Abdu’lláh Khán-i-Turkamán; la terza, a Vás-Kas il venticinque di Muharram 11 e fu combattuta contro l’esercito del principe Mihdí-Qulí Mirza. L’ultima battaglia, la più memorabile di tutte, fu combattuta contro le forze alleate di ‘Abbás-Qulí Khán, del principe Mihdí-Qulí Mirza e di Sulaymán Khán-i-Afshár, appoggiate da una compagnia di quarantacinque ufficiali di consumata abilità e di matura esperienza. Da ciascuno di questi violenti e feroci scontri, Mullá Husayn, nonostante la preponderanza delle forze schierate contro di lui, uscì incolume e trionfante. In ogni battaglia si distinse per atti di valore, cavalleria, acume e forza tali, che ciascuno di essi sarebbe da solo sufficiente a dimostrare per tutti i tempi la sublimità di quella Fede, per la cui protezione egli combatté così valorosamente e sul cui sentiero così nobilmente si immolò. I tratti di mente e di carattere che mostrò fin dalla giovinezza, la profondità del suo sapere, la tenacia della sua fede, l’intrepido coraggio, la saldezza di propositi, l’alto senso di giustizia e l’incrollabile devozione fecero di lui un eminente personaggio tra coloro che, con la propria vita, hanno testimoniato la gloria e la potenza della nuova Rivelazione. Aveva trentasei anni quando vuotò la coppa del martirio. A diciotto anni conobbe, a Karbilá, Siyyid Kázim-i-Rashtí. Per nove anni sedette ai suoi piedi e assimilò la lezione destinata a prepararlo ad accettare il Messaggio del Báb. Trascorse gli altri nove anni della sua vita in un’attività incessante e febbrile che lo condusse alla fine sul campo del martirio, in circostanze che hanno dato lustro imperituro alla storia del suo paese 12.

Una sconfitta così completa e umiliante paralizzò per un certo tempo gli sforzi dei nemici. Trascorsero quarantacinque giorni prima che essi potessero raccogliere ancora le loro forze e attaccare di nuovo. Durante questo intervallo, che fini il giorno di Naw-Rúz, il freddo intenso li indusse a rimandare la loro rischiosa impresa contro un avversario che li aveva coperti di disonore e di vergogna. Benché gli attacchi fossero stati sospesi, gli ufficiali che comandavano i resti dell’esercito imperiale avevano dato ordine perentorio di impedire l’arrivo al forte di qualsiasi tipo di rinforzo. Quando la scorta di viveri fu quasi finita, Quddús dette istruzioni a Mirza Muhammad-Báqir di distribuire tra i compagni il riso che Mullá Husayn aveva tenuto in serbo per i casi di emergenza. Quando ciascuno ebbe ricevuto la propria parte, Quddús convocò tutti e disse: « Chi si sente abbastanza forte da sopportare tutte le calamità che presto ci colpiranno rimanga con noi in questo forte. E chi sente in se stesso la minima esitazione e il minimo timore si rechi lontano da qui. Parta immediatamente prima che il nemico, riunite le sue forze, ci assalga ancora. Ogni strada ci sarà presto sbarrata; dovremo molto presto affrontare le privazioni più gravi e cadremo vittime di devastanti afflizioni ».

La stessa notte in cui Quddús proferì questo ammonimento, un siyyid di Qum, Mirza Husayn-i-Mutavallí, tradì i compagni. « Perché », scrisse ad ‘Abbás-Qulí Khán-i-Láríjání, « hai lasciato interrotto il lavoro che hai incominciato? Ti sei già sbarazzato di un avversario formidabile. Con l’eliminazione di Mullá Husayn, che era la forza motrice dietro queste mura, hai demolito la colonna su cui si fondavano la solidità e la sicurezza del forte. Se tu avessi pazientato per un giorno ancora, avresti sicuramente conquistato l’alloro della vittoria. Ti do la parola che, con non più di cento uomini, nello spazio di due giorni, riuscirai ad espugnare il forte e ottenere la resa incondizionata dei suoi occupanti. Sono esausti per la fame e sono terribilmente provati ». La lettera sigillata fu affidata a un certo Siyyid ‘Alíy-i-Zargar, il quale si dileguò furtivamente dal forte nel cuore della notte portando con sé la porzione di riso ricevuta da Quddús e consegnò la lettera ad ‘Abbás-Qulí Khán, che egli già conosceva. Il messaggio giunse a costui mentre si trovava in un villaggio situato a quattro farsang 13 di distanza dal forte dove si era rifugiato e non sapeva se ritornare alla capitale e presentarsi al Sovrano dopo una sconfitta così umiliante, o ritirarsi nella sua casa di Láríjání dove era certo di dover affrontare i rimproveri dei parenti e degli amici.

Si era appena alzato dal letto quando, al levar del sole, il siyyid gli portò la lettera. La notizia della morte di Mullá Husayn lo incoraggiò a prendere una nuova decisione. Temendo che il messaggero potesse spargere la notizia della morte del suo temibile avversario, lo uccise all’istante e poi cercò con strani espedienti di allontanare da sé il sospetto dell’assassinio. Deciso a ricavare tutti i vantaggi che poteva dalla sventura degli assediati e dall’esaurimento delle loro forze, incominciò subito i preparativi necessari per riprendere gli attacchi. Dieci giorni prima di Naw-Rúz, si accampò a mezzo farsang dal forte e controllò l’esattezza del messaggio che il vile siyyid gli aveva portato. Sperando di accaparrarsi tutto il merito dell’eventuale resa degli avversari, si rifiutò di rivelare, perfino agli ufficiali a lui più vicini, l’informazione che aveva ricevuto.

Il giorno era appena spuntato quando issò la bandiera 14 e, marciando alla testa di due reggimenti di fanteria e di cavalleria, circondò il forte e ordinò ai suoi uomini di aprire il fuoco contro le sentinelle in vedetta sulle torri. « Un traditore ». Quddús disse a Mirza Muhammad-Báqir, che era corso ad informarlo della gravità della situazione, « ha annunziato la morte di Mullá Husayn ad ‘Abbás-Qulí Khán. Imbaldanzito dalla sua dipartita, egli è ora deciso a prender d’assalto la nostra roccaforte e ad assicurarsi l’onore di esserne stato il solo conquistatore. Fa una sortita e, con l’aiuto di diciotto uomini che marcino accanto a te, infliggi un meritato castigo all’aggressore e al suo esercito. Fagli capire che se anche Mullá Husayn non c’è più, il potere invincibile di Dio continua ancora a sostenere i suoi compagni e a farli trionfare sulle forze dei loro nemici ».

Mirza Muhammad-Báqir, appena ebbe scelto i compagni, ordinò di spalancare la porta del forte. Balzando sui loro destrieri e gridando: « Yá Sáhibu’z-Zamán! » essi irruppero nel campo del nemico. L’intero esercito fuggì disordinatamente davanti a una carica così terribile. Riuscirono a scappare tutti tranne pochi. Arrivarono a Bárfurúsh completamente demoralizzati e pieni di vergogna. ‘Abbás-Qulí Khán era così tremante di paura che cadde da cavallo: atterrito lasciò uno dei suoi stivali appeso alla staffa e fuggì via, mezzo scalzo e sgomento, nella direzione che aveva preso l’esercito. Pieno di disperazione, corse dal Principe a confessare l’ignominiosa sconfitta che aveva subito 15. Mirza Muhammad-Báqir, invece, uscì illeso dalla battaglia insieme con i suoi diciotto compagni e, tenendo in mano la bandiera che il nemico terrorizzato aveva abbandonato, riparò esultante nel forte e presentò al suo capo, che gli aveva ispirato tanto coraggio, questa prova della sua vittoria.

La completa disfatta del nemico portò subito sollievo ai compagni che versavano in gravi difficoltà, cementò la loro unità e ricordò loro ancora l’efficacia della forza di cui la loro Fede li aveva dotati. In quel momento il loro cibo, ahimè, si era ridotto alla carne dei cavalli, che avevano portato via con sé dal campo abbandonato dal nemico. Sopportarono con forza incrollabile le afflizioni che li assalivano da ogni parte. Il loro cuore dipendeva solo dai desideri di Quddús; tutto il resto contava ben poco. Né la durezza delle privazioni né le minacce continue del nemico poterono farli deviare d’un capello dalla strada che i loro defunti compagni avevano percorso così eroicamente. In seguito, nell’ora più oscura dell’avversità, alcuni vacillarono. Ma la pusillanimità di questo trascurabile gruppo è cosa pallida e insignificante davanti allo splendore che la massa degli intrepidi compagni irradiò nell’ora suprema del destino.

Il principe Mihdí-Qulí Mirza, che si era accampato a Sárí, accolse con grande gioia la notizia della sconfitta subita dalle forze poste sotto il diretto comando del suo collega ‘Abbás-Qulí Khán. Benché desiderasse anche lui distruggere la banda che aveva trovato rifugio dietro le mura del forte, si rallegrò, quando apprese che il suo rivale non era riuscito ad assicurarsi la vittoria che bramava 16. Scrisse immediatamente a Tihrán e chiese che inviassero senza indugio nei pressi del forte rinforzi, in forma di granate e di artiglieria a cammello, con tutto l’equipaggiamento necessario, perché questa volta era deciso a ottenere la completa sottomissione dei suoi ostinati occupanti.

Mentre il nemico si preparava a un ulteriore e ancor più feroce attacco contro la loro roccaforte, i compagni e Quddús, completamente indifferenti ai morsi della sventura che li tormentava, acclamarono con gioia e gratitudine l’avvicinarsi del Naw-Rúz. Durante tutta la festività dettero libero sfogo ai loro sentimenti di ringraziamento e di lode per le molteplici benedizioni che l’Onnipotente aveva loro elargito e benché oppressi dalla fame, si abbandonarono a canti e tripudi, sdegnando completamente il pericolo che li minacciava. Il forte risuonò degl’inni di gloria e di lode che, sia di giorno sia di notte, si levavano dal cuore di quella schiera gioiosa. Il versetto « Santo, santo, Signore Iddio nostro, Signore degli angeli e dello spirito » usciva ininterrottamente dalle loro labbra, accendeva il loro entusiasmo e rianimava il loro coraggio.

Tutto quello che restava del bestiame che avevano portato con sé nel forte era una mucca che Hájí Násiru’d-Dín-i-Qazvíní aveva messo da parte e con il cui latte ogni giorno preparava un budino per la mensa di Quddús. Non volendo negare agli amici affamati la loro parte della saporita vivanda che il suo devoto compagno preparava per lui, Quddús, dopo aver assaggiato pochi cucchiai di quella pietanza, era solito distribuire il resto tra loro. « Dopo la scomparsa di Mullá Husayn », lo udirono spesso osservare, « ho smesso di gustare il cibo e le bevande che preparano per me. Il mio cuore sanguina alla vista dei compagni affamati, sfiniti e devastati intorno a me ». Nonostante queste avverse circostanze, egli continuò, senza mai venir meno, a spiegare nel suo commento il significato del Sád di Samad e ad esortare gli amici a perseverare nei loro eroici sforzi fino alla fine. La mattina e la sera, Mirza Muhammad-Báqir, in presenza dei credenti riuniti, cantava alcuni versetti del commento e questa lettura accendeva il loro entusiasmo e ravvivava le loro speranze.

Ho sentito Mullá Mirza Muhammad-i-Furúghí attestare ciò che segue: « Dio sa che avevamo cessato di desiderare il cibo: i nostri pensieri non vertevano più su argomenti riguardanti il pane quotidiano. Eravamo così rapiti dall’affascinante melodia di quei versetti che, se avessimo dovuto andare avanti per anni in quelle condizioni, nessuna traccia di stanchezza e di fatica avrebbe potuto offuscare il nostro entusiasmo o sciupare la nostra letizia. E ogni volta che la mancanza di cibo tendeva a logorare la nostra vitalità e a indebolire le nostre forze, Mirza Muhammad-Báqir andava da Quddús e lo informava della nostra condizione. Uno sguardo del suo volto, la magia delle sue parole, mentre camminava tra noi, tramutavano il nostro abbattimento in splendida gioia. Eravamo rinvigoriti da una forza così grande che, se ci fossero d’improvviso apparsi davanti gli eserciti dei nostri nemici, ci saremmo sentiti capaci di sconfiggere le loro forze ».

Il giorno di Naw-Rúz, che cadeva il ventiquattro di Rabí‘u’th-Thání dell’anno 1265 A.H. 17, Quddús in un messaggio scritto ai compagni, accennò all’avvicinarsi di tribolazioni che avrebbero comportato il martirio di un considerevole numero di amici. Pochi giorni più tardi, uno sconfinato esercito 18, comandato dal principe Mihdí-Qulí Mirza 19 e spalleggiato dalle forze riunite di Sulaymán Khán-i-Afshár, di ‘Abbás-Qulí Khán-i-Láríjání e di Ja’far-Qulí Khán, assistiti da circa quaranta ufficiali, si accampò nei pressi del forte e si mise a costruire una serie di trincee e di barricate nelle sue immediate vicinanze 20. Il nono giorno del mese di Bahá 21, gli ufficiali al comando dettero ordine agli addetti all’artiglieria di aprire il fuoco contro gli assediati. Mentre il bombardamento era in corso, Quddús usci dalla sua camera e raggiunse il centro del forte: il suo volto era tutto un sorriso e il suo comportamento era improntato alla massima tranquillità. Mentre camminava, all’improvviso gli piombò davanti una palla di cannone. « Questi arroganti aggressori », osservò con calma, facendola rotolare con il piede, « ignorano completamente la forza della vindice ira di Dio! Hanno dimenticato che una creatura insignificante come un moscerino fu capace di porre fine alla vita dell’onnipotente Nimrod? Non hanno sentito che è bastato il ruggito della tempesta a distruggere il popolo di ‘Ad e di Thamúd e ad annientare le loro forze? Con questi spregevoli segni della loro crudeltà cercano forse d’intimidire gli eroi di Dio, ai cui occhi la pompa della regalità non è altro che un’ombra inane? » « Voi siete », aggiunse, voltandosi verso gli amici, « gli stessi compagni, di cui Muhammad, l’Apostolo di Dio, ha così detto: “Oh! Quanto desidero vedere il sembiante dei miei fratelli, i miei fratelli che appariranno alla fine del mondo! Noi siamo benedetti; essi sono benedetti; ma più grande della nostra è la loro benedizione”. Attenti a non permettere che l’invadenza dell’egoismo e del desiderio offuschi un rango così glorioso. Non temete le minacce dei malvagi e non lasciatevi sgomentare dal clamore degli empi. Per ciascuno di voi è stata fissata un’ora e quando quell’ora sarà arrivata, né gli assalti del nemico potranno anticiparla né gli sforzi degli amici ritardarla. Se le forze della terra facessero lega contro di voi, non potrebbero, prima che quell’ora fosse scoccata, accorciare di uno jota la durata della vostra vita. Se permetterete che il vostro cuore sia turbato per un solo istante dal fragore di questi cannoni, che, con crescente violenza, continueranno a riversare i loro colpi sul forte, vi metterete da soli fuori dalla roccaforte della protezione divina ».

Un appello così possente non mancò d’infondere fiducia nel cuore di coloro che lo sentirono. Tuttavia se ne videro alcuni, il cui sembiante rivelava esitazione e timore, stretti insieme in un angolo riparato del forte, che guardavano con invidia e meraviglia lo zelo che animava i loro compagni 22.

L’esercito del principe Mihdí-Qulí Mirza continuò per alcuni giorni a far fuoco in direzione del forte. I suoi uomini rimasero sorpresi, quando si accorsero che i loro colpi di cannone non erano riusciti a far tacere le voci di preghiera e le acclamazioni di gioia che gli assediati sollevavano in risposta alle loro minacce. Invece della resa incondizionata che si aspettavano, giungevano senza posa alle loro orecchie l’appello del mu’adhdhin 23, il canto dei versetti del Corano e un coro di liete voci che intonavano inni di ringraziamento e di lode.

Esasperato da questi segni di fervore inestinguibile e spinto da un ardente desiderio di spegnere l’entusiasmo che cresceva in petto ai suoi avversari, Ja’far-Qulí Khán eresse una torre, su cui piazzò il cannone 24, e da quell’altezza diresse il fuoco contro il cuore del forte. Quddús chiamò immediatamente Mirza Muhammad-Báqir e gli ingiunse di fare ancora una sortita e d’infliggere al « borioso nuovo venuto » un’umiliazione non meno schiacciante di quella subita da ‘Abbás-Qulí Khán. « Fagli vedere », aggiunse, « che gl’intrepidi guerrieri di Dio, quando sono oppressi e spinti dalla fame, sanno dar prova di atti di un eroismo tale quale nessun comune mortale può mostrare. Fagli vedere che più grande è la loro fame, più devastanti sono gli effetti della loro esasperazione ».

Mirza Muhammad-Báqir ordinò ancora a diciotto compagni di correre ai destrieri e di seguirlo. Le porte del forte furono spalancate e il grido di « Yá Sáhibu’z-Zamán! » — più fiero e più entusiasmante che mai — seminò il panico e la costernazione nei ranghi nemici. Ja’far-Qulí Khán cadde con trenta dei suoi uomini sotto la spada dell’avversario, che irruppe verso la torre, s’impossessò dei cannoni e li scaraventò al suolo. Poi si gettarono sulle barricate che erano state erette, ne demolirono alcune e, se non fosse sopravvenuta l’oscurità, avrebbero espugnato e distrutto le altre.

Trionfanti e incolumi, ritornarono nel forte, portandosi dietro alcuni degli stalloni più gagliardi e meglio nutriti che erano stati abbandonati. Passarono alcuni giorni durante i quali non vi furono segni di contrattacco 25. Un’improvvisa esplosione in uno dei depositi di munizioni, che aveva provocato la morte di molti ufficiali d’artiglieria e di un certo numero dei loro compagni d’armi, costrinse il nemico a sospendere per un mese intero gli attacchi contro la guarnigione 26. Questa tregua permise ad alcuni compagni di sortire di quando in quando dalla fortezza per raccogliere l’erba che riuscivano a trovare nei campi, il solo mezzo con cui potevano alleviare la fame. Questi sventurati compagni consumarono la carne dei cavalli e perfino il cuoio delle selle. Bollirono erbe e le divorarono con pietosa avidità 27. Mentre le loro forze declinavano, mentre languivano esausti entro le mura del forte, Quddús moltiplicò le sue visite tra loro e cercò di alleggerire il peso della loro agonia con le sue parole di conforto e di speranza.

Il mese di Jámádíyu’th-Thání 28 era appena incominciato, quando si senti l’artiglieria del nemico scaricare ancora la sua pioggia di proiettili contro il forte. Contemporaneamente al rombo dei cannoni, un distaccamento dell’esercito, capeggiato da alcuni ufficiali e costituito da molti reggimenti di fanteria e cavalleria, si lanciò all’attacco contro di loro. Il suono del loro avvicinarsi costrinse Quddús a chiamare subito il suo valoroso luogotenente, Mirza Muhammad-Báqir, e ad ordinargli di fare una sortita con trentasei compagni per respingere l’assalto. « Mai da quando abbiamo occupato questo forte », aggiunse, « in nessuna circostanza abbiamo tentato di lanciare un’offensiva contro i nostri avversari. Finché non hanno sferrato il loro attacco contro di noi, noi non siamo insorti a difendere le nostre vite. Avessimo avuto l’ambizione di combattere contro di loro una guerra santa, avessimo avuto la minima intenzione di conquistare la supremazia sui miscredenti per mezzo della forza delle armi, non saremmo rimasti sino ad oggi assediati entro queste mura. A questo punto, come successe ai compagni di Muhammad in giorni passati, la forza dei nostri eserciti avrebbe sconvolto le nazioni della terra e le avrebbe preparate ad accettare il nostro Messaggio. Ma non è questa la strada che abbiamo deciso di percorrere. Sin da quando ci siamo rifugiati nel forte, il nostro unico, immutabile intendimento è stato quello di provare, con le nostre azioni e con la nostra disponibilità a dare la vita sul sentiero della Fede, la sublimità della nostra missione. Si avvicina rapidamente l’ora in cui potremo coronare questa impresa ».

Ancora una volta Mirza Muhammad-Báqir balzò a cavallo e, con trentasei compagni che aveva scelto, affrontò e sgominò le forze che l’avevano circondato. Portò con sé, rientrando dalla porta, la bandiera che il nemico spaventato aveva abbandonato appena era stato lanciato il grido risonante « Yá Sáhibu’z-Zamán! ». Cinque compagni subirono il martirio nel corso della battaglia ed egli li portò tutti nel forte e li seppellì in un’unica tomba vicino all’estrema dimora dei loro fratelli caduti.

Il principe Mihdí-Qulí Mirza, stupefatto da questa ulteriore prova dell’inesauribile vitalità dei suoi avversari, si riunì a consiglio con i capi del suo stato maggiore, esortandoli a trovare i mezzi che gli permettessero di concludere rapidamente quella costosa impresa. Per tre giorni discusse con loro e alla fine giunse alla conclusione che la strada più consigliabile era quella di sospendere per alcuni giorni ogni forma di ostilità nella speranza che gli assediati, esausti per la fame e spinti dalla disperazione, si decidessero a uscire dal loro rifugio e a piegarsi a una resa incondizionata.

Mentre il Principe attendeva la conclusione del piano che aveva concepito, arrivò da Tihrán un messaggero che gli portava il farmán 29 del suo Sovrano. Quest’uomo era un abitante del villaggio di Kand, luogo non molto distante dalla capitale. Egli riuscì a ottenere dal Principe il permesso di entrare nel forte per cercare di convincere due dei suoi occupanti, Mullá Mihdí e suo fratello Mullá Báqir-i-Kandí, a fuggire davanti al pericolo incombente a cui le loro vite erano esposte. Quando fu vicino alle mura, costui chiamò le sentinelle e chiese loro d’informare Mullá Mihdíy-i-Kandí che un suo conoscente desiderava vederlo. Mullá Mihdí riferì la cosa a Quddús, che gli dette il permesso d’incontrare l’amico.

Ho sentito Áqáy-i-Kalím raccontare ciò che segue, come gli era stato riferito proprio da quel messaggero, che aveva incontrato a Tihrán: « “Vidi”, mi riferì il messaggero, “Mullá Mihdí apparire sulle mura del forte, sul volto un’espressione indescrivibile di decisione incrollabile. Sembrava fiero come un leone, cingeva la spada sopra un lungo camice bianco alla maniera degli arabi e aveva un fazzoletto bianco attorno al capo. ‘Cosa cerchi?’ mi chiese con impazienza. ‘Dillo in fretta, perché temo che il mio signore mi chiami e non mi trovi’. La determinazione che gli ardeva negli occhi mi confuse: rimasi ammutolito davanti al suo sguardo e al suo atteggiamento. Mi passò all’improvviso nella mente il pensiero di risvegliare nel suo cuore un sentimento assopito. Gli ricordai il figlioletto, Rahmán, che aveva lasciato nel villaggio, nella sua premura di arruolarsi sotto le bandiere di Mullá Husayn. Per il grande amore verso il suo bambino, egli aveva composto per lui un poema che cantava quando lo cullava per farlo dormire. ‘Il tuo diletto Rahmán’, dissi, ‘desidera l’amore che tu una volta riversavi su di lui. solo e abbandonato e desidera vederti’. ‘Digli da parte mia’, fu l’immediata risposta del padre, ‘che l’amore del vero Rahmán 30, un amore che trascende ogni affetto terreno, ha così colmato il mio cuore da non lasciar posto per nessun altro amore fuorché il Suo’. L’intensità con cui pronunziò queste parole mi fece venire le lacrime agli occhi. ‘Siano maledetti’, esclamai indignato, ‘coloro che pensano che tu e i tuoi condiscepoli abbiate deviato dal sentiero di Dio’. ‘Cosa succederà’, gli chiesi, ‘se provo a entrare nel forte e a unirmi a voi?’ ‘Se sei spinto dal desiderio di trovare la verità’, mi rispose con calma, ‘ti mostrerò con gioia la strada. E se desideri farmi visita come un vecchio amico, ti darò il benvenuto di cui il Profeta di Dio ha detto: — Dà il benvenuto ai tuoi ospiti anche se sono miscredenti —. Fedele a questa ingiunzione, ti offrirò l’erba bollita e le ossa macinate che mi servono da pasto, il meglio che io possa procurarti. Ma se hai intenzione di danneggiarmi, ti avverto che mi difenderò e ti getterò al suolo dall’alto di queste mura’. La sua incrollabile ostinazione mi convinse della futilità dei miei sforzi. Sentivo che era infiammato da un tale entusiasmo che, se i teologi del regno si fossero riuniti e avessero tentato di distoglierlo dalla strada che aveva deciso di percorrere, egli, solo e senza aiuto, avrebbe vanificato i loro sforzi e mi convinsi che tutte le potenze della terra non sarebbero riuscite a distoglierlo dall’Amato del suo cuore. ‘Possa la coppa’, mi sentii spinto a dire, ‘che le tue labbra hanno gustato, portarti tutte le benedizioni che cerchi’. ‘Il Principe’, aggiunsi, ‘ha promesso che tutti coloro che abbandoneranno il forte saranno al sicuro da ogni pericolo, riceveranno da lui un salvacondotto e tutte le spese necessarie per il viaggio fino a casa’. Egli promise di riferire il messaggio del Principe ai suoi compagni. ‘C’è qualcos’altro che desideri dirmi?’ aggiunse. ‘Sono impaziente di raggiungere il mio signore’. ‘Possa Iddio’, risposi, ‘aiutarti a raggiungere il tuo scopo’. ‘Egli mi ha davvero aiutato!’ esclamò esultante. ‘In quale altro modo avrei potuto essere liberato dall’oscurità della mia casa-prigione a Kand? Come avrei potuto giungere a questo eccelso forte?’ Dette queste parole, mi volse le spalle e scomparve” ».

Raggiunti i compagni, Mullá Mihdí riferì il messaggio inviato loro dal Principe. Nel pomeriggio, Siyyid Mirza Husayn-i-Mutavallí, accompagnato dal suo servo, lasciò il forte e andò direttamente a raggiungere il Principe nel suo campo. Il giorno successivo, Rasúl-i-Bahnimírí e pochi altri compagni, incapaci di resistere ai morsi della fame, e incoraggiati dalle esplicite assicurazioni del Principe, si separarono con tristezza e riluttanza dai loro amici. Appena usciti dal forte, furono tutti assassinati all’istante per ordine di ‘Abbás-Qulí Khán-i-Láríjání.

Durante i pochi giorni che trascorsero dopo quell’episodio, il nemico, ancora accampato nelle vicinanze del forte, si astenne da ogni atto di ostilità verso Quddús e i suoi compagni. Il mercoledì mattina, il sedici di Jámádíyu’th-Thání 31, arrivò al forte un emissario del Principe, chiedendo che gli assediati delegassero due rappresentanti per condurre trattative confidenziali nella speranza di arrivare a una composizione pacifica delle loro insolute controversie 32.

Di conseguenza, Quddús dette istruzioni a Mullá Yúsuf-i-Ardibílí e a Siyyid Ridáy-i-Khurásání di rappresentarlo e ordinò loro d’informare il Principe ch’egli era disposto ad accedere ai suoi desideri. Mihdí-Qulí Mirza li accolse con cortesia e li invitò a bere con lui il tè che aveva preparato. « Pensiamo », essi dissero declinando la sua offerta, « che sarebbe un atto di slealtà da parte nostra, se dovessimo prendere cibi e bevande mentre il nostro amato capo langue esausto e affamato nel forte ». « Le ostilità tra noi », notò il Principe, « si sono prolungate troppo. Da ambo le parti, abbiamo combattuto a lungo e abbiamo dolorosamente sofferto. Il mio ardente desiderio raggiungere un accomodamento amichevole delle nostre divergenze ». Prese in mano una copia del Corano che era accanto a lui e, per confermare la propria dichiarazione, vergò di proprio pugno sul margine della Sura Aprente le seguenti parole: « Giuro su questo Santissimo Libro, sulla giustizia di Dio che lo ha rivelato e sulla Missione di Colui al quale sono stati ispirati i suoi versetti, che non ho altra mira se non quella di promuovere la pace e l’amicizia tra noi. Uscite dalla vostra roccaforte e siate certi che nessuna mano si alzerà contro di voi. Voi e i vostri compagni, lo dichiaro solennemente, siete sotto la protezione e la tutela dell’Onnipotente, di Muhammad, Suo Profeta, e di Násiri’d-Dín Sháh, nostro sovrano. Prometto sul mio onore che nessuno, tanto nell’esercito, quanto nelle zone vicine, tenterà mai di aggredirvi. La maledizione di Dio, l’onnipotente Vendicatore, ricada su di me, se nutro nel cuore un desiderio diverso da quello che ho espresso ».

Appose il sigillo sulla sua dichiarazione e, consegnando il Corano nelle sue mani, pregò Mullá Yúsuf di porgere i suoi saluti al suo capo e di consegnargli quella formale promessa scritta, aggiungendo: « Conforme alla mia affermazione, oggi nel pomeriggio invierò alle porte del forte un certo numero di cavalli, che spero egli e i suoi principali compagni accetteranno e monteranno, per venire nei pressi di questo accampamento, dove farò drizzare una tenda appositamente per ospitarli. Chiederò loro di essere nostri ospiti fino al momento in cui potrò organizzare, a mie spese, il loro ritorno a casa ».

Quddús ricevette il Corano dalle mani del suo messaggero, lo baciò con riverenza e disse: « O Signore nostro! decidi, tra noi e il nostro popolo, con la verità: perché certo Tu sei il migliore dei decisori » 33. Immediatamente dopo, ordinò ai compagni di prepararsi a lasciare il forte. « Accettando il loro invito », disse, « permetteremo loro di dimostrare la sincerità delle loro intenzioni ».

Quando l’ora della partenza fu vicina, Quddús si avvolse al capo il turbante verde che il Báb gli aveva fatto pervenire quando aveva inviato quello che Mullá Husayn portava il giorno del martirio. Alla porta del forte, montarono i cavalli che erano stati messi a loro disposizione e Quddús sali sul cavallo favorito del Principe, che questi aveva espressamente mandato per lui. Cavalcavano dietro di lui i suoi principali compagni, tra cui c’erano alcuni siyyid e dotti teologi, e li seguivano tutti gli altri, che marciavano a piedi, portando con sé tutto ciò che rimaneva delle loro armi e dei loro beni. Quando giunsero alla tenda che il Principe aveva ordinato fosse rizzata per Quddús nei pressi del bagno pubblico del villaggio di Dízvá, che dominava il campo nemico, i compagni; che erano duecentodue, smontarono da cavallo e andarono a sistemarsi nei loro alloggi vicino alla tenda.

Subito dopo il loro arrivo, Quddús uscì dalla tenda e, riuniti i compagni, rivolse loro queste parole: « Dovete dar prova di rinuncia esemplare, perché un tale comportamento da parte vostra magnificherà la Causa e tornerà a sua gloria. Tutto ciò che non sia il completo distacco servirà solo a offuscare la purezza del suo nome e a oscurarne lo splendore. Pregate l’Onnipotente che vi faccia la grazia di aiutarvi fino all’ultimo istante a dare il vostro contributo alla magnificazione della Sua Fede ».

Poche ore dopo il tramonto, fu servito un pranzo inviato dal campo del Principe. Il cibo, offerto in vassoi separati, ciascuno dei quali fu assegnato a un gruppo di trenta compagni, era povero e scarso. « Il nostro capo », raccontarono in seguito coloro che erano con Quddús, « invitò nove di noi a dividere con lui il pranzo che era stato servito nella sua tenda. Poiché egli si rifiutò di assaggiarlo, anche noi, seguendo il suo esempio, ci astenemmo dal mangiare; i servitori che ci servivano furono ben felici di approfittare delle pietanze che ci eravamo rifiutati di toccare e ne divorarono il contenuto con apprezzamento e avidità ». Si udirono alcuni dei compagni, che stavano desinando fuori dalla tenda, protestare con i servitori, dicendo di essere disposti a comperare da loro, a qualsiasi prezzo anche esorbitante, il pane che occorreva loro. Quddús disapprovò vivamente la loro condotta, li rimproverò per la richiesta che avevano fatto e se non fosse stato per l’intercessione di Mirza Muhammad-Báqir li avrebbe severamente puniti per aver tanto trascurato le sue vive raccomandazioni.

Sul far del giorno arrivò un messaggero, che convocava Mirza Muhammad-Báqir alla presenza del Principe. Con il consenso di Quddús, egli accettò l’invito e ritornò un’ora più tardi, informando il suo capo che il Principe, davanti a Sulaymán Khán-i-Afshár, aveva ripetuto le assicurazioni date e l’aveva trattato con grande considerazione e gentilezza. « “Il mio giuramento”, mi ha assicurato », spiegò Mirza Muhammad-Báqir, « “è irrevocabile e sacro”. Ha citato il caso di Ja’far-Qulí Khán, il quale, nonostante abbia vergognosamente massacrato migliaia di soldati dell’esercito imperiale, durante l’insurrezione fomentata dal Sálár, fu perdonato dal Sovrano e subito investito di nuove onorificenze da Muhammad Sháh. Domani mattina il Principe intende accompagnarti al bagno pubblico, quindi nella tua tenda, dopodiché ci darà i cavalli necessari per condurre l’intera compagnia a Sang-Sar, dove essa si scioglierà: alcuni ritorneranno a casa in ‘Iraq e altri proseguiranno per il Khurásán. Per richiesta di Sulaymán Khán, il quale sosteneva che la presenza di un’adunanza così numerosa in un luogo fortificato come Sang-Sar sarebbe stata rischiosa, il Principe ha deciso che la compagnia si sciolga, invece, a Fírúz-Kúh. Ma sono dell’avviso che il suo cuore non creda affatto a ciò che la sua lingua dice ». Quddús, che condivideva la sua opinione, invitò i compagni a separarsi quella notte e affermò che sarebbe andato subito a Bárfurúsh. Essi corsero da lui per implorarlo di non separarsi da loro e lo pregarono di permetter loro di continuare a godere della benedizione della sua compagnia. Egli li consigliò alla calma e alla pazienza e li assicurò che, qualsiasi afflizione il futuro tenesse ancora in serbo, si sarebbero nuovamente incontrati. « Non piangete », furono le sue parole di commiato, « la riunione che seguirà a questa separazione sarà tale da durare in eterno. Abbiamo affidato la nostra Causa alla protezione di Dio; quali che siano la Sua volontà e il Suo compiacimento, li accetteremo con gioia ».

Il Principe non mantenne la promessa. Invece di raggiungere Quddús nella sua tenda, lo convocò, con alcuni compagni, al suo quartier generale e, non appena giunsero nella tenda del Farrásh-Báshí 34, l’informò che l’avrebbe ricevuto a mezzogiorno. Poco dopo, alcuni servitori del Principe andarono a dire agli altri compagni che Quddús permetteva loro di raggiungerlo al quartier generale dell’esercito. Molti si lasciarono ingannare da questa informazione, furono fatti prigionieri e, infine, venduti come schiavi. Queste vittime sventurate furono i superstiti dei compagni del forte di Shaykh Tabarsí, che sopravvissero a quell’eroico conflitto e furono risparmiati per riferire ai concittadini la loro dolorosa storia di sofferenze e tribolazioni.

Poco dopo, i servitori del Principe fecero pressione su Mullá Yúsuf perché informasse il resto dei compagni che Quddús desiderava che deponessero immediatamente le armi. « Cosa dirai esattamente? » gli chiesero mentre lo conducevano in un luogo a una certa distanza dal quartier generale dell’esercito. Egli coraggiosamente rispose: « Li avvertirò che, qualsiasi messaggio voi deciderete di portargli da parte del loro capo, quel messaggio non è altro che falsità ». Queste parole gli erano appena uscite di bocca che fu spietatamente messo a morte.

Dopo questo atto selvaggio essi dedicarono la loro attenzione al forte, lo saccheggiarono di quanto conteneva, lo bombardarono e lo rasero al suolo 35. Immediatamente dopo, accerchiarono gli altri compagni e aprirono il fuoco contro di loro. Coloro che scamparono alle pallottole furono uccisi dalle spade degli ufficiali e dalle lance dei loro uomini 36. Nell’agonia della morte, sentirono questi indomiti eroi pronunciare ancora le parole: « Santo, santo, o Signore Iddio nostro Signore degli angeli e dello spirito », parole che erano loro venute alle labbra in momenti di esultanza e che ora ripetevano con inalterato fervore nell’ora suprema della vita.

Perpetrate queste atrocità, il Principe ordinò che coloro che erano stati trattenuti come prigionieri fossero condotti alla sua presenza, l’uno dopo l’altro. Quelli che erano uomini altolocati come il padre di Badí‘ 37, Mullá Mirza Muhammad-i-Furúghí e Hájí Násir-i-Qazvíní 38, incaricò i suoi servitori di condurli a Tihrán e di farsi consegnare per liberarli un riscatto proporzionale alle possibilità e alle ricchezze di ciascuno. In quanto agli altri, dette ordine ai suoi carnefici di metterli immediatamente a morte. Alcuni furono fatti a pezzi con la spada 39, altri furono squartati, alcuni furono legati a un albero e crivellati di colpi e altri ancora furono sparati dalla bocca di un cannone e dati alle fiamme 40.

Questa terribile carneficina era appena finita, quando furono condotti davanti al Principe tre dei compagni di Quddús che abitavano a Sang-Sar. Uno di loro era Siyyid Ahmad, il cui padre, Mír Muhammad-‘Alí, devoto ammiratore di Shaykh Ahmad-i-Ahsá’í, era stato uomo di grande sapere e di illustri meriti. Accompagnato dallo stesso Siyyid Ahmad e da suo fratello, Mír Abu’l-Qásim, morto la stessa notte in cui fu assassinato Mullá Husayn, egli era partito da Karbilá l’anno precedente la dichiarazione del Báb, con l’intenzione di presentare i suoi due figli a Siyyid Kázim. Ma il Siyyid era partito da questo mondo prima del suo arrivo. Egli decise immediatamente di partire per Najaf. Mentre era in quella città, una notte gli apparve in sogno il Profeta Muhammad, il quale ordinava all’Imám ‘Alí, Comandante dei Fedeli, di annunciargli che dopo la sua morte entrambi i suoi figli, Siyyid Ahmad e Mír Abu’l-Qásim, sarebbero giunti in presenza del promesso Qá’im e avrebbero ambedue subito il martirio sul Suo cammino. Appena si svegliò, chiamò il figlio Siyyid Ahmad e l’informò delle sue ultime volontà. Sette giorni dopo quel sogno morì.

A Sang-Sar altre due persone, Karbilá’í ‘Alí e Karbilá’í Abú-Muhammad, noti ambedue per la loro pietà e intuizione spirituale, si adoperarono per preparare la gente ad accettare la Rivelazione promessa, il cui avvento, esse sentivano, si stava rapidamente avvicinando. Nell’anno 1264 A.H. 41, annunziarono pubblicamente che proprio quell’anno sarebbe partito dal Khursn e andato nel Mázindarán un uomo di nome Siyyid ‘Ali, preceduto da uno Stendardo Nero e accompagnato da alcuni eletti compagni. Essi esortarono ogni leale seguace dell’Islám a sorgere e a dargli ogni possibile aiuto. « Lo stendardo che egli isserà », dichiararono, « sarà lo stendardo del promesso Qá’im; colui che lo spiegherà, sarà il Suo luogotenente e il principale promotore della Sua Causa. Chi lo seguirà si salverà, e chi se ne allontanerà sarà tra i perduti ». Karbilá’í Abú-Muhammad esortò i suoi due figli, Abu’l Abu’l-Qásim e Muhammad-‘Alí, ad adoperarsi per il trionfo della nuova Rivelazione e a sacrificare ogni considerazione materiale per conseguire quel fine. Karbilá’í Abú-Muhammad e Karbilá’í ‘Alí morirono entrambi nella primavera di quell’anno.

I due compagni introdotti in presenza del Principe insieme a Siyyid Ahmad erano i due figli di Karbilá’í Abú-Muhammad. Mullá Zaynu’l-‘Ábidín-i-ShahMirzadí, uno dei fidi e dotti consiglieri del governo, raccontò al Principe la loro storia e riferì le esperienze e le attività dei loro rispettivi padri. « Per quale ragione », fu chiesto a Siyyid Ahmad, « hai deciso di seguire una strada che ha coinvolto te e la tua famiglia in fatti così squallidi e vergognosi? Non potevano accontentarti i numerosi teologi eruditi e illustri che si possono trovare in questo paese e in ‘Iraq? » « La mia fede in questa Causa », egli rispose coraggiosamente, « non nasce dalla stolta imitazione. Ho investigato appassionatamente i suoi precetti e sono convinto della sua verità. Quando a Najaf osai chiedere al primo mujtahid della città, Shaykh Muhammad Hasan-i-Najafí, di spiegarmi certe verità connesse con i princìpi secondari che costituiscono il fondamento degl’insegnamenti dell’Islám, egli si rifiutò di soddisfare la mia richiesta. Ripetei il mio appello e per questo egli mi rimproverò con rabbia e persistette nel suo rifiuto. Come ci si può aspettare che io, alla luce di una simile esperienza, cerchi lumi sugli argomenti astrusi della Fede dell’Islám da un teologo, il quale, per quanto sia illustre, si rifiuta di rispondere alle mie domande su argomenti semplici e ordinari ed esprime la propria indignazione per avergli io posto tali domande? » Che opinione hai di Hájí Muhammad-‘Alí? » chiese il Principe. « Crediamo », egli rispose, « che Mullá Husayn sia stato l’alfiere dello stendardo di cui Muhammad ha detto: “Se i vostri occhi vedranno venire dal Khurásán gli Stendardi Neri, correte verso di essi, anche se dovete strisciare sulla neve”. Per questa ragione abbiamo rinunciato al mondo e ci siamo riuniti sotto il suo stendardo, stendardo che è solo un simbolo della nostra Fede. Se vuoi farmi un favore, ordina ai tuoi carnefici di finirmi e permettimi di riunirmi alla schiera dei miei compagni immortali. Poiché il mondo e tutte le sue lusinghe hanno cessato di allettarmi. Desidero lasciare questa vita per ritornare al mio Dio ». Il Principe, che era restio a togliere la vita a un siyyid, si rifiutò di ordinare la sua esecuzione capitale. Ma i suoi due compagni furono messi a morte immediatamente. Egli fu consegnato, con suo fratello Siyyid Abú-Tálib, nelle mani di Mullá Zaynu’l-‘Ábidín, che ebbe ordine di condurli a Sang-Sar.

Frattanto Mirza Muhammad-Taqí parti da Sárí, accompagnato da sette ‘ulamá’ di quella città, per prendere parte all’esecuzione capitale dei compagni di Quddús, che reputava essere un’azione meritoria. Quando videro che essi erano già stati messi a morte, Mirza Muhammad-Taqí esortò il Principe a riconsiderare la sua decisione e a ordinare l’immediata esecuzione di Siyyid Ahmad, dicendo che l’arrivo di questi a Sárí avrebbe scatenato nuovi disordini tanto gravi quanto quelli da cui erano già stati funestati. Alla fine il Principe cedette, con l’espressa condizione che lo considerasse suo ospite finché non fosse giunto a Sárí; da quel momento avrebbe potuto prendere tutte le misure necessarie per impedirgli di disturbare la pace del territorio.

Appena ebbe preso la strada per Sárí, Mirza Muhammad-Taqí incominciò a insultare Siyyid Ahmad e suo padre. « Perché maltratti un ospite », disse il prigioniero, « che il Principe ha affidato alle tue cure? Perché ignori l’ingiunzione del Profeta “Onora il tuo ospite anche se è un infedele”? » Trascinato dall’ira, Mirza Muhammad-Taqí, insieme con i suoi sette compagni, sfoderò la spada e li fece a pezzi. Con il suo ultimo respiro Siyyid Ahmad invocò l’aiuto del Sáhibu’z-Zamán. In quanto a suo Siyyid Abú-Tálib, fu condotto incolume a Sang-Sar da Mullá Zaynu’l-‘Ábidín e fino ad oggi abita nel Mázindarán con il fratello, Siyyid Muhammad-Ridá. Servono entrambi la Causa e sono annoverati tra i suoi attivi sostenitori.

Appena ebbe finito il suo lavoro, il Principe ritornò a Bárfurúsh accompagnato da Quddús. Arrivarono nel pomeriggio, venerdì, diciotto di Jámádíyu’th-Thání 42. Il Sa‘ídu’l-‘Ulamá’, insieme con tutti gli ‘ulamá della città, andò incontro al Principe per dargli il benvenuto e congratularsi con lui per il suo ritorno trionfale. Tutta la città era pavesata per celebrare la vittoria e i fuochi d’artificio che si accesero la notte furono una testimonianza della gioia con cui la popolazione riconoscente salutava il ritorno del Principe. Trascorsero tre giorni di festeggiamenti, durante i quali egli non dette alcuna indicazione sulla sorte che intendeva far subire a Quddús. Era indeciso sul da farsi ed era estremamente restio a maltrattare il prigioniero. Dapprima si rifiutò di permettere che la popolazione soddisfacesse i suoi sentimenti di odio implacabile e riuscì ad arginarne la furia. All’inizio aveva l’intenzione di condurlo a Tihrán e di liberarsi della responsabilità che gravava su di lui, consegnandolo nelle mani del Sovrano. Ma l’ostilità implacabile del Sa‘ídu’l-‘Ulamá’, impedì la realizzazione di questo piano. L’odio che Quddús e la sua Causa gli avevano ispirato si trasformò nel fuoco di una rabbia furiosa quando da prove sempre più chiare capì che il Principe era incline a lasciarsi sfuggire dalle mani un avversario così temibile. Giorno e notte si lamentò con lui e, con ogni astuzia che il suo fertile cervello riuscì a escogitare, cercò di dissuaderlo dal seguire una linea di condotta che egli reputava disastrosa e vile ad un tempo. Nel furore della sua disperazione, si appellò alla marmaglia e, infiammandone le passioni, cercò di risvegliare nel suo cuore i più bassi sentimenti di vendetta. Tutta Bárfurúsh era stata aizzata dall’insistenza dei suoi appelli: con la sua diabolica astuzia si conquistò presto la simpatia e l’appoggio delle masse. « Ho fatto voto », proclamò con arroganza, « di non concedermi né cibo né sonno fino al momento in cui non sarò riuscito a por fine alla vita di Hájí Muhammad-‘Alí con le mie stesse mani! » Le minacce della moltitudine agitata rafforzarono il suo appello e riuscirono a suscitare le apprensioni del Principe. Temendo di rischiare la vita anche lui, convocò in sua presenza i principali ‘ulamá’ di Bárfurúsh, per consultarsi con loro sulle misure da prendere per placare il tumulto dell’eccitazione popolare. Tutti gli invitati vennero, eccetto Mullá Muhammad-i-Hamzih, che chiese di essere esonerato dal partecipare alla riunione. Questi, in precedenza, in molte occasioni, durante l’assedio del forte, aveva cercato di persuadere la popolazione ad astenersi dalla violenza. A lui Quddús, pochi giorni prima di abbandonare il forte, aveva affidato, per mezzo di uno dei suoi fidi compagni del Mázindarán, uno zaino chiuso contenente il testo della sua interpretazione del Sád di Samad e tutti gli altri suoi scritti e documenti che erano in suo possesso, la cui sorte è rimasta finora sconosciuta.

Appena gli ‘ulamá’ si furono riuniti, il Principe dette ordine che Quddús fosse condotto in loro presenza. Sin dal giorno in cui aveva abbandonato il forte, Quddús, che era stato affidato alla sorveglianza del Farrásh-Báshí, non era stato convocato in sua presenza. Appena giunse, il Principe si alzò e lo invitò a sedersi accanto a lui, poi, rivoltosi al Sa‘ídu’l-‘Ulamá’, lo esortò a discutere con lui spassionatamente e coscienziosamente. « Le vostre discussioni », asserì, « devono vertere e basarsi sui versetti del Corano e sulle tradizioni di Muhammad, i soli mezzi con cui potete dimostrare la verità o la falsità di ciò che sostenete ». « Per quale motivo », il Sa‘ídu’l-‘Ulamá’ chiese con impertinenza, « mettendoti in testa un turbante verde, ti sei arrogato un diritto che solo chi è un vero discendente del Profeta può rivendicare? Non sai che chi sfida questa sacra tradizione è male detto da Dio? » « Siyyid Murtadá », rispose tranquillo Quddús, « che tutti gli ‘ulamá’ riconosciuti lodano e stimano, era forse discendente del Profeta tanto da parte di padre quanto di madre? » Uno dei presenti alla riunione dichiarò subito che solo la madre era siyyid. « Perché allora sollevate obiezioni contro di me? » ribatté Quddús. « Tutti gli abitanti della città hanno sempre riconosciuto che mia madre è una discendente diretta dell’Imám Hasan. E, a causa di questa discendenza, non era forse ella onorata, anzi venerata da tutti voi? »

Nessuno osò contraddirlo. Il Sa‘ídu’l-‘Ulamá’ esplose in un accesso d’indignazione e di disperazione. Gettò rabbiosamente il turbante per terra e si alzò per abbandonare la riunione. « Quest’uomo », tuonò, prima di allontanarsi, « è riuscito a provarvi che è discendente dell’Imám Hasan. Tra poco, dimostrerà la sua pretesa di essere portavoce di Dio e rivelatore della Sua volontà! » Il Principe fu spinto a fare questa dichiarazione: « Mi lavo le mani da ogni responsabilità per qualsiasi male potrà accadere a quest’uomo. Siete liberi di fare di lui quello che volete. Ne sarete responsabili voi davanti a Dio il Giorno del Giudizio ». Subito dopo aver detto queste parole, chiese il cavallo e, accompagnato dai suoi servitori, parti per Sárí. Intimidito dalle imprecazioni degli ‘ulamá’ e dimentico del suo giuramento, consegnò vilmente Quddús nelle mani di un nemico implacabile, di quei lupi famelici che non vedevano l’ora di balzare addosso alla preda, con incontrollata violenza, e di sfogare su di lui le più feroci passioni di vendetta e di odio.

Appena il Principe li ebbe liberati dalle restrizioni che aveva imposto, gli ‘ulamá’ e la popolazione di Bárfurúsh, agendo secondo gli ordini del Sa‘ídu’l-‘Ulamá’43, si levarono a perpetrare sul corpo della loro vittima atti di una crudeltà cos efferata che nessuna penna può descrivere. Secondo la testimonianza di Bahá’u’lláh, quell’eroico giovane, che era ancora alle soglie della vita, fu sottoposto a tali torture e incontrò una tale morte che neppure Gesù aveva affrontato nulla di simile nell’ora del dolore più atroce. La mancanza d’ogni freno da parte delle autorità governative, l’ingegnosa barbarie di cui gli aguzzini di Bárfurúsh dettero così abile prova, il feroce fanatismo che ardeva nel petto dei suoi abitanti sciiti, il sostegno morale accordato loro dai dignitari ecclesiastici e governativi della capitale, e, soprattutto, gli atti di eroismo che la vittima e i suoi compagni avevano compiuto e che erano serviti ad accrescere la loro esasperazione, tutto ciò contribuì ad armare la mano degli aggressori e ad accrescere la ferocia diabolica che caratterizzò il suo martirio.

Tali furono quegli avvenimenti che il Báb, il quale era allora ancora confinato nel castello di Chihríq, non riuscì né a scrivere né a dettare per un periodo di sei mesi. Il profondo dolore che sentiva aveva fatto tacere la voce della rivelazione e fatto fermare la Sua penna. Quanto pianse la Sua perdita! Quanti gridi d’angoscia devono esserGli usciti dalle labbra, allorché giunse alle Sue orecchie e fu rivelato davanti ai Suoi occhi il racconto dell’assedio, delle inenarrabili sofferenze, del vergognoso tradimento e dello sterminio dei compagni di Shaykh Tabarsí! Quali spasimi di dolore deve aver provato quando seppe del vergognoso trattamento che il suo amato Quddús aveva subito per mano della gente di Bárfurúsh; di come fu spogliato delle vesti; di come imbrattarono il turbante che gli aveva donato; di come lo fecero marciare per le strade a piedi nudi, a capo scoperto, carico di catene, seguito e deriso da tutta la popolazione; di come la marmaglia lo maledisse e gli sputò addosso; di come fu assalito con coltelli e asce dalla feccia delle donne; di come il suo corpo fu trafitto e mutilato e alla fine dato alle fiamme!

In mezzo a questi tormenti Quddús fu udito sussurrare parole di perdono per i suoi nemici. « Perdona, o mio Dio », esclamò, « i peccati di questa gente. Trattala con misericordia, poiché non conosce ciò che noi abbiamo già scoperto e che amiamo. Ho cercato di mostrarle la strada che conduce alla salvazione; guarda come è insorta per sopraffarmi e uccidermi! Mostrale, o Dio, la via della Verità e trasforma in fede la sua ignoranza ». Mentre agonizzava, videro passargli accanto il Siyyid-i-Qumí che aveva così slealmente abbandonato il forte. Vedendo la sua impotenza, egli lo percosse sul viso. « Affermavi », gridò con arrogante disprezzo, « che la tua voce era la voce di Dio. Se dici la verità, spezza le tue catene e liberati dalle mani dei tuoi nemici ». Quddús lo guardò in faccia con fermezza, sospirò profondamente, e disse: « Possa Iddio ricompensarti per la tua azione, poiché hai contribuito ad aumentare la misura delle mie afflizioni Avvicinandosi al Sabzih-Maydán, alzò la voce e disse: « Oh! fosse con me mia madre, e potesse vedere coi suoi occhi lo splendore delle mie nozze! ». Aveva appena detto queste parole, che la moltitudine infuriata gli si avventò contro e, facendo a pezzi il suo corpo, gettò le membra sparse nel fuoco appositamente acceso. Nel cuore della notte, ciò che ancora rimaneva dei resti di quel corpo bruciato e mutilato fu raccolto dalle mani di un amico devoto 44 e interrato in un luogo non molto distante dal teatro del suo martirio 45.

È opportuno a questo punto registrare il nome dei martiri che parteciparono alla difesa del forte di Shaykh Tabarsí, con la speranza che le future generazioni ricordino con orgoglio e gratitudine i nomi e le azioni di quei pionieri i quali, con la loro vita e la loro morte, hanno tanto arricchito gli annali dell’immortale Fede di Dio. Questi nomi, che sono riuscito a raccogliere da varie fonti, e di questo sono particolarmente riconoscente a Ismu’lláhu’l-Mím, Ismu’lláhu’l-Javád e Ismu’lláhu’l-Asad, ora procedo a enumerarli, sperando che come le loro anime sono state avvolte dalla luce di una gloria imperitura nell’aldilà, così i loro nomi possano rimanere per sempre sulla bocca degli uomini; che la loro menzione possa continuare a evocare un uguale spirito di entusiasmo e di devozione nel cuore di coloro ai quali è stato lasciato questo inestimabile retaggio. Dai miei informatori non solo ho potuto raccogliere i nomi della maggior parte di coloro che sono caduti nel corso di quel memorabile assedio, ma sono anche riuscito a ottenere una lista rappresentativa, anche se incompleta, di tutti i martiri che hanno dato la vita sul sentiero della Causa di Dio, dall’anno ’60 46 fino ad oggi, l’ultima parte del mese di Rabí‘u’l-Avval dell’anno 1306 A.H. 47 Ho intenzione di menzionare tutti questi nomi, ciascuno in relazione con l’evento particolare al quale esso è in modo speciale connesso. In quanto a coloro che vuotarono la coppa del martirio mentre difendevano il forte di Tabarsí, i loro nomi sono i seguenti:

1. Il primo e il più importante tra loro è Quddús al quale il Báb impose il nome di Ismu’lláhu’l-Ákhar 48. Egli, l’ultima Lettera del Vivente, il compagno che il Báb Si scelse per il Suo pellegrinaggio alla Mecca e a Medina, fu, insieme a Mullá Sádiq e a Mullá ‘Alí-Akbar-i-Ardistání, il primo a essere perseguitato in territorio persiano per amore della Causa di Dio. Aveva solo diciott’anni quando lasciò Bárfurúsh, sua città natale, per andare a Karbilá. Per circa quattro anni sedette ai piedi di Siyyid Kázim e a ventidue anni di età incontrò e riconobbe il suo Amato a Shíráz. Cinque anni più tardi, il ventitreesimo giorno di Jámádíyu’th-Thání dell’anno 1265 A.H. 49, nel Sabzih-Maydán di Bárfurúsh, doveva cadere vittima della più raffinata e sfrenata barbarie per mano del nemico. Il Báb e, più tardi, Bahá’u’lláh hanno pianto in innumerevoli Tavole e preghiere la sua perdita e hanno profuso su di lui i Loro elogi. Tale fu l’onore accordatogli da Bahá’u’lláh, che nel Suo commento del versetto di Kullu’t-Ta‘ám 50, che rivelò mentre era a Baghdád, Egli gli conferì il rango incomparabile di Nuqtiy-i-Ukhrá 51, rango inferiore solo a quello del Báb 52.

2. Mullá Husayn, soprannominato Bábu’l- Báb, il primo che riconobbe e abbracciò la nuova Rivelazione. Anch’egli all’età di diciotto anni partì dalla sua città natale, Bushrúyih nel Khurásán, per Karbilá, e per un periodo di nove anni mantenne stretti legami con Siyyid Kázim. Quattro anni prima della Dichiarazione del Báb, agendo secondo le istruzioni di Siyyid Kázim, incontrò a Isfáhán il dotto mujtahid Siyyid Báqir-i-Rashtí e a Mashhad Mirza ‘Askarí, ai quali egli trasmise con dignità ed eloquenza i messaggi affidatigli dal suo capo. I particolari del suo martirio evocarono l’inesprimibile dolore del Báb, un dolore che trovò sfogo in elogi e preghiere così numerosi da equi- valere a tre volte il volume del Corano. In una delle Sue Tavole di Visitazione, il Báb asserisce che la polvere stessa del suolo dove giacciono sepolti i resti di Mullá Husayn è dotata di una tale potenza da portare gioia allo sconsolato e salute all’infermo. Nel Kitáb-i-Íqán, Bahá’u’lláh esalta con forza ancora maggiore le virtù di Mullá Husayn. « Se non fosse stato per lui », Egli scrive, « Iddio non sarebbe stato posto sul seggio della Sua Misericordia, né sarebbe asceso al trono della gloria eterna! ». 53

3. Mirza Muhammad-Hasan, fratello di Mullá Husayn.

4. Mirza Muhammad-Báqir, nipote di Mullá Husayn, come Mirza Muhammad-Hasan, accompagnò Mullá Husayn da Bushrúyih a Karbilá e quindi a Shíráz dove abbracciarono il Messaggio del Báb e furono arruolati tra le Lettere del Vivente. Ad eccezione del viaggio di Mullá Husayn al castello di Máh-Kú, rimasero con lui fino al momento in cui subirono il martirio nel forte di Tabarsí.

5. Il cognato di Mullá Husayn, padre di Mirza Abu’l-Hasan e Mirza Muhammad-Husayn, che sono ora entrambi a Bushrúyih, e nelle cui mani è affidata in custodia la Varaqatu’l-Firdaws, sorella di Mullá Husayn. Entrambi sono fermi e devoti seguaci della Fede.

6. Il figlio di Mullá Ahmad, fratello maggiore di Mullá Mirza Muhammad-i-Furúghí Egli, a differenza dello zio, Mullá Mirza Muhammad, subì il martirio e fu, come attesta quest’ultimo, giovane molto devoto e illustre per il suo sapere e per l’integrità del carattere.

7. Mirza Muhammad-Báqir, noto come Harátí, benché in origine abitasse a Qáyin. Era stretto parente di Nabíl-i-Akbar e fu il primo ad abbracciare la Causa a Mashhad. Costruì la Bábíyyih e servì devotamente Quddús durante il suo soggiorno nella città. Quando Mullá Husayn issò lo Stendardo Nero, egli si arruolò sollecitamente, insieme col suo figlioletto, sotto la sua bandiera e andò con lui nel Mázindarán. Il bimbo alla fine si salvò ed è ora cresciuto divenendo un fervente e attivo sostenitore della Fede a Mashhad. Mirza Muhammad-Báqir fu l’alfiere della compagnia, disegnò il progetto del forte, delle sue mura e torri e del fossato che lo circondava, successe a Mullá Husayn nell’organizzare le forze dei compagni e nel guidare la carica contro il nemico e fu intimo compagno, luogotenente e fido consigliere di Quddús fino al momento in cui cadde martire sul sentiero della Causa.

8. Mirza Muhammad-Taqíy-i-Juvayníy, nato a Sabzihvár, celebre per il suo talento letterario, al quale spesso Mullá Husayn affidò il compito di guidare la carica contro gli aggressori. La sua testa e quella del suo compagno, Mirza Muhammad-Báqir, furono infilzate su una lancia e portate in mostra per le strade di Bárfurúsh, in mezzo ai gridi e alle urla della popolazione eccitata.

9. Qambar-‘Alí, intrepido e fedele servo di Mullá Husayn, che accompagnò quest’ultimo nel suo viaggio a Máh-Kú e che subì il martirio la stessa notte in cui il suo padrone cadde vittima dei colpi del nemico.

10. Hasan e

11. Qulí, i quali, insieme con un uomo chiamato Iskandar, nato a Zanján, portarono al forte il corpo di Mullá Husayn la notte del suo martirio e lo deposero ai piedi di Quddús. Hasan è colui che, per ordine del capo della polizia di Mashhad, fu trascinato con una cavezza per le strade della città.

12. Muhammad-Hasan, fratello di Mullá Sádiq, che i compagni di Khusraw assassinarono lungo la strada tra Bárfurúsh e il forte di Tabarsí. Egli si distinse per la sua tenacia incrollabile; era stato uno dei servitori al mausoleo dell’Imám Ridá.

13. Siyyid Ridá, il quale, con Mullá Yúsuf-i-Ardibílí, ebbe da Quddús l’incarico di incontrare il Principe e riportò con sé la copia sigillata del Corano contenente il giuramento che il Principe aveva scritto. Era uno dei più noti siyyid del Khurásán ed era conosciuto tanto per il suo sapere quanto per l’integrità del suo carattere.

14. Mullá Mardán-‘Alí, uno dei noti compagni del Khurásán che abitava nel villaggio di Míyámay, sede di un forte ben guarnito, situato tra Sabzihvár e Sháh-Rúd. Si arruolò sotto le insegne di Mullá Husayn, insieme con trentatré compagni, il giorno in cui questi passò dal suo villaggio. Nel masjid di Míyámay, dove si era recato per offrire la preghiera collettiva del venerdì, Mullá Husayn lanciò il suo toccante appello in cui pose l’accento sull’adempimento della tradizione relativa allo Stendardo Nero che doveva essere issato nel Khurásán e di cui dichiarò di essere egli stesso il portatore. Il suo eloquente sermone impressionò profondamente gli ascoltatori, tanto che nella stessa giornata la maggior parte di coloro che lo sentirono, e che erano per lo più uomini di grandi meriti, si alzarono e lo seguirono. Di quei trentatré compagni, solo uno sopravvisse, un certo Mullá ‘Ísá, i cui figli sono in questo momento nel villaggio di Míyámay, attivamente occupati nel servizio della Causa. I nomi dei compagni di quel villaggio che furono martirizzati sono i seguenti:

15. Mullá Muhammad-Mihdí,
16. Mullá Muhammad-Ja‘far,
17. Mullá Muhammad-ibn-i-Mullá Muhammad,
18. Mullá Rahím,
19. Mullá Muhammad-Ridá,
20. Mullá Muhammad-Husayn,
21. Mullá Muhammad,
22. Mullá Yúsuf,
23. Mullá Ya‘qúb,
24. Mullá ‘Alí,
25. Mullá Zaynu’l-‘Ábidín,

26. Mullá Muhammad, figlio di Mullá Zaynu’l-‘Ábidín,

27. Mullá Báqir,
28. Mullá ‘Abdu’l-Muhammad,
29. Mullá Abu’l-Hasan,
30. Mullá Ismá’íl,
31. Mullá ‘Abdu’l-‘Alí,
32. Mullá Áqá- Bábá,
33. Mullá ‘Abdu’l-Javád,
34. Mullá Muhammad-Husayn,
35. Mullá Muhammad-Báqir,
36. Mullá Muhammad,
37. Hájí Hasan,
38. Karbilá’í ‘Alí,
39. Mullá Karbilá’í ‘Alí,
40. Karbilá’í Núr-Muhammad,
41. Muhammad-Ibráhim,
42. Muhammad-Sá’im,
43. Muhammad Hádí,
44. Siyyid Mihdí,
45. Abú-Muhammad.

Dei compagni del villaggio di Sang-Sar, che fa parte del distretto di Simnán, ne furono martirizzati diciotto. I loro nomi sono i seguenti:

46. Siyyid Ahmad, il cui corpo fu fatto a pezzi da Mirza Muhammad-Taqí e dai sette ‘ulamá’ di Sárí. Era un noto teologo ed era molto stimato per la sua eloquenza e devozione.

47. Mír Abu’l-Qásim, fratello di Siyyid Ahmad, che conquistò la corona del martirio la stessa notte in cui trovò la morte Mullá Husayn.

48. Mír Mihdí, zio paterno di Siyyid Ahmad.
49. Mír Ibráhím, cognato di Siyyid Ahmad.

50. Safar-‘Alí, figlio di Karbilá’í ‘Alí, che, insieme con Karbilá’í Muhammad, aveva così strenuamente lottato per ridestare il popolo di Sang-Sar dal sonno della negligenza. Entrambi non poterono recarsi al forte di Tabarsí, a causa della loro infermità.

51. Muhammad-‘Alí, figlio di Karbilá’í Abú-Muhammad,

52. Abu’l-Qásim, fratello di Muhammad-‘Alí.
53. Karbilá’í Ibráhím,
54. ‘Alí-Ahmad,
53. Mullá ‘Alí-Akbar,
56. Mullá Husayn-‘Alí,
57. ‘Abbás-‘Alí,
58. Husayn-‘Alí,
59. Mullá ‘Alí-Asghar,
60. Karbilá’í Ismá’íl,
61. ‘Alí Khán,
62. Muhammad-Ibráhim,
63. ‘Abdu’l-‘Azím.

Del villaggio di Sháh-Mirzad, due caddero nel difendere il forte:

64. Mullá Abú-Rahím e
65. Karbilá’í Kázim.

In quanto ai seguaci della Fede nel Mázindarán, finora sono stati registrati ventisette martiri;

66. Mullá Ridáy-i-Sháh,
67. ‘Azím,
68. Karbilá’í Muhammad-Ja‘far,
69. Siyyid Husayn,
70. Muhammad-Báqir,
71. Siyyid Razzáq,
72. Ustád Ibráhím,
73. Mullá Sa‘íd-i-Zirih-Kinárí,
74. Ridáy-i-‘Arab,
75. Rasúl-i-Bahnimírí,

76. Muhammad-Husayn, fratello di Rasúl-i-Bahnimírí,

77. Táhir,
78. Shafí‘,
79. Qásim,
80. Mullá Muhammad-Ján,
81. Masíh, fratello di Mullá Muhammad-Ján,
82. Itá- Bábá,
83. Yúsuf,
84. Fadlu’lláh,
85. Bábá,
86. Safí-Qulí,
87. Nizám,
88. Rúhu’lláh,
89. ‘Alí-Qulí,
90. Sultán,
91. Ja‘far,
92. Khalíl,

Dei credenti di Savád-Kúh, finora sono stati accertati i cinque nomi seguenti:

93. Karbilá’í Qambar-Kálish,
94. Mullá Nád-‘Alíy-i-Mutavallí,
95. ‘Abdu’l-Haqq,
96. Ítábakí-Chúpán,
97. Il figlio di Ítábakí-Chúpán.

Della città di Ardistán, hanno subito il martirio i seguenti:

98. Mirza ‘Alí-Muhammad, figlio di Mirza Muhammad-Sa‘íd.

99. Mirza ‘Abdu’-Vási‘, figlio di Hájí ‘Abdu’l-Vahháb,

100. Muhammad-Husayn, figlio di Hájí Muhammad-Sádiq,

101. Muhammad-Mihdí, figlio di Hájí Muhammad-Ibráhím,

102. Mirza Ahmad, figlio di Muhsin,
103. Mirza Muhammad, figlio di Mír Muhammad-Taqí.

Della città di Isfáhán, ne sono stati finora registrati trenta:

104. Mullá Ja‘far, il setacciatore di grano, il cui nome è stato menzionato dal Báb nel Bayán Persiano,

105. Ustád Áqá, soprannominato Buzurg-Banná,
106. Ustád Hasan, figlio di Ustád Áqá,
107. Ustád Muhammad, figlio di Ustád Áqá,

108. Muhammad-Husayn, figlio di Ustád Áqá, il cui fratello minore Ustád Ja‘far fu venduto molte volte dai nemici finché giunse nella sua città natale, dove ora abita.

109. Ustád Qurbán-Alíy-i-Banná,

110. ‘Alí-Akbar, figlio di Ustád Qurbán-Alíy-i-Banná,

111. ‘Abdu’lláh, figlio di Ustád Qurbán-Alíy-i-Banná,

112. Muhammad-Báqir-Naqsh, zio materno di Siyyid Yahyá, figlio di Mirza Muhammad-‘Alíy-i-Nahrí. Aveva quattordici anni e fu martirizzato la stessa notte in cui trovò la morte Mullá Husayn.

113. Mullá Muhammad-Taqí,

114. Mullá Muhammad-Ridá, ambedue fratelli del defunto ‘Abdu’s-Sálih, giardiniere del Ridvan ad ‘Akká.

115. Mullá Ahmad-i-Saffár,
116. Mullá Husayn-i-Miskar,
117. Ahmad-i-Payvandí,
118. Hasan-i-Sha‘r-Báf-i-Yazdí,
119. Muhammad-Taqí,

120. Muhammad-‘Attár, fratello di Hasan-i-Sha‘r-Báf,

121. Mullá ‘Abdu’l-Kháliq, che si tagliò la gola a Badasht e che Táhirih soprannominò Dhabíh,

122. Husayn,
123. Abu’l-Qásim, fratello di Husayn,
124. Mirza Muhammad-Ridá,

125. Mullá Haydar, fratello di Mirza Muhammad-Ridá,

126. Mirza Mihdí,
127. Muhammad-Ibráhim,

128. Muhammad-Husayn, soprannominato Dastmál-Girih-Zan,

129. Muhammad-Husayn-i-Chít-Sáz, noto fabbricante di stoffe che giunse alla presenza del Báb,

130. Muhammad-Husayn-i-‘Attár,
131. Ustád Hájí Muhammad-i-Banná,

132. Mahmúd-i-Muqári’í, noto mercante di stoffe. Si era appena sposato ed era giunto in presenza del Báb nel castello di Chihríq. Il Báb lo esortò ad andare nella Jazíriy-i-Khadrá per offrire il suo aiuto a Quddús. Mentre era a Tihrán, ricevette una lettera dal fratello che gli annunciava la nascita di un figlio e che lo supplicava di correre subito a Isfáhán per vederlo e di andare poi ovunque volesse. « Sono troppo infiammato », rispose, « dall’amore verso questa Causa per poter dedicare qualsiasi attenzione a mio figlio. Sono impaziente di raggiungere Quddús e di arruolarmi sotto le sue insegne ».

133. Siyyid Muhammad-Ridáy-i-Pá-Qal‘iyí, illustre siyyid e celebrato teologo, il cui dichiarato proposito di arruolarsi sotto le insegne di Mullá Husayn causò un grande tumulto tra gli ‘ulamá’ di Isfáhán.

Tra i credenti di Shíráz, conseguirono la palma del martirio:

134. Mirza ‘Abdu’lláh, noto anche con il nome di Mirza Sálih,

135. Mirza Zaynu’l-‘Ábidín,
136. Mirza Muhammad.

Dei seguaci della Fede a Yazd, fino ad ora ne sono stati registrati solo quattro:

137. Il siyyid che percorse a piedi tutta la strada dal Khurásán a Bárfurúsh, dove cadde vittima sotto i colpi del nemico.

138. Siyyid Ahmad, padre di Siyyid Husayn-i-‘Azíz, l’amanuense del Báb.

139. Mirza Muhammad-‘Alí, figlio di Siyyid Ahmad la cui testa fu staccata da una palla di cannone mentre stava all’ingresso del forte e che, per la sua tenera età, era molto amato e ammirato da Quddús.

140. Shaykh ‘Ali, figlio di Shaykh ‘Abdu’l-Kháliq-i-Yazdí, abitante di Mashhad, giovane il cui entusiasmo e la cui infaticabile energia furono molto lodate da Mullá Husayn e da Quddús.

Dei credenti di Qazvín, furono martirizzati i seguenti:

141. Mirza Muhammad-‘Alí, noto teologo, il cui padre, Hájí Mullá ‘Abdu’l-Vahháb, era uno dei più insigni mujtahid di Qazvín. Giunse in presenza del Báb a Shíráz e fu arruolato tra le Lettere del Vivente.

142. Muhammad Hádí, noto mercante, figlio di Hájí ‘Abdu’l-Karím, soprannominato Baghbán-Báshí,

143. Siyyid Ahmad,
144. Mirza Abu’l-Jalíl, noto teologo,
145. Mirza Mihdí.

146. Dal villaggio di Lahárd, un uomo Hájí Muhammad-‘Alí, che aveva molto sofferto in seguito all’assassinio di Mullá Taqí a Qazvín.

Tra i credenti di Khuy, hanno subito il martirio i seguenti:

147. Mullá Mihdí, insigne teologo, che era stato uno degli stimati discepoli di Siyyid Kázim. Era noto per il suo sapere, la sua eloquenza e la lealtà della sua fede.

148. Mullá Mahmúd-i-Khú’í, fratello di Mullá Mihdí, Lettera del Vivente e teologo insigne.

149. Mullá Yúsuf-i-Ardibílí, una delle Lettere del Vivente, noto per il sapere, l’entusiasmo e l’eloquenza. Quando era giunto a Kirmán, aveva suscitato le apprensioni di Hájí Karím Khán e infuso il terrore nel cuore dei suoi avversari. « Quest’uomo », sentirono Hájí Karím Khán dire alla sua congregazione, « dev’essere necessariamente espulso dalla città, perché, se gli sarà permesso di rimanere, sicuramente provocherà a Kirmán lo stesso tumulto che ha provocato a Shíráz. Il danno che arrecherà sarà irreparabile. La magia della sua eloquenza e la forza della sua personalità, se non sorpassano quelle di Mullá Husayn, non sono certamente inferiori ad esse ». Con questi mezzi egli riuscì a costringerlo ad abbreviare la sua permanenza a Kirmán e ad impedirgli di arringare la gente dal pulpito. Il Báb gli dette le seguenti istruzioni: « Devi visitare le città e cittadine della Persia e invitare i loro abitanti alla Causa di Dio. Il primo giorno di Muharram dell’anno 1265 AH. 54, devi trovarti nel Mázindarán e dare tutto l’aiuto che puoi a Quddús ». Mullá Yúsuf, fedele alle istruzioni del suo Maestro, si rifiutò di prolungare per più di una settimana la sua permanenza nelle città e cittadine che visitò. Giunto nel Mázindarán, fu fatto prigioniero dalle forze del principe Mihdí-Qulí Mirza, il quale lo riconobbe immediatamente e dette ordine che fosse imprigionato. Come abbiamo già detto, fu alla fine liberato dai compagni di Mullá Husayn il giorno della battaglia di Vás-Kas.

150. Mullá Jalíl-i-Urúmí, una delle Lettere del Vivente, noto per il suo sapere, la sua eloquenza e la tenacia della sua fede.

151. Mullá Ahmad, abitante di Marághih, una delle Lettere del Vivente e insigne discepolo di Siyyid Kázim.

152. Mullá Mihdíy-i-Kandí, intimo amico di Bahá’u’lláh e tutore dei bambini della Sua famiglia.

153. Mullá Báqir, fratello di Mullá Mihdí, entrambi uomini di notevole sapienza, la cui grande cultura Bahá’u’lláh attesta nel « Kitáb-i-Íqán ».

154. Siyyid Kázim, abitante e noto mercante di Zanján. Giunse in presenza del Báb a Shíráz e Lo accompagnò a Isfáhán. Suo fratello, Siyyid Murtadá, fu uno dei Sette Martiri di Tihrán.

155. Iskandar, anch’egli abitante di Zanján, il quale, insieme con Hasan e Qulí, portò il corpo di Mullá Husayn al forte.

156. Ismá’íl,
157. Karbilá’í ‘Abdu’l-‘Alí,
158. ‘Abdu’l-Muhammad,
159. Hájí ‘Abbás,
160. Siyyid Ahmad tutti residenti a Zanján.

161. Siyyid Husayn-i-Kuláh-Dúz, abitante di Bárfurúsh, la cui testa fu infilzata su una lancia e portata in mostra per le strade.

162. Mullá Hasan-i-Rashtí,
163. Mullá Hasan-i-Bayájmandí,
164. Mullá Ni‘matu’lláh-i-Bárfurúshí,
165. Mullá Muhammad-Taqíy-i-Qarákhílí,
166. Ustád Zaynu’l-‘Ábidín,

167. Ustád Qásim, figlio di Ustád Zaynu’l-‘Ábidín,

168. Ustád ‘Alí-Akbar, fratello di Ustád Zaynu’l-‘Ábidín.

Gli ultimi tre erano muratori di professione, erano nati a Kirmán e abitavano a Qáyin nella provincia del Khurásán.

169 e 170. Mullá Ridáy-i-Sháh e un giovane di Bahnimír, furono assassinati due giorni dopo che Quddús ebbe abbandonato il forte, nel Panj-Shanbih-Bázár di Bárfurúsh. Hájí Mullá Muhammad-i-Hamzih, soprannominato lo Sharí‘at-Madár, riuscì a seppellire i loro corpi nelle vicinanze del Masjid-i-Kázim-Big e a convincere i loro assassini a pentirsi e a chiedere perdono.

171. Mullá Muhammad-i-Mu‘allim-i-Núrí, intimo amico di Bahá’u’lláh, col Quale mantenne stretti legami a Núr, a Tihrán e nel Mázindarán. Era famoso per la sua intelligenza e il suo sapere e tra i difensori del forte di Shaykh Tabarsí fu quello sottoposto alle più terribili atrocità, con la sola eccezione di Quddús. Il Principe aveva promesso che l’avrebbe liberato, purché maledicesse il nome di Quddús e aveva dato la parola che, se fosse stato disposto ad abiurare, l’avrebbe riportato con sé a Tihrán e l’avrebbe fatto diventare tutore dei suoi figli. « Non acconsentirò mai », rispose, « a vilipendere l’amato di Dio per ordine di un uomo come te. Se tu mi regalassi tutto il regno di Persia, non volterei le spalle nemmeno per un momento al mio amato capo. Il mio corpo è alla tua mercé, ma non hai il potere di soggiogare la mia anima. Torturami come vuoi, così che io possa dimostrarti la verità del versetto, “Auguratevi allora la morte, se siete sinceri!” » 55. Il Principe, infuriato per questa risposta, dette ordine che il suo corpo fosse tagliato a pezzi e che non fosse risparmiato alcuno sforzo per infliggergli una punizione particolarmente umiliante.

172. Hájí Muhammad-i-Karrádí, la cui casa era situata in uno dei boschetti di palme vicino alla vecchia città di Baghdád, uomo molto coraggioso, che aveva combattuto alla testa di cento uomini nella guerra contro Ibráhím Páshá dell’Egitto. Era stato un fervente discepolo di Siyyid Kázim ed era l’autore di un lungo poema in cui parlava diffusamente delle virtù e dei meriti del Siyyid. Aveva settantacinque anni quando abbracciò la Fede del Báb, che elogiò in un poema eloquente e dettagliato. Si distinse per i suoi atti eroici durante l’assedio del forte e alla fine cadde vittima dei colpi del nemico.

173. Sa‘id-i-Jabbáví, nato a Baghdád, il quale durante l’assedio dette prova di straordinario coraggio. Fu colpito all’addome e, benché gravemente ferito, riuscì a camminare finché, giunto in presenza di Quddús, si gettò gioiosamente ai suoi piedi e spirò.

I particolari del martirio di questi ultimi due compagni furono raccontati da Siyyid Abú-Tálib-i-Sang-Sarí, uno di coloro che sopravissero al memorabile assedio, in una comunicazione indirizzata a Bahá’u’lláh. In essa egli racconta, inoltre, la sua storia e quella dei suoi fratelli Siyyid Ahmad e Mír Abu’l-Qásim, caduti entrambi martiri mentre difendevano il forte. « Il giorno in cui fu ucciso Khusraw », scrisse, « ero ospite di un certo Karbilá’í ‘Alí-Ján, kad-khudá 56 di uno dei villaggi nei pressi del forte. Costui era andato per dare una mano a Khusraw ed era ritornato raccontandomi i particolari della sua morte.

Nello stesso giorno, un messaggero mi informò che erano arrivati nel villaggio due arabi, i quali erano ansiosi di raggiungere gli occupanti del forte. Essi dissero che temevano la gente del villaggio di Qádí-Kalá e promisero di dare un lauto compenso a chi li avrebbe condotti alla loro meta. Ricordai i consigli di mio padre, Mír Muhammad-‘Alí, che mi aveva esortato a sorgere e a cooperare per la diffusione della Causa del Báb. Decisi subito di cogliere l’occasione che mi si era presentata e, insieme con questi due arabi, e con l’aiuto e l’assistenza del Kad-khudá, raggiunsi il forte, incontrai Mullá Husayn e decisi di dedicare i giorni che mi restavano da vivere al servizio della Causa che egli aveva scelto di seguire ».

I nomi di alcuni degli ufficiali che si distinsero tra gli avversari dei compagni di Quddús sono i seguenti:

1. Il principe Mihdí-Qulí Mirza, fratello del defunto Muhammad Sháh,

2. Sulaymán Khán-i-Afshár,
3. Hájí Mustafá Khán-i-Súr-Tíj,

4. ‘Abdu’lláh Khán, fratello di Hájí Mustafá Khán,

5. ‘Abbás-Qulí Khán-i-Láríjání, che colpì Mullá Husayn,

6. Núrru’lláh Khán-i-Afghán,
7. Hábíbu’lláh Khán-i-Afghán,
8. Dhu’l-Faqár Khán-i-Karávulí,
9. ‘Alí-Asghar Khán-i-Du-Dungi’í,
10. Khudá-Murád Khán-i-Kurd,
11. Khálíl Khán-i-Savád-Kúhí,
12. Ja’far-Qulí Khán-i-Surkh-Karri’í,
13. Il Sartíp del Fawj-i-Kalbát,

14. Zakaríyyáy-i-Qádí-Kalá’í, cugino di Khusraw e suo successore.

In quanto ai credenti che parteciparono al memorabile assedio e che sopravvissero alla sua tragica fine, non sono finora riuscito ad accertare in modo completo né i loro nomi né il loro numero. Mi sono accontentato di una lista rappresentativa, anche se incompleta, dei nomi dei suoi martiri, fiducioso che nei giorni a venire i valenti promotori della Fede si leveranno a colmare questa lacuna e riusciranno, operando diligenti ricerche, a correggere le imperfezioni di questa descrizione, del tutto inadeguata, di quello che rimarrà per sempre uno dei più toccanti episodi dei tempi moderni.

CAPITOLO XXI
I SETTE MARTIRI DI TIHRÁN

LA notizia del tragico destino che aveva colpito gli eroi di Tabarsí arrecò un profondo dolore al cuore del Báb. Confinato nel castello-prigione di Chihríq, separato dall’esigua schiera dei Suoi discepoli in lotta, Egli seguiva con grande ansia il progresso delle loro imprese e pregava con assiduo zelo per la loro vittoria. Quanto fu grande il Suo dolore quando, i primi giorni di Sha’bán dell’anno 1265 A.H. 1, seppe delle tribolazioni che avevano incontrato sul loro cammino, delle agonie che avevano sofferto, del tradimento a cui il nemico esasperato si era sentito costretto a ricorrere e dell’orribile strage con cui la loro carriera si era conclusa.

« Il Báb fu straziato », raccontò in seguito il Suo amanuense, Siyyid Husayn-i-‘Azíz, « quando ricevette questa notizia inaspettata. Fu schiacciato dal dolore, un dolore che ammutolì la Sua voce e fermò la Sua penna. Per nove giorni Si rifiutò di ricevere gli amici, Si rifiutò di ricevere persino me, benché fossi il Suo servitore personale. Non volle toccare il cibo e le bevande che Gli offrimmo. Dai Suoi occhi sgorgavano continuamente lacrime di dolore e dalle Sue labbra uscivano incessantemente espressioni di cordoglio. Lo sentivo, da dietro le tende, dare sfogo ai Suoi sentimenti di tristezza mentre nell’intimità della Sua cella rivolgeva lo spirito al Suo Diletto. Cercai di annotare frettolosamente le effusioni di dolore che traboccavano dal Suo cuore ferito: sospettando che cercassi di registrare i lamenti che proferiva, mi ordinò di distruggere tutto quello che avevo annotato. Nulla rimane dei gemiti e dei pianti con i quali quel cuore profondamente afflitto cercò di lenire i tormenti che l’avevano colpito. Per un periodo di cinque mesi languí, immerso in un oceano di sconforto e di dolore ».

Con l’avvento di Muharram dell’anno 1266 A.H. 2, il Báb riprese il lavoro che era stato costretto a interrompere. La prima pagina che scrisse fu dedicata alla memoria di Mullá Husayn: nella Tavola di Visitazione rivelata in suo onore, Egli esaltò con parole commoventi l’incrollabile fedeltà con cui questi aveva servito Quddús durante l’assedio del forte di Tabarsí. Scrisse copiosi elogi sulla sua magnanima condotta, raccontò le sue gesta e asserì che si era certamente riunito nell’aldilà al capo che aveva così nobilmente servito. Presto, scrisse, anch’Egli avrebbe raggiunto questi due esseri immortali, ciascuno dei quali aveva, con la propria vita e con la propria morte, dato lustro imperituro alla Fede di Dio. Per una settimana intera il Báb continuò a scrivere le Sue lodi di Quddús, di Mullá Husayn e degli altri compagni che avevano conquistato la corona del martirio a Tabarsí.

Aveva appena completato gli elogi di coloro che avevano immortalato il proprio nome nella difesa del forte, quando, il giorno di ‘Áshúrá 3, convocò Mullá Ádí-Guzal 4, uno dei credenti di Marághih, che negli ultimi due mesi L’aveva servito al posto di Siyyid Hasan, fratello di Siyyid Husayn-i-‘Azíz. Lo accolse con affetto, gli impose il nome di Sayyáh, affidò alle sue cure le Tavole di Visitazione che aveva rivelato in memoria dei martiri di Tabarsí e gli ordinò di recarsi in pellegrinaggio al forte in Suo nome. « Preparati », lo esortò, « e con completo distacco va nel Mázindarán e come un viaggiatore visita in Mia vece il luogo dove sono custodite le salme di quegli esseri immortali che hanno suggellato col sangue la loro fede nella Mia Causa. Quando t’avvicinerai ai recinti di quel sacro suolo, togliti le scarpe e, chinando la testa in segno di riverenza alla loro memoria, invoca i loro nomi e pregando fa un giro attorno al loro sepolcro. PortaMi, per ricordo della tua visita, un pugno della santa terra che ricopre i resti dei Miei amati, Quddús e Mullá Husayn. Cerca di tornare prima del giorno di Naw-Rúz per festeggiarlo con Me, perché, probabilmente sarà l’ultimo che vedrò

Fedele alle istruzioni ricevute, Sayyáh partì in pellegrinaggio per il Mázindarán. Giunse a destinazione il primo giorno di Rabí‘u’l-Avval dell’anno 1266 A.H. 5, ed entro il nono giorno dello stesso mese 6, primo anniversario del martirio di Mullá Husayn, aveva già concluso la visita e svolto la missione che gli era stata affidata; proseguì, quindi per Tihrán.

Ho sentito Áqáy-i-Kalím, che accolse Sayyáh all’ingresso della casa di Bahá’u’lláh a Tihrán, raccontare ciò che segue: « Eravamo nel cuore dell’inverno quando Sayyáh, di ritorno dal pellegrinaggio, venne a far visita a Bahá’u’lláh. Nonostante il freddo e la neve di quel rigido inverno, comparve vestito da derviscio, con abiti miseri, a piedi nudi e scarmigliato. Il suo cuore era infiammato dal fuoco che il pellegrinaggio aveva acceso. Appena fu informato del ritorno di Sayyáh dal forte di Tabarsí, Siyyid Yahyáy-i-Dárábí, detto Váhíd, che era allora ospite nella casa di Bahá’u’lláh, dimentico della pompa e delle cerimonie alle quali un uomo del suo rango era abituato, corse incontro al pellegrino e si gettò ai suoi piedi. Abbracciandogli le gambe, coperte di fango fino al ginocchio, le baciò devotamente. Fui stupito quel giorno dai numerosi segni di amorevole sollecitudine che Bahá’u’lláh mostrò verso Váhíd. Fu con lui benevolo come mai Lo avevo visto essere con altri. Il tono della Sua conversazione non mi lasciò dubbi sul fatto che questo stesso Váhíd sarebbe tra non molto divenuto illustre per gesta non meno straordinarie di quelle che avevano immortalato i difensori del forte di Tabarsí ».

Sayyáh si fermò per un po’ di giorni in quella casa. Ma, diversamente da Váhíd, non riuscì a percepire la natura della forza latente nel suo Ospite. Benché oggetto anche lui di grande benevolenza da parte di Bahá’u’lláh, non riuscì a comprendere il significato delle grazie che gli venivano elargite. L’ho sentito raccontare le sue esperienze, durante il suo soggiorno a Famagosta: « Bahá’u’lláh mi colmò di gentilezze. In quanto a Váhíd, nonostante l’eminenza del suo rango, mi dette sempre la precedenza in presenza del suo Ospite. Il giorno del mio arrivo dal Mázindarán, giunse perfino a baciarmi i piedi: ero stupito dall’accoglienza fattami in quella casa. Benché fossi immerso in un oceano di generosità, in quei giorni non riuscii a comprendere la posizione occupata allora da Bahá’u’lláh e non sospettai neppure vagamente la natura della Missione che Egli era destinato a svolgere ».

Prima che Sayyáh partisse da Tihrán, Bahá’u’lláh gli affidò un’epistola; ne aveva dettato il testo a Mirza Yahyá 7 e la spedì sotto il nome di costui. Poco dopo pervenne una risposta, scritta a mano dal Báb, in cui Questi affidava Mirza Yahyá alle cure di Bahá’u’lláh e Gli raccomandava di occuparSi della sua educazione e preparazione. Il popolo del Bayán 8 ha male interpretato questa missiva vedendo in essa una prova delle esagerate pretese 9 che essi hanno accampato a favore del loro capo. Benché il testo di quella risposta non contenga assolutamente simili affermazioni e, oltre alle lodi in onore di Bahá’u’lláh e alla richiesta che Mirza Yahyá venga educato, non comprenda alcuna allusione alla presunta posizione di costui, tuttavia i suoi seguaci si sono stoltamente immaginati che quella lettera costituisca un’asserzione dell’autorità di cui essi l’hanno investito 10.

A questo punto della mia narrazione, ora che ho già raccontato i fatti principali accaduti nel corso dell’anno 1265 A.H. 11, mi sovviene che quell’anno vide l’evento più significativo della mia vita, evento che segnò la mia rinascita spirituale, la mia liberazione dai legami col passato e la mia accettazione del messaggio di questa Rivelazione. Chiedo venia al lettore se mi soffermo troppo a lungo sui particolari della mia infanzia e racconto con troppi dettagli gli eventi che mi hanno condotto alla conversione. Mio padre apparteneva alla tribù di Táhirí, che conduceva una vita nomade nella provincia del Khurásán. Il suo nome era Ghulám-‘Alí, figlio di Husayn-i-‘Arab. Egli sposò la figlia di Kalb-‘Alí e da lei ebbe tre figli e tre figlie. Io ero il suo secondo figlio e mi fu dato il nome di Yár-Muhammad. Nacqui il diciotto di Safar dell’anno 1247 A.H. 12, nel villaggio di Zarand. Facevo il pastore e ricevetti nell’infanzia un’educazione molto rudimentale. Avrei voluto dedicare più tempo agli studi, ma non potei farlo, per le esigenze della mia situazione. Lessi il Corano con zelo, ne imparai a memoria molti passi che cantavo mentre seguivo il mio gregge su per i campi. Amavo la solitudine e la notte osservavo le stelle con delizia e meraviglia: nella quiete della campagna solitaria, recitavo alcune preghiere attribuite all’Imám ‘Alí, il Comandante dei Fedeli; e, tenendo il viso rivolto verso la Qiblih 13, supplicavo l’Onnipotente di guidare i miei passi e di farmi trovare la Verità.

Mio padre spesse volte mi condusse con sé a Qum, dove imparai a conoscere gli insegnamenti dell’Islám e gli usi e costumi de suoi capi. Egli era un devoto seguace della Fede e aveva dimestichezza con i capi ecclesiastici che si riunivano nella città; lo guardavo mentre pregava nel Masjid-i-Imám-Hasan ed eseguiva, con cura scrupolosa e grande devozione, tutti i riti e le cerimonie prescritti dalla sua Fede. Sentii i sermoni di molti eminenti mujtahid, arrivati da Najaf, presenziai alle loro conferenze e ascoltai le loro dispute: gradualmente giunsi a percepire la loro insincerità e a detestare la bassezza del loro carattere. Pur essendo ansioso di verificare l’attendibilità delle dottrine e dei dogmi che cercavano d’impormi, non riuscii né a trovare il tempo né a procurarmi i mezzi con cui soddisfare il mio desiderio. Fui spesso rimproverato da mio padre per la mia temerarietà e irrequietezza. « Temo », egli osservò molte volte, « che la tua avversione a questi mujtahid possa un giorno crearti gravi difficoltà e gettare su te biasimo e vergogna ».

Ero nel villaggio di Rubát-Karím, in visita da mio zio materno, quando, dodici giorni dopo Naw-Rúz, nell’anno 1263 A.H. 14, udii per caso, nel masjid del villaggio, una conversazione tra due uomini che mi fece conoscere la Rivelazione del Báb. « Hai sentito », osservò uno di loro « che il Siyyid-i- Báb è stato condotto nel villaggio di Kinár-Gird ed è in viaggio per Tihrán? ». Visto che l’amico ignorava l’episodio, costui si mise a raccontare tutta la storia del Báb, dando un resoconto dettagliato dei particolari della Sua Dichiarazione, del Suo arresto a Shíráz, della Sua partenza per Isfáhán, delle accoglienze che sia l’Imám-Jum‘ih sia Manúchihr Khán Gli avevano riservato, dei prodigi e delle meraviglie che aveva compiuto e del verdetto che gli ‘ulamá’ di Isfáhán avevano pronunziato contro di Lui. Ogni dettaglio di quella storia eccitò la mia curiosità e suscitò in me un’ardente ammirazione per quell’Uomo capace di esercitare un tale fascino sui Suoi concittadini. Pareva che la Sua luce avesse sommerso la mia anima; mi sentivo come se mi fossi già convertito alla Sua Causa.

Da Rubát-Karím ritornai a Zarand. Mio padre notò la mia irrequietezza ed espresse la sua sorpresa per il mio comportamento. Avevo perso l’appetito e il sonno, ma ero deciso a nascondere a mio padre il segreto della mia intima agitazione, per timore che il rivelarlo mi potesse impedire alla fine di realizzare le mie speranze. Rimasi in quello stato finché non giunse a Zarand un certo Siyyid Ismá’íl-i-Zavári’í, il quale m’illuminò sull’argomento che era divenuto la passione della mia vita. La nostra conoscenza maturò rapidamente in un’amicizia che m’incoraggiò a renderlo partecipe dei desideri del mio cuore. Con grande sorpresa, scoprii che era stato già affascinato dal segreto del tema che avevo incominciato a rivelargli. « Uno dei miei cugini », si mise a raccontarmi, « di nome Siyyid Ismá’íl-i-Zavári’í mi ha convinto della verità del Messaggio proclamato dal Siyyid-i- Báb. Egli m’ha detto di aver incontrato molte volte il Siyyid-i- Báb nella casa dell’Imám-Jum’ih di Isfáhán e di averlo visto rivelare, in presenza del Suo ospite, un commento sulla Sura di Va’l-‘Asr 15. La rapidità con cui il Báb componeva e la forza e l’originalità del Suo stile avevano suscitato la sua sorpresa e la sua ammirazione. Era rimasto meravigliato del fatto che, mentre rivelava i Suoi commenti, e senza diminuire la velocità con cui scriveva, Egli era capace di rispondere a qualsiasi domanda i presenti volessero farGli. L’intrepidità con cui mio cugino si mise a predicare il Messaggio suscitò l’ostilità dei kad-khudá 16 e dei siyyid di Zavárih, i quali lo costrinsero a ritornare a Isfáhán, dove aveva abitato negli ultimi tempi. Incapace di rimanere a Zavárih, partii anch’io per Káshán, dove trascorsi l’inverno; qui incontrai Hájí Mirza Jání, di cui mio cugino m’aveva parlato, che mi dette un trattato scritto dal Báb, intitolato ‘Risáliy-i-‘Adlíyyih’, raccomandandomi di leggerlo con cura e di restituirglielo dopo qualche giorno. Fui così affascinato dal tema e dal linguaggio del trattato, che mi misi subito a trascriverne l’intero testo. Quando lo restituii al proprietario, egli, con mio profondo rammarico, m’informò che avevo appena perso l’occasione d’incontrare il Suo Autore. “La vigilia del giorno di Naw-Rúz”, disse, “è arrivato il Siyyid-i- Báb in Persona e ha trascorso tre notti ospite a casa mia. Ora è in viaggio verso Tihrán e, se parti subito, Lo raggiungerai senz’altro. Mi alzai immediatamente e partii, percorrendo a piedi tutta la strada da Káshán fino a una fortezza nelle vicinanze di Kinár-Gird. Stavo riposandomi all’ombra delle sue mura, quando usci dalla fortezza un uomo di bell’aspetto, il quale mi chiese chi fossi e dove stessi andando. “Sono un povero siyyid”, risposi, “pellegrino e straniero in questo luogo”. Mi condusse a casa sua e m’invitò a trascorrere la notte come suo ospite. Mentre conversava con me, disse: “Ho il sospetto che tu sia un discepolo del Siyyid che è stato per alcuni giorni in questa fortezza, da dove è stato trasferito nel villaggio di Kulayn, e che, tre giorni fa, è partito per l’Ádhirbáyján. Io mi considero uno dei Suoi seguaci. Il mio nome è Hájí Zaynu’l-‘Ábidín. Non avevo intenzione di separarmi da Lui, ma Egli mi ha ordinato di rimanere qui e di porgere il Suo amorevole saluto ai Suoi amici che avrei incontrato e di dissuaderli dal seguirLo. ‘Di loro’, mi consigliò, ‘di consacrare la vita al servizio della Mia Causa, così che, forse, siano rimosse le barriere che impediscono il progresso di questa Fede, in modo che i Miei seguaci possano adorare il loro Dio e osservare i precetti della loro Fede senza pericoli e in libertà’. Abbandonai immediatamente il mio progetto e, invece di ritornare a Qum, decisi di venire qui” ».

La storia che questo Siyyid Husayn-i-Zavári’í mi raccontò servì a placare la mia agitazione. Mi lesse la copia del « Risáliy-i-‘Adlíyyih » che aveva portato con sé e questa lettura impartì forza e vigore alla mia anima. In quei giorni ero allievo di un siyyid che m’insegnava il Corano: la sua incapacità d’illuminarmi sui princìpi della sua Fede diveniva sempre più evidente ai miei occhi. Siyyid Husayn, al quale chiesi ulteriori informazioni sulla Causa, mi consigliò d’incontrare Siyyid Ismá’íl-i-Zavári’í, che invariabilmente ogni primavera era solito visitare le tombe degli imám-zádih 17 di Qum. Indussi mio padre, che era riluttante a separarsi da me, a mandarmi in quella città al fine di perfezionare la mia conoscenza della lingua araba. Feci attenzione a celargli il mio vero proposito, temendo che il rivelarlo avrebbe potuto metter lui in imbarazzo con il Qádí 18 e con gli ‘ulamá’ di Zarand e impedire a me di raggiungere il mio scopo.

Mentre ero a Qum, vennero a farmi visita, in occasione della festa di Naw-Rúz, mia madre, mia sorella e mio fratello, che rimasero con me circa un mese. Durante la loro visita, ebbi la possibilità d’illuminare mia madre e mia sorella sulla nuova Rivelazione e riuscii ad accendere nel loro petto l’amore per il suo Autore. Pochi giorni dopo il loro ritorno a Zarand, arrivò Siyyid Ismá’íl, che aspettavo con impazienza; nel corso delle nostre discussioni, egli riuscì a esporre dettagliatamente tutto ciò che era necessario per convertirmi del tutto alla Causa. Pose l’accento sulla continuità della Rivelazione Divina, affermò la fondamentale unità dei Profeti del passato e spiegò la loro stretta relazione con la Missione del Báb. Mi svelò anche la natura dell’opera compiuta da Shaykh Ahmad-i-Ahsá’í e Siyyid Kázim-i-Rashtí, dei quali non avevo mai sentito parlare prima. Chiesi quale fosse il dovere imposto, al momento attuale, a ogni leale seguace della Fede. « Il Báb ha ingiunto », rispose, « che tutti coloro che hanno accettato il Suo Messaggio vadano nel Mázindarán a dare aiuto a Quddús, che è ora accerchiato dalle forze di un nemico implacabile ». Manifestai il desiderio di unirmi a lui, in quanto anch’egli intendeva recarsi al forte di Tabarsí. Ma egli mi consigliò di rimanere a Qum insieme con un certo Mirza Fathu’lláh-i-Hakkák, un giovane della mia età che egli aveva recentemente guidato alla Causa, finché non avrei ricevuto un suo messaggio da Tihrán.

Attesi invano il suo messaggio e, visto che non mi giungeva parola da lui, decisi di partire per la capitale. Il mio amico Mirza Fathu’lláh mi seguì poco dopo. Alla fine egli fu arrestato e divise la sorte di coloro che furono messi a morte nell’anno 1268 A.H. 19, in seguito all’attentato contro la vita dello Scià. Giunto a Tihrán, andai direttamente al Masjid-i-Sháh, che era davanti a una madrisih 20, alla cui entrata, in seguito, incontrai inaspettatamente Siyyid Ismá’íl-i-Zavári’í, il quale si affrettò ad informarmi che mi aveva appena scritto una lettera e stava per spedirla a Qum.

Stavamo accingendoci a partire per il Mázindarán, quando ci giunse la notizia che i difensori del forte di Tabarsí erano stati proditoriamente assassinati e che il forte era stato raso al suolo. Quando ricevemmo la spaventosa notizia, ci sentimmo riempire d’angoscia e piangemmo sul tragico destino di coloro che avevano così eroicamente difeso la loro amata Causa. Un giorno incontrai inaspettatamente mio zio materno, Naw-Rúz-‘Alí, che era venuto apposta per cercarmi. Informai Siyyid Ismá’íl, che mi consigliò di partire per Zarand e di non suscitare ulteriore ostilità da parte di coloro che insistevano perché tornassi.

Giunto nel mio villaggio natale, riuscii a convertire mio fratello alla Causa, che mia madre e mia sorella avevano già abbracciato. Riuscii anche a convincere mio padre a lasciarmi partire ancora per Tihrán. Mi sistemai nella stessa madrisih dove ero stato ospitato durante la mia visita precedente e li incontrai un certo Mullá ‘Abdu’l-Karím che, appresi in seguito, Bahá’u’lláh aveva chiamato Mirza Ahmad. Costui mi accolse con amicizia e mi disse che Siyyid Ismá’íl mi aveva affidato alle sue cure e desiderava che rimanessi in sua compagnia fino al suo ritorno da Tihrán. Non potrò mai dimenticare i giorni del mio sodalizio con Mirza Ahmad. Egli era la personificazione dell’amore e della gentilezza e le parole con cui mi ispirò e animò la mia fede sono indelebilmente scolpite nel mio cuore.

Per mezzo suo fui presentato ai discepoli del Báb, ai quali mi unii e dai quali ottenni informazioni più complete sugl’insegnamenti della Fede. A quei tempi Mirza Ahmad si guadagnava la vita facendo lo scrivano e dedicava le serate a copiare il Bayán Persiano e altri scritti del Báb. Le copie che preparava con tanta devozione, le dava in dono ai suoi condiscepoli. Io stesso fui molte volte latore di quei doni da parte sua alla moglie di Mullá Mihdíy-i-Kandí, quello che aveva abbandonato il figlioletto ed era corso a raggiungere gli occupanti del forte di Tabarsí. In quei giorni mi dissero che Táhirih, la quale, sin da quando si era sciolta la riunione di Badasht, era sempre rimasta a Núr, era arrivata a Tihrán ed era confinata nella casa di Mahmúd Khán-i-Kalántar, dove, benché prigioniera, era trattata con considerazione e cortesia.

Un giorno Mirza Ahmad mi condusse in casa di Bahá’u’lláh, la cui moglie, la Varaqatu’l-‘Ulyá 21, la madre del Più Grande Ramo 22, mi aveva già guarito gli occhi con un unguento che ella stessa aveva preparato e che mi aveva mandato tramite lo stesso Mirza Ahmad. La prima persona che incontrai in quella casa fu il suo amato Figlio, che era allora un bimbo di sei anni. Egli mi dette il benvenuto con un sorriso, stando sulla porta della stanza dove alloggiava Bahá’u’lláh. Oltrepassai quella porta e fui introdotto davanti a Mirza Yahyá, completamente ignaro del rango dell’Inquilino della stanza che mi ero lasciato alle spalle. Quando fui condotto a faccia a faccia con Mirza Yahyá, appena vidi il suo volto e ascoltai la sua conversazione, fui sorpreso per la sua assoluta inadeguatezza alla posizione che si pretendeva per lui.

Un’altra volta che visitai quella casa, ero sul punto di entrare nella stanza dove alloggiava Mirza Yahyá, quando mi si avvicinò Áqáy-i-Kalím, che avevo già incontrato prima, e, dato che Isfandíyár, il loro servo, era andato al mercato e non era ancora ritornato, mi chiese di condurre « Áqá » 23 alla Madrisiy-i-Mirza-Sálih in sua vece e poi di ritornare. Acconsentii lietamente e, mentre mi accingevo a partire, vidi il Più Grande Ramo, un bambino di squisita bellezza, che portava il kuláh 24 e vestiva una jubbiy-i-hizári’í 25, uscire dalla camera dove alloggiava Suo Padre e scendere gli scalini che portavano al cancello della casa. Mi feci avanti e stesi le braccia per prenderLo in braccio. « Cammineremo insieme a, disse, prendendomi la mano e conducendomi fuori dalla casa. Chiacchierammo mentre, tenendoci per mano, camminavamo in direzione della madrisih nota in quei giorni col nome di Pá-Minár. Quando giungemmo alla Sua aula, Si rivolse verso di me e disse: « Ritorna questo pomeriggio per ricondurmi a casa, perché Isfandíyár non può venire a prendermi. Mio Padre avrà bisogno di lui oggi a. Acconsentii lietamente e tornai subito alla casa di Bahá’u’lláh. Là incontrai ancora Mirza Yahyá, il quale mi consegnò una lettera e mi chiese di portarla alla Madrisiy-i-Sadr e di darla a Bahá’u’lláh, che, mi fu detto, avrei trovato nella stanza dove alloggiava Mullá Báqir-i-Bastámí. Egli mi chiese di riportare indietro la risposta immediatamente. Feci la commissione e ritornai alla madrisih in tempo per condurre a casa il Più Grande Ramo.

Un giorno Mirza Ahmad m’invitò a incontrare Hájí Mirza Siyyid ‘Alí, lo zio materno del Báb, che era tornato di recente da Chihríq e stava nella casa di Muhammad Big-i-Chápárchí, nei pressi della porta di Shimírán. Quando guardai il suo viso, fui colpito dalla nobiltà dei lineamenti e dalla serenità del suo sembiante. Le visite successive che gli feci servirono ad accrescere la mia ammirazione per la dolcezza del suo temperamento, la sua mistica devozione e la sua forza di carattere. Ricordo bene che una volta, in una certa riunione, Áqáy-i-Kalím lo esortò a lasciare Tihrán, che era allora in gran fermento e a sfuggire la sua pericolosa atmosfera. « Perché temi per la mia salvezza? » rispose fiduciosamente « Potessi partecipare anch’io al banchetto che la mano della Provvidenza sta imbandendo per i Suoi eletti! ».

Poco dopo, i sobillatori riuscirono a scatenare un grave tumulto nella città. La causa diretta fu ciò che fece un certo siyyid di Káshán, che viveva nella Madrisiy-i-Dáru’sh-Shafá’; il ben noto Siyyid Muhammad era entrato in confidenza con lui e affermava di averlo convertito agl’insegnamenti del Báb. Più volte Mirza Muhammad-Husayn-i-Kirmání, che alloggiava nella stessa madrisih ed era un famoso conferenziere sulle dottrine metafisiche dell’Islám, tentò d’indurre Siyyid Muhammad, che era uno dei suoi allievi, a rompere l’amicizia con quel siyyid, che giudicava infido, e a non permettergli di partecipare alle riunioni dei credenti. Ma Siyyid Muhammad si rifiutò di ascoltare questo ammonimento e continuò a frequentarlo fino all’inizio del mese di Rabí‘u’th-Thání dell’anno 1266 A.H. 26, quando lo sleale siyyid andò da un certo Siyyid Husayn, uno degli ‘ulamá’ di Káshán, e consegnò nelle sue mani il nome e l’indirizzo di circa cinquanta credenti che abitavano allora a Tihrán. Siyyid Husayn presentò immediatamente la lista a Mahmúd Khán-i-Kalántar, il quale ordinò che fossero arrestati tutti. Quattordici di essi furono arrestati e condotti davanti alle autorità.

Il giorno in cui furono catturati, ero con mio fratello e con mio zio materno, che erano arrivati da Zarand e alloggiavano in un caravanserraglio fuori porta Naw. La mattina successiva essi partirono per Zarand; quando ritornai alla Madrisiy-i-Dáru’sh-Shafá’, scoprii nella mia stanza un pacco, sul quale era appoggiata una lettera di Mirza Ahmad indirizzata a me. La lettera m’informava che l’infame siyyid ci aveva alla fine denunciati e aveva scatenato un violento tumulto nella capitale. « Il pacco che ho lasciato in questa stanza », mi scriveva, « contiene tutte le sacre scritture che sono in mio possesso. Se riuscirai ad arrivare incolume qui, portale al caravanserraglio di Hájí Nád-‘Alí, dove troverai in una delle camere un uomo di Qazvín che risponde a quel nome, al quale consegnerai il pacco insieme con la lettera che l’accompagna. Quindi prosegui immediatamente per il Masjid-i-Sháh, dove spero di incontrarti ». Seguendo le sue istruzioni, consegnai il pacco allo Hájí e riuscii a raggiungere il masjid, dove incontrai Mirza Ahmad; egli mi raccontò che era stato assalito e aveva cercato rifugio nel masjid, nei cui recinti era al sicuro da ulteriori attacchi.

Nel frattempo, Bahá’u’lláh aveva mandato dalla Madrisiy-i-Sadr un messaggio a Mirza Ahmad per informarlo dei progetti dell’Amír-Nizám, il quale, già in tre diverse occasioni, aveva chiesto all’Imám-Jum’ih il suo arresto. Lo avvertiva anche che l’Amír, incurante del diritto d’asilo che era stato conferito al masjid, intendeva arrestare coloro che avevano cercato rifugio nel santuario. Raccomandava a Mirza Ahmad di partire travestito per Qum e lo incaricava di ordinarmi di ritornare a casa mia a Zarand.

Nel frattempo i miei parenti, che mi avevano riconosciuto nel Masjid-i-Sháh, fecero pressioni su di me perché partissi per Zarand, dicendo che mio padre, al quale era stata data la falsa notizia che mi avevano arrestato e che la mia esecuzione era imminente, era molto angustiato e che era mio dovere correre a liberarlo dalle sue ansietà. Agendo secondo il consiglio di Mirza Ahmad, che mi suggeriva di cogliere quest’opportunità provvidenziale, partii per Zarand e celebrai la Festa di Naw-Rúz con la mia famiglia, Festa che era doppiamente benedetta in quanto coincideva con il quinto giorno di Jámádíyu’l-Avval dell’anno 1266 A.H. 27, anniversario del giorno in cui il Báb aveva dichiarato la Sua Missione. Il Naw-Rúz di quell’anno fu menzionato nel « Kitáb-i-Panj-Sha’n », una delle ultime opere del Báb. « Il sesto Naw-Rúz », Egli scrisse in quel libro, « dopo la dichiarazione del Punto del Bayán 28, è caduto il quinto giorno di Jámádíyu’l-Avval, nel settimo anno lunare dopo la Dichiarazione ». Nello stesso passo, il Báb allude al fatto che il Naw-Rúz di quell’anno sarebbe stato l’ultimo che Egli era destinato a celebrare su questa terra.

Durante i festeggiamenti che i miei parenti celebrarono a Zarand, il mio cuore guardava verso Tihrán e i miei pensieri erano rivolti alla sorte che sarebbe toccata ai miei condiscepoli nella città in tumulto. Ero ansioso di sapere se erano in salvo. Benché mi trovassi in casa di mio padre, circondato dalle premure dei miei genitori, mi sentivo oppresso dal pensiero di essere separato da quel piccolo gruppo, i cui pericoli potevo ben immaginare e le cui afflizioni desideravo condividere. La terribile incertezza in cui vivevo, mentre ero confinato nella mia casa, fu inaspettatamente dissipata dall’arrivo di Sádiq-i-Tabrízí, che veniva da Tihrán e fu accolto nella casa di mio padre. Egli mi liberò dall’incertezza che gravava così pesantemente su di me, ma, con mio profondo orrore, mi rivelò un racconto di una crudeltà così terrificante che le ansietà del dubbio impallidirono davanti alla luce spettrale che quella storia spaventosa gettò nel mio cuore.

Mi accingo ora a raccontare i particolari del martirio dei miei fratelli arrestati a Tihrán, poiché tale fu la loro sorte. I quattordici discepoli del Báb, che erano stati catturati, rimasero incarcerati nella casa di Mahmúd Khán-i-Kalántar dal primo al ventiduesimo giorno del mese di Rabí‘u’th-Thání 29. Anche Táhirih fu confinata nella medesima casa, al piano superiore. Essi subirono maltrattamenti d’ogni genere. I loro persecutori cercarono con ogni mezzo di indurli a fornire le informazioni di cui avevano bisogno, ma non riuscirono a ottenere una risposta soddisfacente. Tra i prigionieri vi era un certo Muhammad-Husayn-i-Marághi’í, che si rifiutò ostinatamente di aprir bocca nonostante le forti pressioni che fecero su di lui. Lo torturarono, ricorsero a ogni possibile espediente per estorcergli qualsiasi indizio potesse servire ai loro intenti, ma non riuscirono a raggiungere lo scopo. Tale fu la sua incrollabile ostinazione, che i suoi oppressori lo credettero muto. Chiesero a Hájí Mullá Ismá’íl, che l’aveva convertito alla Fede, se fosse in grado di parlare o no. « Tace, ma non è muto », rispose, « è facondo e non ha alcuna difficoltà di linguaggio ». Appena lo chiamò per nome, la vittima rispose, assicurandolo di essere pronto ad attenersi al suo volere.

Convinti di non poter piegare la loro volontà, deferirono la questione a Mahmúd Khán, il quale, a sua volta, presentò il caso all’Amír-Nizám, Mirza Taqí Khán 30, Gran Visir di Násiri’d-Dín Sháh. Il Sovrano in quei giorni si astenne dall’interferire direttamente nelle questioni attinenti alla vicenda della comunità perseguitata e spesso ignorò le decisioni prese nei confronti dei suoi membri. Il Gran Visir fu investito di pieni poteri per far di loro ciò che meglio credeva: nessuno discusse le sue decisioni, né osò disapprovare il modo in cui esercitò la sua autorità. Egli emanò immediatamente un ordine perentorio che minacciava di morte i quattordici discepoli, se non fossero stati disposti a rinnegare la fede. Sette furono costretti a cedere sotto la pressione esercitata su di loro e furono immediatamente rilasciati. Gli altri sette costituiscono i Sette Martiri di Tihrán:

1. Hájí Mirza Siyyid ‘Alí, soprannominato Khál-i-A‘zam 31, zio materno del Báb, uno dei principali mercanti di Shíráz. Alla custodia di questo zio il Báb fu affidato, dopo la morte del padre; quando il Nipote ritornò dal pellegrinaggio nello Hijáz e fu arrestato da Husayn Khán, egli si fece garante per Lui, impegnando per iscritto la propria parola. Mentre Egli era sotto la sua protezione, Lo colmò sempre di premurose attenzioni, Lo servì con grande devozione e fece da intermediario tra Lui e le schiere di seguaci che affluivano a Shíráz per vederLo. Il suo unico figlio, un certo Siyyid Javád, morì nell’infanzia. Verso la metà dell’anno 1265 A.H. 32 Hájí Mirza Siyyid ‘Alí lasciò Shíráz e fece visita al Báb nel castello di Chihríq. Quindi andò a Tihrán e, benché non avesse alcuna occupazione speciale, rimase nella città fino allo scoppio della sedizione che sfociò infine nel suo martirio.

Benché gli amici lo pregassero di fuggire davanti al tumulto che stava avvicinandosi rapidamente, si rifiutò di dare ascolto al loro consiglio e, fino all’ultimo momento, affrontò con completa rassegnazione la persecuzione a cui fu sottoposto. Molti tra i più ricchi mercanti che lo conoscevano si offrirono di pagare il suo riscatto, ma egli respinse l’offerta. Infine fu condotto davanti all’Amír-Nizám. « Il Primo Magistrato del Regno », lo informò il Gran Visir, « è restio a fare il minimo torto ai discendenti del Profeta. Eminenti mercanti di Shíráz e Tihrán sono desiderosi, anzi ansiosi, di pagare il tuo riscatto. Perfino il Maliku’t-Tujjár s’interessa di te. Ci basta che tu dica una parola di ritrattazione per liberarti e lasciarti ritornare nella tua città natale, con tutti gli onori. Ti do la mia parola che, se sei disposto ad accettare, passerai i giorni che ti restano da vivere con onore e dignità sotto l’ombra protettrice del tuo sovrano ». « Eccellenza », coraggiosamente rispose Hájí Mirza Siyyid ‘Alí, « sappi che prima di me altri, che vuotarono con gioia la coppa del martirio, hanno preferito respingere un appello simile a quello che ora tu mi rivolgi; sappi per certo che io sono tanto ansioso quanto loro di declinare una tale richiesta. Ripudiare le verità racchiuse in questa Rivelazione vorrebbe dire per me respingere tutte le Rivelazioni che l’hanno preceduta. Rifiutare di riconoscere la Missione del Siyyid-i- Báb vorrebbe dire apostatare la Fede dei miei avi e negare il carattere Divino del Messaggio che Muhammad, Gesù, Mosè e tutti i Profeti del passato hanno rivelato. Dio sa che tutto ciò che ho sentito o letto sui detti e le azioni di quei Messaggeri, le stesse cose ho avuto il privilegio di vedere coi miei occhi da questo Giovane, questo mio diletto Parente, dai tempi della Sua adolescenza fino ad ora, che ha trent’anni. Ogni cosa in Lui mi ricorda il Suo illustre Antenato e gli imám della Sua Fede, la cui vita le nostre documentate tradizioni hanno descritto. Ti chiedo solo di permettermi di essere il primo a offrire la vita sul sentiero del mio amato Congiunto ».

L’Amír fu stupefatto da questa risposta. In una frenesia di disperazione e senza dir parola, fece cenno che lo portassero via e lo decapitassero. Mentre veniva condotta verso la morte, sentirono la vittima ripetere più volte queste parole di Háfiz: « Grande è la mia gratitudine verso di Te, o mio Dio, che m’hai concesso con tanta munificenza tutto ciò che T’ho chiesto ». « Ascoltatemi o gente », gridò alla moltitudine che Gli si accalcava attorno; « mi sono offerto in volontario sacrificio sul sentiero della Causa di Dio. Tutta la provincia di Fárs e l’‘Iráq, oltre i confini della Persia, presto conosceranno la rettitudine della mia condotta, la sincerità della mia devozione e la nobiltà della mia stirpe. Per più di mille anni, avete pregato e ancora pregato che il promesso Qá’im Si manifestasse. Quante volte alla menzione del Suo nome avete gridato, dal fondo del cuore: “Affretta, o Dio, la Sua venuta; rimuovi ogni ostacolo che si erga sulla strada della Sua apparizione!”. E ora ch’è venuto, L’avete cacciato in un esilio senza speranza, in un angolo remoto e isolato dell’Ádhirbáyján e siete insorti a sterminare i Suoi compagni. Se invocassi la maledizione di Dio su voi, sono certo che la Sua vindice ira vi colpirebbe dolorosamente. Ma tale non è la mia preghiera. Con il mio ultimo respiro, prego l’Onnipotente di cancellare la macchia della vostra colpa e di permettere che vi risvegliate dal sonno dell’indifferenza ». 33

Queste parole commossero il carnefice fino nel profondo del cuore. Con la scusa che la spada che teneva pronta in pugno aveva bisogno d’essere ancora affilata, se ne andò rapidamente, deciso a non ritornare più. « Quando m’hanno incaricato di svolgere questo servizio », lo sentirono lamentarsi, piangendo amaramente, « si erano impegnati a consegnare nelle mie mani solo coloro che erano stati condannati per assassinio o banditismo. Mi ordinano ora di versare il sangue di uno che non è meno santo dell’Imám Músáy-Kázim! » 34. Poco dopo, partì per il Khurásán e li cercò di guadagnarsi da vivere facendo il fattorino e il banditore. Ai credenti della provincia, raccontò la storia della tragedia ed espresse il proprio pentimento per l’azione che era stato costretto a compiere. Ogni volta che ricordava l’incidente, ogni volta che il nome di Hájí Mirza Siyyid ‘Alí veniva menzionato davanti a lui, gli venivano le lacrime agli occhi e non riusciva a trattenerle e quelle lacrime erano la testimonianza dell’affetto che quel sant’uomo gli aveva infuso in cuore.

2. Mirza Qurbán-‘Alí 35, nato a Bárfurúsh nella provincia del Mázindarán, eminente personaggio della comunità nota col nome di Ni‘matu’lláhí. Fu uomo sinceramente devoto e dotato di grande nobiltà d’animo. Tale fu la purezza della sua vita, che molti tra i notabili del Mázindarán, del Khurásán e di Tihrán gli avevano promesso fedeltà, e lo consideravano la personificazione della virtù. Così grande era la stima in cui era tenuto dai concittadini che, in occasione del suo pellegrinaggio a Karbilá, una vasta schiera di devoti ammiratori affollò la sua strada per rendergli omaggio. A Hamadán, come a Kirmánsháh, molte persone subirono l’influsso della sua personalità e si unirono alla schiera dei suoi seguaci. Dovunque andasse era salutato dalle acclamazioni della gente. Ma le dimostrazioni di entusiasmo popolare erano per lui molto sgradevoli, evitava la folla e sdegnava il fasto e la pompa del potere. Durante il viaggio verso Karbilá, mentre passava per Mandalíj, uno shaykh molto influente rimase affascinato da lui a tal punto che rinunciò a tutto ciò che prima gli era caro e, lasciati amici e discepoli, lo seguì fino a Ya‘qúbíyyih. Ma Mirza Qurbán-‘Alí riuscì a indurlo a ritornare a Mandalíj e a riprendere il lavoro che aveva abbandonato.

Di ritorno dal pellegrinaggio, Mirza Qurbán-‘Alí incontrò Mullá Husayn e tramite lui abbracciò la verità della Causa. A cagione di una malattia non poté unirsi ai difensori del forte di Tabarsí ma, se non fosse stato perché non era in grado di mettersi in viaggio per il Mázindarán, sarebbe stato il primo a unirsi ai suoi occupanti. Tra i discepoli del Báb la persona a cui era più attaccato dopo Mullá Husayn, era Váhíd. Durante la mia visita a Tihrán, seppi che questi aveva consacrato la propria vita al servizio della Causa, e si era levato a promuoverne dappertutto gl’interessi con devozione esemplare. Sentii spesso Mirza Qurbán-‘Alí, che era allora nella capitale, lamentarsi di quella malattia. « Quanto mi dispiace », lo sentii osservare molte volte, « di essere stato privato della mia parte della coppa che Mullá Husayn e i suoi compagni hanno vuotato! Desidero unirmi a Váhíd e arruolarmi sotto le sue insegne e cercare di far ammenda per quanto non ho potuto fare prima ». Stava preparandosi a lasciare Tihrán, quando fu improvvisamente arrestato. Le sue vesti povere erano una prova del suo distacco. Vestito con una tunica bianca, secondo le usanze degli Arabi, avvolto in un ‘abá 36 grossolanamente tessuto, in testa il copricapo della gente dell’‘Iráq, sembrava, mentre camminava per le strade, la personificazione della rinuncia. Rispettava scrupolosamente tutte le osservanze della sua Fede e recitava le devozioni con pietà esemplare. « Il Báb Stesso Si attiene alle osservanze della Sua Fede nei minimi dettagli », osservò spesso. « Posso io trascurare le cose che il mio Maestro osserva? ».

Quando Mirza Qurbán-‘Alí fu arrestato e condotto davanti all’Amír-Nizám, si scatenò un tumulto quale Tihrán raramente aveva visto. Grandi folle di persone si accalcarono agli ingressi del quartier generale del governo, ansiose di sapere che cosa gli sarebbe accaduto. « Sin da ieri notte », disse l’Amír, appena lo vide, « sono stato assediato da funzionari dello Stato di tutti i livelli che hanno intercesso energicamente in tuo favore 37. Da quanto apprendo sulla posizione che occupi e sull’influenza che hanno le tue parole, non sei molto inferiore al Siyyid-i- Báb Stesso. Avresti fatto meglio a reclamare per te la posizione del primato piuttosto che dichiarare la tua obbedienza a uno la cui sapienza è certamente inferiore alla tua ». « La sapienza che ho acquistato », egli ribatté con coraggio, « mi ha condotto a inchinarmi in obbedienza davanti a Colui che ho riconosciuto quale mio Signore e mia Guida. Fin da quando ho raggiunto la maggiore età, ho considerato la giustizia e la rettitudine i motivi dominanti della mia vita. L’ho giudicato rettamente e sono giunto alla conclusione che se questo Giovane, il cui potere trascendente amici e nemici ugualmente attestano, fosse falso, ogni Profeta di Dio, da tempo immemorabile fino al giorno d’oggi, dovrebbe essere accusato d’essere una personificazione della falsità! Son sicuro della completa devozione di oltre un migliaio di ammiratori e tuttavia non posso modificare il cuore del più umile tra loro. Ma questo Giovane ha dimostrato d’essere capace di trasformare, per mezzo dell’elisir dell’amore, l’anima dei più degradati tra gli uomini. Su un migliaio di persone come me Egli, solo e senza aiuti, ha esercitato un’influenza tale che, senza neppur giungere in Sua presenza, esse hanno messo da parte ogni proprio desiderio e si sono aggrappate con passione al Suo volere. Pienamente consapevoli dell’inadeguatezza del sacrificio che hanno fatto, costoro bramano di dare la vita per amor Suo, con la speranza che questa ulteriore prova della loro devozione possa esser degna di menzione alla Sua corte ».

« Sono riluttante », osservò l’Amír-Nizám, « tanto se le tue parole vengono da Dio quanto se non vengono da Lui, a pronunziare la sentenza di morte contro un uomo che occupa un rango così elevato ». « Perché esiti? » esclamò la vittima impaziente. « Non sai tu che tutti i nomi discendono dal Cielo? Colui il cui nome è ‘Alí 38, sul cui sentiero offro la vita, da tempo immemorabile ha vergato il mio nome, Qurbán-‘Alí 39, sulla pergamena dei Suoi màrtiri eletti. In verità, oggi è il giorno in cui celebro la festa di Qurbán, il giorno in cui suggellerò col sangue la mia fede nella Sua Causa. Perciò, non essere riluttante e sii certo che non ti biasimerò mai per il tuo atto. Più presto farai cadere la mia testa, più grande sarà la mia gratitudine verso di te ». « Portatelo via da qui! » gridò l’Amír. « Ancora un momento e questo derviscio riuscirà a gettare il suo incantesimo su di me ». « Tu sei inaccessibile a quella magia », rispose Mirza Qurbán-‘Alí, « che può far prigionieri solo i puri di cuore. Tu e i tuoi simili non potrete mai capire la forza ammaliatrice di quel Divino elisir che, in un batter d’occhio, trasforma l’anima dell’uomo ».

Esasperato dalla risposta, l’Amír-Nizám si alzò e, tutto tremante dalla rabbia, esclamò: « Soltanto il filo della spada può far tacere la voce di questa gente illusa! ». « Non c’è bisogno », disse ai carnefici che si occupavano di lui, « di portarmi davanti altri membri di quest’odiosa setta. Le parole non riescono a sopraffare la loro incrollabile ostinazione. Se riuscirete a indurre qualcuno a rinnegare la sua fede, rilasciatelo; in quanto agli altri, tagliate loro la testa ».

Mentre si avvicinava al luogo della sua morte, Mirza Qurbán-‘Alí, inebriato dalla prospettiva della prossima riunione con il suo Diletto, eruppe in espressioni di gioiosa esultanza. « Fate presto a uccidermi », gridò con gioia e rapimento, « poiché con questa morte mi offrirete il calice della vita eterna. Anche se ora spegnete il mio alito languente, con una miriade di vite mi ricompenserà il mio Diletto; vite che nessun cuore mortale può concepire! ». « Ascoltate le mie parole, voi che affermate di essere seguaci dell’Apostolo di Dio », disse, rivolgendo lo sguardo verso la folla degli spettatori. « Muhammad, la Stella Mattutina della guida Divina, che in epoche passate si è levata sull’orizzonte dello Hijáz, è risorto oggi, nella persona di ‘Alí-Muhammad, dall’Oriente di Shíráz, irradiando lo stesso splendore ed emanando lo stesso calore. Una rosa è sempre una rosa in qualsiasi giardino e in qualsiasi momento essa sbocci ». Visto che tutta la gente era sorda al suo appello, gridò a gran voce: « Oh! generazione perversa! Com’è indifferente davanti alla fragranza che ha esalato quella Rosa Imperitura! Benché la mia anima trabocchi di estasi, non riesco, ahimè, a trovare un cuore con cui goderne il fascino, o una mente che ne comprenda la gloria ».

Alla vista del corpo di Hájí Mirza Siyyid ‘Alí decapitato e sanguinante ai suoi piedi, il suo eccitamento febbrile raggiunse il culmine. « Salute », gridò gettandosi su di esso, « salute al giorno del reciproco rallegramento, il giorno della riunione con il nostro Diletto! ». « Avvicinati », gridò al carnefice, tenendo il corpo tra le braccia, « e vibra il tuo colpo, poiché il mio fedele amico non vuole liberarsi dal mio abbraccio e m’invita a correre con lui alla corte del Benamato ». Subito un colpo del boia s’abbatté sulla sua nuca. Pochi istanti, e l’anima di quel grande uomo era trapassata. Il fendente crudele suscitò tra i presenti un sentimento misto d’indignazione e di simpatia. Dal cuore della moltitudine si levarono lamenti e grida di cordoglio e suscitò una desolazione simile alle esplosioni di dolore con cui ogni anno la popolazione saluta il giorno di ‘Áshúrá 40.

3. Poi venne il turno di Hájí Mullá Ismá’íl-i-Qumí, nativo di Faráhán. Nella sua prima giovinezza, egli parti per Karbilá alla ricerca di quella verità che stava scrupolosamente cercando di scoprire. Aveva frequentato tutti i principali ‘ulamá’ di Najaf e Karbilá, si era seduto ai piedi di Siyyid Kázim e aveva acquisito da lui la conoscenza e la comprensione che gli permisero, pochi anni più tardi mentre era a Shíráz, di riconoscere la Rivelazione del Báb. Si distinse per la tenacia della sua fede e per il fervore della sua devozione. Non appena gli pervenne l’ingiunzione del Báb, che invitava i Suoi seguaci ad accorrere nel Khursn, rispose con entusiasmo, raggiunse i compagni che stavano andando a Badasht e li ricevette l’appellativo di Sirru’l-Vujúd. Mentre era in loro compagnia, la sua comprensione della Causa si approfondì e crebbe, quindi, il suo zelo nella sua promozione. Maturò fino a divenire la personificazione del distacco e si senti sempre più impaziente di dimostrare in modo adeguato lo spirito che la Fede gli aveva infuso. Nella spiegazione del significato dei versetti coranici e delle tradizioni islamiche, dette prova di un’intuizione che pochi poterono rivaleggiare e l’eloquenza con cui espose quelle verità gli conquistò l’ammirazione dei suoi condiscepoli. Nei giorni in cui il forte di Tabarsí divenne il centro di raccolta per i discepoli del Báb, languiva a letto infermo e sconsolato, senza poter né prestare aiuto né prendere parte alla sua difesa. Appena guarì, visto che il memorabile assedio si era concluso col massacro dei suoi condiscepoli, si adoperò, con accresciuta determinazione, per compensare con le sue generose fatiche la perdita che la Causa aveva subito. Quella determinazione lo portò alla fine sul campo del martirio e gliene conquistò la corona.

Condotto al patibolo, mentre aspettava il momento dell’esecuzione, rivolse lo sguardo verso i due martiri che l’avevano preceduto e che giacevano ancora avvinti in un abbraccio. « Ben fatto, amati compagni! » gridò, posando lo sguardo sulle loro teste sanguinanti. « Avete trasformato Tihrán in un Paradiso! Avessi potuto precedervi! ». Estrasse dalla tasca una moneta, che porse al boia pregandolo di comprargli qualcosa con cui addolcirsi la bocca. Ne prese un po’ e dette a lui il resto, dicendo: « Ti ho perdonato la tua azione; avvicinati e vibra il tuo colpo. Per trent’anni ho desiderato vedere questo giorno benedetto e temevo di dovermi portare nella tomba questo desiderio insoddisfatto ». « Accettami, o mio Dio », gridò, levando gli occhi al cielo, « anche se sono indegno d’inscrivere il mio nome sulla pergamena degl’immortali che hanno immolato la vita sull’altare del sacrificio ». Stava ancora pregando, quando il boia, per sua richiesta, troncò subitamente la sua preghiera 41.

4. Era appena spirato, quando fu condotto al patibolo Siyyid Husayn-i-Turshízí, il mujtahid. Questi era nato a Turshíz, un villaggio del Khurásán, ed era molto stimato per la sua devozione e la rettitudine della sua condotta. Aveva studiato per alcuni anni a Najaf ed era stato incaricato dagli altri mujtahid di andare nel Khurásán per propagare colà i princìpi che gli erano stati insegnati. Quando giunse a Kázimayn, incontrò Hájí Muhammad-Taqíy-i-Kirmání, suo vecchio amico, che figurava tra i più eminenti mercanti di Kirmán e che aveva aperto una succursale di affari nel Khurásán. Poiché questi era in viaggio per la Persia, decise di accompagnarlo. Questo Hájí Muhammad-Taqí era stato grande amico di Hájí Mirza Siyyid ‘Alí, zio materno del Báb, per opera del quale si era convertito alla Causa nell’anno 1264 AH. 42, mentre si preparava a partire da Shíráz per andare in pellegrinaggio a Karbilá. Informato che Hájí Mirza Siyyid ‘Alí progettava di andare a Chihríq per fare una visita al Báb, egli espresse il suo ardente desiderio di accompagnarlo. Hájí Mirza Siyyid ‘Alí lo consigliò di persistere nel suo primo intendimento: andasse a Karbilá e aspettasse là una sua lettera, con cui l’avrebbe informato se era consigliabile che lo raggiungesse. Da Chihríq, Hájí Mirza Siyyid ‘Alí ebbe ordine di partire per Tihrán, con la speranza di poter fare ancora visita al Nipote dopo una breve permanenza nella capitale. Mentre era a Chihríq, egli espresse la propria riluttanza a tornare a Shíráz, in quanto non poteva più sopportare la crescente arroganza dei suoi abitanti. Al suo arrivo a Tihrán, chiese a Hájí Muhammad-Taqí di raggiungerlo. Siyyid Husayn l’accompagnò da Baghdád fino alla capitale e per mezzo suo si converti alla Fede.

Quando fu davanti alla moltitudine che si era raccolta attorno a lui per assistere al suo martirio, Siyyid Husayn alzò la voce e disse: « Ascoltatemi o seguaci dell’Islam! Il mio nome è Husayn e sono discendente del Siyyidu’sh-Shuhadá, che portava anch’egli questo nome 43. I mujtahid delle sante città di Najaf e Karbilá hanno ratificato all’unanimità la mia posizione di commentatore autorizzato della legge e degl’insegnamenti della loro Fede. Solo di recente ho sentito il nome del Siyyid-i- Báb. La padronanza che ho acquisito sugli intricati problemi degl’insegnamenti islamici mi ha permesso di apprezzare il valore del Messaggio che il Siyyid-i- Báb ha portato. Sono convinto che, se negassi la Verità che Egli ha rivelato, con questa medesima azione rinnegherei la mia sottomissione a ogni Rivelazione che l’ha preceduta. Mi appello a ciascuno di voi, perché invitiate gli ‘ulamá’ e i mujtahid della città a riunirsi in un convegno, e io mi assumo il compito di provare in loro presenza la verità della Causa. Giudichino poi loro se sono capace di dimostrare la validità delle affermazioni fatte dal Báb: se saranno soddisfatti delle prove che porterò a sostegno della mia argomentazione, cessino di versare il sangue degl’innocenti; e se non ci riuscirò, m’infliggano la punizione che merito ». Queste parole gli erano appena uscite di bocca, che un funzionario al servizio dell’Amír-Nizám s’intromise altezzosamente: « Porto con me la tua sentenza di morte firmata e sigillata da sette mujtahid riconosciuti di Tihrán, i quali hanno dichiarato di proprio pugno che sei un infedele. Il Giorno del Giudizio, sarò responsabile io stesso del tuo sangue davanti a Dio e rimetterò la responsabilità su quei capi nel cui giudizio c’è stato chiesto di riporre la nostra fiducia e alle cui decisioni siamo stati obbligati a sottometterci ». Con queste parole sguainò il pugnale e lo colpì con tale forza che egli cadde morto all’istante ai suoi piedi.

5. Subito dopo fu condotto sul luogo dell’esecuzione Hájí Muhammad-Taqíy-i-Kirmání. L’orrore della vista che gli si parò davanti suscitò la sua violenta indignazione. « Avvicinati, malvagio tiranno senza cuore », eruppe voltandosi verso il suo persecutore, « e affrettati a uccidermi, perché sono impaziente di unirmi al mio amato Husayn. Vivere dopo di lui è una tortura che non posso sopportare ».

6. Appena Hájí Muhammad-Taqí ebbe pronunziato queste parole, Siyyid Murtadá, che era uno dei più noti mercanti di Zanján, corse avanti per aver la precedenza sui compagni. Si gettò sul corpo di Hájí Muhammad-Taqí e disse che, essendo siyyid, martirizzare lui sarebbe stato più meritorio agli occhi di Dio che martirizzare Hájí Muhammad-Taqí. Mentre il boia sguainava la spada, Siyyid Murtadá invocò la memoria del fratello martirizzato, che aveva combattuto fianco a fianco con Mullá Husayn e tali furono le sue parole, che gli spettatori si meravigliarono dell’inflessibile tenacia della fede che l’animava.

7. In mezzo al tumulto che le commoventi parole di Siyyid Murtadá avevano sollevato, si fece avanti Muhammad-Husayn-i-Marághi’í, implorando che gli fosse concesso d’essere martirizzato subito prima che i suoi compagni fossero passati per la spada. Appena posò lo sguardo su Hájí Mullá Ismá’íl-i-Qumí, per il quale nutriva un profondo affetto, si gettò d’impulso su di lui e, tenendolo tra le braccia, esclamò: « Mai acconsentirò di separarmi dal mio amato amico, in cui ho riposto la massima fiducia e da cui ho ricevuto tante prove d’affetto sincero e profondo! ».

Il loro desiderio di precedersi l’un l’altro nell’offrire la vita per la Fede stupì la moltitudine che si chiedeva quale dei tre sarebbe stato preferito ai compagni. Imploravano con tale fervore che alla fine furono decapitati tutti e tre nello stesso istante.

Raramente occhio umano ha visto una fede così grande e una simile dimostrazione di efferata crudeltà. Sebbene fossero pochi, tuttavia, ricordando i particolari del loro martirio, siamo costretti a riconoscere le meraviglie della forza che seppe evocare un così raro spirito d’abnegazione. Quando rammentiamo l’alto rango di queste vittime, quando consideriamo il grado della loro rinuncia e la vitalità della loro fede, quando ricordiamo le pressioni che furono esercitate da ambienti influenti per stornare il pericolo che minacciava la loro vita, soprattutto quando ci figuriamo lo spirito con cui essi sfidarono le atrocità che quel nemico senza cuore s’abbassò al punto da perpetrare su di loro, siamo costretti a considerare l’episodio come uno degli avvenimenti più tragici negli annali della Causa 44.

A questo punto della mia narrazione ho avuto il privilegio di presentare a Bahá’u’lláh le parti della mia opera che avevo già riveduto e completato. Che grande ricompensa dette alle mie fatiche Colui il cui favore è la sola cosa che cerco e per il cui compiacimento mi sono dedicato a questo compito! Mi convocò benignamente alla Sua presenza e mi elargì le Sue benedizioni. Ero a casa mia nella città-prigione di ‘Akká e vivevo nelle vicinanze della casa di Áqáy-i-Kalím, quando mi giunse l’invito del mio Amato. Quel giorno, il settimo del mese di Rabí‘u’th-Thání dell’anno 1306 A.H. 45, non lo dimenticherò mai. Riporto qui la sostanza delle parole che Egli mi rivolse in quella memorabile occasione:

« In una Tavola che abbiamo rivelato ieri, mentre descrivevamo i particolari della conferenza di Badasht, abbiamo spiegato il significato delle parole, “Distogliete lo sguardo” 46. Stavamo celebrando, in compagnia di alcuni distinti notabili, le nozze di un principe di sangue reale di Tihrán, quando ad un tratto comparve sulla porta Siyyid Ahmad-i-Yazdí, padre di Siyyid Husayn, l’amanuense del Báb. Ci fece un cenno come se portasse un messaggio importante e desiderasse consegnarlo immediatamente. Ma in quel momento non potevamo abbandonare la riunione e gli facemmo cenno di aspettare. Quando la riunione si fu sciolta, egli Ci informò che Táhirih era stata rigorosamente confinata a Qazvín e che la sua vita era in grave pericolo. Chiamammo subito Muhammad Hádíy-i-Farhádí e gl’impartimmo le istruzioni necessarie perché la liberasse dalla prigionia e la scortasse fino alla capitale. Poiché il nemico si era impadronito della Nostra abitazione, non potevamo ospitarla indefinitamente a casa Nostra. Di conseguenza, organizzammo il suo trasferimento dalla Nostra abitazione a quella del Ministro della Guerra 47, che, in quei giorni, era caduto in disgrazia presso il Sovrano ed era stato relegato a Káshán. Chiedemmo a sua sorella, che era ancora tra i Nostri amici, di fare da ospite a Táhirih.

« Ella rimase in sua compagnia, finché non Ci giunse all’orecchio l’invito del Báb, che Ci ordinava di andare nel Khurásán. Decidemmo che Táhirih andasse immediatamente in quella provincia e incaricammo Mirza 48 di condurla in un luogo fuori dalle porte della città e da qui nella località vicina che giudicava più adatta. Ella fu condotta in un giardino, vicino al quale c’era un edificio abbandonato, dove trovarono un vecchio che faceva da custode. Mirza Músá ritornò e Ci informò dell’accoglienza che gli era stata fatta e lodò molto la bellezza del paesaggio circostante. In seguito organizzammo la sua partenza per il Khurásán e promettemmo di seguirla entro breve tempo.

« La raggiungemmo presto a Badasht, dove prendemmo in affitto un giardino per il suo uso personale e nominammo suo custode lo stesso Muhammad Hádí che l’aveva liberata. Con Noi c’erano circa settanta compagni, che alloggiavano in un luogo vicino al giardino.

« Un giorno Ci ammalammo e rimanemmo a letto. Táhirih Ci mandò a chiedere il permesso di venire a farCi visita. Fummo sorpresi dal suo messaggio ed eravamo perplessi sulla risposta da darle. D’improvviso la vedemmo sulla porta, il volto senza veli davanti a Noi. Mirza Áqá Ján 49 ha commentato bene quell’avvenimento. “È necessario che il volto di Fátimih”, disse, “sia svelato il Giorno del Giudizio e appaia senza veli davanti agli occhi degli uomini. In quel momento si udirà la voce dell’Invisibile dire: ‘Distogliete lo sguardo da ciò che avete veduto’”.

Che grande costernazione colse i compagni quel giorno! Il loro cuore si riempì di timore e di smarrimento. Alcuni, incapaci di sopportare quella che per loro era una ripugnante deviazione dai costumi consacrati dell’Islám, fuggirono inorriditi davanti al suo volto, e costernati, cercarono rifugio in un castello abbandonato nelle vicinanze. Tra coloro che furono scandalizzati dal suo comportamento e si distaccarono completamente da lei c’erano il Siyyid-i-Nahrí 50 e suo fratello Mirza Hádí, ai quali facemmo sapere che non giovava loro abbandonare i compagni e rifugiarsi in un castello.

« Infine, i Nostri amici si dispersero, lasciandoCi alla mercé dei Nostri nemici. Quando, più tardi, andammo ad Ámul, tale era il tumulto che la gente aveva sollevato che oltre quattromila persone si erano radunate nel masjid affollandosi sui tetti delle case. Il principale mullá della città Ci accusò accanitamente. “Hai travisato la Fede dell’Islám”, gridò nel suo dialetto del Mázindarán, “e macchiato il suo nome! La scorsa notte in sogno t’ho visto entrare nel masjid gremito da un’impaziente moltitudine che si era raccolta per vederti arrivare. Mentre la folla si accalcava intorno a te, guardai ed, ecco, il Qá’im era in un angolo, con lo sguardo fisso sul tuo viso e un’espressione di grande sorpresa sul volto. Considero questo sogno come una prova che tu hai deviato dal sentiero della Verità”. Lo assicurammo che l’espressione di sorpresa su quel volto significava che il Qá’im disapprovava vivamente il trattamento che egli e i suoi concittadini Ci avevano accordato. C’interrogò sulla Missione del Báb. Lo informammo che, sebbene non L’avessimo mai incontrato faccia a faccia, nutrivamo nondimeno un grande affetto verso di Lui. Esprimemmo la Nostra profonda convinzione che, in nessuna circostanza, aveva Egli agito in modo contrario alla Fede dell’Islám.

« Ma il mullá e i suoi seguaci si rifiutarono di crederCi, ricusarono la Nostra testimonianza, dicendo che era una falsificazione della verità. Infine Ci imprigionarono e proibirono ai Nostri amici di incontrarCi. Il governatore reggente di Ámul riuscì a liberarCi dalla prigionia. Attraverso una breccia, che ordinò ai suoi uomini di aprire nel muro, Ci permise di lasciare quella stanza e Ci condusse a casa sua. Non appena gli abitanti seppero di questa azione, insorsero contro di Noi, assediarono la residenza del governatore, Ci scagliarono delle pietre e Ci gridarono in faccia le ingiurie più sconce.

« In quel tempo Ci proponemmo di mandare Muhammad Hádíy-i-Farhádí a Qazvín, al fine di ottenere la liberazione di Táhirih e di condurla a Tihrán; Shaykh Abú-Turáb Ci scrisse affermando che un tale tentativo comportava gravi rischi e poteva scatenare un tumulto senza precedenti. Rifiutammo di lasciarCi distogliere dal Nostro intento. Lo Shaykh era un uomo dal cuore gentile, aveva un temperamento semplice e umile e si comportava con grande dignità. Ma gli mancavano coraggio e determinazione e in certe occasioni si mostrava debole ».

Dobbiamo ora aggiungere una parola sull’ultimo atto della tragedia che vide l’eroismo dei Sette Martiri di Tihrán. Per tre giorni e tre notti essi rimasero abbandonati nel Sabzih-Maydán, che si trovava accanto al palazzo imperiale, esposti agli innumerevoli oltraggi del nemico implacabile. Attorno alle loro salme si raccolsero migliaia di devoti sciiti, le presero a calci, e sputarono sui loro volti. Esse furono percosse, maledette e schernite dalla moltitudine infuriata. Sui loro resti furono gettati dagli astanti mucchi di immondizie e sui loro corpi furono perpetrate le più sozze atrocità. Nessuna voce di protesta si sollevò, nessuna mano si alzò per fermare il braccio del barbaro oppressore.

Placato il tumulto delle loro passioni, li seppellirono fuori dalle porte della capitale, in un luogo che si trovava oltre i limiti del cimitero pubblico, vicino al fossato, tra le porte di Naw e di Sháh ‘Abdu’l-‘Azím. Furono messi tutti nella stessa fossa, rimanendo così uniti nel corpo, come lo erano stati nello spirito durante i giorni della loro vita terrena 51.

La notizia del loro martirio fu un ulteriore colpo per il Báb, già immerso nel dolore per il destino che aveva colpito gli eroi di Tabarsí. Nella Tavola dettagliata che rivelò in loro onore, ogni parola della quale attesta l’alto rango che occupavano ai Suoi occhi, scrisse che essi erano le « Sette Capre » di cui si parla nelle tradizioni dell’Islám, che il Giorno del Giudizio « cammineranno davanti al promesso Qá’im ». Esse simboleggeranno con la loro vita il più nobile spirito d’eroismo e con la loro morte dimostreranno la vera acquiescenza alla Sua Volontà. Il termine « precedere il Qá’im », il Báb spiegò, significa che il loro martirio deve precedere quello del Qá’im stesso, il quale è il loro Pastore. Ciò che il Báb aveva predetto si avverò, in quanto il Suo martirio ebbe luogo a Tabríz quattro mesi più tardi.

Quell’anno memorabile vide, oltre al martirio del Báb e a quello dei Suoi sette compagni a Tihrán, i memorabili avvenimenti di Nayríz che culminarono con la morte di Váhíd. Verso la fine del medesimo anno, anche Zanján divenne il centro d’una tempesta che infuriò con eccezionale violenza nel distretto circostante, causando il massacro di molti dei più devoti discepoli del Báb. Quell’anno, reso memorabile dal magnifico eroismo che quei devoti sostenitori della Sua Fede mostrarono, per non parlare delle meravigliose circostanze in cui avvenne il Suo martirio, rimarrà sempre uno dei più gloriosi capitoli che siano mai stati registrati nell’insanguinata storia della Fede. Tutta la faccia della terra fu oscurata dalle atrocità alle quali quel nemico crudele e rapace si abbandonò sfrenatamente. Dal Khursn, ai confini orientali della Persia, fino a Tabríz, teatro del martirio del Báb, in occidente, e dalle città settentrionali di Zanján e Tihrán fino a Nayríz, nella provincia meridionale del Fárs, l’intero paese fu avvolto dall’oscurità: questa oscurità precedeva la luce albeggiante della Rivelazione che l’atteso Husayn doveva presto palesare, una Rivelazione più possente e più gloriosa di quella che il Báb aveva proclamato 52.

CAPITOLO XXII
I MOTI DI NAYRÍZ

DURANTE i primi giorni dell’assedio del forte di Tabarsí, Váhíd era intento a divulgare gl’insegnamenti della Causa a Burújird e nella provincia del Kurdistan. Aveva deciso di convertire alla Fede del Báb la maggior parte degli abitanti di quelle regioni e intendeva poi andare nel Fárs per continuare là la sua opera. Appena seppe che Mullá Husayn era partito per il Mázindarán, si recò subito nella capitale e intraprese i preparativi necessari per andare al forte di Tabarsí. Stava accingendosi a partire, quando arrivò dal Mázindarán Bahá’u’lláh e lo informò che era impossibile raggiungere i confratelli. Questa notizia lo rattristò molto e l’unica sua consolazione in quei giorni furono le frequenti visite a Bahá’u’lláh e il beneficio dei Suoi saggi e impagabili consigli 1.

Váhíd infine decise di andare a Qazvín e di riprendere il lavoro al quale si era dedicato, partì quindi per Qum e Káshán, dove incontrò i suoi condiscepoli, riuscendo a stimolare il loro entusiasmo e rafforzare le loro attività. Proseguì il suo viaggio, recandosi a Isfáhán, Ardistán e Ardikán e in ciascuna di queste città proclamò, con ardore e intrepidità, gl’insegnamenti basilari del suo Maestro e riuscì a convertire alla Causa un considerevole numero di abili sostenitori. Raggiunse Yazd in tempo per celebrare la festa di Naw-Rúz coi suoi confratelli, che espressero grande gioia per il suo arrivo e furono incoraggiati dalla sua presenza tra loro. Essendo uomo noto e influente, possedeva oltre alla casa di Yazd, dove abitavano sua moglie e i suoi quattro figli, una casa a Dáráb, che era la casa dei suoi antenati, e un’altra a Nayríz, splendidamente arredata.

Giunse a Yazd il primo giorno del mese di Jámádíyu’l-Avval, dell’anno 1266 A.H. 2; il cinque del mese, anniversario della Dichiarazione del Báb, coincideva con la festa di Naw-Rúz. Quel giorno tutti i principali ‘ulamá’ e notabili della città andarono a salutarlo e a fargli i loro migliori auguri. C’era anche il Navvab-i-Radaví, il più gretto e il più importante tra i suoi avversari, il quale accennò malignamente alla prodigalità e al fasto del ricevimento. « Il banchetto imperiale dello Scià », lo sentirono osservare, « non può sperare di rivaleggiare con questa mensa sontuosa che ci hai imbandito. Ho il sospetto che, oltre alla festa nazionale che oggi celebriamo, tu ne commemori un’altra ». La risposta audace e sarcastica di Váhíd suscitò l’ilarità di tutti i presenti. Conoscendo l’avarizia e la malvagità del Navvab, tutti applaudirono la sua osservazione appropriata. Il Navvab, che non aveva mai dovuto affrontare lo scherno di una compagnia così numerosa e illustre, fu punto dalla risposta: le braci dell’odio contro il suo rivale che covavano nella sua mente arsero allora con maggiore intensità e lo spinsero a soddisfare la sua sete di vendetta.

Váhíd colse l’occasione per proclamare nella riunione intrepidamente e senza riserve i princìpi basilari della sua Fede e dimostrarne la validità. La maggioranza dei suoi ascoltatori conoscevano solo in parte i caratteri salienti della Causa e ne ignoravano il pieno significato. Alcuni furono irresistibilmente attratti e l’abbracciarono prontamente; altri, incapaci di ricusare pubblicamente le sue affermazioni, la denunziarono in cuor loro e giurarono di estirparla con ogni mezzo di cui disponevano. La sua eloquente e intrepida esposizione della Verità infiammò la loro ostilità e rafforzò la loro determinazione di cercare, senza indugi, di distruggere la sua influenza. Quel giorno vide l’unificazione delle loro forze contro di lui e segnò l’inizio d’un episodio che era destinato a cagionare tanta sofferenza e tanto dolore 3.

Distruggere la vita di Váhíd divenne lo scopo supremo delle loro attività. Diffusero la notizia che, il giorno di Naw-Rúz, in mezzo ai dignitari civili ed ecclesiastici della città riuniti, Siyyid Yahyáy-i-Dárábí aveva avuto la temerarietà di palesare i caratteri provocatori della Fede del Báb e aveva addotto, per gli scopi della sua argomentazione, prove e testimonianze attinte sia dal Corano sia dalle tradizioni dell’Islám. « Benché i suoi ascoltatori », incalzarono, « fossero i più illustri mujtahid della città, nessuno in quel consesso osò protestare contro le sue veementi asserzioni delle pretese del suo credo. Il silenzio di coloro che lo sentirono è responsabile dell’ondata d’entusiasmo per lui che ha spazzato la città e ha portato ai suoi piedi non meno della metà degli abitanti, mentre i restanti stanno per essere rapidamente attratti ».

Queste voci si sparsero in un lampo per Yazd e il distretto circostante e se da una parte accesero una fiammata di odio accanito, dall’altra contribuirono a incrementare considerevolmente il numero di coloro che avevano già aderito alla Fede. Da Ardikán e Manshád, come dalle città e dai villaggi più distanti, affluirono verso la casa di Váhíd folle di persone, ansiose di sentire il nuovo Messaggio. « Cosa dobbiamo fare? », gli chiedevano. « In qual modo ci consigli di dimostrare la sincerità della nostra fede e l’intensità della nostra devozione? ». Dalla mattina alla sera, Váhíd si dedicava a risolvere le loro perplessità e a guidare i loro passi sul sentiero del servizio.

Questa febbrile attività dei suoi zelanti sostenitori, sia uomini sia donne, durò quaranta giorni. La sua casa era divenuta il centro di raccolta per un’innumerevole schiera di devoti che desideravano dimostrare degnamente lo spirito della Fede che aveva infiammato la loro anima. Il tumulto che ne seguì, fornì al Navvab-i-Radaví un nuovo pretesto per indurre il governatore della città 4, che era giovane e inesperto negli affari di stato, ad appoggiare i suoi sforzi contro l’avversario: egli cadde presto vittima degl’intrighi e delle macchinazioni di quel maligno mestatore, il quale riuscì a convincerlo a inviare un reparto d’uomini armati per assediare la casa di Váhíd. Mentre un reggimento dell’esercito stava andando colà, una folla scalmanata, costituita dalla canaglia della città, si stava dirigendo, per istigazione del Navvab, verso il medesimo luogo, decisa a intimidirne gli abitanti con minacce e imprecazioni.

Benché completamente accerchiato da forze ostili, Váhíd, dalla finestra del piano superiore della sua casa, continuò ad animare lo zelo dei suoi sostenitori e a chiarire ciò che era ancora oscuro nella loro mente. Quando videro che un intero reggimento, appoggiato da una folla infuriata, si preparava ad attaccarli, sconvolti si rivolsero a Váhíd e lo pregarono di guidare i loro passi. « Questa spada che è qui davanti a me », rispose, rimanendo seduto accanto alla finestra, « mi è stata data dal Qá’im stesso. Iddio sa che, se Egli mi avesse autorizzato a combattere la guerra santa contro questa gente, io, da solo e senza aiuti, avrei annientato le loro forze. Ma mi è stato comandato di astenermi da un tale atto ». « Questo destriero », aggiunse, guardando il cavallo che il suo servo Hasan aveva sellato e condotto davanti alla casa, « mi fu dato dal defunto Muhammad Sháh, perché con esso compissi la missione che mi aveva affidato, di svolgere un’investigazione imparziale sulla natura della Fede proclamata dal Siyyid-i- Báb. Egli mi chiese di riferire a lui personalmente i risultati della mia indagine, in quanto ero il solo tra i capi ecclesiastici di Tihrán di cui potesse avere piena fiducia. Mi accinsi all’impresa con la ferma risoluzione di confutare le argomentazioni del Siyyid, di convincerLo ad abbandonare le Sue idee e a riconoscere la mia supremazia e di condurLo con me a Tihrán come prova del trionfo da me riportato. Ma quando giunsi in Sua presenza e udii le Sue parole, accadde il contrario di quanto avevo immaginato. Nel corso della mia prima udienza con Lui, fui completamente sconcertato e confuso; alla fine della seconda, mi sentii impotente e ignorante come un bimbo; la terza mi trovò umile come la polvere sotto i Suoi piedi. Egli in verità aveva cessato d’essere l’insignificante siyyid che m’ero prima immaginato: per me, Egli era la manifestazione di Dio Stesso, la personificazione vivente dello Spirito Divino. Sin da allora ho sempre desiderato dare la vita per amor Suo. Sono felice, perché il giorno che ho desiderato vedere si sta rapidamente avvicinando ».

Vedendo l’agitazione che s’era impadronita dei suoi amici, li esortò a rimanere calmi e pazienti e a confidare che l’onnipotente Vendicatore avrebbe entro breve tempo inflitto, con la Sua mano invisibile, una schiacciante sconfitta alle forze schierate contro i Suoi amati. Appena ebbe detto queste parole, giunse la notizia che era improvvisamente ricomparso un certo Muhammad-‘Abdu’lláh che nessuno sospettava fosse ancora vivo, con alcuni compagni d’armi, che erano scomparsi anche loro; essi, gridando « Yá Sáhibu’z-Zamán! » 5, si erano gettati contro gli aggressori e ne avevano messo in fuga le forze. Egli aveva mostrato un tale coraggio, che tutto il distaccamento, abbandonate le armi, si era rifugiato, insieme con il governatore, nel forte di Nárín.

Quella notte, Muhammad-‘Abdu’lláh chiese di essere condotto in presenza di Váhíd. Gli assicurò di aver fede nella Causa e l’informò dei piani che aveva fatto per soggiogare il nemico. « Benché il tuo intervento », rispose Váhíd, « abbia oggi allontanato da questa casa il pericolo di una calamità imprevista, tuttavia devi riconoscere che fino ad ora la nostra contesa con questa gente si era limitata a un’argomentazione vertente sulla Rivelazione del Sáhibu’z-Zamán. Ma d’ora in poi il Navvab sarà indotto a istigare il popolo contro di noi e sosterrà che sono insorto per affermare la mia sovranità indiscussa sull’intera provincia e che intendo estenderla a tutta la Persia ». Váhíd gli consigliò di lasciare immediatamente la città e lo affidò alle cure e alla protezione dell’Onnipotente. « Finché non è arrivata la nostra ora », lo rassicurò, « il nemico non potrà farci alcun male ».

Ma Muhammad-‘Abdu’lláh preferì ignorare il consiglio di Váhíd. « Sarebbe vile da parte mia », lo sentirono osservare mentre si ritirava, « abbandonare gli amici alla mercé d’un avversario infuriato e omicida. Quale sarebbe allora la differenza tra me e coloro che abbandonarono il Siyyidu’sh-Shuhadá 6 il giorno di ‘Áshúrá 7 e lo lasciarono senza compagni sul campo di Karbilá? Iddio misericordioso, spero, sarà indulgente con me e perdonerà la mia azione ».

Dette queste parole, s’incamminò verso il forte di Nárín, costrinse le forze che s’erano ammassate nelle sue vicinanze a cercare ingloriosamente rifugio entro le mura del forte e riuscì a tenere il governatore imprigionato con gli assediati. Montò egli stesso la guardia, pronto a intercettare qualsiasi rinforzo cercasse di raggiungerli.

Frattanto il Navvab era riuscito a far scoppiare una sollevazione generale, a cui prese parte la massa degli abitanti. Stavano preparandosi ad attaccare la casa di Váhíd quando questi chiamò Siyyid ‘Abdu‘l-‘Azím-i-Khu’í, soprannominato il Siyyid-i-Khál-Dár, che aveva partecipato per pochi giorni alla difesa del forte di Tabarsí e la cui dignità di portamento attraeva l’attenzione generale, e gli ordinò di montare sul suo destriero e di rivolgere pubblicamente, per le strade e i bazar, un appello in suo nome a tutta la popolazione, esortandola ad abbracciare la Causa del Sáhibu’z-Zamán. « Sappiano », aggiunse, « che smentisco ogni intenzione di voler combattere la guerra santa contro di loro. Ma stiano attenti che, se insistono ad assediare la mia casa e continuano ad attaccarmi senza alcuna considerazione per la mia posizione e il mio lignaggio, per difendermi, sarò costretto a resistere alle loro forze e ad annientarle. Se decidono di non ascoltare il mio consiglio e di cedere alle maldicenze dell’astuto Navvab, ordinerò a sette dei miei compagni di respingere le loro forze con ignominia e di infrangere le loro speranze

Il Siyyid-i-Khál-Dár balzò sul destriero e, scortato da quattro dei suoi fidi confratelli, a cavallo attraversò il mercato e fece risuonare, con accenti d’irresistibile maestà, l’ammonimento che era stato incaricato di proclamare. Non contento del messaggio che gli era stato affidato, osò aggiungere, nel suo modo inimitabile, alcune parole con cui cercò d’aumentare l’effetto che la proclamazione aveva prodotto. « Attenti », tuonò, « a non disprezzare la nostra Causa. Il mio grido, vi avverto, sarà sufficiente a far tremare le mura del vostro forte e la forza del mio braccio sarà capace di abbattere la resistenza delle sue porte ».

La sua voce stentorea risuonò come una tromba e gettò la costernazione nel cuore di coloro che la udirono. Con una sola voce, l’impaurita popolazione dichiarò la propria intenzione di deporre le spade e di cessare di molestare Váhíd, il cui lignaggio, dicevano, avrebbero d’allora in poi riconosciuto e rispettato.

Costretto dal netto rifiuto della popolazione di lottare contro Váhíd, il Navvab li indusse a dirigere il loro attacco contro Muhammad-‘Abdu’lláh e i suoi compagni d’armi, appostati nelle vicinanze del forte. L’urto di queste forze indusse il governatore a uscire dal suo rifugio e a dare istruzioni al distaccamento assediato di unirsi a coloro che erano stati reclutati dal Navvab. Muhammad-‘Abdu’lláh aveva cominciato a disperdere la folla che uscendo dalla città gli si era scagliata addosso, quando fu d’un tratto investito dal fuoco che le truppe aprirono contro di lui per ordine del governatore. Una pallottola lo colpì al piede e lo gettò a terra. Alcuni dei suoi sostenitori furono anch’essi feriti. Il fratello lo portò in fretta e furia al sicuro e quindi lo condusse, per sua richiesta, nella casa di Váhíd.

Il nemico lo seguì fino alla casa, ben deciso a catturarlo e ucciderlo. Il clamore della gente, che si era ammassata attorno alla sua abitazione, costrinse Váhíd a ordinare a Mullá Muhammad-Ridáy-i-Manshádí, uno dei più illuminati ‘ulamá’ di Manshád, che aveva gettato il turbante e s’era offerto come portinaio, di fare una sortita e di sgominare le loro forze con l’aiuto di sei compagni. di sua scelta. « Gridate tutti », comandò loro, « e ripetete sette volte le parole “Alláh-u-Akbar” 8 e alla settima invocazione scagliatevi contemporaneamente contro i vostri aggressori ».

Mullá Muhammad-Ridá, che Bahá’u’lláh aveva chiamato Rada’r-Rúh, balzò in piedi e, coi suoi compagni, s’accinse immediatamente a eseguire le istruzioni ricevute. Coloro che l’accompagnarono, benché fragili di costituzione e inesperti nella scherma, erano infiammati da una fede che fece di loro il terrore degli avversari: sette dei più temibili nemici perirono quel giorno, il ventisettesimo del mese di Jámádíyu’th-Thání 9. « Avevamo appena messo in rotta il nemico », raccontò Mullá Muhammad-Ridá, « ed eravamo appena ritornati nella casa di Váhíd, quando ci trovammo davanti Muhammad-‘Abdu’lláh ferito. Lo portammo dal nostro capo, il quale divise con lui il cibo che gli era stato servito. Lo conducemmo poi in un nascondiglio, dove rimase nascosto finché non guarì dalla ferita. Alla fine fu catturato e ucciso dal nemico ».

Nella notte, Váhíd invitò i compagni a separarsi e a star bene attenti, se volevano salvarsi. Consigliò alla moglie di trasferirsi in casa del padre con i figli e tutte le loro proprietà e di abbandonare tutti i suoi beni personali. « Ho costruito », la informò, « questa magnifica residenza con la sola intenzione che alla fine essa venisse demolita sul sentiero della Causa e ho acquistato le sfarzose suppellettili con cui l’ho adornata con la speranza di poterle un giorno sacrificare per amore del mio Diletto. Allora amici e nemici capiranno che al proprietario di questa casa era stato affidato un retaggio così grande e inestimabile che un palazzo terreno, per quanto sontuosamente adornato e magnificamente arredato, non aveva valore ai suoi occhi; ma era divenuto, nella sua opinione, misero come un mucchio d’ossa al quale solo i cani della terra si sentono attratti. Oh! se questa irresistibile dimostrazione di spirito di rinuncia riuscisse ad aprire gli occhi di questa gente perversa e a infondere in loro il desiderio di seguire le orme di colui che ha mostrato un tale spirito! ».

Nel cuore della notte, Váhíd si alzò e, raccolti gli scritti del Báb di cui era in possesso e le copie di tutti i trattati che egli stesso aveva composto, li affidò al suo servo Hasan, ordinandogli di portarli in un luogo fuori dalle porte della città dove la strada si dirama per Mihríz. Gli ordinò di attendere il suo arrivo e lo avverti che, se non avesse seguito le sue istruzioni, non l’avrebbe incontrato mai più.

Appena Hasan sali a cavallo e si accinse a partire, gli giunsero alle orecchie i gridi delle sentinelle, che facevano la guardia all’ingresso del forte. Temendo che lo catturassero e gli carpissero i preziosi manoscritti in suo possesso, decise di seguire una strada diversa da quella che il padrone gli aveva detto di prendere. Mentre passava dietro il forte, le sentinelle lo riconobbero, colpirono il cavallo e lo catturarono.

Frattanto Váhíd si preparava a partire per Yazd. Affidati due figli, Siyyid Ismá’íl e Siyyid ‘Alí-Muhammad, alle cure della madre, parti accompagnato dagli altri due, Siyyid Ahmad e Siyyid Mihdí, insieme con due dei compagni che abitavano entrambi a Yazd e gli avevano chiesto il permesso di accompagnarlo durante il viaggio. Il primo, che si chiamava Ghulám-Ridá, era un uomo di coraggio eccezionale, mentre l’altro Ghulám-Ridáy-i-Kúchik, si era distinto come tiratore. Prese la stessa strada che aveva consigliato di seguire al suo servo e, arrivato in salvo in quel luogo, fu sorpreso di trovare che Hasan non c’era. Váhíd capì immediatamente che egli non aveva seguito le sue istruzioni ed era stato catturato dal nemico. Deplorò la sua sorte e si ricordò dell’atto di Muhammad-‘Abdu’lláh, che aveva similmente agito contro la sua volontà e ne aveva di conseguenza subito un danno. Seppero poi che proprio quella mattina Hasan era stato sparato dalla bocca di un cannone 10 e che un certo Mirza Hasan, che era stato l’imám di uno dei quartieri di Yazd, noto per la sua pietà, era stato catturato anche lui e aveva subito la medesima sorte del compagno.

La partenza di Váhíd da Yazd stimolò il nemico a compiere nuove imprese. Fecero irruzione nella sua casa, ne saccheggiarono i beni e la rasero al suolo 11. Egli nel frattempo stava dirigendosi verso Nayríz. Benché non fosse avvezzo a camminare, quella notte percorse a piedi sette farsang 12, mentre i suoi figli per una parte della strada furono portati dai suoi due compagni. Il giorno successivo si nascose nei recessi di una montagna vicina. Suo fratello, che abitava nei dintorni e nutriva un profondo affetto per lui, appena fu informato del suo arrivo, gl’inviò segretamente le provviste che gli erano necessarie. Nella medesima giornata arrivò nel villaggio un corpo di servitori a cavallo del governatore; costoro cercarono la casa di suo fratello, dove sospettavano che si nascondesse, e si appropriarono di una gran parte dei suoi beni. Non riuscendo a trovarlo, ritornarono sui loro passi verso Yazd.

Váhíd, nel frattempo, camminò per le montagne fino a giungere al distretto di Bavánát-i-Fárs. Molti dei suoi abitanti, che erano tra i suoi ferventi ammiratori, abbracciarono prontamente la Causa e tra questi vi fu il ben noto Hájí Siyyid Ismá’íl, lo Shaykhu’l-Islám di Bavánát. Un considerevole numero di queste persone lo accompagnarono fino al villaggio di Fassá, i cui abitanti si rifiutarono però di accettare il Messaggio che egli li invitava a seguire.

Durante tutto il viaggio, dovunque si fermasse, il primo pensiero di Váhíd, appena smontava da cavallo, era quello di cercare il masjid più vicino, dove invitava la popolazione a sentire l’annuncio della buona novella del Nuovo Giorno. Completamente dimentico delle fatiche del viaggio, saliva subito sul pulpito e proclamava intrepidamente alla congregazione i caratteri della Fede che si era levato a difendere.

Se in una località riusciva a convertire qualche persona di cui poteva aver fiducia che avrebbe propagato la Causa dopo la sua partenza, vi trascorreva solo una notte, altrimenti riprendeva il cammino e si rifiutava di rimanervi più a lungo. « Quando passo per un villaggio », osservò spesso, « e dai suoi abitanti non aspiro la fragranza della fede, i loro cibi e le loro bevande mi sono sgraditi ».

Giunto nel villaggio di Rúníz, nel distretto di Fasá, Váhíd decise di fermarsi per un po’ di giorni. I cuori che trovò recettivi al suo appello, cercò di attrarli e infiammarli col fuoco dell’amor di Dio. Appena giunse a Nayríz la notizia del suo arrivo, l’intera popolazione del quartiere di Chinár-Súkhtih gli corse incontro. Spinte dall’amore e dall’ammirazione per lui, decisero di unirsi a quella gente anche persone di altri quartieri. Temendo che Zaynu’l-‘Abidín Khán, governatore di Nayríz, muovesse obiezioni alla loro visita, la maggioranza di costoro parti la notte. Dal solo quartiere di Chinár-Súkhtih più di cento studenti, preceduti dal loro capo, Hájí Shaykh ‘Abdu’l-‘Alí, suocero di Váhíd e giudice di chiara fama nel distretto, assieme a un gruppo dei più illustri tra i notabili di Nayríz si mossero per andare a salutare l’atteso visitatore prima che arrivasse in città. Tra costoro c’erano Mullá ‘Abdu’l-Husayn, un vegliardo di ottant’anni molto stimato per la sua devozione e la sua dottrina; Mullá Báqir, che era l’imám del quartiere Chinár-Súkhtih; Mirza Hasan-i-Qutb, il kad-khudá 13 del quartiere del Bázár, con tutti i suoi parenti; Mirza Abu’l-Qásim, un parente del governatore; Hájí Muhammad-Taqí, che è stato menzionato da Bahá’u’lláh nella « Súriy-i-Ayyúb », insieme con suo genero; Mirza Nawrá e Mirza ‘Alí-Ridá, entrambi del quartiere dei Sádát 14.

Tutti costoro, alcuni di giorno, altri di notte, andarono fino al villaggio di Rúníz, per dare il benvenuto al visitatore e rassicurarlo della loro immutabile devozione. Benché il Báb avesse rivelato una Tavola generale indirizzata personalmente a coloro che avevano da poco abbracciato la Causa a Nayríz, tuttavia gl’intestatari non ne compresero il significato e i princìpi fondamentali. Fu affidato a Váhíd il compito di illuminarli sul suo vero scopo e di spiegarne i caratteri salienti.

Zaynu’l-‘Abidín Khán, appena si rese conto del grande esodo che si era verificato allo scopo di ricevere Váhíd al suo arrivo, inviò a coloro che erano già partiti un messaggero speciale con l’incarico di raggiungerli e comunicar loro la sua determinazione di togliere la vita, catturare le mogli e confiscare le proprietà a chiunque sarebbe rimasto fedele a Váhíd. Nemmeno uno di coloro che erano partiti dette ascolto all’ammonimento, anzi si aggrapparono più fortemente al loro capo. La loro incrollabile determinazione e la sdegnosa noncuranza davanti al suo messaggero, riempirono il governatore di sgomento: temendo che si sollevassero contro di lui, decise di trasferire la propria residenza nel villaggio di Qutrih, dov’era stata la casa dei suoi avi, che si trovava a Otto farsang 15 di distanza da Nayríz. Scelse quel villaggio perché nelle sue vicinanze si ergeva una solida fortezza che avrebbe potuto utilizzare come luogo di rifugio in caso di pericolo. Inoltre era sicuro che i suoi abitanti erano tiratori esperti e sapeva di poter contare su di loro, quando li avesse chiamati a difenderlo.

Nel frattempo Váhíd aveva lasciato Rúníz per andare al mausoleo d Pír-Murád, che era situato fuori dal villaggio di Istahbánát. Nonostante l’interdizione pronunziata dagli ‘ulamá’ del villaggio contro il suo ingresso, non meno di venti borghigiani gli andarono incontro per dargli il benvenuto e l’accompagnarono fino a Nayríz. Quando arrivarono, il mattino del quindici di Rajab 16, Váhíd, appena giunse nel suo quartiere natale di Chinár-Súkhtih, prima di tutto, anche prima di andare a casa, entrò nel masjid e invitò la congregazione, che si era riunita, a riconoscere e ad abbracciare il Messaggio del Báb. Impaziente di affrontare la moltitudine che l’attendeva, indossando ancora le vesti impolverate, sali sul pulpito e parlò con eloquenza così convincente che l’intero uditorio fu elettrizzato dalle sue parole 17. Non meno di mille persone, tutte nate nel quartiere di Chinár-Súkhtih, e altre cinquecento di altri quartieri di Nayríz, che affollavano l’edificio, risposero spontaneamente al suo appello. « Abbiamo sentito e obbediamo », gridò con incontenibile entusiasmo la moltitudine giubilante, facendosi avanti per offrirgli il suo omaggio e la sua gratitudine. Quel discorso appassionato affascinò il cuore di coloro che lo sentirono, in misura tale quale Nayríz mai aveva sperimentato prima.

« Il solo scopo », Váhíd continuò, spiegando al suo uditorio, non appena il primo scoppio d’entusiasmo si fu placato, « per cui sono venuto a Nayríz è quello di proclamare la Causa di Dio. Lo ringrazio e Lo glorifico per avermi permesso di toccare il vostro cuore col Suo Messaggio. Non c’è alcun bisogno che mi trattenga oltre in mezzo a voi, perché, se prolungo la mia permanenza, temo che il governatore vi maltratterà a causa mia. Potrebbe chiedere rinforzi da Shíráz e distruggere le vostre case e farvi subire angherie indescrivibili « Siamo pronti e rassegnati alla volontà di Dio », rispose, con una sola voce, la congregazione. « Che Dio ci conceda la Sua grazia, per resistere alle calamità che potranno ancora colpirci. Ma non possiamo accettare una separazione così improvvisa e precipitosa da te ».

Dette queste parole, uomini e donne si unirono per condurre Váhíd a casa in trionfo. Fuori di sé per l’eccitazione ed esultanti di gioia, si accalcarono attorno a lui e, con applausi e acclamazioni, lo scortarono fino all’ingresso della sua casa.

I pochi giorni che acconsentì di fermarsi a Nayríz, Váhíd li trascorse per lo più nel masjid, dove continuò a esporre gl’insegnamenti fondamentali che aveva ricevuto dal suo Maestro con la sua abituale eloquenza e senza la minima restrizione. Ogni giorno il numero dei suoi ascoltatori crebbe e i segni della sua meravigliosa influenza divennero dappertutto sempre più palesi.

Il fascino che esercitava sulla gente non poté non trasformare in furia l’ostilità dormiente di Zaynu’l-‘Abidín Khán. Costui fu stimolato a compiere nuove imprese e dette ordine di raccogliere un esercito con l’esplicito proposito di sradicare quella Causa che, lo sentiva, stava rapidamente distruggendo la sua posizione. Riuscì presto a reclutare circa mille uomini, in parte cavalieri, in parte fanti, tutti ben addestrati nell’arte della guerra e forniti di un’ampia riserva di munizioni. Il suo piano era di fare una sortita improvvisa e catturare l’avversario.

Váhíd, non appena fu informato dei disegni del governatore, ordinò ai venti compagni che erano partiti da Istahbánát per dargli il benvenuto, e che l’avevano accompagnato fino a Nayríz, di occupare il forte di Khájih, situato nelle vicinanze del quartiere Chinár-Súkhtih. Nominò capo del manipolo Shaykh Hádí, figlio di Shaykh Muhsin ed esortò i suoi seguaci che abitavano nel quartiere a fortificare le porte, le torri e le mura della roccaforte.

Nel frattempo, il governatore si era trasferito nella sua casa, nel quartiere del Bázár; le forze che aveva raccolto lo accompagnarono e occuparono il forte situato nelle vicinanze. Le sue torri e le sue mura, che incominciò a fortificare, sovrastavano l’intera città. Obbligato Siyyid Abú-Tálib, il kad-khudá 18 del quartiere, uno dei compagni di Váhíd, a evacuare la sua casa, ne fortificò il tetto e, piazzati su di esso alcuni dei suoi uomini, al comando di Muhammad-‘Alí Khán, dette ordine di aprire il fuoco sull’avversario. Il primo a soffrire fu quel Mullá ‘Abdu’l-Husayn che, nonostante l’età avanzata, era andato a piedi a dare il benvenuto a Váhíd. Stava recitando le preghiere sul tetto di casa quando una pallottola lo colpì al piede destro, facendolo sanguinare profusamente. Quel colpo crudele suscitò la compassione di Váhíd, che si affrettò, scrivendo un messaggio alla vittima, a esprimere il suo rammarico per la ferita riportata e a consolarlo con il pensiero di essere stato prescelto, in età così avanzata, come prima vittima sul sentiero della Causa.

Questo attacco improvviso scoraggiò alcuni compagni che avevano abbracciato il Messaggio in modo affrettato e non ne avevano compreso il pieno significato. La loro fede fu così gravemente scossa che alcuni furono indotti, nel cuore della notte, a separarsi dai compagni e a unirsi alle forze del nemico. Váhíd, appena fu informato della loro azione, si alzò all’alba e, montato a cavallo, andò accompagnato da alcuni dei suoi sostenitori fino al forte di Khájih, dove si insediò.

Il suo arrivo dette il via a un nuovo attacco contro di lui. Zaynu’l-‘Abidín Khán, inviò immediatamente il fratello maggiore, ‘Alí-Asghar Khán, insieme con mille uomini, tutti armati e ben addestrati, a cingere d’assedio il forte, in cui avevano già trovato riparo settantadue compagni. Al levar del sole, alcuni di loro, agendo secondo le istruzioni di Váhíd, fecero una sortita e con straordinaria rapidità costrinsero gli assedianti a disperdersi.

Solo tre dei compagni trovarono la morte durante lo scontro. Il primo fu Táju’d-Dín, uomo famoso per la sua intrepidità, che confezionava kuláh 19 di lana; il secondo fu Zayníl, figlio di Iskandar, che faceva l’agricoltore; il terzo fu Mirza Abu’l-Qásim, che era uomo di meriti illustri.

Questa disfatta completa e improvvisa suscitò le apprensioni del principe Fírúz Mirza, il Nusratu’d-Dawlih, governatore di Shíráz, il quale dette ordine di sterminare immediatamente gli occupanti del forte. Zaynu’l-‘Abidín Khán inviò a Váhíd uno dei servitori del Principe, esortandolo, considerata la tensione dei loro rapporti, a lasciare Nayríz, con la speranza che i disordini suscitati si potessero presto placare. « Digli », rispose Váhíd, « che i miei due figli, insieme con i loro due servitori, sono tutta la compagnia che ho con me. Se la mia presenza in città è causa di disordini, sono pronto a partire. Perché, invece di accordarci il benvenuto che spetta a un discendente del Profeta, ci ha rifiutato l’acqua e ha incitato i suoi uomini ad assediarci e ad attaccarci? Se insiste nel negarci il necessario per vivere, l’avverto che sette dei miei compagni, che egli considera i più insignificanti tra gli uomini, infliggeranno alle sue forze combinate un’umiliante sconfitta ».

Visto che Zaynu’l-‘Abidín Khán ignorava l’avvertimento, Váhíd ordinò ai compagni di uscire dal forte e di punire gli aggressori. Con coraggio e fiducia ammirevoli, essi, benché molto giovani d’anni e del tutto inesperti nell’uso delle armi, riuscirono a demoralizzare un esercito addestrato e organizzato. ‘Alí-Asghar Khán perì e due dei suoi figli furono catturati. Zaynu’l-‘Abidín Khán si ritirò ignominiosamente nel villaggio di Qutrih con quel che ancora rimaneva delle sue forze sgominate, informò il Principe della gravità della situazione e lo implorò di mandare subito dei rinforzi, sottolineando in particolare il bisogno di artiglieria pesante e di un ingente distaccamento di fanteria e di cavalleria.

Váhíd, da parte sua, visto che il nemico era deciso a sterminarli, dette ordine di rinforzare le difese del forte, di costruire una cisterna d’acqua entro la sua cinta e di piantare fuori dalle sue porte le tende che avevano portato con sé. Quel giorno assegnò ad alcuni compagni certe funzioni e doveri speciali. Karbilá’í Mirza Muhammad fu fatto portiere del forte; Shaykh Yúsuf, custode dei fondi; Karbilá’í Muhammad, figlio di Shamsu’d-Dín, sovraintendente ai giardini adiacenti al forte e alle sue barricate; Mirza Ahmad, zio di ‘Alíy-i-Sardár, fu nominato ufficiale responsabile della torre del mulino noto con il nome di Chinár, situato nelle vicinanze del forte; Shaykháy-i-Shívih-Kash, carnefice; Mirza Muhammad-Ja‘far, cugino di Zaynu’l-‘Abidín Khán, cronista; Mirza Fathu’lláh, lettore delle cronache; Mashhadí Taqí-Baqqál, carceriere; Hájí Muhammad-Taqí, archivista cancelliere; e Ghulám-Ridáy-i-Yazdí, comandante delle forze. Oltre ai settantadue compagni che l’avevano seguito a Nayríz da Istahbánát e che erano già lì con lui, Váhíd fu indotto dalle richieste del suocero Shaykh ‘Abdu’l-‘Alí e di Siyyid Ja‘far-i-Yazdí, ben noto teologo, a far entrare nel forte alcuni abitanti del quartiere Bázár, insieme con molti dei Suoi parenti.

Zaynu’l-‘Abidín Khán rinnovò ancora il suo appello al Principe e questa volta accluse alla petizione, in cui chiedeva urgenti e adeguati rinforzi, la somma di cinquemila túmán 20; come suo dono personale per lui. Affidò la lettera a uno dei suoi intimi amici, Mullá Báqir, gli permise di montare il suo cavallo personale e gli disse di consegnarla personalmente al Principe. Lo scelse per la sua intrepidità, la sua eloquenza e il suo tatto. Mullá Báqir prese una strada abbandonata e dopo un giorno di viaggio giunse in una località chiamata Hudashtak; lì vicino c’era un forte attorno al quale a volte piantavano le tende certe tribù che girovagavano per la campagna.

Mullá Báqir scese da cavallo vicino a una di queste tende; mentre stava parlando coi suoi occupanti, arrivò Hájí Siyyid Ismá’íl, lo Shaykhu’l-Islám di Bavánát. Questi aveva avuto da Váhíd il permesso di andare nel suo villaggio natale per certi urgenti affari e di ritornare immediatamente a Nayríz. Dopo colazione, egli vide un cavallo riccamente bardato, legato alle corde di una delle tende vicine. Quando seppe che apparteneva a un amico di Zaynu’l-‘Abidín Khán, giunto da Nayríz e in viaggio per Shíráz, Hájí Siyyid Ismá’íl che era un uomo eccezionalmente coraggioso andò immediatamente verso quella tenda, montò sul cavallo e, sguainata la spada, disse al proprietario della tenda con cui Mullá Báqir stava ancora conversando queste perentorie parole: « Arresta questo scellerato, che è fuggito davanti al volto del Sáhibu’z-Zamán 21. Legagli le mani e consegnamelo ». Spaventati dalle parole e dalle maniere di Hájí Mullá Ismá’íl, gli occupanti della tenda obbedirono immediatamente. Gli legarono le mani e consegnarono la corda con cui l’avevano legato a Hájí Siyyid Ismá’íl, il quale spronò il destriero in direzione di Nayríz e costrinse il prigioniero a seguirlo. A due farsang di distanza dalla città, giunse nel villaggio di Rastáq e consegnò il suo prigioniero nelle mani del kad-khudá, il cui nome era Hájí Akbar, chiedendo con insistenza che lo conducessero in presenza di Váhíd. Quando fu condotto davanti a lui, quest’ultimo si informò sullo scopo del suo viaggio a Shíráz, al che egli dette una risposta franca e dettagliata. Benché Váhíd fosse incline a perdonarlo, tuttavia Mullá Báqir, a causa del suo atteggiamento verso di lui, fu infine messo a morte dai compagni.

Zaynu’l-‘Abidín Khán, lungi dal cedere nella sua determinazione di sollecitare l’aiuto di cui aveva bisogno da Shíráz, questa volta si appellò con accresciuta veemenza al Principe, implorandolo di raddoppiare gli sforzi per sterminare quella che egli considerava la più grave minaccia alla sicurezza della sua provincia. Non contento della sua supplica ardente, inviò a Shíráz alcuni uomini di sua fiducia, che caricò di regali per il Principe, sperando così di indurlo a agire con prontezza. In un ulteriore sforzo per assicurarsi il successo dei suoi tentativi, rivolse numerosi appelli ai principali ‘ulamá’ e siyyid di Shíráz, in cui travisò vistosamente le intenzioni di Váhíd, si dilungò sulle sue attività sovversive e li incitò a intercedere presso il Principe e a supplicarlo di far presto a mandare i rinforzi.

Il Principe accolse prontamente la loro richiesta. Dette istruzioni a ‘Abdu’lláh Khán, lo Shujá’u’l-Mulk, di partire subito per Nayríz, accompagnato dai reggimenti Hamadání e Sílákhurí, guidati da molti ufficiali e muniti di un adeguato equipaggiamento d’artiglieria. Inoltre dette istruzioni ai suoi rappresentanti a Nayríz di reclutare tutti gli uomini validi del distretto circostante, inclusi i villaggi di Istahbánát, Íraj, Panj-Ma‘ádin, Qutrih, Bashnih, Dih-Cháh, Mushkán e Rastáq. A tutti questi aggiunse i membri della tribù nota col nome di Vísbaklaríyyih, ai quali comandò di unirsi all’esercito di Zaynu’l-‘Abidín Khán.

Uno sterminato esercito accerchiò improvvisamente il forte in cui Váhíd e i compagni erano assediati e incominciò a scavare trincee attorno ad esso e ad alzare barricate lungo le trincee 22. Appena il lavoro fu finito aprirono il fuoco su di loro. Una pallottola colpì il cavallo montato da uno dei servitori di Váhíd che era di guardia alla porta. Alla prima pallottola ne segui immediatamente un’altra che penetrò nella torre, sopra la porta. Durante il bombardamento uno dei compagni, mirando col moschetto all’ufficiale che guidava l’artiglieria, lo colpì uccidendolo sul colpo e di conseguenza il rombo dei cannoni tacque immediatamente. Nel frattempo gli aggressori si erano ritirati e si erano nascosti dentro le trincee. Quella notte né gli assediati né gli attaccanti osarono uscire dalle postazioni.

Ma la seconda notte Váhíd convocò Ghulám-Ridáy-i-Yazdí e gli ordinò di fare una sortita dal forte insieme con quattordici compagni e di scacciare il nemico. Coloro che furono invitati a compiere questa impresa erano per lo più uomini in età avanzata, che nessuno avrebbe ritenuto capaci di sopportare l’impeto di una lotta così accanita. Tra loro c’era un calzolaio, il quale, benché avesse più di novant’anni, mostrò un entusiasmo e un vigore tali che nessun giovane avrebbe potuto sperare di superarlo. Gli altri tredici erano solo dei ragazzi, ancora del tutto impreparati ad affrontare i pericoli e a sopportare lo sforzo che quella sortita comportava. Ma l’età, per quegli eroi che un’intrepida volontà e una fiducia incrollabile negli alti destini della Causa aveva totalmente trasformato, contava ben poco. Il loro capo ordinò loro di separarsi immediatamente dopo essere usciti dal riparo del forte e di gettarsi in mezzo ai nemici, gridando « Alláh-u-Akbar! ». 23

Appena fu dato il segnale, essi si alzarono e corsero ai destrieri e ai moschetti e galopparono fuori dalle porte del forte. Senza timore del fuoco sputato dalla bocca dei cannoni e delle pallottole che piombavano sulle loro teste, si gettarono a capofitto in mezzo ai nemici. Quest’improvvisa battaglia durò non meno di Otto ore, durante le quali l’intrepido manipolo dimostrò una destrezza e un coraggio tali da stupire i veterani delle schiere nemiche. Dalla città di Nayríz e dalle fortificazioni circostanti accorsero in aiuto della piccola compagnia, che aveva resistito così valorosamente alle forze unite di un intero esercito, alcuni rinforzi. Mentre la mischia si faceva più feroce, si levarono da ogni parte le grida delle donne di Nayríz, accorse sul tetto delle case ad acclamare un eroismo così spettacolare. I loro applausi esultanti si aggiunsero al rombo dei cannoni; il frastuono crebbe ancora di più per gli « Alláh-u-Akbar! » che i compagni, nella frenesia dell’eccitazione, gridavano in mezzo a quel tumulto. Lo strepito delle loro donne, la loro sorprendente audacia e fiducia in se stessi demoralizzarono completamente il nemico e ne paralizzarono gli sforzi. Quando i vincitori ritornarono sui propri passi verso il forte, il campo del nemico era desolato e deserto e offriva un triste spettacolo. I compagni si portarono con sé, oltre ai feriti gravi, non meno di sessanta morti, tra cui c’erano i seguenti:

1. Ghulám-Ridáy-i-Yazdí (da non confondersi con l’omonimo capitano delle truppe),

2. Il fratello di Ghulám-Ridáy-i-Yazdí,
3. ‘Alí, figlio di Khayru’lláh,

4. Khájih Husayn-i-Qannád, figlio di Khájih Ghaní,

5. Asghar, figlio di Mullá Mihdí,
6. Karbilá’í ‘Abdu’l-Karím,
7. Husayn figlio di Mashhadí Muhammad,

8. Zaynu’l-‘Abidín, figlio di Mashhadí Báqir-i-Sabbágh,

9. Mullá Ja‘far-i-Mudhahhib,
10. ‘Abdu’lláh, figlio di Mullá Músá,
11. Muhammad, figlio di Mashhadí Rajab-i-Haddád,

12. Karbilá’í Hasan, figlio di Karbilá’í Shamsu’d-Dín-i-Malikí-Dúz,

13. Karbilá’í Mirza Muhammad-i-Zári‘,
14. Karbilá’í Báqir-i-Kafsh-Dúz,

13. Mirza Ahmad, figlio di Mirza Husayn-i-Káshí-Sáz,

16. Mullá Hasan, figlio di Mullá ‘Abdu’lláh,
17. Mashhadí Hájí Muhammad,

18. Abú-Tálib, figlio di Mír Ahmad-i-Nukhud-Biríz,

19. Akbar, figlio di Muhammad-i-‘Áshúr,
20. Taqíy-i-Yazdí,
21. Mullá ‘Alí, figlio di Mullá Ja‘far,
22. Karbilá’í Mirza Husayn,
23. Husayn Khán, figlio di Sharíf,
24. Karbilá’í Qurbán,
25. Khájih Kázim, figlio di Khájih ‘Alí,
26. Áqá, figlio di Hájí ‘Alí,
27. Mirza Nawrá, figlio di Mirza Mu’íná.

Una disfatta così completa convinse Zaynu’l-‘Abidín Khán e il suo stato maggiore che tutte le loro fatiche per costringere gli avversari a sottomettersi in aperta battaglia erano inutili. Come accadde con l’esercito del principe Mihdí-Qulí Mirza, il cui tentativo di vincere gli avversari 24 lealmente sul campo era fallito miserevolmente, il tradimento e l’inganno si rivelarono alla fine le sole armi con cui quella gente codarda riuscì a battere il suo nemico invincibile. Con gli stratagemmi ai quali alla fine ricorsero, Zaynu’l-‘Abidín Khán e il suo stato maggiore dimostrarono di non esser in grado, nonostante le grandi risorse a loro disposizione e il sostegno morale che il governatore del Fárs e gli abitanti di tutta la provincia avevano loro dato, di vincere quello che in apparenza sembrava solo un manipolo di persone inesperte e insignificanti. In fondo al cuore, erano convinti che dietro le mura del forte fosse ammassata una schiera di volontari che nessuna forza ai loro ordini avrebbe potuto affrontare e sconfiggere.

Facendo una richiesta di pace, cercarono d’ingannare quei puri e nobili cuori con astuzia meschina. Per un po’ di giorni sospesero qualsiasi tipo di ostilità, dopo di che rivolsero agli assediati un solenne appello scritto, che in sostanza diceva quello che segue: « Fino a questo momento, poiché ignoravamo il vero carattere della vostra Fede, ci siamo lasciati convincere dai sobillatori a credere che voi aveste violato i sacri precetti dell’Islám. Per questo siamo insorti contro di voi e abbiamo tentato di estirpare la vostra Fede. In questi ultimi giorni, ci siamo resi conto che le vostre attività non sono permeate da alcun intento politico, che nessuno di voi ha alcuna inclinazione a sovvertire le fondamenta dello Stato. Ci siamo anche persuasi che i vostri insegnamenti non comportano alcuna grave deviazione dagli insegnamenti fondamentali dell’Islám. Pare che voi vi limitiate a sostenere che è apparso un uomo, le cui parole sono ispirate e la cui testimonianza è certa, che tutti i seguaci dell’Islam devono riconoscere e appoggiare. Non possiamo in alcun modo convincerci della validità di questa affermazione, se non acconsentite a riporre la massima fiducia nella nostra sincerità e non accettate la nostra richiesta di far uscire dal forte alcuni dei vostri rappresentanti per incontrarci in questo campo, dove potremo, nello spazio di pochi giorni, accertare i caratteri del vostro credo. Se ci farete vedere di saper dimostrare che le affermazioni della vostra Fede sono vere, anche noi l’abbracceremo prontamente, perché non siamo nemici della Verità e nessuno di noi desidera negarla. Abbiamo sempre riconosciuto il vostro capo come uno dei più abili difensori dell’Islam e lo consideriamo un esempio e una guida. Questo Corano, sul quale apponiamo il nostro sigillo, è testimone dell’integrità delle nostre intenzioni. Decida il Libro santo se le affermazioni che proponete sono vere o false. La maledizione di Dio e del Suo Profeta ricada su di noi, se tenteremo d’ingannarvi. Se accetterete il nostro invito, salverete dalla distruzione un intero esercito; se rifiuterete, lo lascerete nell’incertezza e nel dubbio. Vi diamo la parola che, non appena saremo convinti della verità del vostro Messaggio, cercheremo di mostrare lo stesso zelo e la stessa devozione che voi avete già così notevolmente palesato. I vostri amici saranno i nostri amici, e i vostri nemici nostri nemici. Qualsiasi cosa il vostro capo deciderà di ordinare, ci impegniamo a obbedire. D’altra parte, se non saremo convinti della verità delle vostre affermazioni, promettiamo solennemente che non v’impediremo in alcun modo di ritornare al forte e siamo disposti a riprendere la battaglia contro di voi. Vi preghiamo di non versare altro sangue prima d’aver tentato di dimostrare la verità della vostra Causa ».

Váhíd ricevette il Corano con grande riverenza e lo baciò con devozione. « È giunta la nostra ora », osservò. « Accettando il loro invito sicuramente faremo loro capire la bassezza del loro tradimento ». « Benché io sia ben conscio dei loro disegni », aggiunse, rivolgendosi ai compagni, « penso che sia mio dovere accettare il loro invito e cogliere l’opportunità per tentare ancora una volta di spiegare le verità della mia amata Fede ». Li invitò a continuare a svolgere le loro mansioni e a non fare alcun affidamento su quanto i loro avversari avessero affermato di credere. Ordinò loro inoltre di sospendere qualsiasi ostilità fino a nuovo ordine.

Con queste parole disse addio ai compagni e, accompagnato da cinque servitori, tra cui c’erano Mullá ‘Alíy-i-Mudhahhib e il perfido Hájí Siyyid ‘Ábid, partì per il campo del nemico. Zaynu’l-‘Abidín Khán gli andò incontro per dargli il benvenuto, accompagnato da Shujá’u’l-Mulk e da tutti i membri dello stato maggiore. Lo accolsero cerimoniosamente e lo condussero in una tenda che era stata drizzata appositamente per ospitarlo e lo presentarono al resto degli ufficiali. Egli si sedette su una sedia, mentre il resto della compagnia, con l’eccezione di Zaynu’l-‘Abidín Khán, Shujá’u’l-Mulk e un altro ufficiale, al quale egli fece cenno di sedersi, rimase tutta in piedi davanti a lui. Le parole che rivolse loro furono tali, che anche un uomo dal cuore di pietra non avrebbe potuto mancare di sentirne la forza. Bahá’u’lláh nel « Súriy-i-Sabr » ha immortalato quel nobile appello e ha rivelato la piena misura del suo significato. « Sono venuto tra voi », dichiarò Váhíd, « armato della testimonianza che il mio Signore m’ha affidato. Non sono forse un discendente del Profeta di Dio? Perché dunque volete uccidermi? Per quale ragione avete pronunziato la mia sentenza di morte e vi siete rifiutati di riconoscere gl’incontestabili diritti di cui il mio lignaggio m’investe? ».

La maestà del suo portamento, unita alla sua acuta eloquenza, confuse gli ascoltatori. Per tre giorni e tre notti, lo ospitarono con generosità e lo trattarono con grande rispetto. Nella preghiera collettiva, seguirono sempre la sua guida e ascoltarono con attenzione i suoi discorsi. Benché in apparenza sembrava che s’inchinassero alla sua volontà, tuttavia stavano segretamente complottando contro la sua vita e cospirando per sterminare il resto dei suoi compagni. Sapevano bene che, se gli avessero fatto il minimo torto mentre i suoi compagni erano ancora trincerati dietro le mura del forte, si sarebbero esposti a un pericolo ancora più grande di quello che erano già stati costretti ad affrontare. Tremavano davanti alla furia e alla vendetta delle loro donne non meno che davanti all’eroismo e all’abilità dei loro uomini. Si rendevano conto che tutte le risorse dell’esercito non erano riuscite a soggiogare quel manipolo di giovani imberbi e di vecchi decrepiti. Soltanto uno stratagemma audace e ben concepito avrebbe potuto assicurar loro la vittoria finale. La paura che riempiva i loro cuori era in gran parte ispirata dalle parole di Zaynu’l-‘Abidín Khán, il quale, con inflessibile determinazione, cercava di mantenere inalterato l’odio con cui aveva infiammato le loro anime. Le ripetute esortazioni di Váhíd avevano suscitato le sue apprensioni: temeva che, con la magia delle sue parole, potesse riuscire a indurli a trasferire la loro alleanza a un così eloquente oppositore.

Alla fine Zaynu’l-‘Abidín Khán e i suoi amici decisero di chiedere a Váhíd di scrivere di suo pugno un messaggio ai compagni che erano ancora dentro il forte, per informarli che si era giunti a un accomodamento amichevole delle loro divergenze e per esortarli o a raggiungerlo nel quartier generale dell’esercito o a ritornare a casa. Benché fosse riluttante ad accettare questa richiesta, Váhíd fu alla fine forzato a sottomettersi. Oltre a questo messaggio, mandò anche una seconda lettera per comunicare confidenzialmente ai compagni i malvagi disegni del nemico e avvertirli di non lasciarsi ingannare. Affidò ambedue le lettere a Hájí Siyyid ‘Ábid, dandogli istruzioni di distruggere la prima e consegnare ai compagni la seconda. Lo incaricò, inoltre, di esortarli a scegliere i più abili tra loro e a fare una sortita nel cuore della notte per sgominare le forze del nemico.

Hájí Siyyid ‘Ábid, ricevette queste istruzioni, le comunicò perfidamente a Zaynu’l-‘Abidín Khán. Quest’ultimo cercò subito di convincerlo, promettendogli in cambio una generosa ricompensa, a esortare, in nome di Váhíd, gli occupanti del forte a disperdersi. Lo sleale messaggero consegnò ai compagni la prima lettera e raccontò che il loro capo era riuscito a convertire alla Fede tutto l’esercito e che in seguito a questa conversione aveva consigliato loro di partire per le loro case.

Benché fossero molto stupiti da questo messaggio, i compagni non si sentirono disposti a trascurare i desideri che Váhíd aveva espresso cos chiaramente. Si separarono riluttanti, lasciando tutte le fortificazioni incustodite. Obbedienti agli ordini scritti dal loro capo, molti deposero le armi e s’incamminarono verso Nayríz.

Zaynu’l-‘Abidín Khán, prevedendo che i compagni avrebbero subito evacuato il forte, mandò un contingente di soldati a impedire loro di entrare in città. Essi furono presto attorniati da una moltitudine di uomini armati, che ricevevano continuamente rinforzi dal quartier generale dell’esercito. Trovandosi così inaspettatamente accerchiati, decisero di respingere l’attacco con ogni mezzo di cui disponevano e di arrivare al Masjid-i-Jámi‘ il più presto possibile. Alcuni servendosi delle spade e dei moschetti, che avevano portato con sé, altri con bastoni e pietre soltanto, cercarono di aprirsi un varco verso la città. Il grido di « Alláh-u-Akbar! » 25 si levò ancora, più fiero e più trascinante che mai. Alcuni furono martirizzati, mentre si facevano strada attraverso i ranghi dei loro vili aggressori. Gli altri, benché feriti e bersagliati dai nuovi rinforzi che li avevano completamente circondati, alla fine riuscirono ad arrivare al riparo nel masjid.

Frattanto il ben noto Mullá Hasan, figlio di Mullá Muhammad-‘Alí, ufficiale dell’esercito di Zaynu’l-‘Abidín Khán, insieme con i suoi uomini, riuscì a distanziare gli oppositori e, nascondendosi in uno dei minareti del masjid, si appostò in attesa dei fuggiaschi. Appena la banda sgominata si avvicinò al masjid, egli aprì il fuoco contro di loro. Un certo Mullá Husayn lo riconobbe e gridando « Alláh-u-Akbar ». scalò il minareto, mirò con il moschetto al codardo ufficiale e lo gettò al suolo. I suoi amici lo trasportarono in un luogo dove poté guarire dalle ferite.

Non potendo più rimanere rifugiati nel masjid, i compagni furono costretti a rifugiarsi dovunque potevano, in attesa di riuscire a scoprire quale sorte avesse subito il loro capo. Il loro primo pensiero dopo il tradimento fu quello di cercare di raggiungerlo e di eseguire le istruzioni che egli avrebbe dato. Ma non riuscirono a scoprire cosa gli era successo e tremavano al pensiero che fosse stato messo a morte.

Frattanto Zaynu’l-‘Abidín Khán e il suo stato maggiore, imbaldanziti dallo sbandamento dei compagni, stavano sforzandosi strenua- mente di scoprire un modo per sfuggire agli obblighi del loro solenne giuramento e per poter uccidere senza impedimenti il loro principale rivale. Con uno specioso stratagemma cercarono di scansare le loro sacre promesse e di affrettare la realizzazione di un desiderio da lungo tempo accarezzato. Nel bel mezzo delle loro deliberazioni, ‘Abbás-Qulí Khán, uomo noto per la sua ferocia e crudeltà, assicurò agli amici suoi che se il pensiero di aver fatto un giuramento lasciava perplessi loro, lui non aveva in alcun modo preso parte a quella dichiarazione ed era pronto a fare quello che essi non si sentivano capaci di fare. « Posso arrestare in qualsiasi momento », esplose in uno scoppio di rabbia, « e mettere a morte chiunque io ritenga colpevole di aver violato le leggi del paese ». Immediatamente dopo chiamò tutti coloro ai quali erano morti dei parenti, perché eseguissero la sentenza di morte pronunciata contro Váhíd. Il primo a presentarsi fu Mullá Ridá, il cui fratello Mullá Báqir era stato catturato dallo Shaykhu’l-Islám di Bavánát; il successivo fu un uomo chiamato Safar, a cui era morto il fratello, Sha’bán; il terzo fu Áqá Khán, il cui padre, ‘Alí-Asghar Khán, fratello maggiore di Zaynu’l-‘Abidín Khán, aveva subito la stessa sorte.

Desiderosi di mettere in atto i suggerimenti di ‘Abbás-Qulí Khán, questi uomini strapparono a Váhíd il turbante dalla testa, glielo arrotolarono attorno al collo e, legatolo a un cavallo, lo trascinarono ignominiosamente per le strade 26. Gli oltraggi che gli furono fatti ricordarono agli spettatori il terribile spettacolo della tragica fine dell’Imám Husayn, il cui corpo fu abbandonato alla mercé d’un nemico infuriato, e sul quale passò spietatamente una moltitudine di cavalieri. Le donne di Nayríz, trascinate a un parossismo di eccitazione dalle grida di trionfo di un nemico assassino, fecero ressa da ogni parte attorno alla salma e, con l’accompagnamento di tamburi e cembali, dettero libero sfogo ai loro sentimenti di sfrenato fanatismo. Danzarono festosa- mente attorno ad essa, sprezzanti delle parole che Váhíd aveva detto tra i tormenti, parole che, in un’epoca precedente e in circostanze analoghe, aveva pronunziato l’Imám Husayn: « Tu sai, o mio Diletto, che ho abbandonato il mondo per amor Tuo e ho riposto la mia fiducia in Te solo. Sono impaziente di correre a Te, perché la bellezza del Tuo sembiante è stata svelata ai miei occhi. Tu sei testimone dei malvagi disegni che il mio rio persecutore ha tramato contro di me. No! mai mi assoggetterò ai suoi desideri, mai gli prometterò fedeltà ».

Così giunse alla fine una nobile ed eroica vita. Una carriera così movimentata e brillante, resa illustre da un così vasto sapere 27, da un così indomito coraggio e da un così raro spirito d’abnegazione, sicuramente richiedeva la corona di una morte gloriosa come quella che gli toccò con il martirio 28. L’estinzione di quella vita dette il via a un feroce assalto contro la vita e i beni di coloro che avevano sostenuto la sua Fede. Non meno di cinquemila uomini furono incaricati di svolgere quel compito infame. Gli uomini furono catturati, incatenati, maltrattati e infine massacrati, le donne e i bambini furono fatti prigionieri e soggetti a tali brutalità che nessuna penna osa descrivere. I loro beni furono confiscati e le loro case distrutte. Il forte di Khájih fu incendiato e raso al suolo. Quasi tutti gli uomini furono dapprima condotti in catene a Shíráz, dove poi, per la maggior parte, subirono una morte crudele 29. In quanto a coloro che, per motivi di utilità personale, aveva fatto gettare in oscure cisterne sotterranee, Zaynu’l-‘Abidín Khán, appena ebbe raggiunti i suoi scopi, li consegnò nelle mani dei suoi sgherri, i quali perpetrarono su di loro atti d’indicibile crudeltà 30. I loro persecutori li fecero prima sfilare per le strade di Nayríz e poi li sottoposero a trattamenti atroci, nella speranza di ricavarne quei vantaggi materiali che non erano ancora riusciti a ottenere. Soddisfatta la loro avidità, fecero subire a ogni vittima una morte straziante. Per placare la loro sete di vendetta, i carnefici utilizzarono ogni strumento di tortura che riuscirono a immaginare. Li marcarono a fuoco, strapparono loro le unghie, li frustarono, fecero loro un foro nel naso attraverso il quale passarono una corda, piantarono loro chiodi nelle mani e nei piedi e in quello stato pietoso li trascinarono per le strade, oggetto di disprezzo e derisione per tutto il popolo.

Tra le vittime c’era un certo Siyyid Ja’far-i-Yazdí, che in passato aveva goduto di grande prestigio ed era stato molto onorato dal popolo. Così grande era il rispetto che gli portavano che Zaynu’l-‘Abidín Khán gli dava la precedenza e lo trattava con deferenza e cortesia estreme. Dette ordine che il turbante di costui fosse insozzato e gettato nel fuoco. Privato dell’emblema del suo lignaggio lo fece esporre al pubblico, che sfilò davanti a lui e lo coprì di vituperi e di ridicolo 31.

Un’altra vittima della loro tirannia fu Hájí Muhammad-Taqí, il quale in passato, a causa della sua onestà e giustizia, aveva goduto di tale reputazione che i giudici della corte consideravano sempre la sua opinione come la parola decisiva nel loro verdetto. Un uomo così grande e stimato fu, nel cuore dell’inverno, spogliato delle sue vesti, gettato in una pozzanghera e frustato spietatamente. Siyyid Ja’far e Shaykh ‘Abdu’l-‘Alí, suocero di Váhíd, il più grande teologo di Nayríz, giudice di chiara fama, furono condannati a subire la stessa sorte, insieme con Siyyid Husayn, uno dei notabili della città. Mentre erano esposti al freddo, la feccia della popolazione fu pagata perché perpetrasse abominevoli crudeltà sui loro corpi tremanti. Molti poveracci che erano accorsi per avere la ricompensa promessa per questa vile azione, si sentirono rivoltare quando appresero quale compito erano invitati a eseguire e, rifiutando il danaro, ritornarono via pieni di ripugnanza e di disprezzo 32.

Il giorno del martirio di Váhíd fu il diciotto del mese di Sha’bán, dell’anno 1266 A.H. 33 Dieci giorni più tardi il Báb veniva fucilato a Tabríz.

CAPITOLO XXIII
IL MARTIRIO DEL Báb

IL racconto della tragedia che concluse i moti di Nayríz si sparse per tutta la Persia e accese un allarmante entusiasmo nel cuore di coloro che lo udirono. Gettò le autorità della capitale nella costernazione e le spronò a prendere una decisione disperata. L’Amír-Nizám, il Gran Visir di Násiri’d-Dín Sháh, era particolarmente intimorito da queste ricorrenti manifestazioni di indomita volontà, di veemente e inflessibile tenacia nella fede. Benché le forze dell’esercito imperiale avessero trionfato dappertutto, benché i compagni di Mullá Husayn e di Váhíd fossero stati gli uni dopo gli altri sterminati in una spietata carneficina per mano dei loro ufficiali, tuttavia per le scaltre menti dei governanti di Tihrán era chiaro ed evidente che lo spirito animatore di un così raro eroismo non era stato affatto vinto, che la sua potenza era lungi dall’essere infranta. La lealtà che i superstiti di quel drappello sgominato nutrivano verso il loro Maestro prigioniero rimaneva ancora intatta. Nulla era riuscito fino a quel momento, nonostante le spaventose perdite che avevano subito, a logorare quella lealtà o a indebolire quella fede. Lungi dall’essere estinto, quello spirito era divampato più intenso e devastatore che mai. Molestato dal ricordo delle atrocità sofferte, quel manipolo di perseguitati si aggrappò ancor più appassionatamente alla propria Fede e guardò con accresciuto fervore e speranza al proprio Maestro 1. Ma, soprattutto, Colui che aveva acceso quella fiamma e alimentato quello spirito era ancora vivo e, nonostante il Suo isolamento, era in grado di esercitare tutta la Sua influenza. E neppure la più stretta sorveglianza era riuscita ad arrestare l’ondata che aveva spazzato l’intera faccia del paese e che aveva la sua forza motrice nell’esistenza del Báb. Quella luce doveva essere spenta, bisognava ostruire la corrente proprio alla fonte; allora il torrente che aveva cagionato tanta devastazione si sarebbe prosciugato. Questo era il pensiero dominante del Gran Visir di Násiri’d-Dín Sháh. MetterLo a morte sembrò a quello sciocco ministro il mezzo più efficace per fare uscire il paese dal disonore nel quale pensava fosse sprofondato 2.

Messosi in moto, convocò i suoi consiglieri, condivise con loro i suoi timori e le sue speranze e li informò del contenuto dei suoi piani. « Guardate », esclamò, « la tempesta che la Fede del Siyyid-i- Báb ha scatenato nel cuore dei miei compatrioti! Solo la sua pubblica esecuzione, a mio avviso, può permettere a questo paese sconvolto di recuperare la tranquillità e la pace. Chi può calcolare le forze che sono perite nel corso degli scontri a Shaykh Tabarsí? Chi può calcolare gli sforzi compiuti per riportare quella vittoria? Il tumulto che aveva sconvolto il Mázindarán era appena stato soffocato, quando le fiamme di un’altra rivolta divamparono nella provincia del Fárs, arrecando al mio popolo tante sofferenze. Siamo appena riusciti a domare la rivolta che ha devastato il sud, e scoppia un’altra insurrezione nel nord, trascinando nel suo vortice Zanján e dintorni. Se siete capaci di consigliare un rimedio, ditemelo, perché mia sola intenzione è quella di assicurare pace e onore ai miei compatrioti ».

Non una voce osò rispondere, se non quella di Mirza Áqá Khán-i-Núrí, Ministro della Guerra, il quale affermò che mettere a morte un siyyid esiliato per le azioni commesse da una banda di agitatori irresponsabili sarebbe stato un atto di palese crudeltà. Ricordò l’esempio del defunto Muhammad Sháh il quale aveva sempre seguito la consuetudine di non considerare le ignobili calunnie che i nemici del siyyid sottoponevano di continuo alla sua attenzione. L’Amír-Nizám fu molto scontento. « Queste considerazioni », protestò, « sono del tutto irrilevanti di fronte al problema che ci troviamo davanti. Sono in gioco gli interessi dello stato e non possiamo assolutamente tollerare queste periodiche sommosse. L’Imám Husayn, considerata la suprema necessità di difendere l’unità dello stato, non fu forse messo a morte da quelle stesse persone che l’avevano visto più d’una volta ricevere segni di straordinario affetto da parte di Muhammad, suo Nonno? Non si rifiutarono forse costoro, in quelle circostanze, di tenere in considerazione i diritti che il suo lignaggio gli conferiva? Nulla, tranne il rimedio che invoco, può sradicare questo male e portarci la pace che desideriamo ».

Senza tener conto del parere del suo consigliere, l’Amír-Nizám inviò al Navvab Hamzih Mirza, governatore dell’Ádhirbáyján, che si distingueva tra i prìncipi di sangue reale per gentilezza d’animo e rettitudine di condotta, l’ordine di convocare il Báb a Tabríz 3, ma fece attenzione a non rivelare al Principe il suo vero intendimento. Il Navvab, presumendo che il ministro volesse permettere al Prigioniero di ritornare a casa, ordinò immediatamente a uno dei suoi fidi ufficiali di andare con una scorta di cavalieri a Chihríq, dove il Báb era ancora confinato, e di ricondurLo a Tabríz. Lo raccomandò alle loro cure, esortandoli a trattarLo con il massimo rispetto.

Quaranta giorni prima dell’arrivo di quell’ufficiale a Chihríq, il Báb raccolse tutti i documenti e le Tavole che aveva e, ripostili in uno scrigno, insieme con il Suo astuccio per le penne, i sigilli e gli anelli d’agata, li affidò alle cure di Mullá Báqir, una delle Lettere del Vivente. Gli consegnò anche una lettera indirizzata a Mirza Ahmad, Suo amanuense, alla quale accluse la chiave dello scrigno. Lo esortò a prendersi molta cura di quel pegno, ne spiegò la sacralità e lo invitò a nasconderne il contenuto a tutti fuorché Mirza Ahmad. Mullá Báqir partì direttamente per Qazvín. In diciotto giorni raggiunse la città e fu informato che Mirza Ahmad era partito per Qum. Parti subito per quella destinazione e arrivò verso la metà del mese di Sha’bán 4. Io ero allora a Qum, insieme con un certo Sádiq-i-Tabrízí, che Mirza Ahmad aveva mandato a prendermi a Zarand. Vivevo nella stessa casa di Mirza Ahmad, casa che questi aveva preso in affitto nel quartiere di Bágh-Panbih. In quei giorni abitavano con noi Shaykh ‘Azím, Siyyid Ismá’íl e pochi altri compagni. Mullá Báqir consegnò il pegno nelle mani di Mirza Ahmad, il quale, per le insistenze di Shaykh ‘Azím, l’aprì davanti a noi. Ci meravigliammo quando vedemmo, tra le cose che lo scrigno conteneva, un rotolo di carta blu, della più fine fattura, su cui il Báb, nella Sua squisita calligrafia, che era un raffinato shikastih, aveva scritto, in forma di stella a cinque punte, circa cinquecento versetti composti tutti da derivati della parola « Bahá » 5. Quel rotolo era in perfetto stato di conservazione, era immacolato e a prima vista dava l’impressione di essere stampato piuttosto che scritto a mano. Così fine e intricata era la calligrafia che, visto a distanza, lo scritto appariva come un’unica velatura d’inchiostro sulla carta. Fummo sopraffatti dall’ammirazione, quando guardammo quel capolavoro che, pensammo, nessun calligrafo avrebbe potuto eguagliare. Riponemmo il rotolo nello scrigno e lo porgemmo a Mirza Ahmad, il quale, lo stesso giorno in cui lo ricevette, parti per Tihrán. Prima di partire, ci informò che di quella lettera poteva divulgare solo l’ingiunzione che il plico doveva essere consegnato nelle mani di Jináb-i-Bahá 6 a Tihrán 7. In quanto a me ebbi istruzioni da Mirza Ahmad di andare a Zarand e di raggiungere mio padre, che attendeva con ansia il mio ritorno.

Fedele alle istruzioni che aveva ricevuto dal Navvab Hamzih Mirza, l’ufficiale condusse il Báb a Tabríz e mostrò verso di Lui il massimo rispetto e la massima considerazione. Il Principe aveva dato disposizione a uno dei suoi amici di ospitarLo nella sua casa e di trattarLo con estrema deferenza. Tre giorni dopo l’arrivo del Báb, giunse un nuovo ordine del Gran Visir, che comandava al Principe di eseguire la sentenza di morte del Prigioniero lo stesso giorno in cui gli sarebbe pervenuto il farmán 8. Chiunque si professasse Suo seguace doveva ugualmente essere condannato a morte. Il reggimento armeno di Urúmíyyih, il cui colonnello era Sám Khán, aveva l’ordine di fucilarLo nel cortile della caserma di Tabríz, situata nel centro della città.

Il Principe espresse la sua costernazione al latore del farmán, Mirza Hasan Khán, Vazír Nizám e fratello del Gran Visir. « L’Amír », gli disse, « farebbe meglio a darmi incarichi di maggior merito di quello che m’ha ora affidato. Il compito che sono invitato a eseguire è un compito che solo una persona ignobile può accettare. Non sono né Ibn-i-Zíyád né Ibn-i-Sa‘d 9 perché mi possa chiedere di assassinare un innocente discendente del Profeta di Dio ». Mirza Hasan Khán riferì queste parole del Principe al fratello, il quale gli ordinò pertanto di eseguire lui stesso, senza indugio e per intero, le istruzioni che aveva già dato. « Liberaci », il Visir esortò il fratello, « da questa ansietà che ci pesa sul cuore, e fa che questa faccenda sia conclusa prima che arrivi il mese di Ramadán, sí che possiamo incominciare il digiuno calmi e tranquilli ». Mirza Hasan Khán tentò d’informare il Principe di queste nuove disposizioni, ma non riuscì nel suo intento, perché questi, fingendo d’essere ammalato, si rifiutò d’incontrarlo. Niente affatto scoraggiato dal suo rifiuto, dispose che il Báb e coloro che erano in Sua compagnia fossero immediatamente trasferiti dalla casa in cui si trovavano ad una delle stanze della caserma. Inoltre, ordinò a Sám Khán di mandare dieci dei suoi uomini a fare la guardia all’ingresso della stanza in cui Egli doveva essere confinato.

Privato del turbante e della fascia, i due emblemi del Suo nobile lignaggio, il Báb, insieme con Siyyid Husayn, Suo amanuense, fu ancora condotto in un’altra prigione; Egli ben sapeva che questo era solo un passo avanti nella strada che Lo doveva condurre alla meta che Si era proposto di raggiungere. Quel giorno ci fu una terribile agitazione nella città di Tabríz. La grande convulsione collegata nelle idee dei suoi abitanti al Giorno del Giudizio sembrava finalmente giunta tra loro. Mai la città aveva sperimentato un tumulto così grave e misterioso come quello da cui furono colti i suoi abitanti il giorno in cui il Báb fu condotto nel luogo che doveva essere il teatro del Suo martirio. Mentre Egli Si avvicinava al cortile della caserma, improvvisamente balzò avanti un giovane il quale, desideroso di raggiungerLo, s’era fatto strada a forza tra la folla, ignorando completamente i rischi e pericoli che un simile tentativo poteva implicare. Il suo volto era stralunato, aveva i piedi nudi, i capelli spettinati. Senza respiro per l’eccitazione ed esausto per la fatica, si gettò ai piedi del Báb e, afferrando l’orlo della Sua veste, Lo implorò appassionatamente: « Non allontanarmi da Te, o Maestro. Dovunque Tu vada, permettimi di seguirTi ». « Muhammad-‘Alí », rispose il Báb, « alzati; e sii certo che sarai con Me 10. Domani vedrai ciò che Dio ha decretato ». Altri due compagni, incapaci di trattenersi, corsero avanti e Gli assicurarono la loro perenne lealtà. Costoro, insieme con Mirza Muhammad-‘Alíy-i-Zunúzí, furono catturati e posti nella stessa cella in cui furono confinati il Báb e Siyyid Husayn.

Ho sentito Siyyid Husayn attestare ciò che segue: « Quella notte il volto del Báb era raggiante di gioia, una gioia quale mai aveva brillato dal Suo sembiante. Indifferente alla tempesta che infuriava attorno a Lui, conversò con noi con gaiezza e allegria. I dolori che avevano gravato cos pesantemente su di Lui pareva fossero del tutto svaniti. Il loro peso parve essersi dissolto nella consapevolezza della vittoria imminente. “Domani”, ci disse, “sarà il giorno del Mio martirio. Oh! se uno di voi potesse ora levarsi e, con le sue stesse mani, mettere fine alla Mia vita! Preferisco essere ucciso dalla mano di un amico piuttosto che da quella del nemico”. Quando Lo sentimmo esprimere quel desiderio scoppiammo in lacrime, tremando al pensiero di spegnere con le nostre mani una vita cos preziosa. Ci rifiutammo e rimanemmo silenziosi. Mirza Muhammad-‘Alí improvvisamente balzò in piedi e annunciò d’essere pronto a obbedire a tutto ciò che il Báb desiderava. “Questo giovane che si è levato per esaudire il Mio desiderio”, dichiarò il Báb, non appena fummo intervenuti costringendolo ad abbandonare quel pensiero, “subirà il martirio insieme con Me. Sceglierò lui perché divida con Me la sua corona” ».

La mattina presto Mirza Hasan Khán ordinò al suo farrásh-báshí 11 di condurre il Báb in presenza dei principali mujtahid della città e di farsi dare da loro l’autorizzazione necessaria per la Sua esecuzione 12. Mentre il Báb stava lasciando la caserma, Siyyid Husayn Gli chiese cosa dovesse fare. « Non confessare la tua Fede », lo consigliò. « Così, quando verrà l’ora, potrai comunicare a coloro che sono destinati ad ascoltarti, le cose che solo tu sai ». Era intento a conversare in privato con lui quando il farrásh-báshí improvvisamente interruppe il colloquio e, preso Siyyid Husayn per la mano, si appartò con lui e lo rimproverò aspramente. « Finché non gli avrò detto tutte le cose che desidero dirgli », il Báb avvertì il farrásh-báshí, « nessuna forza terrena può farMi tacere. Se tutto il mondo si armasse contro di Me, ancora non riuscirebbe a impedirMi di mettere in atto, fino all’ultima parola, la Mia intenzione ». Il farrásh-báshí fu meravigliato da questa ardita affermazione. Ma non dette risposta e invitò Siyyid Husayn ad alzarsi e a seguirlo.

Quando Mirza Muhammad-‘Alí fu introdotto in presenza dei mujtahid, essi, in considerazione della posizione che occupava il suo patrigno, Siyyid ‘Alíy-i-Zunúzí, lo esortarono più volte a rinnegare la sua fede. « Non rinunzierò mai », esclamò, « al mio Maestro. Egli è l’essenza della mia fede e l’oggetto della mia più vera adorazione. In Lui ho trovato il mio paradiso e nell’osservanza della Sua legge riconosco la mia arca di salvezza ». « Sta zitto! » tuonò Mullá Muhammad-i-Mámáqání, di fronte al quale il giovane era stato condotto. « Queste parole dimostrano che sei matto; posso giustificare le parole di cui non sei responsabile ». « Non sono matto », ribatté. « Tale accusa dovrebbe piuttosto essere fatta a te, che hai condannato a morte un uomo santo come il promesso Q’im. Non è uno sciocco colui che ha abbracciato la Sua fede e desidera versare il proprio sangue sul Suo sentiero ».

Il Báb fu, a Sua volta, condotto davanti a Mullá Muhammad-i-Mámáqání. Appena Lo ebbe riconosciuto, questi prese la sentenza di morte che aveva scritto in precedenza e, porgendola al suo servitore, gli ordinò di consegnarla al farrásh-báshí. « Non è necessario », gridò, « portare il Siyyid-i- Báb in mia presenza. Questa sentenza di morte la scrissi lo stesso giorno in cui l’incontrai nella riunione presieduta dal Valí-‘Ahd. Egli è sicuramente lo stesso uomo che ho visto in quell’occasione e non ha, nel frattempo, rinunziato a nessuna delle sue pretese ».

Quindi il Báb fu condotto a casa di Mirza Báqir, figlio di Mirza Ahmad, che era recentemente succeduto al padre. Quando arrivarono, trovarono il suo servitore al cancello, con la sentenza di morte del Báb in mano. « Non occorre che entriate », gli disse. « Il mio padrone è già persuaso che suo padre abbia avuto ragione nel pronunziare la sentenza di morte. Non può fare nulla di meglio che seguire il suo esempio ».

Mullá Murtadá-Qulí, imitando gli altri due mujtahid, aveva scritto in precedenza il suo attestato e si rifiutò di incontrare a faccia a faccia il temuto rivale. Appena si fu procurato i documenti necessari, il farrásh-báshí consegnò il Prigioniero nelle mani di Sám Khán, assicurandogli che poteva procedere nel suo compito ora che aveva ottenuto la sanzione delle autorità civili ed ecclesiastiche del regno.

Siyyid Husayn era rimasto confinato nella stessa stanza in cui aveva trascorso la notte precedente con il Báb. Stavano accingendosi a mettere in quella stanza anche Mirza Muhammad-‘Alí, quando questi scoppiò in lacrime e li scongiurò di permettergli di rimanere con il suo Maestro. Lo consegnarono nelle mani di Sám Khán, che ebbe l’ordine di uccidere anche lui, se persisteva nel suo rifiuto di rinnegare la Fede.

Nel frattempo, Sám Khán si sentiva sempre più colpito dal comportamento del Prigioniero e dal trattamento che Gli era stato riservato. Fu colto da una grande paura che la sua azione potesse attirargli addosso l’ira di Dio. « Professo la Fede Cristiana », spiegò al Báb, « e non nutro alcun malanimo contro di te. Se la tua Causa è la Causa della Verità, fa che io mi possa liberare dall’obbligo di versare il tuo sangue ». « Segui le istruzioni che hai ricevuto », rispose il Báb, « se la tua intenzione è sincera, l’Onnipotente può sicuramente liberarti dalla tua perplessità ».

Sám Khán ordinò ai suoi uomini di piantare un chiodo nel pilastro che si trovava tra la stanza occupata da Siyyid Husayn e l’entrata della stanza adiacente, di legare al chiodo due corde e di appendere ad esso il Báb e il Suo compagno separatamente 13. Mirza Muhammad-‘Alí pregò Sám Khán di metterlo in modo che il suo corpo facesse da scudo a quello del Báb 14. Egli fu appeso in una posizione per cui il suo capo poggiava sul petto del Maestro. Appena furono legati, un reggimento di soldati si schierò in tre file di duecento cinquanta uomini ciascuna e ciascuna di queste ebbe l’ordine di aprire il fuoco a turno finché l’intero distaccamento non ebbe sparato tutti i suoi colpi 15. Il fumo degli spari dei settecentocinquanta moschetti fu tale da oscurare la luce del sole di mezzogiorno. Si erano affollate, sul tetto della caserma e in cima alle case adiacenti, circa diecimila persone che furono tutte testimoni della triste e toccante scena.

Appena la nuvola di polvere si fu dissolta, la moltitudine attonita vide una scena alla quale i suoi occhi a stento potevano credere. Là, ritto davanti a loro, vivo e illeso, era il compagno del Báb, mentre Egli era svanito, incolume, dalla loro vista. Benché le corde con cui erano stati appesi fossero state fatte a pezzi dalle pallottole, tuttavia i loro corpi erano miracolosamente scampati ai colpi 16. Perfino la tunica che Mirza Muhammad-‘Alí indossava era rimasta, nonostante la densità del fumo, immacolata. « Il Siyyid-i- Báb è scomparso! » risuonarono le voci della moltitudine esterrefatta. Si misero a cercarlo freneticamente e alla fine Lo trovarono seduto nella stessa stanza in cui aveva alloggiato la notte precedente, intento a completare la Sua conversazione interrotta con Siyyid Husayn. Un’espressione di calma imperturbata aleggiava sul Suo volto. Il Suo corpo era uscito illeso dalla pioggia di colpi che il reggimento aveva sparato contro di Lui. « Ho terminato la Mia conversazione con Siyyid Husayn », il Báb disse al farrásh-báshí. « Ora puoi procedere a mettere in atto le tue intenzioni ». L’uomo era troppo scosso per ripetere ciò che aveva già tentato. Rifiutandosi di compiere il suo dovere, all’istante lasciò il campo e rassegnò le dimissioni. Raccontò tutto ciò che aveva visto al suo vicino di casa, Mirza Siyyid Muhsin, uno dei notabili di Tabríz, il quale, appena sentì la storia, si convertì alla Fede.

Ho avuto il privilegio d’incontrare, in seguito, lo stesso Mirza Siyyid Muhsin, che mi condusse sulla scena del martirio del Báb e mi mostrò la parete dove Egli era stato appeso. Mi condusse nella stanza in cui Lo trovarono mentre conversava con Siyyid Husayn e mi mostrò il posto esatto in cui era seduto. Vidi anche il chiodo che i nemici avevano piantato nella parete e al quale era stata attaccata la corda che aveva sorretto il Suo corpo.

Anche Sám Khán fu sbalordito dalla forza di questa tremenda rivelazione. Ordinò ai suoi uomini di lasciare immediatamente la caserma e si rifiutò di immischiare se stesso e il suo reggimento in qualsiasi azione che comportasse la minima offesa al Báb. Lasciando il cortile, giurò che mai più si sarebbe assunto quel compito, neppure se tale rifiuto avesse comportato la sua morte.

Appena Sám Khán fu partito, Áqá Ján Khán-i-Khamsih, colonnello della guardia del corpo, nota anche con il nome di Khamsih e di Násirí, si offrì volontariamente di eseguire la sentenza di morte. Il Báb e il Suo compagno furono ancora sospesi alla stessa parete e nello stesso modo, mentre il reggimento si schierò in fila per aprire il fuoco s di loro. Contrariamente alla volta precedente, quando solo le corde con cui erano stati appesi erano state fatte a pezzi, questa volta i loro corpi furono maciullati e si amalgamarono in un’unica massa di carne e ossa mescolate 17. « Se aveste creduto in me, o generazione perversa », furono le ultime parole del Báb alla moltitudine che guardava mentre il reggimento si preparava a sparare la raffica finale, « tutti voi avreste seguito l’esempio di questo giovane, che era di rango superiore a molti di voi e vi sareste sacrificati di buon grado sul Mio sentiero. Verrà il giorno in cui Mi riconoscerete, ma quel giorno non sarò più con voi ». 18

Nello stesso momento in cui quei colpi furono sparati, si scatenò una tempesta di eccezionale violenza, che spazzò l’intera città. Un turbine di polvere di densità incredibile oscurò la luce del sole e accecò la gente. Tutta la città rimase immersa nelle tenebre da mezzogiorno fino a notte. Neppure un fenomeno così strano, accaduto subito dopo l’ancor più stupefacente insuccesso del reggimento di Sám Khán nel suo tentativo di uccidere il Báb, riuscì a toccare il cuore del popolo di Tabríz e a farlo soffermare a riflettere sul significato di eventi così importanti. Furono testimoni dell’effetto che lo stupefacente avvenimento aveva prodotto su Sám Khán; osservarono la costernazione del farrásh-báshí e lo videro prendere la sua decisione irrevocabile; poterono perfino esaminare la tunica che, nonostante fossero stati sparati tanti colpi, era rimasta intatta e immacolata; poterono leggere sul volto del Báb, uscito illeso da quella tempesta, l’espressione d’imperturbata serenità mentre riprendeva la conversazione con Siyyid Husayn; eppure nessuno di loro si preoccupò di indagare sul significato di questi inusitati segni e portenti.

Il martirio del Báb ebbe luogo a mezzogiorno, domenica, ventisette di Sha’bán, dell’anno 1266 A.H. 19, trentun anni lunari, sette mesi e ventisette giorni dal giorno della Sua nascita a Shíráz.

Quella sera, i corpi straziati del Báb e del Suo compagno furono rimossi dal cortile della caserma e gettati sulle rive del fossato fuori dalle porte della città. Quattro compagnie, costituite ciascuna da dieci sentinelle, ebbero l’ordine di fare a turno la guardia ai corpi. Il mattino successivo al giorno del martirio, il console russo a Tabríz si recò sul luogo accompagnato da un artista e ordinò che fosse disegnato uno schizzo dei resti, mentre si trovavano accanto al fossato 20.

Ho sentito Hájí ‘Alí-‘Askar raccontare ciò che segue: « Un funzionario del consolato russo, di cui ero parente, mi mostrò quello schizzo lo stesso giorno in cui fu disegnato. Quello che guardavo era un ritratto fedele del Báb! Nessun proiettile Lo aveva colpito alla fronte, alle guance, alle labbra. Vidi un sorriso che pareva ancora aleggiare sul Suo volto. Ma il Suo corpo era stato gravemente mutilato. Potei riconoscere le braccia e la testa del Suo compagno, che pareva Lo tenesse abbracciato. Dopo aver guardato inorridito quel quadro indimenticabile e visto come fossero stati sfigurati quei nobili lineamenti, mi sentii mancare il cuore. Distolsi lo sguardo angosciato, tornai a casa e mi rinchiusi nella mia camera. Per tre giorni e tre notti, non riuscii né a dormire né a mangiare, tanto sopraffatto ero dall’emozione. Quella vita breve e tumultuosa, con tutte le sue sofferenze, i suoi travagli, i suoi esìls e infine con il solenne martirio che l’aveva coronata, sembrava svolgersi ancora davanti ai miei occhi. Mi gettai sul letto, contorcendomi per l’angoscia e il dolore ».

Il pomeriggio del secondo giorno dopo il martirio del Báb, giunse a Bágh-Mishih, sobborgo di Tabríz, Hájí Sulaymán Khán, figlio di Yahyá Khán, che fu ospitato nella casa del Kalántar 21, suo amico e confidente, che era un derviscio e apparteneva alla comunità súfí. Non appena era stato informato del pericolo incombente che minacciava la vita del Báb, Hájí Sulaymán Khán aveva lasciato Tihrán con l’intento di ottenere la Sua liberazione. Con sua costernazione, arrivò troppo tardi per mettere in atto le sue intenzioni. Appena il suo ospite l’ebbe informato delle circostanze che avevano portato all’arresto e alla condanna del Báb e gli ebbe raccontato i particolari del Suo martirio, egli decise immediatamente di portar via i corpi delle vittime, anche a costo di rischiare la vita. Il Kalántar lo consigliò di aspettare e di seguire i suoi suggerimenti piuttosto che esporsi a quella che gli sembrava sarebbe stata una morte inevitabile. Lo esortò a trasferirsi in un’altra casa e ad attendere l’arrivo, quella sera, di un certo Hájí Alláh-Yár, il quale, egli disse, sarebbe stato disposto a fare tutto ciò che egli avrebbe voluto. All’ora stabilita, Hájí Sulaymán Khán incontrò Hájí Alláh-Yár, che riuscì, nel cuore della notte, a trasportare i corpi dalle rive del fossato nella filanda di un credente di Mílán; li depose, il giorno successivo, in una cassa di legno costruita appositamente e li trasferì, seguendo le istruzioni di Hájí Sulaymán Khán, in un luogo sicuro. Nel frattempo le sentinelle cercarono di giustificarsi, dicendo che le bestie feroci avevano portato via i corpi mentre esse dormivano 22. I loro superiori, da parte loro, non volendo compromettere il proprio onore, tennero nascosta la verità e non la rivelarono alle autorità 23.

Hájí Sulaymán Khán riferì immediatamente la questione a Bahá’u’lláh, che era allora a Tihrán e che dette istruzioni ad Áqáy-i-Kalím di mandare a Tabríz un messaggero speciale per trasferire le salme nella capitale. Questa decisione fu suggerita dal desiderio che il Báb stesso aveva espresso nello « Zíyárat-i-Sháh-‘Abdu’l-‘Azím », Tavola che aveva rivelato mentre era nei pressi di quel santuario e che consegnò a un certo Mirza Sulaymán-i-Khatíb, che ebbe da Lui istruzioni di andare insieme con alcuni credenti a cantarla in quel luogo entro i suoi recinti 24. « Benedetto sii tu », con tali parole, nei passi conclusivi della Tavola, il Báb Si era rivolto al santo ivi sepolto, « che hai trovato riposo a Rayy, all’ombra del Mio Diletto! Potessi esser seppellito anch’Io nei recinti di quella sacra terra! ».

Quando arrivarono le salme del Báb e del Suo compagno, ero a Tihrán, in compagnia di Mirza Ahmad. Bahá’u’lláh nel frattempo era partito per Karbilá, secondo le istruzioni dell’Amír-Nizám. Áqáy-i-Kalím, insieme con Mirza Ahmad, trasferì i resti dall’Imám-Zádih-Hasan 25, dove furono dapprima portati, in un luogo la cui ubicazione rimase ignota a tutti fuorché a loro. Quel luogo rimase segreto fino alla partenza di Bahá’u’lláh per Adrianopoli, quando Áqáy-i-Kalím fu incaricato d’informare Munír, uno dei suoi condiscepoli, del luogo preciso dove le salme erano state deposte. Nonostante le sue ricerche, egli non riuscì a trovarlo. Lo scoprì in seguito Jamál, un vecchio seguace della Fede, al quale il segreto era stato confidato mentre Bahá’u’lláh era ancora ad Adrianopoli. Il luogo è, fino ad ora, ignoto ai credenti e nessuno può supporre dove i resti saranno alla fine trasferiti.

Dopo il Gran Visir il primo che conobbe a Tihrán i particolari di quel crudele martirio fu Mirza Áqá Khán-i-Núrí che Muhammad Sháh aveva bandito a Káshán, quando il Báb era passato per quella città. Egli aveva assicurato a Hájí Mirza Jání, il quale l’aveva informato dei precetti della Fede, che, se l’amore che nutriva per la nuova Rivelazione gli avesse fatto riacquistare la posizione perduta, avrebbe fatto tutti gli sforzi possibili per garantire il benessere e la salvezza della comunità perseguitata. Hájí Mirza Jání riferì il fatto al suo Maestro, il quale l’incaricò di assicurare al ministro caduto in disgrazia che tra non molto il Sovrano l’avrebbe convocato a Tihrán e gli avrebbe conferito una carica seconda solo a quella dello Sci stesso. Lo ammonì a non dimenticare la promessa e a sforzarsi di mettere in atto le sue intenzioni. Mirza Áqá Khán fu deliziato dal messaggio e rinnovò le assicurazioni date.

Quando gli giunse la notizia del martirio del Báb, egli era già stato promosso, aveva ricevuto il titolo di I’timádu’d-Dawlih e sperava di essere elevato alla carica di Gran Visir. Si affrettò a comunicare a Bahá’u’lláh, che conosceva intimamente, la notizia ricevuta, esprimendo la speranza che il fuoco, che egli temeva avrebbe un giorno attirato su di Lui indicibili calamità, fosse stato finalmente spento. « Non è così », rispose Bahá’u’lláh. « Se ciò è vero, puoi essere certo che la fiamma che è stata accesa divamperà, dopo questo atto, più forte che mai e susciterà una conflagrazione tale che le forze alleate degli statisti di questo regno non riusciranno a estinguere ». Mirza Áqá Khán era destinato a comprendere in seguito il significato di queste parole. Non si immaginava, quando quella predizione fu fatta, che la Fede che aveva ricevuto un colpo così tremendo potesse sopravvivere al suo Autore. Eppure una volta Bahá’u’lláh l’aveva curato per una malattia dalla quale aveva perso ogni speranza di guarire.

Un giorno suo figlio, il Nizámu’l-Mulk, gli chiese se non reputava che Bahá’u’lláh, il quale tra tutti i figli del defunto Visir si era mostrato il più capace, non fosse riuscito a mantenere viva la tradizione del padre e avesse deluso le speranze che erano state riposte in Lui. « Figlio mio », egli rispose, « credi veramente che egli sia un figlio indegno del padre? Tutto ciò che noi possiamo sperare di ottenere è solo una devozione fuggevole e precaria, che svanirà appena i nostri giorni saranno finiti. La nostra vita mortale non potrà mai sfuggire alle vicissitudini che costellano il cammino dell’ambizione terrena. Anche se riuscissimo ad assicurare, in vita, l’onore del nostro nome, chi può dire se, dopo la nostra morte, la calunnia non macchierà la nostra memoria e non disferà il lavoro che abbiamo fatto? Perfino coloro che, mentre siamo ancora in vita, ci onorano con le labbra, ci condannerebbero se, per un solo momento, cessassimo di fare i loro interessi. Ma non è così per Bahá’u’lláh. A differenza dei grandi della terra, di qualsiasi razza o rango, egli è oggetto di un amore e di una devozione tali che né il tempo potrà offuscare né il nemico distruggere. Le ombre della morte non potranno mai oscurare la sua sovranità né la lingua dei calunniatori distruggerla. Tale è il potere della sua influenza che nessuno tra i suoi amanti osa, nel silenzio della notte, evocare la memoria del più pallido desiderio che possa, anche lontanamente, essere interpretato come contrario al suo volere. Tali amanti cresceranno molto di numero. L’amore che essi gli portano non diminuirà mai e sarà trasmesso da generazione a generazione finché la sua gloria non avrà ricoperto tutto il mondo ».

La maligna insistenza con cui un nemico selvaggio cercò di mal- trattare il Báb e alla fine di distruggere la Sua vita arrecò indicibili calamità alla Persia e ai suoi abitanti. Gli uomini che perpetrarono queste atrocità caddero vittime di rimorsi tormentosi e in un periodo di tempo incredibilmente breve subirono una morte ignominiosa. In quanto alla grande massa del popolo, che assistette con cupa indifferenza alla tragedia che si svolgeva davanti ai suoi occhi e non mosse un dito per protestare contro l’orrore di quelle crudeltà, essa cadde, a sua volta, vittima di una miseria che tutte le risorse della terra e l’energia dei suoi statisti non riuscirono ad alleviare. Il vento dell’avversità soffiò dolorosamente su di essa e ne scosse fin dalle fondamenta la prosperità materiale. Dal giorno in cui la mano dell’aggressore si protese contro il Báb e cercò di vibrare alla Sua Fede il colpo fatale, una calamità dopo l’altra spense lo spirito di quel popolo ingrato e lo portò sull’orlo della bancarotta nazionale. Pestilenze, delle quali perfino i nomi erano del tutto sconosciuti se non per un frettoloso accenno in libri polverosi che pochi si curavano di leggere, lo assalirono con tale furia che nessuno riuscì a scampare. Quel flagello seminò la devastazione dovunque giungesse. Prìncipi e contadini ne sentirono in ugual misura il morso e si piegarono sotto il suo giogo. Esso tenne la popolazione nella sua stretta e si rifiutò di allentare la presa. Maligne come la febbre che falcidiò la provincia di Gílán, queste improvvise afflizioni continuarono a gettare la desolazione sul paese. Per quanto dolorose fossero queste calamità, la vindice ira di Dio non si fermò alle disgrazie che colpirono quel popolo perverso e infedele. Si fece sentire su ogni essere vivente che respirava sulla superficie di quella terra straziata. Colpì anche la vita delle piante e degli animali e fece sentire al popolo la grandezza della sua disgrazia. La carestia aggiunse i propri orrori al terribile peso delle afflizioni sotto le quali il popolo gemeva. Lo sparuto spettro della fame s’insinuò furtivamente tra loro e la prospettiva di una morte lenta e dolorosa ossessionò le loro menti. Popolo e governo agognavano in egual misura un sollievo che non potevano trovare in nessun luogo. Bevvero la coppa del dolore fino alla feccia, del tutto dimentichi della mano che l’aveva accostata alle loro labbra e della Persona per cui essi soffrivano.

Il primo che si levò a maltrattare il Báb fu Husayn Khán, il governatore di Shíráz. Il modo vergognoso con cui trattò il Prigioniero costò la vita a migliaia di persone che erano state affidate alla sua protezione e che erano state conniventi ai suoi atti. La sua provincia fu devastata da una pestilenza che la portò sull’orlo della distruzione. Impoverito ed esaurito, il Fárs languì impotente sotto il suo peso, chiedendo la carità ai vicini e aiuto agli amici. Husayn Khán stesso assistette con amarezza alla distruzione di tutte le sue faticose opere, fu condannato a trascorrere nell’oscurità i giorni che gli restavano da vivere e si trascinò fino alla tomba, abbandonato e dimenticato tanto dagli amici quanto dai nemici.

Il secondo che cercò di sfidare la Fede del Báb e di arrestarne il progresso fu Hájí Mirza Áqásí. Fu lui che, per scopi egoistici e per sollecitare il favore degli abietti ‘ulamá’ del suo tempo, s’interpose tra il Báb e Muhammad Sháh e si adoperò per impedire il loro incontro. Fu lui che condannò alla relegazione il suo temuto Prigioniero in un angolo remoto dell’Ádhirbáyján e che con accanita vigilanza sorvegliò sui Suo isolamento. Fu lui il destinatario di quella Tavola accusatoria in cui il Prigioniero previde il suo destino e smascherò la sua infamia. Appena un anno e sei mesi erano trascorsi da quando il Báb era giunto nelle vicinanze di Tihrán, allorché la vendetta Divina lo sbalzò dal potere e lo trascinò a cercare asilo entro gi’ingloriosi recinti del mausoleo di Sháh ‘Abdu’l-‘Azím, fuggiasco davanti all’ira del suo popolo. Quindi la mano del Vendicatore lo condusse in esilio oltre i confini della sua patria e lo immerse in un oceano di afflizioni, finché non trovò la morte nella più nera miseria e in mezzo a dolori inenarrabili.

In quanto al reggimento che, nonostante l’inesplicabile fallimento del tentativo di distruggere la vita del Báb compiuto da Sám Khán e dai suoi uomini, si era volontariamente offerto di ripetere la prova e che alla fine crivellò di colpi il Suo corpo, duecentocinquanta dei suoi membri trovarono la morte nello stesso anno, insieme con i loro ufficiali, in un terribile terremoto. Mentre un caldo giorno d’estate riposavano all’ombra di un muro sulla strada tra Ardibíl e Tabríz, intenti nei loro giochi e sollazzi, l’intera struttura improvvisamente crollò e cadde su di loro, non lasciando nemmeno un superstite. Gli altri cinquecento subirono la stessa sorte che avevano inflitto al Báb con le loro mani. Tre anni dopo il Suo martirio, il reggimento si ammutinò e i suoi membri furono pertanto fucilati per ordine di Mirza Sádiq Khán-i-Núrí. Non contento di una prima raffica, ordinò che ne fosse sparata una seconda per essere sicuro che nessuno degli ammutinati fosse sopravvissuto. I loro corpi furono poi trafitti con spade e lance e lasciati esposti alla vista del popolo di Tabríz. Quel giorno molti abitanti della città, ricordando le circostanze del martirio del Báb, si meravigliarono che lo stesso destino avesse colpito coloro che L’avevano ucciso. « Non potrebbe essere, in qualche modo, la vendetta di Dio », si udirono sussurrare tra loro « che ha condotto tutto il reggimento a una fine così disonorevole e tragica? Se questo giovane era veramente un bugiardo impostore, perché i suoi persecutori sono stati puniti così severamente? ». Questi timori espressi giunsero alle orecchie dei principali mujtahid della città, i quali furono colti da una grande paura e ordinarono che tutti coloro che nutrivano simili dubbi fossero severamente puniti. Alcuni furono picchiati, altri multati, tutti furono ammoniti a smetterla con questi mormorii, che potevano solo far rivivere la memoria di un terribile avversario e riaccendere l’entusiasmo per la Sua Causa.

Il principale animatore delle forze che affrettarono il martirio del Báb, l’Amír-Nizám e anche suo fratello, il suo principale complice, furono, entro due anni da quell’atto crudele, sottoposti a una terribile punizione, che si concluse miseramente con la loro morte. Il sangue dell’Amír-Nizám macchia ancora oggi le pareti del bagno di Fín 26, testimonianza delle atrocità che egli aveva commesso con le sue stesse mani 27.

CAPITOLO XXIV
I MOTI DI ZANJÁN

LA scintilla che aveva acceso le grandi conflagrazioni del Mázindarán e di Nayríz aveva già appiccato il fuoco a Zanján 1 e ai suoi dintorni quando il Báb trovò la morte a Tabríz. Il Suo dolore per il triste e calamitoso destino che aveva colpito gli eroi di Shaykh Tabarsí era stato profondo; e ora la notizia delle non meno tragiche sofferenze che erano toccate a Váhíd e ai suoi compagni fu un altro colpo per il Suo cuore, già oppresso dal peso di molteplici afflizioni. La consapevolezza dei pericoli che Gli si addensavano attorno; il ricordo degli affronti subiti quando era stato infine condotto a Tabríz; la tensione di una lunga e rigorosa prigionia nelle fortezze montane dell’Ádhirbáyján; la terribile strage con cui si erano conclusi i moti del Mázindarán e di Nayríz; l’oltraggio contro la Sua Fede operato dai persecutori dei Sette Martiri di Tihrán — non solo queste furono le tribolazioni che oscurarono gli ultimi giorni di una vita in rapido declino. Era già prostrato da questi violenti colpi, quando Gli giunse la notizia degli avvenimenti di Zanján, che incominciavano allora a far presagire i loro tristi sviluppi, e ciò servì a completare l’angoscia dei Suoi ultimi giorni. Quali spasimi deve aver sofferto mentre le ombre della morte s’addensavano rapidamente attorno a Lui! Dappertutto, tanto nel nord quanto nel sud, i paladini della Sua Fede erano stati sottoposti a immeritate sofferenze, ingannati in modo infame, derubati dei loro possedimenti e barbaramente massacrati. E infine, come per far traboccare la coppa delle Sue sciagure, scoppiò la tempesta di Zanján, la più violenta e devastatrice di tutte 2.

Mi accingo ora a raccontare le circostanze che hanno fatto di quell’evento uno degli episodi più sensazionali nella storia di questa Rivelazione. Ne fu protagonista Hujjat-i-Zanjání, il cui nome era Mullá Muhammad-‘Alí 3, uno dei più abili dignitari ecclesiastici dell’epoca e certamente uno dei più formidabili paladini della Causa. Suo padre, Mullá Rahím-i-Zanjání, era uno dei principali mujtahid di Zanján, molto stimato per la devozione, il sapere e la forza di carattere.

Mullá Muhammad-‘Alí, soprannominato Hujjat, nacque nell’anno 1277 A.H. 4 Fin dall’infanzia aveva mostrato tali capacità che il padre aveva dedicato la massima cura alla sua educazione, mandandolo a Najaf, dove egli si distinse per l’intuito, l’abilità e l’impetuoso ardore 5. La sua cultura e la sua acuta intelligenza suscitarono l’ammirazione dei suoi amici, mentre la franchezza e la forza di carattere fecero di lui il terrore degli avversari. Il padre lo consigliò di non tornare a Zanján, dove i suoi nemici stavano tramando contro di lui. Decise pertanto di stabilirsi a Hamadán 6, dove sposò una congiunta; viveva là da circa due anni e mezzo, quando la notizia della morte del padre lo indusse a partire per la sua città natale. L’ovazione con cui fu accolto al suo arrivo accese l’ostilità degli ‘ulamá’, i quali, nonostante la loro aperta opposizione, ricevettero da parte sua molti segni di rispetto e di gentilezza 7.

Dal pulpito del masjid che gli amici eressero in suo onore, esortò la vasta folla che si era raccolta per ascoltarlo, ad astenersi dall’indulgere alle passioni e a usare moderazione in ogni atto 8. Soppresse spietatamente ogni forma di abuso e con l’esempio incoraggiò il popolo a seguire rigorosamente i principi predicati dal Corano. Tali erano la cura e l’abilità con cui insegnava ai discepoli, che costoro superarono per sapienza e comprensione gli ‘ulamá’ riconosciuti di Zanján. Per diciassette anni, perseverò nelle sue lodevoli fatiche e riuscì a purgare la mente e il cuore dei suoi concittadini da tutto ciò che sembrava contrario allo spirito e agl’insegnamenti della loro Fede 9.

Quando gli giunse l’Appello da Shíráz, inviò il suo fido messaggero, Mullá Iskandar, a indagare sulle affermazioni della nuova Rivelazione; e tale fu la sua risposta al Messaggio che i suoi nemici furono stimolati a intensificare i loro attacchi contro di lui. Incapaci fino a quel momento di screditarlo agli occhi del governo e del popolo, tentarono ora d’accusarlo di difendere un’eresia e di ripudiare tutto ciò che vi era di sacro e di prezioso nell’Islám. « La sua reputazione di giustizia, devozione, saggezza e cultura », mormorarono tra loro, « è stata tale che non ci è stato possibile indebolire la sua posizione. Quando fu convocato a Tihrán, alla presenza di Muhammad Sháh, non fu forse capace di conquistarselo con la sua eloquenza magnetica e di farne uno dei suoi devoti ammiratori? Ma ora che ha così apertamente difeso la causa del Siyyid-i- Báb, riusciremo senz’altro a ottenere dal governo l’ordine di arrestarlo e di bandirlo dalla nostra città ».

Di conseguenza compilarono una petizione per Muhammad Sháh, in cui, con ogni stratagemma che le loro menti malevole e astute riuscirono a escogitare, cercarono di screditare il suo nome. « Mentre si professava ancora seguace della nostra Fede », si lamentarono, « è riuscito, con l’aiuto dei suoi discepoli, a disconoscere la nostra autorità. Quali umiliazioni ci farà subire ora che sostiene strenuamente la causa del Siyyid-i- Báb e che ha convertito a quell’odioso credo i due terzi degli abitanti di Zanján! Tanta è la folla che si accalca alle porte del suo masjid che esso non riesce più a contenerla. Tale è la sua influenza che il masjid appartenuto a suo padre e quello costruito in suo onore sono stati collegati e trasformati in un unico edificio per poter accogliere le moltitudini sempre crescenti che accorrono ansiosamente a seguire la sua guida nella preghiera. Si avvicina rapidamente il momento in cui non solo Zanján ma anche i villaggi circostanti si dichiareranno suoi sostenitori ».

Lo Scià fu molto sorpreso dal tono e dal linguaggio con cui i postulanti cercavano di accusare Hujjat. Condivise la sua meraviglia con Mirza Nazar-‘Alí, lo Hakím-Báshí, e ricordò gli ardenti elogi che molti visitatori di Zanján avevano tributato alle qualità e all’integrità dell’accusato. Decise di convocarlo a Tihrán insieme con i suoi oppositori, In una riunione speciale, alla quale partecipò anche lui, insieme con Hájí Mirza Áqásí e con i principali funzionari del governo, nonché alcuni degli ‘ulamá’ riconosciuti di Tihrán, invitò i capi ecclesiastici di Zanján a giustificare le affermazioni che avevano fatto. A ogni domanda che gli rivolsero sugl’insegnamenti della loro Fede, Hujjat rispose in modo tale da conquistarsi la completa ammirazione degli ascoltatori e da assicurarsi la fiducia del Sovrano nella sua innocenza. Lo Scià disse di essere completamente soddisfatto e ricompensò con generosità Hujjat per il modo eccellente in cui era riuscito a confutare le accuse dei nemici; gli ordinò poi di ritornare a Zanján e di riprendere i suoi preziosi servigi alla causa del suo popolo, assicurandolo che l’avrebbe appoggiato in ogni circostanza e chiedendogli di informarlo di qualsiasi difficoltà avesse in futuro incontrato 10.

Il suo arrivo a Zanján dette il via a un feroce scoppio d’ira da parte dei suoi oppositori umiliati. Mentre si moltiplicavano le prove della loro ostilità, proporzionalmente aumentavano i segni di devozione da parte dei suoi amici e sostenitori 11. Non curandosi affatto delle loro macchinazioni, egli proseguì le sue attività con zelo sempre vigile 12. I princìpi liberali che propugnò incessantemente e intrepidamente colpirono alla base la costruzione che i suoi bigotti nemici avevano innalzato. Costoro assistettero con rabbia impotente alla distruzione della loro autorità e al crollo delle loro istituzioni.

In quei giorni, giunse a Zanján il suo inviato speciale, Mashhadí Ahmad, che egli aveva segretamente inviato a Shíráz con una petizione e alcuni doni da parte sua per il Báb, e consegnò nelle sue mani, mentre stava parlando ai discepoli, una lettera sigillata del suo Amato. Nella Tavola che ricevette, il Báb gli conferiva uno dei Suoi propri titoli, quello di Hujjat, e lo esortava a proclamare dal pulpito, senza la minima riserva, gl’insegnamenti fondamentali della Sua Fede. Appena conobbe i desideri del suo Maestro, si dichiarò deciso a dedicarsi all’applicazione immediata di tutte le ingiunzioni contenute in quella Tavola. Mandò via senza indugi i discepoli, li invitò a chiudere i libri e dichiarò che voleva interrompere i suoi corsi di studio. « Di quale utilità », disse, « sono lo studio e la ricerca per coloro che hanno già trovato la Verità, e perché affannarsi a imparare quando Si è palesato Colui che è l’Oggetto d’ogni scienza?

Appena si presentò per guidare la congregazione nella recitazione della preghiera del Venerdì, come gli era stato ingiunto dal Báb 13, l’Imám-Jum‘ih, il quale aveva fino ad allora assolto quel compito, protestò con veemenza, dicendo che questo diritto era privilegio esclusivo dei suoi antenati, che gli era stato conferito dal Sovrano e che nessuno, per quanto elevato fosse il suo rango, poteva usurparlo. « Quel diritto », ribatté Hujjat, « è stato annullato dall’autorità di cui il Q’im in Persona mi ha investito. Egli mi ha comandato di assumere questa funzione pubblicamente e non posso permettere a nessuno di violare questo diritto. Se sarò attaccato, farò i passi necessari per difendermi e proteggere la vita dei miei compagni ».

Il suo intrepido attaccamento al dovere impostogli dal Báb fece sí che gli ‘ulamá’ di Zanján si alleassero con l’Imám-Jum’ih 14 ed esponessero le loro lamentele davanti a Hájí Mirza Áqásí, affermando che Hujjat aveva sfidato la validità di istituzioni riconosciute e aveva calpestato i loro diritti. « O dobbiamo fuggire dalla città con le nostre famiglie e i nostri averi », dissero, « e lasciare lui solo a curare i destini del popolo, o dobbiamo ottenere da Muhammad Sháh un editto per la sua immediata espulsione da questo paese; poiché crediamo fermamente che permettergli di rimanere su questo suolo vorrebbe dire andare in cerca di un disastro ». Benché, in fondo al cuore, non avesse fiducia nell’ordine ecclesiastico del paese e nutrisse un’avversione naturale verso le loro credenze e i loro riti, Hájí Mirza Áqásí fu alla fine costretto a cedere alle loro pressanti richieste e deferì la questione a Muhammad Sháh, il quale ordinò il trasferimento di Hujjat da Zanján alla capitale.

Un Curdo di nome Qilíj Khán ebbe dallo Scià l’incarico di consegnare la convocazione regale a Hujjat. Nel frattempo il Báb, che stava andando a Tabríz, era giunto nei pressi di Tihrán. Prima che il messo del Re arrivasse a Zanján, Hujjat aveva inviato al suo Maestro uno dei suoi amici, un certo Khán-Muhammad-i-Túb-Chí, con una petizione in cui Lo scongiurava di permettergli di liberarLo dalle mani del nemico. Il Báb lo persuase che solo l’Onnipotente poteva liberarLo e che nessuno può sfuggire al Suo decreto o eludere la Sua legge. « In quanto al nostro incontro », aggiunse, « avverrà presto nell’aldilà, patria di gloria immortale ».

Il giorno in cui Hujjat ricevette quel messaggio, Qilíj Khán giunse a Zanján, lo informò degli ordini ricevuti e partì, accompagnato da lui, per la capitale. Il loro arrivo a Tihrán coincise con la partenza del Báb dal villaggio di Kulayn, dove Egli si era trattenuto per alcuni giorni.

Le autorità, temendo che un incontro tra il Báb e Hujjat potesse portare a nuove agitazioni, avevano preso le precauzioni necessarie per assicurare l’assenza di quest’ultimo da Zanján quando il Báb sarebbe passato per la città. Hujjat esortò i compagni, che lo seguivano a distanza nel suo viaggio verso la capitale, a tornare indietro per cercare d’incontrare il loro Maestro e assicurarGli che egli era pronto a venire in Suo aiuto. Nel viaggio di ritorno verso casa, essi incontrarono il Báb, il quale espresse ancora il desiderio che nessuno dei Suoi amici tentasse di liberarLo dalla prigionia. Li incaricò perfino di dire ai credenti delle loro città di non accalcarsi attorno a Lui, ma di evitarLo dovunque andasse.

Coloro che erano usciti dalla città per darGli il benvenuto al Suo arrivo, appena ricevettero questo messaggio, incominciarono a lamentarsi e a piangere per la loro sorte, ma non riuscirono a resistere all’impulso che li trascinava ad andarGli incontro, dimentichi del desiderio che Egli aveva espresso.

Appena incontrarono le guardie che precedevano il Prigioniero, furono spietatamente dispersi. Giunti a un bivio nella strada, sorse una disputa tra Muhammad Big-i-Chápárchí e il suo collega, che erano stati mandati da Tihrán per condurre il Báb a Tabríz. Muhammad Big insisteva che dovevano condurre il Prigioniero nella città e farGli trascorrere la notte nel caravanserraglio di Mirza Ma’súm-i-Tabíb, padre di Mirza Muhammad-‘Alíy-i-Tabíb, martire della Fede, prima di riprendere la marcia verso l’Ádhirbáyján. Egli sosteneva che passare la notte fuori dalle porte voleva dire rischiare la vita e avrebbe incoraggiato gli oppositori a tentare un attacco contro di loro. Alla fine convinse il collega a condurre il Báb nel caravanserraglio. Mentre passavano per le strade, videro con meraviglia la folla assiepata sui tetti delle case spinta dal desiderio di dare uno sguardo al volto del Prigioniero.

Mirza Ma’súm, il vecchio proprietario del caravanserraglio, era morto da poco ed era arrivato a Zanján suo figlio maggiore, Mirza Muhammad-‘Alí, il principale medico di Hamadán, che portava ancora il lutto per il padre. Costui benché non fosse ancora credente, amava sinceramente il Báb e Lo accolse affettuosamente nel caravanserraglio che aveva già preparato appositamente per ospitarLo. Quella notte rimase fino a tarda ora in Sua presenza e fu completamente conquistato alla Sua Causa.

« La stessa notte della mia conversione », lo sentii raccontare in seguito, « mi alzai prima del levar del giorno, accesi la lanterna e, preceduto dal servitore di mio padre, mi incamminai verso il caravanserraglio. Le sentinelle che stazionavano all’ingresso mi riconobbero e mi permisero di entrare. Quando fui introdotto in Sua presenza, il Báb stava facendo le abluzioni. Fui molto impressionato quando Lo vidi assorto in preghiera: un sentimento di gioia riverente mi colmò il cuore mentre stavo dietro di Lui e pregavo. Gli preparai il tè io stesso e Glielo stavo offrendo quando Egli Si rivolse verso di me e mi invitò a partire per Hamadán. “Questa città”, disse, “precipiterà in un grande tumulto e per le sue strade scorrerà il sangue”. Manifestai il mio grande desiderio di dare la vita sul Suo sentiero. Egli mi assicurò che l’ora del mio martirio non era ancora arrivata e mi invitò a essere rassegnato a tutto quello che Iddio avrebbe decretato. Al levar del sole quando montò a cavallo e Si accinse a partire, Gli chiesi di permettermi di seguirLo, ma Egli mi consigliò di rimanere e mi assicurò che avrebbe sempre pregato per me. Rassegnandomi alla Sua volontà, Lo guardai con rammarico finché scomparve alla mia vista ».

Al suo arrivo a Tihrán, Hujjat fu condotto in presenza di Hájí Mirza Áqásí, il quale, anche a nome dello Scià, disse di essere infastidito dall’acerrima ostilità che la sua condotta aveva suscitato tra gli ‘ulamá’ di Zanján. « Muhammad Sháh e io », gli disse, « siamo continuamente assediati dalle denunce verbali e scritte presentate contro di te. Stento a credere alloro atto d’accusa relativo alla tua diserzione dalla Fede dei tuoi avi. E neppure lo Scià è propenso a dare credito a simili affermazioni. Ho avuto da lui l’ordine di convocarti nella sua capitale e di invitarti a confutare queste accuse. Mi addolora sentire che un uomo che considero infinitamente superiore per sapienza e capacità al Siyyid-i- Báb abbia deciso di abbracciare il suo credo ». « Non è così », ribatté Hujjat; « Iddio sa che, se quel Siyyid m’affidasse il più umile servizio nella Sua casa, considererei ciò un onore tale che le più grandi elargizioni del mio sovrano non potrebbero mai sperare di superarlo ». « Non è possibile! » esclamò Hájí Mirza Áqásí. « Sono fermamente convinto », affermò ancora Hujjat, «che questo Siyyid di Shíráz è Colui il cui avvento tu e tutti i popoli del mondo state aspettando ansiosamente. Egli è il nostro Signore, il nostro Liberatore promesso ».

Hájí Mirza Áqásí riferì la cosa a Muhammad Sháh, al quale espresse i suoi timori che il permettere a un avversario così temibile, che il Sovrano stesso considerava il più istruito ‘ulamá’ del suo reame, di proseguire indisturbato il corso delle sue attività sarebbe stata una politica carica dei più gravi pericoli per lo Stato. Lo Scià, poco propenso a dare credito a quei racconti, che attribuiva alla malizia e all’invidia dei nemici dell’accusato, ordinò che fosse convocata una riunione speciale nella quale si doveva chiedergli di difendere la propria posizione in presenza degli ‘ulamá’ della capitale riuniti.

Si tennero molte riunioni per quello scopo e in ciascuna di queste Hujjat espose con eloquenza le affermazioni basilari della sua Fede e confutò le argomentazioni di coloro che tentavano di fargli opposizione. « Non riconoscono forse questa tradizione », dichiarò arditamente, « tanto l’Islám sciita tanto quello sunnita: “Lascio in mezzo a voi due mie testimonianze, il Libro di Dio e la mia famiglia?” E secondo voi, non è forse scomparsa la seconda di queste testimonianze, e di conseguenza non è forse contenuto il nostro unico mezzo di guida nella testimonianza del sacro Libro? Faccio appello a voi perché valutiate ogni affermazione che faremo, in base ai criteri stabiliti nel Libro, e perché consideriate questo l’autorità suprema in base alla quale giudicherete se la nostra argomentazione è giusta ». Incapaci di difendere la loro causa contro di lui, essi, come ultima risorsa, ardirono chiedergli che facesse un miracolo per provare la verità delle sue affermazioni. « Quale miracolo più grande », esclamò, « del fatto che Egli mi abbia permesso di trionfare, da solo e senza aiuti, con il semplice potere della mia argomentazione, sulle forze alleate dei mujtahid e degli ‘ulamá’ di Tihrán? ».

Il modo magistrale in cui Hujjat confutò le false affermazioni fatte dai suoi avversari gli conquistò il favore del Sovrano, che da quel giorno in poi non si lasciò più influenzare dalle insinuazioni dei suoi nemici. Benché l’intera schiera degli ‘ulamá’ di Zanján e alcuni dei capi ecclesiastici di Tihrán l’avessero dichiarato miscredente e condannato a morte, tuttavia Muhammad Sháh continuò a concedergli il suo favore e a rassicurarlo che avrebbe sempre potuto contare sul suo appoggio. Hájí Mirza Áqásí, benché in cuor suo fosse ostile a Hujjat, tuttavia, davanti a quei segni incontrovertibili del favore regale, non poté opporsi apertamente alla sua autorità e, con frequenti visite alla sua casa e con i doni generosi che gli fece, il perfido ministro cercò di dissimulare il risentimento e l’invidia.

Hujjat era virtualmente prigioniero a Tihrán. Non poteva varcare le porte della città e non gli era permesso di avere liberamente rapporti con i suoi amici. I credenti della sua città alla fine decisero di inviargli una delegazione per chiedergli nuove istruzioni sull’atteggiamento che dovevano assumere verso le leggi e i princìpi della Fede. Egli ordinò loro di osservare con assoluta lealtà gli ammonimenti ricevuti dal Báb tramite il messo che aveva mandato a investigare sulla Sua Causa. Enumerò una serie di osservanze, alcune delle quali costituivano una chiara deviazione dalle tradizioni sancite dall’Islám. « Siyyid Kázim-i-Zanjání », li rassicurò, « è stato molto vicino al mio Maestro sia a Shíráz sia a Isfáhán. Lui, Mullá Iskandar e Mashhadí Ahmad, che ho mandato entrambi a incontrarLo, hanno dichiarato con sicurezza che Egli è il primo a praticare le osservanze che ha imposto ai credenti. Perciò, noi che siamo i Suoi sostenitori abbiamo l’obbligo di seguire il Suo nobile esempio ».

Appena lessero queste esplicite istruzioni, si accese nei compagni un desiderio irresistibile di eseguire la sua volontà; si misero con entusiasmo all’opera per applicare le Leggi della Nuova Dispensazione e, abbandonando i vecchi usi e costumi, misero in atto senza esitazione le sue affermazioni. Perfino i bimbi piccoli furono incoraggiati a seguire scrupolosamente gli ammonimenti del Báb. « Il nostro amato Maestro », fu loro insegnato a dire, « è Egli Stesso il primo a metterli in pratica. Perché noi, che abbiamo il privilegio di essere i Suoi discepoli, dovremmo esitare a fare di essi i principi dominanti della nostra vita? ».

Hujjat era ancora prigioniero a Tihrán quando gli giunse la notizia dell’assedio del forte di Tabarsí. Egli desiderava dividere la sorte dei suoi compagni che stavano lottando con splendido eroismo per l’emancipazione della Fede e deplorò di non poterlo fare. La sua sola consolazione in quei giorni fu di poter stare vicino a Bahá’u’lláh, dal quale ricevette la forza sostenitrice che gli permise di distinguersi in seguito per atti non meno notevoli delle gesta che quella schiera aveva compiuto nelle ore più oscure della sua memorabile lotta.

Era ancora a Tihrán quando Muhammad Sháh trapassò, lasciando il trono al figlio Násiri’d-Dín Sháh 15. L’Amír-Nizám, il nuovo Gran Visir, decise di irrigidire l’imprigionamento di Hujjat e di cercare nel frattempo il modo per distruggerlo. Informato dell’imminenza del pericolo che minacciava la sua vita, il prigioniero decise di partire da Tihrán travestito e di raggiungere i compagni, che attendevano con ansia il suo ritorno.

Il suo arrivo nella città natale, che un certo Karbilá’í Valí-‘Attár annunziò ai compagni, dette il via a una straordinaria dimostrazione di devota lealtà da parte dei molti suoi ammiratori. Questi fecero ressa, uomini donne e bambini, per dargli il benvenuto e rinnovare le loro assicurazioni di perpetuo e immutato affetto 16. Il governatore di Zanján, Majdu’d-Dawlih 17, zio materno di Násiri’d-Dín Sháh, stupito per la spontaneità dell’ovazione, nella furia della sua disperazione, fece tagliare immediatamente la lingua a Karbilá’í Valí-‘Attár. Benché in cuore detestasse Hujjat, finse d’essere suo amico e sostenitore. Gli fece spesso visita e gli mostrò una stima illimitata, tuttavia in segreto cospirava contro la sua vita e aspettava il momento in cui poter vibrare il colpo fatale.

Quella latente ostilità avvampò presto per un incidente in se stesso poco importante: l’occasione si presentò, allorché s’accese improvvisamente una lite tra due bambini di Zanján, uno dei quali era parente di uno dei compagni di Hujjat. Il governatore ordinò subito che il bambino fosse arrestato e rigorosamente isolato. I credenti offrirono al governatore una somma di danaro per indurlo a rilasciare il giovane prigioniero, ma quello ricusò la loro offerta, per la qual cosa essi si lamentarono con Hujjat, il quale protestò vivacemente. « Quel bimbo », scrisse al governatore, « è troppo giovane per poter essere ritenuto responsabile del proprio comportamento. Se merita una punizione, si deve infliggerla a suo padre e non a lui ».

Visto che il suo appello era stato ignorato, rinnovò la protesta e la affidò nelle mani di uno dei suoi influenti compagni, Mír Jalíl, padre di Siyyid Ashraf e martire della Fede, incaricandolo di presentarla di persona al governatore. Le sentinelle che stazionavano all’entrata della casa dapprima si rifiutarono di farlo passare. Indignato per il loro rifiuto, egli minacciò di forzare la porta e riuscì, facendo solo il gesto di sguainare la spada, a vincere la loro resistenza e a costringere il governatore infuriato a rilasciare il bimbo.

La resa senza condizioni del governatore alla richiesta di Mír Jalíl suscitò la furiosa indignazione degli ‘ulamá’. Essi protestarono violentemente e deprecarono la sua sottomissione alle minacce con cui i loro oppositori avevano cercato d’intimidirlo. Gli espressero il timore che una simile resa da parte sua li avrebbe incoraggiati a fargli richieste ancora più grandi, li avrebbe portati in breve tempo a impadronirsi delle redini del potere e a escluderlo da ogni partecipazione all’amministrazione del governo. Infine lo indussero a dare il suo consenso all’arresto di Hujjat, atto che, erano convinti, sarebbe riuscito a fermare la crescita della sua influenza.

Il governatore acconsentì con riluttanza. Gli ‘ulamá’ gli assicurarono ripetutamente che la sua azione non avrebbe in alcun modo messo in pericolo la pace e la sicurezza della città. Due dei loro sostenitori, Pahlaván 18 Asadu’lláh e Pahlaván Safar-‘Alí, entrambi noti per la brutalità e la forza prodigiosa, si offrirono di catturare Hujjat e di consegnarlo ammanettato al governatore. A ciascuno di loro fu promessa una congrua ricompensa in cambio di quel servigio. Protetti da un’armatura, con l’elmetto in testa e seguiti da una schiera di furfanti reclutati tra la feccia della popolazione, si accinsero a realizzare il loro piano. Nel frattempo gli ‘ulamá’ si dettero da fare per incitare la popolazione e incoraggiarla ad appoggiare i loro sforzi. Gli emissari, appena giunsero nel quartiere in cui viveva Hujjat, furono inaspettatamente affrontati da Mír Saláh, uno dei più formidabili tra i suoi sostenitori, il quale, con sette compagni armati, si oppose strenuamente alla loro avanzata. Chiese ad Asadu’lláh dove era diretto e, ricevuta da lui una risposta insultante, sguainò la spada e gridando « Yá Sáhibu’z-Zamán! » 19 gli balzò addosso e lo ferì alla fronte. L’audacia di Mír Saláh, nonostante la pesante armatura indossata dall’avversario, spaventò tutta la squadra e provocò un fuggi fuggi generale 20.

Il grido di quel valoroso difensore della Fede risuonò quel giorno per la prima volta a Zanján, gettando nel panico tutta la città. Il governatore fu atterrito dalla sua forza tremenda e chiese cosa potesse significare e quale voce fosse riuscita a lanciarlo. Fu molto scosso quando gli dissero che era la parola d’ordine dei compagni di Hujjat, con cui essi invocavano l’assistenza del Qá’im nel momento del bisogno.

I superstiti della squadra intimorita incontrarono poco dopo Shaykh Muhammad-i-Túb-Chí, che immediatamente riconobbero come uno dei loro più capaci avversari. Vistolo inerme, gli piombarono addosso e, con un’ascia che uno di essi portava, lo colpirono e gli ruppero la testa. Lo portarono poi dal governatore; avevano appena deposto il ferito, che un certo Siyyid Abu’l-Qásim, uno dei mujtahid di Zanján lí presente, balzò avanti e, col suo temperino, lo colpì al petto. Anche il governatore, sguainata la spada, lo colpì alla bocca, seguito dai servitori, i quali, con le armi che avevano, completarono l’assassinio dell’infelice vittima. Mentre gli piovevano addosso i loro colpi, sentirono che egli, incurante delle sofferenze, diceva: « Ti ringrazio, o mio Dio, per avermi concesso la corona del martirio ». Egli fu il primo tra i credenti di Zanján a offrire la vita sul sentiero della Causa. La sua morte, che ebbe luogo il venerdì quattro Rajab dell’anno 1266 A.H. 21, precedette di quarantacinque giorni il martirio di Váhíd e di cinquantacinque quello del Báb.

Il sangue che fu versato quel giorno, lungi dal placare l’ostilità dei nemici, servi a infiammare ulteriormente le loro passioni e a rafforzare la loro determinazione di far subire la stessa sorte al resto dei compagni. Incoraggiati dalla tacita approvazione data dal governatore alle loro esplicite intenzioni, decisero di mettere a morte tutti coloro sui quali fossero riusciti a mettere le mani, senza farsi dare prima un’espressa autorizzazione dai funzionari governativi. Strinsero un patto solenne di non concedersi riposo finché non avessero spento il fuoco di quella che consideravano una vergognosa eresia 22. Costrinsero il governatore a ordinare che un banditore andasse in giro per Zanján a proclamare che chiunque voleva mettere in pericolo la propria vita, perdere le proprietà ed esporre mogli e figli alla miseria e alla vergogna, doveva solo unirsi a Hujjat e ai suoi compagni; chi invece desiderava assicurare il benessere e l’onore proprio e della propria famiglia, doveva ritirarsi dalle zone dove abitavano quei compagni e rifugiarsi sotto la protezione del Sovrano.

Quell’ammonimento divise immediatamente i cittadini in due campi distinti e mise duramente alla prova la fede di coloro che erano ancora esitanti nella loro lealtà verso la Causa. Produsse le scene più patetiche, causò la separazione di padri dai figli e la divisione di fratelli e di familiari. Ogni vincolo d’affetto terreno sembrò dissolversi quel giorno e giuramenti solenni furono dimenticati in favore d’una lealtà più potente e più sacra di qualsiasi alleanza terrena. Zanján cadde preda d’una selvaggia eccitazione. Le grida disperate dei membri delle famiglie divise, straziati dal dolore, si mescolavano agli urli blasfemi che il nemico minaccioso lanciava contro di loro. Coloro che, strappandosi dalla casa e dalla famiglia, si arruolavano come volontari sostenitori della Causa di Hujjat venivano ogni volta salutati da grida d’esultanza. Nel campo dei nemici ferveva una febbrile attività in preparazione della grande lotta che avevano segretamente deciso di combattere. Per ordine del governatore e con l’incoraggiamento dei mujtahid, siyyid e ‘ulamá’ che lo sostenevano, furono ammassati nella città i rinforzi provenienti dai villaggi circostanti 23.

Indifferente al crescente tumulto, Hujjat salì sul pulpito e, ad alta voce, proclamò alla congregazione: « La mano dell’Onnipotente ha, oggi, separato il vero dal falso e diviso la luce della guida dalla tenebra dell’errore. Non voglio che a causa mia dobbiate subire danni. La sola mira del governatore e degli ‘ulamá’ che lo appoggiano è quella di catturare e uccidere me. Non hanno altra ambizione: hanno sete del mio sangue e cercano solo me. Chiunque di voi abbia il minimo desiderio di proteggere la propria vita dai pericoli che ci circondano, chiunque sia riluttante a offrire la vita per la nostra Causa, si allontani da qui prima che sia troppo tardi e ritorni là donde è venuto » 24.

Quel giorno il governatore reclutò dai villaggi attorno a Zanján più di tremila uomini. Nel frattempo Mír Saláh, assieme a un gruppo di compagni, che vedevano la crescente irrequietezza dei loro oppositori, cercarono Hujjat e lo esortarono a trasferirsi per precauzione nel forte di ‘Alí-Mardán Khán 25, adiacente al quartiere in cui abitava. Hujjat dette il suo consenso e ordinò di condurre nel forte le donne e i bambini, insieme con le provviste necessarie. I compagni lo trovarono occupato dai proprietari, ma alla fine riuscirono a convincerli a ritirarsi e cedettero loro in cambio le case in cui avevano abitato.

Nel frattempo il nemico si stava preparando a un violento attacco contro di loro. Appena un distaccamento delle loro forze aprì il fuoco contro le barricate che i compagni avevano alzato, Mír Ridá, un siyyid dal coraggio eccezionale, chiese al suo capo il permesso di compiere un tentativo per catturare il governatore e portarlo prigioniero nel forte. Hujjat, non intenzionato ad accogliere la sua richiesta, gli consigliò di non rischiare la vita.

Il governatore, quando lo informarono dell’intenzione del siyyid, fu così sopraffatto dalla paura che decise di partire immediatamente da Zanján, ma ne fu dissuaso da un siyyid, il quale sosteneva che la sua partenza avrebbe scatenato gravi disordini, mettendolo in cattiva luce presso i superiori. Il siyyid per provare la sua sincerità, partì per prendere d’assalto gli occupanti del forte. Aveva appena dato il segnale dell’attacco e stava avanzando alla testa di una squadra composta da trenta dei suoi compagni, quando incontrò inaspettatamente due avversari che marciavano a spada sguainata verso di lui. Credendo che intendessero assalirlo, egli, con tutta la sua squadra, fu colto da un panico improvviso, si precipitò a casa e, dimenticando le assicurazioni che aveva fatto al governatore, rimase tutta la giornata rinchiuso nella sua stanza. Quelli che erano con lui si separarono immediatamente, rinunciando al pensiero di proseguire nell’attacco: appresero in seguito che i due uomini che avevano incontrato non avevano alcuna intenzione ostile contro di loro, ma erano semplicemente in cammino per sbrigare una commissione che era stata loro affidata.

Quell’umiliante episodio fu presto seguito da altri simili tentativi da parte dei sostenitori del governatore, nessuno dei quali raggiunse lo scopo. Ogni volta che i nemici si lanciavano all’attacco del forte, Hujjat ordinava a un piccolo gruppo di compagni, che erano tremila, di uscire dai rifugi e di mettere in fuga le loro forze, non mancando mai, ogni volta che dava simili ordini, di ammonire i suoi condiscepoli, a non versare inutilmente il sangue degli aggressori. Ricordò loro sempre che la loro azione aveva un carattere puramente difensivo e che il loro solo scopo era quello di preservare inviolata la sicurezza delle loro donne e dei loro bambini. « Abbiamo l’ordine », lo sentirono spesso osservare, « di non combattere la guerra santa contro i non credenti per nessun motivo, qualunque sia il loro atteggiamento verso di noi ».

Questo stato di cose perdurò 26 finché uno dei generali dell’esercito imperiale, di nome Sadru’d-Dawliy-i-Isfáhání 27, che era partito per l’Ádhirbáyján alla testa di due reggimenti, ricevette gli ordini dell’Amír-Nizám. Gli ordini scritti del Gran Visir gli pervennero a Khamsih, con l’ingiunzione di cancellare il viaggio progettato e di andare immediatamente a Zanján per dare aiuto alle forze che erano state raccolte dal governo. « Il Sovrano ti ha incaricato », gli disse l’Amír-Nizám, « di soggiogare la banda di sobillatori di Zanján e dintorni.

Tuo è il privilegio d’infrangere le loro speranze e di sterminare le loro forze. Un servizio così insigne, in un momento così critico, ti procurerà i più alti favori da parte dello Scià, nonché il plauso e la stima del suo popolo ».

Questo incoraggiante farmán accese l’immaginazione dell’ambizioso Sadru’d-Dawlih. Egli marciò subito su Zanján alla testa dei suoi due reggimenti, organizzò le forze che il governatore aveva messo a sua disposizione e ordinò un attacco congiunto contro il forte e i suoi difensori 28. La lotta divampò nei pressi del forte per tre giorni e tre notti e, nel corso di questa, gli assediati, sotto il comando di Hujjat, resistettero con splendida audacia al feroce assalto degli aggressori. Né la preponderanza numerica né la superiorità di equipaggiamento e addestramento riuscirono a permettere loro di piegare gl’intrepidi compagni a una resa senza condizioni 29. Impavidi sotto il fuoco del cannone che li martellava e dimentichi del sonno e della fame, uscirono dal forte buttandosi all’attacco, completamente incuranti dei pericoli che tale sortita implicava. Alle imprecazioni con cui l’esercito nemico salutava la loro apparizione dai rifugi, gridavano per risposta « Yá Sáhibu’z-Zamán! » e trascinati dalla malia che quella invocazione gettava su di loro, si scagliavano sul nemico e ne sbaragliavano le forze. La frequenza e il successo di queste sortite demoralizzarono gli assalitori, che si convinsero della futilità dei loro sforzi e furono presto costretti a riconoscersi incapaci di riportare una vittoria decisiva. Sadru’d-Dawlih stesso dovette confessare che, dopo un periodo di nove mesi di battaglia accanita, di tutti gli uomini che originariamente facevano parte dei suoi due reggimenti, erano rimasti a sostenerlo solo trenta soldati mutilati. Coperto d’umiliazione, fu costretto alla fine ad ammettere di non avere la forza di domare lo spirito dei suoi oppositori. Fu degradato dal suo rango e severamente redarguito dal Sovrano. Le speranze che aveva follemente accarezzato furono, a causa di questa sconfitta, irrimediabilmente infrante.

Una sconfitta così umiliante riempì di sgomento il cuore della popolazione di Zanján. Pochi erano disposti, dopo quel disastro, a rischiare la vita in battaglie disperate: solo coloro che erano obbligati a combattere osavano ancora attaccare gli assediati. Il peso della lotta era sostenuto principalmente dai reggimenti che erano stati successivamente inviati da Tihrán per quello scopo. Mentre gli abitanti della città, e particolarmente i commercianti, approfittavano molto dell’improvviso afflusso di un così gran numero di soldati, i compagni di Hujjat soffrivano miseria e privazioni entro le mura del forte. I loro rifornimenti scemavano rapidamente; la loro sola speranza di ricevere cibo dall’esterno si fondava sugli sforzi spesso infruttuosi di alcune donne che, con vari pretesti, facevano in modo di avvicinarsi al forte e di vendere a un prezzo esorbitante le provviste di cui essi avevano un così doloroso bisogno.

Benché oppressi dalla fame e molestati da feroci e improvvisi assalti, essi continuarono a difendere il forte con determinazione inflessibile. Sorretti da una speranza che nessuna avversità avrebbe potuto affievolire, riuscirono ad alzare non meno di ventotto barricate, ciascuna delle quali fu affidata alle cure di un gruppo di diciannove compagni. Ad ogni barricata, stazionavano altri diciannove compagni, come sentinelle, con la funzione di sorvegliare le mosse del nemico e poi di riferire.

Sentirono più volte la voce del banditore che il nemico mandò nelle vicinanze del forte per indurre gli occupanti ad abbandonare Hujjat e la sua Causa. « Il governatore della provincia », proclamava, « e il comandante in capo sono disposti a perdonare e a lasciar passare incolume chiunque di voi decida di abbandonare il forte e di rinunciare alla propria fede. Il Sovrano gli darà una lauta ricompensa e, oltre a fargli doni generosi, lo investirà di un titolo nobiliare. Lo Scià e i suoi rappresentanti si sono impegnati sul proprio onore di non mancare alla promessa data ». A questo appello gli assediati, con una sola voce, davano risposte sprezzanti e risolute.

Una dimostrazione ulteriore dello spirito di sublime rinuncia che animava quei valenti compagni fu data dal comportamento di una fanciulla di paese, la quale, di sua spontanea volontà, volle dividere la sorte del gruppo di donne e bambini che si erano uniti ai difensori del forte. Il suo nome era Zaynab, sua patria un piccolo villaggio nelle vicinanze di Zanján. Ella era attraente e aveva un bel viso, era infiammata da una grande fede e dotata d’intrepido coraggio. La vista delle sofferenze e delle privazioni che i suoi compagni dovevano sopportare suscitò in lei un incontenibile desiderio di travestirsi da uomo e di contribuire a respingere i ripetuti attacchi del nemico. Indossata una tunica e portando un copricapo simile a quello dei suoi compagni, si tagliò i capelli, si cinse di una spada e, presi un moschetto e uno scudo, s’introdusse nei loro ranghi. Quando si fece avanti per prendere posto dietro le barricate nessuno sospettò che fosse una fanciulla. Appena il nemico caricò, sguainò la spada e, gridando « Yá Sáhibu’z-Zamán! », si avventò con incredibile audacia sulle forze schierate contro di lei. Amici e nemici si meravigliarono quel giorno davanti a un coraggio e un’intraprendenza quali i loro occhi non avevano mai veduto. I nemici dissero che era la maledizione scagliata contro di loro da una Provvidenza irata e sopraffatti dalla disperazione, abbandonarono le barricate, battendo vergognosamente in ritirata davanti a lei.

Hujjat, che sorvegliava le mosse del nemico da una delle torri, la riconobbe e si meravigliò della prodezza che la fanciulla mostrava. Si era lanciata all’inseguimento degli aggressori, quando egli ordinò a suoi uomini d’invitarla a ritornare al forte e a rinunciare al tentativo. « Nessun uomo », lo sentirono dire, quando la vide gettarsi in mezzo al fuoco diretto dal nemico contro di lei, « si è mostrato capace di tanta vitalità e tanto coraggio ». Quando le chiese il motivo del suo comportamento, ella scoppiò in lacrime e disse: « Il mio cuore soffriva per la pietà e il dolore quando vedevo il travaglio e le sofferenze dei miei condiscepoli. Mi sono fatta avanti per un’intima necessità alla quale non ho saputo resistere. Temevo che tu mi negassi il privilegio di dividere la sorte dei miei compagni ». « Tu sei certo la stessa Zaynab », le chiese Hujjat, « che si unì volontariamente agli occupanti del forte!? » « Si », ella rispose, « posso assicurarti con certezza che nessuno ha fino ad ora scoperto il mio sesso. Tu solo mi hai riconosciuta. Ti scongiuro in nome del Báb di non togliermi l’inestimabile privilegio di conquistare la corona del martirio, il solo desiderio della mia vita ».

Hujjat fu profondamente impressionato dal tono e dal modo del suo appello. Cercò di placare il tumulto della sua anima, le assicurò che avrebbe pregato per lei e le dette il nome di Rustam-‘Alí come segno del suo nobile coraggio. « Oggi è il giorno della Resurrezione », le disse, « il giorno ‘in cui saran provati i segreti’ 30. Non dal loro aspetto esteriore, ma dal carattere della loro fede e dal modo in cui vivono Iddio giudica le sue creature, siano esse uomini o donne. Benché tu sia una fanciulla di tenera età e d’immatura esperienza, hai dato prova di possedere tale vitalità e tali risorse che pochi uomini potrebbero sperare di superare ». Esaudì la sua richiesta, ammonendola a non oltrepassare i limiti che la Fede aveva loro imposto. « Siamo chiamati a difendere la nostra vita », le ricordò, « contro un perfido aggressore, e non a combattere una guerra santa contro di lui ».

Per un periodo di non meno di cinque mesi, quella fanciulla continuò a resistere con impareggiabile eroismo alle forze del nemico. Disdegnando cibo e sonno, lavorò con febbrile ardore per la Causa che molto amava, stimolando, con l’esempio della sua splendida audacia, il coraggio dei pochi esitanti e rammentando loro il dovere che ci si aspettava adempissero. La spada di cui s’era cinta rimase, in tutto quel periodo, al suo fianco e nei brevi intervalli di sonno che riusciva a concedersi, la videro con il capo appoggiato sulla spada, mentre lo scudo le serviva per coprirsi il corpo. A ciascuno dei suoi compagni era stata assegnata una particolare postazione, che era tenuto a custodire e difendere, mentre quell’intrepida fanciulla soltanto era libera di muoversi in qualsiasi direzione le piacesse. Sempre all’avanguardia nel cuore della mischia che le infuriava attorno, Zaynab era pronta in qualsiasi momento ad accorrere per salvare le postazioni che gli assalitori minacciassero e a porgere aiuto a tutti coloro che avessero bisogno d’incoraggiamento e di sostegno. Quando la fine dei suoi giorni fu vicina, i nemici scoprirono il suo segreto, ma, benché sapessero che era una fanciulla, continuarono a temere la sua forza e a tremare al suo arrivo: il suono acuto della sua voce bastava a gettare la costernazione nel loro cuore e a colmarli di disperazione.

Un giorno, vedendo che i compagni erano stati improvvisamente circondati dalle forze del nemico, Zaynab corse angosciata da Hujjat e, gettandosi ai suoi piedi, l’implorò, con le lacrime agli occhi, di lasciarla correre ad aiutarli. « La mia vita, lo sento, s’avvicina alla fine », aggiunse. « Posso cadere anch’io sotto la spada dell’assalitore. Perdonami, ti scongiuro, i miei falli e intercedi per me presso il mio Maestro, per amore del quale desidero dare la vita ».

Hujjat era troppo sopraffatto dall’emozione per rispondere. Incoraggiata dal suo silenzio, che interpretò come un consenso alla sua supplica, balzò fuori dalla porta e, gridando sette volte « Yá Sáhibu’z-Zamán! », corse ad arrestare la mano che aveva già ucciso alcuni compagni. « Perché insozzate con le vostre azioni il buon nome dell’Islám? » gridò gettandosi contro di loro. « Perché fuggite vilmente davanti a noi, se siete di coloro che dicono la verità? ». Corse alle barricate che il nemico aveva alzato, mise in fuga coloro che custodivano le prime tre linee di difesa e stava accingendosi a superare la quarta, quando, sotto una pioggia di pallottole, cadde morta al suolo. Non una sola voce tra i suoi oppositori osò porre in dubbio la sua castità o ignorare la sublimità della sua fede e la tenacia del suo carattere. Tale fu l’influenza della sua devozione che dopo la sua morte non meno di venti donne tra le sue conoscenti abbracciarono la Causa del Báb. Per loro ella aveva cessato d’essere la fanciulla di campagna che avevano conosciuto; era l’incarnazione dei più nobili princìpi della condotta umana, una personificazione vivente dello spirito che solo una Fede come la sua poteva evocare.

I messi che facevano da intermediari tra Hujjat e i suoi compagni ebbero un giorno l’ordine d’informare le sentinelle delle barricate di mettere in atto l’ingiunzione del Báb ai Suoi seguaci di ripetere diciannove volte, ogni notte, ciascuna delle seguenti invocazioni: « Alláh-u-Akbar » 31, « Alláh-u-A‘zam » 32, « Alláh-u-Ajmal » 33, « Alláh-u-Abhá » 34, e « Alláh-u-Athar » 35. La stessa notte in cui l’ordine fu ricevuto, tutti i difensori delle barricate si unirono per gridare simultaneamente quelle parole. Così forte e irresistibile fu quel grido che i nemici si destarono bruscamente dal sonno, abbandonarono il campo atterriti, corsero nei pressi della residenza del governatore e si rifugiarono nelle case vicine. Alcuni furono tanto sconvolti dal terrore che caddero morti all’istante. Presi dal panico, parecchi abitanti di Zanján fuggirono nei villaggi vicini. Molti credettero che quel terribile fragore fosse un segno preannunciante il Giorno del Giudizio, per altri indicava che Hujjat stava lanciando un nuovo appello, preludio, a loro avviso, di un improvviso attacco ancor più terribile di quelli che avevano sperimentato fino ad allora.

« Cosa sarebbe successo », sentirono che Hujjat osservò, quando lo informarono del terrore che quella improvvisa invocazione aveva ispirato, « se il mio Maestro mi avesse dato il permesso di combattere la guerra santa contro questi codardi miscredenti! Egli mi ha invitato a istillare nel cuore degli uomini i princìpi nobilitanti della carità e dell’amore e ad astenermi da ogni inutile violenza. Io e i miei compagni intendiamo servire lealmente il Sovrano ed essere buoni amici del suo popolo. Se avessi deciso di seguire le orme degli ‘ulamá, sarei, per tutta la vita, rimasto oggetto della servile adorazione di questa gente. Non sarò mai disposto a barattare con tutti i tesori e gli onori che il mondo può offrirmi la lealtà imperitura che nutro verso la Sua Causa ».

Coloro che provarono lo sgomento e il timore di quella notte, ne conservano ancora il ricordo nella mente. Ho udito molti testimoni oculari descrivere con parole entusiastiche il contrasto tra il tumulto e il disordine che regnavano nel campo del nemico e l’atmosfera di reverente devozione da cui il forte era pervaso. Mentre coloro che erano dentro il forte invocavano il nome di Dio e pregavano implorando la Sua guida e la Sua misericordia, i loro oppositori, tanto ufficiali quanto soldati, si abbandonavano ad azioni dissolute e vergognose. Benché consunti ed esausti, gli occupanti del forte continuavano a osservare le veglie e a cantare gl’inni che il Báb aveva ordinato loro di ripetere. Il campo nemico alla stessa ora echeggiava di rumorosi scoppi di risa, d’imprecazioni e bestemmie. Quella notte, in particolare, appena risuonò l’invocazione, i dissoluti ufficiali lasciarono subito cadere a terra i bicchieri di vino, e si buttarono fuori a capofitto, a piedi nudi, come fulminati da quel clamore stentoreo. Nel trambusto che ne seguì, le tavole da gioco si rovesciarono. Mezzi svestiti e a capo scoperto, alcuni fuggirono in campagna, mentre altri si precipitarono nelle case degli ‘ulamá’ e li svegliarono dal sonno. Allarmati e intimoriti, questi incominciarono a rivolgersi l’un l’altro i peggiori insulti per aver provocato un disastro così grande.

Appena i nemici ebbero scoperto il significato di quel gran clamore, tornarono ai loro posti rassicurati, anche se molto umiliati dall’accaduto. Gli ufficiali ordinarono a un gruppo di soldati di mettersi in agguato e di sparare là donde sarebbero ancora provenute voci del genere. In questo modo ogni notte riuscirono a uccidere alcuni compagni. Senza lasciarsi scoraggiare dalle perdite più volte subite, i sostenitori di Hujjat continuarono a intonare le loro invocazioni con immutato fervore, sprezzanti del pericolo che il recitare quella preghiera comportava. Mentre il loro numero scemava, la preghiera diveniva più squillante e acquistava maggior intensità. Neppure l’imminenza della morte riuscì a indurre gl’intrepidi difensori del forte a rinunziare a quello che essi consideravano il modo più nobile e potente per ricordare il loro Amato.

La battaglia infuriava ancora quando Hujjat si sentì spinto a rivolgere un messaggio scritto a Násiri’d-Dín Sháh. « I sudditi di vostra Maestà Imperiale », gli scrisse, « vi considerano sia loro guida temporale sia supremo custode della loro Fede. Essi a voi si appellano per avere giustizia e a voi guardano come supremo protettore dei loro diritti. La nostra controversia interessava in origine soltanto gli ‘ulamá’ di Zanján e non coinvolgeva in alcun modo né il vostro popolo né il vostro governo. Il vostro predecessore mi convocò a Tihrán e mi invitò a esporre le affermazioni basilari della mia Fede. Il defunto Scià fu completamente soddisfatto e lodò molto i miei sforzi. Mi sono rassegnato a lasciare la mia casa e a sistemarmi a Tihrán, col solo scopo di placare lo sdegno che infuriava attorno alla mia persona e di spegnere il fuoco che i sobillatori avevano acceso. Benché fossi libero di ritornare a casa, preferii rimanere nella capitale, poiché avevo piena fiducia nella giustizia del mio sovrano. Nei primi giorni del vostro regno, l’Amír-Nizám, mentre era ancora in atto la sollevazione del Mázindarán, mi sospettò di alto tradimento e decise di distruggere la mia vita. Non avendo trovato a Tihrán nessuno in grado di proteggermi, per difendermi decisi di fuggire a Zanján, dove ripresi il mio lavoro e cercai con tutte le mie forze di fare ciò che è veramente vantaggioso per l’Islám. Stavo eseguendo il mio compito, quando Majdu’d-Dawlih si scagliò contro di me. Molte volte mi appellai a lui perché fosse moderato e giusto, ma egli si rifiutò di accogliere la mia richiesta. Istigato dagli ‘ulamá’ di Zanján e incoraggiato dalle loro adulazioni, decise di arrestarmi. I miei amici intervennero e tentarono di fermargli la mano, ma egli continuò a istigare il popolo contro di me e il popolo, a sua volta, ha agito in modo tale che si è giunti alla situazione attuale. Vostra Maestà si è finora astenuta dall’offrire la sua benigna assistenza a noi, che siamo vittime innocenti di una crudeltà così feroce. I nostri nemici hanno perfino cercato di fare apparire ai vostri occhi la nostra Causa come una cospirazione contro l’autorità di cui vostra Maestà è stata investita. Sicuramente ogni osservatore non prevenuto ammetterà subito che non abbiamo in animo nessuna intenzione di questo genere. Il nostro solo scopo è quello di fare ciò che è più vantaggioso per il governo e per il popolo. Io e i miei principali compagni ci teniamo pronti a venire a Tihrán, per provare l’integrità della nostra Causa alla vostra presenza e alla presenza dei nostri principali oppositori ».

Non contento della sua petizione, invitò i suoi principali sostenitori a rivolgere allo Scià appelli simili al suo e a corroborare la sua richiesta di giustizia.

Il messaggero che portava le petizioni a Tihrán si era appena messo in viaggio quando fu catturato e condotto al cospetto del governatore. Infuriato per l’atto del suo oppositore, egli ordinò che il messaggero fosse immediatamente messo a morte. Distrusse le petizioni e in loro vece scrisse allo Scià alcune lettere che caricò d’ingiurie e di insulti e, dopo aver messo le firme di Hujjat e dei suoi principali compagni, le spedì a Tihrán.

Lo Scià, quando lesse queste insolenti petizioni, s’indignò a tal segno da inviare subito a Zanján due reggimenti equipaggiati di cannoni e munizioni, dando ordine di non lasciar vivo neppure uno dei sostenitori di Hujjat.

Nel frattempo, la notizia del martirio del Báb era pervenuta agli afflitti occupanti del forte tramite Siyyid Hasan, fratello di Siyyid Husayn, amanuense del Báb, che proveniva dall’Ádhirbáyján e stava andando a Qazvín. La notizia si diffuse tra i nemici, i quali l’accolsero con urla selvagge e si precipitarono a deridere e a schernire gli sforzi dei Suoi seguaci. « Per quale ragione », gridarono con scherno arrogante, « sarete d’ora in poi disposti a sacrificarvi? Colui, sui cui sentiero desiderate dare la vita, è caduto anch’egli vittima sotto i colpi di un nemico trionfante. Il suo corpo è ora perduto tanto per i nemici quanto per gli amici. Perché persistete nella vostra ostinazione, quando basta una parola per liberarvi dai vostri guai? ». Ma per quanto facessero allo scopo di scuotere la fiducia della comunità orbata, alla fine non riuscirono a indurre neppure i più deboli a disertare il forte e a rinnegare la Fede.

Nel frattempo, l’Amír-Nizám incitò il Sovrano a mandare ulteriori rinforzi a Zanján. Finalmente Muhammad Khán, l’Amír-Túmán, alla testa di cinque reggimenti ed equipaggiato di una quantità considerevole di armi e munizioni, fu incaricato di demolire il forte e di spazzarne gli occupanti.

Durante i venti giorni in cui le ostilità furono sospese, giunse a Zanján ‘Azíz Khán-i-Mukrí, soprannominato Sardár-i-Kull, che era in missione militare a Íraván 36, il quale riuscì a incontrare Hujjat grazie al suo ospite, Siyyid ‘Alí Khán. Quest’ultimo raccontò ad ‘Azíz Khán i particolari di un toccante colloquio che aveva avuto con Hujjat, in cui aveva ottenuto tutte le informazioni che gli occorrevano sulle intenzioni e sui propositi degli assediati. « Se il governo », Hujjat gli aveva detto, « si rifiuterà di accettare il mio appello, sono disposto, col suo permesso, ad andare assieme alla mia famiglia in una località fuori dai confini del paese. Se si rifiuterà di accogliere anche questa richiesta e insisterà nell’attaccarci, ci sentiremo costretti a insorgere e a difenderci ». ‘Azíz Khán assicurò Siyyid ‘Alí Khán che avrebbe fatto tutto quello che poteva per indurre le autorità a trovare una rapida risoluzione di questo problema. Siyyid ‘Alí Khán si era appena ritirato quando inaspettatamente giunse il farrásh 37 dell’Amír-Nizám, che era venuto per arrestare Siyyid ‘Alí Khán e condurlo nella capitale. ‘Azíz Khán fu colto da una grande paura e, per distogliere da sé ogni sospetto, incominciò a insultare Hujjat e ad accusarlo apertamente davanti al farrásh, riuscendo in questo modo a stornare il pericolo che minacciava la sua vita.

L’arrivo dell’Amír-Túmán segnò la ripresa delle ostilità in una misura quale Zanján non aveva mai sperimentato prima. Diciassette reggimenti di cavalleria e di fanteria si erano radunati sotto le sue insegne e combattevano sotto il suo comando 38. Non meno di quattordici cannoni furono, per suo ordine, puntati contro il forte. L’Amír aveva reclutato nel circondario altri cinque reggimenti e stava addestrandoli come rinforzi. La notte in cui arrivò, dette subito ordine di suonare le trombe per dare il segnale della ripresa dell’attacco. Comandò agli ufficiali addetti all’artiglieria di aprire immediatamente il fuoco contro gli assediati. Il rombo dei mortai, che si sentiva distintamente a circa quattordici farsang 39 di distanza, era appena incominciato, quando Hujjat ordinò ai compagni di usare i due cannoni che si erano costruiti e di cui uno fu trasportato in una postazione elevata che dominava il quartier generale dell’Amír. Una palla colpì la tenda di costui e ferì a morte il suo cavallo. Intanto il nemico stava facendo fuoco, con furia inesorabile, contro il forte ed era riuscito a uccidere un gran numero dei suoi occupanti.

Col passar dei giorni, divenne sempre più evidente che le forze agli ordini dell’Amír-Túmán, nonostante la loro grande superiorità per numero, equipaggiamento e addestramento, non erano in grado di conseguire la vittoria che avevano stoltamente preveduto. La morte di Farrukh Khán, figlio di Yahyá Khán e fratello di Hájí Sulaymán Khán, uno dei generali nemici, suscitò l’indignazione dell’Amír-Nizám che inviò all’ufficiale in capo una comunicazione scritta con parole severe, rimproverandolo perché non era riuscito a costringere gli assediati a una resa incondizionata. « Hai macchiato il buon nome del nostro paese », gli scrisse, « demoralizzato l’esercito e sprecato la vita dei suoi più abili ufficiali ». Gli ordinò di imporre ai suoi subordinati la più rigida disciplina e di ripulire il campo da ogni traccia di dissolutezza e di vizio. Lo incitò inoltre a consigliarsi con i notabili della città di Zanján, e lo ammonì che, se non avesse raggiunto lo scopo, sarebbe stato destituito. « Se i vostri sforzi combinati », aggiunse, « non riusciranno a costringerli a sottomettersi, andrò io stesso a Zanján e ordinerò il massacro generale dei suoi abitanti, senza tener conto del loro rango e della loro fede. Una città capace di portare tanta umiliazione allo Scià e tanto dolore al popolo è del tutto indegna della clemenza del nostro sovrano ».

Nella frenesia della disperazione, l’Amír-Túmán convocò tutti i kad-khudá 40 e i notabili della città, mostrò loro il testo della lettera e con le sue ardenti suppliche riuscì a convincerli ad agire immediatamente. Il giorno successivo ogni uomo abile di Zanján si era arruolato sotto le insegne dell’Amír-Túmán. Capeggiata dai kad-khudá e preceduta da quattro reggimenti, una vasta moltitudine di popolo marciò in direzione del forte, al suono d’una fanfara di trombe e d’un rullio di tamburi. Per nulla intimoriti dal loro clamore, i compagni di Hujjat gridarono tutti insieme « Yá Sáhibu’z-Zamán! » e poi eruppero dalle porte e si avventarono contro di loro. Quello scontro fu il più feroce e disperato combattimento che avessero mai sperimentato. Quel giorno il fior fiore dei sostenitori di Hujjat cadde vittima di una spietata carneficina. Molti figli furono trucidati con crudeltà efferata sotto gli occhi delle loro madri, mentre sorelle videro con orrore e angoscia le teste dei loro fratelli issate sulle lance e brutalmente sfigurate dalle armi dei nemici. In mezzo al tumulto, mentre l’impetuoso entusiasmo dei compagni di Hujjat affrontava la furia e la barbarie del nemico esasperato, di quando in quando si sentivano le voci delle donne che, combattendo a fianco a fianco agli uomini, animavano lo zelo dei loro condiscepoli. La vittoria miracolosamente riportata quel giorno può essere attribuita, in non piccola misura, alle grida di giubilo che quelle donne lanciarono davanti al loro potente nemico, grida alle quali conferirono maggiore intensità i loro atti d’eroismo e di abnegazione. Vestite da uomo, alcune erano balzate avanti, desiderose di sostituire i fratelli caduti, mentre si videro altre portare sulle spalle otri pieni d’acqua, con cui cercarono d’alleviare la sete dei feriti e di ridar loro le forze. Frattanto, nel campo nemico regnava la confusione. Privi di acqua e angosciati dalle defezioni nei loro ranghi, i nemici combattevano una battaglia perduta, incapaci di ritirarsi e impossibilitati a vincere. Non meno di trecento dei compagni vuotarono, quel giorno, la coppa del martirio.

Tra i sostenitori di Hujjat, c’era un uomo chiamato Muhsin che aveva l’incarico di cantare l’adhán 41. La sua voce possedeva tali qualità di calore e di ricchezza che nessuno nelle vicinanze poteva eguagliarla. Quando invitava i fedeli alla preghiera, se ne sentiva distintamente il suono fino nei villaggi vicini e quel suono penetrava nel cuore di coloro che lo udivano. Spesso i fedeli dei dintorni, nelle cui orecchie risuonava la voce di Muhsin, espressero la loro indignazione per le accuse di eresia mosse contro Hujjat e i suoi compagni. Così insistenti divennero le loro proteste che finirono per giungere all’orecchio del primo mujtahid di Zanján, il quale, non potendo imporre loro il silenzio egli stesso, implorò l’Amír-Túmán di escogitare uno stratagemma per estirpare dalla mente del popolo la fede nella devozione e nella rettitudine di Hujjat e dei suoi compagni. « Giorno e notte », si lamentò, « parlando con la gente tanto in pubblico, quanto in privato, cerco d’inculcare nella loro mente la convinzione che quei disgraziati sono acerrimi nemici del Profeta e vogliono distruggere la Sua Fede. Il canto di quell’uomo malvagio, Muhsin, toglie alle mie parole la loro influenza e vanifica i miei sforzi. Annientare quel miserabile scellerato è sicuramente il tuo primo obbligo ».

L’Amír dapprima si rifiutò di accogliere il suo appello. « Tu e i tuoi pari », rispose, « dovete essere considerati responsabili d’aver dichiarato la necessità di combattere la guerra santa contro di loro. Noi siamo solo servi del governo e il nostro dovere è quello di obbedire agli ordini ricevuti. Ma, se cerchi di porre fine alla sua vita, devi essere disposto a fare il sacrificio adeguato ». Il siyyid comprese immediatamente lo scopo dell’allusione dell’Amír. Appena giunse a casa, gli mandò per mano di un messaggero un dono di cento túmán 42.

L’Amír ordinò subito che un gruppo di suoi uomini, famosi per la loro abilità nell’adoperare le armi da fuoco, tendessero un agguato a Muhsin e gli sparassero mentre pregava. Era l’ora dell’alba, quando, mentre gridava « Lá Iláh-a-illa’lláh » 43, una pallottola lo colpì alla bocca e lo uccise sul colpo. Hujjat, appena fu informato dell’atto crudele, ordinò che un altro compagno salisse sulla torre e continuasse la preghiera dal punto in cui Muhsin era stato interrotto. Anche se gli fu risparmiata la vita fino alla fine delle ostilità, in ultimo anche questi subì con i suoi confratelli una morte non meno atroce di quella del suo condiscepolo.

Quando gli ultimi giorni dell’assedio furono vicini, Hujjat esortò tutti coloro che erano fidanzati a celebrare le nozze. Per ciascun giovane celibe tra gli assediati scelse una moglie e, nei limiti dei mezzi a sua disposizione, contribuì di propria tasca a tutto ciò che poteva accrescere la comodità e la felicità dei novelli sposi. Vendette tutti i gioielli che sua moglie possedeva e, col danaro, comprò tutto ciò che poté trovare per dare felicità e far piacere a coloro che aveva unito in matrimonio. Questi festeggiamenti durarono più di tre mesi, ma furono intervallati dai terrori e dalle sofferenze di quel prolungato assedio. Quante volte il clamore del nemico incalzante soffocò le acclamazioni di gioia con cui la sposa e lo sposo si salutavano! Quante volte le voci gioconde furono improvvisamente soffocate dal grido « Yá Sáhibu’z-Zamán! » che invitava i fedeli a levarsi per respingere l’invasore! Con quanta tenerezza la sposa supplicava lo sposo di fermarsi un po’ più a lungo accanto a lei prima di andare a conquistare la corona del martirio! « Non posso perdere tempo », egli rispondeva. « Devo affrettarmi a cogliere la corona della gloria. Ci incontreremo sicuramente ancora sulle rive del grande Aldilà, la patria di una gaudiosa ed eterna riunione ».

Non meno di duecento giovani furono uniti in matrimonio durante quei giorni tumultuosi. Alcuni per un mese, altri per pochi giorni e altri ancora solo per un breve istante, riuscirono a rimanere indisturbati in compagnia delle loro spose; nessuno di loro mancò, quando il rullio dei tamburi annunciava l’ora della partenza, di rispondere gioiosamente all’invito. Si offrirono tutti senza esitare in sacrificio per il vero Amato; alla fine vuotarono tutti la coppa del martirio. Non c’è da meravigliarsi che il Báb abbia chiamato quel luogo, che fu teatro d’indicibili sofferenze e che vide un tale eroismo, Ard-i-A‘lá 44, titolo che è rimasto per sempre legato al Suo benedetto nome.

Tra i compagni vi era un certo Karbilá’í ‘Abdu’l-Báqí, padre di sette figli: Hujjat ne unì in matrimonio cinque. La cerimonia nuziale era appena giunta alla fine, quando improvvise grida di terrore annunziarono che era cominciata una nuova offensiva contro di loro. Essi balzarono in piedi e, lasciando le loro amate, si precipitarono a respingere l’invasore. L’uno dopo l’altro caddero tutti e cinque durante la battaglia. Il maggiore, un giovane molto stimato per la sua intelligenza e celebre per il suo coraggio, fu catturato e condotto alla presenza dell’Amír-Túmán. « Gettatelo al suolo », gridò infuriato l’Amír, « e accendete sul suo petto, che ha osato nutrire un amore cos grande per Hujjat, un fuoco che lo consumi ». « Scellerato », esclamò l’indomito giovane, «nessuna fiamma che le mani dei tuoi uomini sappiano accendere potrà distruggere l’amore che arde nel mio cuore ». Le lodi dell’Amato rimasero sulle sue labbra fino all’ultimo istante della sua vita.

Tra le donne che si distinsero per la tenacia della loro fede ve ne fu una di nome Umm-i-Ashraf 45, la quale si era appena sposata quando scoppiò la tempesta di Zanján ed era dentro al forte, quando dette alla luce il figlio Ashraf. Sia la madre sia il figlio sopravvissero al massacro con cui si concluse quella tragedia. Anni dopo, il figlio, che era cresciuto diventando un giovane di grandi promesse, fu coinvolto nelle persecuzioni che colpirono i suoi confratelli. Incapaci di persuaderlo ad abiurare, i nemici cercarono di spaventare la madre e di convincerla della necessità di salvarlo dal suo destino, prima che fosse troppo tardi. « Ti rinnego come figlio », gridò la madre, quando la portarono faccia a faccia con lui, « se dai ascolto a questi malvagi sussurratori e permetti loro di distoglierti dalla Verità ». Fedele alle esortazioni della madre, Ashraf affrontò la morte con intrepida calma. Benché testimone delle crudeltà inflitte al figlio, ella non si lamentò, né versò una lacrima. Questa madre meravigliosa mostrò un coraggio e una forza che stupì gli autori di quell’azione vergognosa. « Mi viene ora in mente », esclamò, mentre dava un estremo sguardo al corpo esanime del figlio, « il voto che feci il giorno in cui nascesti, mentre ero assediata nel forte di ‘Alí-Mardán Khán. Mi rallegro che tu, l’unico figlio che Iddio m’ha dato, mi abbia permesso di sciogliere quel voto ».

La mia penna non può descrivere lo struggente entusiasmo che ardeva in quei cuori valorosi e tanto meno rendergli un adeguato omaggio: per quanto violenti fossero, i venti dell’avversità non riuscirono a spegnerne il fuoco. Uomini e donne lavorarono con fervore infaticabile per rafforzare le difese del forte e ricostruire tutto ciò che il nemico aveva demolito; il tempo libero che riuscivano ad avere lo dedicavano alla preghiera. Ogni pensiero, ogni desiderio era subordinato alla necessità suprema di difendere la roccaforte dagli assalti dell’aggressore. La parte che ebbero le donne in queste operazioni non fu meno ardua di quella svolta dagli uomini. Tutte le donne indipendentemente dal rango e dall’età, si unirono con energia alla comune impresa: cucivano i vestiti, cuocevano il pane, assistevano gli ammalati e i feriti, riparavano le barricate, spazzavano dai cortili e dai terrazzi le palle e i proiettili sparati contro di loro dal nemico e, infine, cosa non meno importante, consolavano i deboli di cuore e rianimavano la fede dei dubbiosi 46. Perfino i bambini contribuivano alla causa comune dando l’aiuto che potevano e pareva che fossero accesi da un entusiasmo non meno straordinario di quello dei loro padri e delle loro madri.

Tale era lo spirito di solidarietà che animava le loro fatiche e tale era l’eroismo dei loro atti, che il nemico fu portato a credere che il loro numero non fosse inferiore a diecimila. Era opinione generale che un continuo flusso di provviste si facesse strada, in modo inspiegabile, fino al forte, e che nuovi rinforzi venissero continuamente inviati da Nayríz, dal Khurásán e da Tabríz. La forza degli assediati sembrava al nemico più incrollabile che mai, le loro risorse, inesauribili.

L’Amír-Túmán, esasperato dalla loro inflessibile tenacia e pungolato dai rimproveri e dalle proteste delle autorità a Tihrán, decise di ricorrere alle armi abiette del tradimento per ottenere la completa sottomissione degli assediati 47. Fermamente convinto che affrontare gli oppositori sul campo di battaglia in modo onorevole fosse uno sforzo vano, chiese astutamente che le ostilità venissero sospese e sparse la voce che lo Scià aveva deciso di abbandonare l’impresa. Asserì che fin dall’inizio il Sovrano aveva disapprovato l’idea di appoggiare le forze che combattevano nel Mázindarán e a Nayríz e aveva deplorato lo spargimento di tanto sangue per un motivo così futile. Il popolo di Zanján e dei villaggi circostanti fu portato a credere che Násiri’d-Dín Sháh avesse veramente ordinato all’Amír-Túmán di negoziare un accomodamento amichevole della controversia tra lui e Hujjat e che fosse sua intenzione di mettere fine, il più rapidamente possibile, a quell’infelice stato di cose.

Quando fu sicuro che la popolazione era stata raggirata dal suo astuto complotto, compilò un appello di pace, in cui garanti a Hujjat la sincerità delle sue intenzioni di raggiungere un accordo durevole tra lui e i suoi sostenitori. Accompagnò la dichiarazione con una copia del Corano, a cui appose il suo sigillo, per comprovare la santità della sua promessa. « Il mio sovrano », aggiunse, « ti ha perdonato. Dichiaro solennemente che tu e i tuoi seguaci siete sotto la protezione di sua Maestà Imperiale. Questo Libro di Dio mi è testimone che chi di voi deciderà di uscire dal forte non correrà alcun pericolo ».

Hujjat ricevette con reverenza il Corano dalle mani del messo e, appena ebbe letto l’appello, invitò il latore a informare il suo padrone che avrebbe mandato una risposta il giorno successivo. Quella notte radunò i suoi principali compagni e parlò loro dei sospetti che nutriva sulla sincerità delle dichiarazioni del nemico. « I tradimenti del Mázindarán e di Nayríz sono ancora vivi nella nostra mente. La stessa cosa che hanno perpetrato contro di loro, si propongono di perpetrare contro di noi. Ma in ossequio al Corano, risponderemo all’invito e manderemo nel loro accampamento un gruppo di compagni, perché in questo modo la loro falsità possa venire smascherata ».

Ho sentito Ustád Mihr-‘Alíy-i-Haddád, che scampò al massacro di Zanján, raccontare ciò che segue: « Ero uno dei nove bambini, nessuno dei quali aveva più di dieci anni, che accompagnarono la delegazione mandata da Hujjat all’Amír-Túmán. Gli altri erano uomini di oltre ottant’anni d’età. Tra loro c’erano Karbilá’í Mawlá-Qulí-Áqá-Dádásh, Darvísh-Saláh, Muhammad-Rahím e Muhammad. Darvísh-Saláh era il personaggio più solenne, alto di statura, con la barba bianca e di singolare bellezza. Era molto stimato per il suo comportamento onesto e giusto. Il suo intervento a favore degli oppressi riceveva sempre la considerazione e la simpatia delle autorità interessate. Dopo la conversione, egli rinunziò a tutti gli onori che aveva ricevuto e, sebbene fosse avanti negli anni, si arruolò tra i difensori del forte. Mentre ci conducevano alla presenza dell’Amír-Túmán, camminava davanti a noi portando il Corano con il sigillo.

Giunti alla tenda, rimanemmo all’ingresso in attesa dei suoi ordini. Al nostro saluto egli non dette risposta e ci trattò con gran disprezzo. Ci fece restare in piedi mezz’ora, prima di degnarsi di parlarci in tono di severo rimprovero. “Non si è mai vista gente”, gridò con scherno altezzoso, “più meschina e impudente di voi! “. Ci aveva lanciato le sue accuse quando uno dei compagni, il più vecchio e il più debole di tutti, gli chiese il permesso di dire poche parole e, avutolo, parlò, benché fosse illetterato, in modo tale da suscitare la nostra profonda ammirazione. “Dio sa”, disse, “che siamo e rimarremo sempre sudditi leali e ubbidienti alla legge del nostro sovrano e che desideriamo solo fare ciò che è veramente vantaggioso per il suo governo e il suo popolo. Siamo stati gravemente calunniati da chi ci vuol male. Nessuno dei rappresentanti dello Scià è stato disposto a proteggerci o a esserci amico; non abbiamo trovato nessuno che perorasse la nostra Causa davanti a lui. Ci siamo ripetutamente appellati a lui, ma egli ha ignorato le nostre suppliche ed è rimasto sordo al nostro appello. I nostri nemici, imbaldanziti dall’indifferenza delle autorità governative, ci hanno assaliti da ogni parte, hanno saccheggiato le nostre proprietà, violato l’onore delle nostre mogli e figlie e catturato i nostri figli. Privi della difesa del governo e accerchiati dai nemici, ci siamo sentiti costretti a insorgere per difendere la vita”.

« L’Amír-Túmán si rivolse al suo luogotenente e gli chiese quale provvedimento gli consigliasse di prendere. “Sono imbarazzato”, aggiunse l’Amír, “su cosa rispondere a quest’uomo. Se fossi religioso nel cuore, abbraccerei senza esitare la sua Causa”. “Solo la spada”, rispose il luogotenente, “ci libererà dall’abominio di quest’eresia”. “Ho ancora in mano il Corano”, intervenne Darvísh-Saláh, “e porto la dichiarazione che hai fatto di tua spontanea volontà. Sono forse le parole che abbiamo appena sentito la nostra ricompensa per aver risposto al tuo appello?”.

L’Amír-Túmán, in uno scoppio d’ira, ordinò di strappare la barba a Darvísh-Saláh e di gettarlo in una prigione sotterranea, assieme a coloro che erano con lui. Io e gli altri bambini ci spaventammo e tentammo di fuggire. Gridando “Yá Sáhibu’z-Zamán!” corremmo in direzione delle nostre barricate. Alcuni di noi furono raggiunti e fatti prigionieri. Mentre stavo fuggendo, l’uomo che m’inseguiva afferrò l’orlo della mia veste. Mi svincolai da lui e riuscii a raggiungere, completamente esausto, la porta che conduceva all’accesso del forte. Grande fu la mia sorpresa quando vidi uno dei compagni, un uomo chiamato Ímán-Qulí, venir selvaggiamente mutilato dal nemico. Rimasi inorridito al vedere quella scena, sapendo che proprio quel giorno era stata proclamata la cessazione delle ostilità ed era stato promesso solennemente che non sarebbe stato commesso nessun atto di violenza. Seppi ben presto che la vittima era. stata tradita dal fratello, il quale, col pretesto di volergli parlare, l’aveva consegnato ai persecutori.

« Corsi direttamente da Hujjat, il quale mi accolse con amore, mi tolse la polvere dal viso, mi rivestì con abiti nuovi, mi fece sedere accanto a sé e mi invitò a dirgli cos’era successo ai compagni. Gli descrissi tutto ciò che avevo visto! “È il tumulto del Giorno della Resurrezione”, spiegò, “un tumulto come il mondo non ha mai visto prima. È il giorno in cui ‘l’uomo fuggirà dal fratello, e dalla madre e dal padre, dalla sua compagna e dai figli! 48. Questo è il giorno in cui l’uomo, non contento di aver abbandonato il fratello, sacrifica i suoi beni per versare il sangue del parente più stretto. È il giorno in cui ‘ogni donna che allatta dimenticherà il lattante, ogni donna pregna rigetterà il frutto del suo ventre e t’appariranno gli uomini come ebbri, ma ebbri non saranno, bensì il castigo di Dio sarà crudo!’” » 49.

Sedutosi al centro del maydán 50, Hujjat convocò i suoi seguaci. Quando arrivarono, si alzò e, ritto in mezzo a loro, disse queste parole: « Mi compiaccio dei vostri sforzi risoluti, miei diletti compagni. I nostri nemici sono decisi a distruggerci: non desiderano altro. Avevano intenzione d’ingannarvi facendovi uscire dal forte e poi di trucidarvi spietatamente secondo i loro desideri. Visto che il loro tradimento è stato scoperto, essi, nella furia della loro collera, hanno maltrattato e imprigionato i più vecchi e i più giovani tra voi. È chiaro che, finché non avranno espugnato il forte e sbaragliato voi, non deporranno le armi né cesseranno di perseguitarvi. Se continuerete a rimanere nel forte, sarete fatti prigionieri dal nemico, il quale certamente disonorerà le vostre mogli e ucciderà i vostri figli. È meglio, pertanto, che nel cuore della notte fuggiate conducendo con voi le une e gli altri. Che ciascuno si metta in salvo fino al momento in cui queste ingiustizie non cesseranno. Rimarrò solo ad affrontare il nemico. Piuttosto che dobbiate perire tutti, è meglio placare la loro sete di vendetta con la mia morte ».

I compagni furono profondamente commossi e, con le lacrime agli occhi, dichiararono di essere fermamente risoluti a rimanere accanto a lui, fino alla fine. « Non potremo mai accettare », esclamarono, « di abbandonarti alla mercé d’un feroce nemico! La nostra vita non è più preziosa della tua, e le nostre famiglie non hanno origini pi nobili dei tuoi parenti. Qualsiasi calamità ti colpisca, l’accetteremo di buon grado anche per noi ».

Rimasero tutti fedeli alla promessa tranne pochi, che, incapaci di sopportare l’angoscia sempre crescente del lungo assedio, e incoraggiati dal consiglio che lo stesso Hujjat aveva loro dato, si recarono al sicuro fuori dal forte, separandosi così dal resto dei condiscepoli.

Spinto a prendere una decisione disperata, l’Amír-Túmán ordinò a tutti