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ISBN 88-7214-087-0Questo libro è stato scritto in inglese nel 1944 da Shoghi Effendi (1897-1957) a commemorazione del primo centenario della nascita della Fede bahá’í, di cui egli fu il Custode dal 1921 al 1957. Pertanto le notizie statistiche e storiche in esso contenute vanno riferite a quella data. Dopo quasi sessant’anni, molte delle previsioni contenute nell’ultimo capitolo di quest’opera si sono realizzate. La Fede bahá’í, guidata dal 1963 dalla sua suprema istituzione, la Casa Universale di Giustizia, insediata nel suo Centro Mondiale in Haifa, è ora per la sua diffusione la seconda religione del mondo dopo la Religione cristiana.
Conosciuta in Italia fin dai primi del Novecento, la Fede bahá’í ha incominciato a organizzarsi subito dopo la fine della seconda Guerra mondiale e, dal 1962, è guidata da una sua Assemblea Spirituale Nazionale, che esercita la propria giurisdizione su 71 Assemblee Spirituali Locali e 341 gruppi e centri.1
Per quanto riguarda la traslitterazione dei nomi arabi e persiani si è seguito il sistema usato da Shoghi Effendi. Per una corretta pronuncia dei nomi persiani si notino le seguenti regole:
Le vocali accentate sono lunghe. In particolare, á si pronuncia con un suono intermedio fra a e o; i e u non accentate si pronunciano come e e o strette; i dittonghi ay e aw suonano come ei e ou italiani;
th, s, s, si pronunciano tutti come s italiana in asta, mai come s italiana in rosa;
j si pronuncia come g italiano in gente, ch come c italiana in cena e sh come sc italiane in scena;
h e h si pronunciano ambedue aspirate come in inglese o in tedesco;
kh si pronuncia come ch tedesco in Nacht;dh, z, d, e z si pronunciano tutte come s italiana in rosa (s dolce);
l’apostrofo capovolto, ‘ , si pronunzia come una lieve interruzione di voce;
gh corrisponde più o meno a un r «moscia» francese molto gutturale;
q è una k pronunciata molto profondamente in gola;
g si pronuncia sempre dura come in ghiro (es.: Gílán pron. ghilán);
l’accento tonico cade in genere sull’ultima sillaba.
INTRODUZIONEEcco una storia dei nostri tempi su un tema insolito, una storia ricca d’amore e di felicità, d’ispirazione e di forza che narra di trionfi già ottenuti e di ancor più grandi trionfi futuri. Pur raccontando cupe tragedie, alla fine non lascia l’umanità di fronte a un fosco e arduo avvenire, ma mentre esce dall’ombra per imboccare la strada maestra di un inevitabile destino che la condurrà verso i cancelli aperti della Città promessa della Pace eterna.
Sappiamo che gli ultimi cent’anni sono stati contraddistinti da conquiste e meraviglie ineguagliate nella storia, ma anche da delusioni e sconfitte inaudite. Qui si narrano prodigi più grandi, più potenti, più benefici occorsi nello stesso periodo e, invece che di lacrime e dolore, si dà notizia di una Gioia da lungo tempo dimenticata e di una Potenza scomparsa, ancora una volta discese nel mondo contingente e nella vita mortale. Si parla di cose divine: della nascita fra noi di una nuova Fede mondiale, una Fede che segue tutte quelle del passato, riconoscendole tutte, tutte adempiendole, portando a compimento il loro scopo comune e che rivolge ai cristiani, «la Gente del Vangelo», uno speciale invito ad aiutare a propagarla rapidamente per tutta la terra.
La narrazione è incentrata su un’unica, maestosa, solitaria Figura e il suo motivo dominante è il Suo infinito, trascendente amore per tutta l’umanità e la risposta d’amore da Lui suscitata nel cuore dei fedeli.
Il tema, dal punto di vista umano, è quello dell’Amore, della Lotta e della Morte. Racconta di uomini e donne come noi che per amore hanno rischiato tutto ciò che avevano e tutto quello che erano, racconta di case distrutte, cuori spezzati, lutti ed esili, sofferenze e indomabili propositi.
Per lungo tempo il mondo è parso troppo infelice, troppo soddisfatto di futili perseguimenti per accettare e praticare una Rivelazione così spirituale, così universale. Più volte sembrò certo che la tirannide potesse estirpare la Fede con la violenza. In diversi Paesi, molte persone eminenti ne avevano sentito parlare, erano state informate dei gravi torti inflitti ai suoi seguaci e avevano saputo delle loro proteste e richieste di giustizia. Ma nessuno se ne era curato o aveva dato aiuto.
Fatto strano e pietoso, che un’èra così diligente e inquisitrice, che ha scoperto tante verità, abbia lasciato inesplorato il reame dello spirito rinunziando così alla più importante verità.
Nessun Profeta è mai venuto al mondo con prove della Propria identità maggiori di quante ne abbia mostrate Bahá’u’lláh e nessun’altra Fede del passato ha mai ottenuto tanto o si è altrettanto diffusa sulla terra nei suoi primi cent’anni di storia.
La più importante prova di un Profeta è sempre Lui Stesso e l’efficacia della Sua parola. Bahá’u’lláh ha riacceso la fiamma della fede e della felicità nel cuore degli uomini. Il Suo sapere innato e spontaneo non era stato acquisito a scuola. Nessuno poté opporsi o resistere alla Sua saggezza e persino i Suoi peggiori nemici ammisero la Sua grandezza. Egli incarnava ogni perfezione umana. La Sua forza era infinita. Avversità e sofferenze accrebbero la Sua fermezza e il Suo potere. Da medico divino, diagnosticò le malattie dell’Era e ne prescrisse i rimedi. I Suoi insegnamenti universali illuminarono tutto il genere umano. Dopo la Sua morte il Suo potere si è sprigionato più copioso. Nella Sua preveggenza fu solo, ma gli eventi ne hanno dimostrato e stanno ancora dimostrandone l’esattezza.
La seconda prova portata dai Profeti è la testimonianza del passato, l’evidenza delle antiche Profezie.
L’adempimento, in questo Giorno, delle profezie del Corano e delle tradizioni musulmane, che pure è stato sorprendente e risaputo, non ha impedito all’Islam di perseguitare la Fede bahá’í.
L’adempimento delle profezie di Cristo e della Bibbia è stato per oltre cent’anni abituale oggetto di conoscenza e di commenti in Occidente. Ma la piena misura di questo adempimento è visibile solo in Bahá’u’lláh. La proclamazione della Sua Fede avvenne nel 1844, anno in cui la rigorosa esclusione degli Ebrei dalla loro terra, imposta dai musulmani per quasi dodici secoli, è stata finalmente mitigata dall’Editto di tolleranza e «i tempi dei Gentili» si sono «compiuti»2. L’Avvento a lungo rimandato si è verificato in un periodo di oppressione e iniquità, di chimere religiose e miscredenza, quando l’amore per Dio e per l’uomo s’era raffreddato3 e gli uomini erano immersi nelle occupazioni materiali4 e nei piaceri. Il Profeta venne come un ladro nella notte5 e dimorò fra noi mentre la gente dormiva un profondo sonno dello spirito. Mise alla prova le anime separò coloro che erano spirituali da coloro che non lo erano, i veri dai falsi credenti, le pecore dai capri.6 Colta alla sprovvista, la gente fu come presa in trappola7 e non si rese conto del pericolo finché la giustizia punitiva di Dio non la colpì. Eppure la Fede apparve e si propagò con la rapidità e la direzione di una folgore che guizza da oriente a occidente.8 Diversamente dalla Rivelazione di Muhammad, il Cristianesimo si era diffuso da oriente a occidente ed era stato prevalentemente una Fede occidentale. Anche la Fede bahá’í si è mossa verso occidente ma con velocità e impeto ben maggiori rispetto al Cristianesimo.
Sin dall’inizio dell’Era, nei giorni del Báb, l’Araldo della Fede, le cronache mostrano una consapevole simpatia dei cristiani verso il nuovo Insegnamento, in netto contrasto con l’atteggiamento dei loro vicini musulmani. Il primo esempio del genere è probabilmente quello del dottor Cormick, medico inglese residente a Teheran, il quale rese un gentile omaggio al Báb, da Lui assistito mentre Si trovava in prigione sofferente per le conseguenze delle torture subite, e annotò l’opinione prevalente che i Suoi Insegnamenti rassomigliassero al Cristianesimo. Il primo storico occidentale del Movimento, il conte Gobineau, diplomatico francese, nel 1865 descrisse con entusiasmo la santità del Báb, la nobiltà dei Suoi ideali, il Suo fascino, la Sua eloquenza e lo stupefacente potere che le Sue Parole esercitavano su amici e nemici. In termini simili hanno scritto Ernest Renan in «Les Apôtres» nel 1866, Lord Curzon in «Persia», il professor Browne di Cambridge in parecchie opere e molti letterati cristiani, in tempi più recenti.
Ma fra i numerosi esempi di questa istintiva simpatia, il più spettacolare è quello che segnò la fucilazione del Báb nella piazza del mercato di Tabríz il 9 luglio 1850. L’ufficiale al comando del plotone d’esecuzione era cristiano. Egli avvicinò il Báb e Lo pregò che gli fosse risparmiata la colpa di perpetrare un crimine così orrendo, poiché non nutriva alcun sentimento d’inimicizia verso di Lui. Il Báb rispose che se la sua preghiera era sincera Iddio avrebbe appagato il suo desiderio. Lo straordinario miracolo, grazie al quale la preghiera fu esaudita e il martirio del Báb fu eseguito da un altro reggimento, al comando di un ufficiale musulmano, fa parte della storia.
L’Occidente cristiano, pur lontano dalla scena del ministero del Profeta, percepì il divino Impulso mondiale e rispose praticamente decenni prima dell’Oriente. Poeti maggiori e minori, Shelley, Wordsworth e molti altri, cantarono una nuova Aurora. Un rinnovato impegno missionario diffuse il Vangelo cristiano in tutto il mondo. Uomini e donne spirituali cercarono di restituire genuinità alla religione. Sorsero riformatori a correggere mali di antica data. Romanzieri usarono la loro arte a fini sociali. Quanto diverso tutto ciò dal comportamento del corrotto, fanatico, persecutore Oriente!
Lo Stesso Báb identificò lo spirito e i fini del Suo Insegnamento con l’Insegnamento di Cristo, che era una preparazione al Suo. Nel Suo Discorso d’investitura delle «Lettere del Vivente» Egli citò alcune Istruzioni che Cristo aveva dato ai Suoi discepoli.
Sembra che Bahá’u’lláh abbia riconosciuto fin dall’inizio le speciali capacità dell’emergente e intraprendente Occidente. Egli prese i più energici provvedimenti perché l’Occidente e i suoi governanti conoscessero la Verità dell’Èra. Impossibilitato a portare personalmente il Suo messaggio in Europa, scrisse da una prigione turca una Tavola collettiva ai cristiani e un’altra ai Sovrani e ai governanti del mondo, specialmente quelli cristiani. Scrisse inoltre cinque Tavole personali indirizzate rispettivamente allo Zar, al Papa, alla regina Vittoria e due a Napoleone III. In esse, in risonante tono di potenza e maestà, come se fosse il Re dei Re che impartisce ordini ai Suoi vassalli, Bahá’u’lláh dichiara che quest’èra è il supremo Giorno di Dio ed Egli il Signore dei Signori, il Padre venuto nella più grande gloria. Tutto ciò ch’era stato menzionato nel Vangelo s’era compiuto. Gesù aveva annunciato questa Luce e i Suoi segni erano stati diffusi in Occidente affinché i Suoi seguaci, in questo Giorno, potessero volgersi verso Bahá’u’lláh.
Queste lettere sono vere dichiarazioni di una lungimirante Provvidenza e le catastrofi occorse in Occidente da quando esse sono state scritte le investono ora di un terribile e tragico interesse. Sono piuttosto lunghe, ma il loro significato può essere riassunto in pochi paragrafi.
Nella Tavola alla regina Vittoria Egli elogia Sua Maestà per aver posto fine alla tratta degli schiavi e aver «rimesso le redini del consiglio nelle mani dei rappresentanti del popolo». Ma coloro che partecipavano all’assemblea parlamentare avrebbero dovuto farlo nello spirito di preghiera a Dio e di tutela dei migliori interessi dell’umanità. La razza umana era un tutt’uno e andava considerata come il corpo umano che, pur creato perfetto, era afflitto da gravi malanni, alla mercé di governanti così ebbri d’orgoglio da non vedere il proprio vero tornaconto e tanto meno riconoscere questa possente Rivelazione. L’unico, reale rimedio per i mali del mondo era l’unione di tutti i suoi popoli in una Causa universale e in una Fede comune. Ciò poteva essere realizzato solo da un Medico divino. Invitava la Regina ad assicurare la pace, a essere giusta e benevola verso i sudditi, a evitare tasse eccessive, a realizzare un’unione internazionale per la riduzione degli armamenti e per una resistenza congiunta di tutte le nazioni contro qualunque aggressore.
La Tavola al Papa contiene un appassionato, amorevole appello ai cristiani, perché riconoscano che questo è il Giorno promesso di Dio, procedano nella sua luce, acclamino il loro Signore ed entrino nel Regno in Suo nome. Essi sono stati creati per la luce ed Egli non vuole vederli nelle tenebre. Cristo purificò il mondo con l’Amore e con lo Spirito in modo che in questo Giorno esso potesse ricevere la Vita dal Misericordioso. È questo l’avvento del Padre di cui parlò Isaia: l’insegnamento ch’Egli ora rivela è quello che Cristo celò quando disse: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di sopportarne il peso». Ingiunge al Pontefice di prendere la Coppa della Vita, di berne e poi offrirne «a coloro che si volgono ad essa fra i popoli di tutte le Fedi».
La Tavola ad Alessandro II è la risposta a una preghiera che lo Zar rivolse al Suo Signore e un riconoscimento della gentilezza che un suo ambasciatore Gli mostrò quand’era incatenato in prigione. Egli spiega allo Zar la suprema grandezza di questa Manifestazione, gli dice che il Profeta Si è assoggettato a mille patimenti per salvare il mondo e, Lui Che ha portato agli uomini la vita, è stato da loro minacciato di morte. Lo invita a denunciare questa ingiustizia e a offrirsi per amore di Dio e del Suo Regno come riscatto sul Suo sentiero. Non gliene verrà alcun danno, anzi sarà ricompensato in questo mondo e nell’altro. Immensa la benedizione in serbo per quel re che dia il cuore al Suo Signore.
Nelle due Tavole a Napoleone III Bahá’u’lláh chiarisce all’Imperatore l’unità del genere umano le cui numerose malattie non guariranno finché le nazioni non abbandonino il perseguimento dei loro molteplici interessi, non si mettano d’accordo e non si uniscano nella comune obbedienza al piano di Dio. La razza umana dev’essere come un unico corpo con una sola anima. Molta più Fede di quanta il mondo abbia finora avuto è richiesta agli uomini in quest’Era. A tutti è ingiunto d’insegnare la verità e di lavorare per la causa di Dio, ma nessuno avrà successo se prima non purificherà e nobiliterà il proprio carattere.
Bahá’u’lláh ordina al clero di abbandonare il suo isolamento, di mescolarsi alla gente e di sposarsi. Dio chiama a Sé gli uomini in quest’Èra e qualunque teologia presuma le proprie tesi modello di verità e si discosti da Lui è priva di valore ed efficacia.
Egli è venuto per rigenerare e unire tutto il genere umano nei fatti e nella verità e radunerà gli uomini all’unica mensa della Sua grazia. L’Imperatore, perciò, invochi il Suo nome e proclami la Sua verità al popolo.
Solenni moniti e aperte o tacite minacce, se i re non riconosceranno la Manifestazione e non obbediranno ai Suoi comandi, sono contenuti in tutte queste Tavole, specialmente in quella a Napoleone III. Ma la Tavola collettiva indirizzata a tutti i re è più dura e minacciosa delle altre. Bahá’u’lláh avverte i governanti che se non tratteranno i poveri come un pegno di Dio, se non osserveranno la giustizia più scrupolosa, se non comporranno le controversie, se non saneranno i dissensi che li dividevano, se non ridurranno gli armamenti e non seguiranno gli altri consigli dati loro dal Profeta, «il castigo Divino vi assalirà da ogni parte e sarà pronunziata contro di voi la sentenza della Sua giustizia. Quel giorno non avrete nessun potere per resisterGli e riconoscerete la vostra impotenza. Abbiate pietà di voi e di coloro che sono sotto di voi».
Molti secoli prima Cristo aveva pianto per la città i cui figli avevano ignorato la Sua visita e rifiutato la Sua protezione. Ora, al Suo secondo avvento, accadeva la stessa cosa. Ma coloro che suscitavano la collera di Dio non erano i membri di una nazione, bensì di un intero mondo.
Prima di morire, Bahá’u’lláh proclamò: «S’avvicina l’ora in cui apparirà il più grande sconvolgimento». E ancora: «È arrivato il momento della distruzione del mondo e delle sue genti».
Oltre quarant’anni dopo che queste Tavole furono spedite, ‘Abdu’l-Bahá, figlio del Profeta ed Esempio designato della Sua Fede, finalmente liberato dalla prigionia dai Giovani turchi, viaggiò per tre anni per l’Europa e l’America. Pur rattristato da molte cose che vide e benché conoscesse il triste destino verso il quale l’incuria stava precipitando le nazioni, fu parco di denunce, rimproveri e critiche, ma, al contrario, con parole di incoraggiamento e indiscriminato amore, invitò i Suoi ascoltatori ad azioni nobili ed eroiche. Parlò molto del traguardo spirituale e sociale disposto da Dio per quest’Epoca illuminata, «La Più Grande Pace». Con la Sua gioia e la Sua serenità, il Suo amore per tutti, la Sua saggezza, la Sua forza, la Sua risolutezza e la totale sottomissione a Dio, Egli sembrava incarnare lo Spirito di quella Pace. La Sua sola presenza portava le anime sensibili a contatto con un modo di essere di cui potevano aver sentito parlare, ma che nessuna di loro aveva mai vissuto. In molti mesi di lavoro d’insegnamento Egli parlò delle condizioni morali e spirituali che avrebbero reso possibile la Più Grande Pace e in molti discorsi spiegò i mezzi pratici per conseguirla. A Wilmette, sulle rive del lago Michigan negli Stati Uniti, pose la prima pietra del primo Tempio bahá’í dell’Occidente, attorno al quale saranno costruiti edifici destinati a scopi sociali, umanitari, educativi e scientifici, un complesso di strutture da dedicare come un unico progetto alla gloria di Dio e al servizio degli uomini. In America vide, inoltre, i primi inizi della costruzione dell’Ordine Amministrativo di Bahá’u’lláh.
Ma la generale risposta del pubblico non bastò ad arginare la corrente che muoveva verso la guerra. Prima di lasciare gli Stati Uniti, ‘Abdu’l-Bahá predisse lo scoppio delle ostilità entro due anni.
Quando finalmente fu firmata la pace, Egli dichiarò che la Società delle nazioni, così com’era costituita, non poteva prevenire la guerra e prima della Sua morte, avvenuta nel 1921, ne annunciò ai Suoi seguaci un’altra più violenta della precedente.
All’inizio del secondo secolo bahá’í,9 a molti sembra che il genere umano stia andando alla deriva su un veliero senza remi in un mare tempestoso e inesplorato. Ma i bahá’í vedono altro: gli ostacoli con i quali gli uomini avevano ostruito le strade del progresso sono stati abbattuti, l’orgoglio umano è stato umiliato, l’umana sapienza vanificata, l’anarchia del nazionalismo e l’insufficienza del laicismo sono chiaramente evidenti.
Lentamente si solleva il velo che nascondeva il futuro. Gli uomini perspicaci, ovunque guardino, vedono davanti a sé alcune verità che possono guidarli, alcuni importanti principi di cui Bahá’u’lláh parlò molto tempo fa e che gli uomini hanno respinto. La summa e l’essenza delle migliori speranze delle menti migliori sono oggi contenute in una semplice dichiarazione, i «dodici Punti» di ‘Abdu’l-Bahá. 1. Libera ricerca della verità. 2. Unità del genere umano. 3. Religione, causa di amore e di armonia. 4. Religione e scienza di pari passo. 5. Pace universale. 6. Una lingua internazionale. 7. Educazione per tutti. 8. Pari opportunità per i due sessi. 9. Giustizia per tutti. 10. Lavoro per tutti. 11. Abolizione degli estremi di povertà e ricchezza. 12. Lo Spirito Santo, prima forza motrice della vita.
L’immenso, complesso, difficile compito di unificare i popoli è spiegato da ‘Abdu’l-Bahá, nella sua completa e intima semplicità, in sette pregnanti frasi. 1. Unità in campo politico. 2. Unità di pensiero nelle imprese del mondo. 3. Unità nella libertà. 4. Unità nella religione. 5. Unità delle nazioni. 6. Unità delle razze. 7. Unità dell’idioma.
I bahá’í hanno già incominciato nelle azioni e nei fatti a costruire lo strumento destinato a essere modello e nucleo della Più Grande Pace. L’Ordine Amministrativo è semplice quanto profondo nella sua concezione e può essere condotto solo da coloro la cui vita è animata dall’amore e dal timor di Dio. È un sistema nel quale realtà opposte come unità e universalità, praticità e spiritualità, diritti dell’individuo e diritti della società sono perfettamente equilibrati, non per un compromesso, ma per il manifestarsi di un’intima armonia. Chi ha lavorato in quest’Ordine afferma ch’esso sembra un corpo umano fatto per dare espressione all’anima.
Sulle rive del lago a Wilmette sorge, ora completato, il Tempio della Lode, Segno dello Spirito della Più Grande Pace e dello Splendore di Dio disceso sulla terra per dimorare fra gli uomini. Le sue pareti trasparenti, un intarsio traforato come di pietra scolpita, sono rivestite di cristallo. Nella struttura si trovano intrecciati tutti i simboli della luce che si possono immaginare: la luce del sole, della luna e delle costellazioni, le luci dei cieli spirituali dischiusi dai grandi Rivelatori di oggi e di ieri, la Croce in varie forme, la Mezzaluna e la Stella a nove punte (simbolo della Fede bahá’í). Il Tempio non resta mai al buio, di giorno è illuminato dai raggi del sole che vi penetrano da ogni parte attraverso le pareti squisitamente traforate e di notte lo è artificialmente e il suo ornato profilo spicca luminoso nell’oscurità. Da qualunque parte il visitatore s’avvicini, il Tempio, proteso verso il cielo, appare come lo spirito dell’adorazione e, visto dall’alto, somiglia a una stella a nove punte discesa dallo spazio per posarsi sulla terra.
Ma per la guida delle genti verso la Terra promessa, per la spiritualizzazione del genere umano, per il conseguimento della Più Grande Pace, il mondo aspetta che si levino coloro che il Re dei Re ha chiamato a questo compito, i cristiani e le Chiese occidentali.
«In verità Cristo disse: “Venite, vi farò pescatori di uomini” e oggi Noi diciamo: “Venite, ché vi facciamo vivificatori del mondo”… Ecco! Questo è il Giorno della Grazia! Venite, ché vi faccia sovrani del mio Regno. Se mi obbedirete, vedrete quel che vi abbiamo promesso, vi farò per sempre amici della Mia Anima nel Reame della Mia Grandezza e Compagni della Mia Bellezza nel cielo della Mia Potenza».
George TownshendIl 23 maggio di questo fausto anno,10 il mondo bahá’í celebrerà il centenario della fondazione della Fede di Bahá’u’lláh. Nello stesso tempo si commemorerà il centesimo anniversario dell’inizio della Dispensazione del Báb, dell’inaugurazione dell’Era bahá’í, dell’inizio del Ciclo bahá’í e della nascita di ‘Abdu’l-Bahá. L’importanza delle potenzialità di cui è stata dotata questa Fede, che non ha né pari né uguali nella storia spirituale del mondo e che segna il culmine di un ciclo profetico universale, fa vacillare le menti. Lo splendore della gloria millenaristica che diffonderà nella pienezza dei tempi abbaglia la vista. L’importanza dell’influenza che il suo Autore continuerà a esercitare sui Profeti destinati a venire dopo di Lui elude ogni previsione.
In meno di un secolo i misteriosi processi generati dal suo spirito creativo hanno già suscitato nella società umana un tumulto che le menti non possono spiegare. Dopo aver attraversato durante la sua età primitiva un periodo d’incubazione, ha prodotto, con la nascita del suo sistema che si va lentamente consolidando, un fermento nella vita del genere umano destinato a scuotere le fondamenta di una società malata, a purificarne la linfa vitale, a riequilibrarne e ricostruirne le istituzioni e a dar forma al suo destino finale.
E a cos’altro potranno occhi attenti o menti scevre da pregiudizi che vedano i segni e i portenti che hanno annunciato la nascita e accompagnato la crescita della Fede di Bahá’u’lláh, a cos’altro potranno attribuire questo terribile sconvolgimento planetario, con le conseguenti distruzioni, miserie e paure, se non alla nascita del Suo Ordine Mondiale embrionale che, come Egli ha inequivocabilmente proclamato, ha «sconvolto l’equilibrio del mondo e rivoluzionato la vita ordinata dell’umanità»? A quale altra forza si possono attribuire le origini di questa portentosa crisi, incomprensibile all’uomo e dichiaratamente senza precedenti nella storia della razza umana, se non all’irresistibile diffusione di quello spirito che doveva smuovere, rinvigorire e redimere il mondo e che, come ha affermato il Báb, «pulsa nell’intimo essere di tutte le cose create»? Nelle convulsioni della società contemporanea, nel frenetico ribollire di idee in tutto il mondo, nel feroce antagonismo che infiamma razze, credi e classi, nel naufragio delle nazioni, nella caduta dei re, nello smembramento degli imperi, nell’estinzione delle dinastie, nel crollo delle gerarchie ecclesiastiche, nel deterioramento di venerande istituzioni, nello scioglimento di legami, secolari e religiosi, che da lungo tempo tenevano insieme i membri della razza umana – manifestazioni tutte che si sono gradualmente accentuate dopo lo scoppio della prima Guerra mondiale che precedette immediatamente l’inizio dell’Età formativa della Fede di Bahá’u’lláh – in tutto questo si riconoscono facilmente i segni del travaglio di un’epoca che ha subìto l’impatto della Sua Rivelazione, ha ignorato i Suoi appelli e sta ora lottando per sgravarsi del suo fardello, per diretta conseguenza dell’impulso comunicatole dall’influenza rigeneratrice, purificatrice, trasformatrice del Suo Spirito.
In occasione di questo anniversario di così profondo significato, è mia intenzione tentare, nelle pagine seguenti, un esame degli avvenimenti più importanti del secolo che ha visto questo Spirito erompere nel mondo e le fasi iniziali della sua successiva incarnazione in un Sistema che deve evolversi in un Ordine destinato a includere l’intera umanità e capace di realizzare l’alto destino che attende l’uomo su questa terra. Mi sforzerò di analizzare, nella giusta prospettiva e nonostante lo spazio di tempo relativamente breve che ce ne separa, i principali fatti che, unici per glorie e patimenti, nel giro di cent’anni si sono svolti sotto i nostri occhi. M’attenterò di descrivere e correlare, sia pur sommariamente, gli importanti eventi che hanno impercettibilmente e inesorabilmente trasformato sotto gli occhi di successive generazioni perverse, indifferenti od ostili, un ramo eterodosso e apparentemente irrilevante della scuola shaykhí della setta ithná-‘asharíyyih dell’Islam sciita in una religione mondiale i cui numerosi seguaci sono organicamente e indissolubilmente uniti, la cui luce ha inondato la terra dall’Islanda a nord allo stretto di Magellano a sud, le cui ramificazioni si sono estese in oltre sessanta paesi del mondo, la cui letteratura è stata tradotta e divulgata in oltre quaranta lingue, i cui fondi locali, nazionali e internazionali ammontano, nei cinque continenti, a parecchi milioni di dollari, le cui istituzioni elettive legalmente costituite si sono assicurate il riconoscimento ufficiale di alcuni governi in Oriente e in Occidente, i cui aderenti provengono dalle più svariate razze e dalle più importanti religioni dell’umanità, i cui rappresentanti si trovano in centinaia di città della Persia e degli Stati Uniti d’America, alle cui verità una regina ha, pubblicamente e ripetutamente, reso testimonianza, il cui status indipendente i suoi nemici, dalle file della religione da cui essa è nata e nel più importante centro del mondo arabo e musulmano, hanno proclamato e dimostrato, i cui diritti sono stati virtualmente riconosciuti, autorizzandola a considerarsi la quarta religione della Terra nella quale è stato collocato il suo centro spirituale, una Terra che è cuore del Cristianesimo, santuario del popolo ebraico e il più sacro luogo dell’Islam dopo La Mecca.
Non ho in animo – né l’occasione lo richiede – di scrivere una storia dettagliata degli ultimi cent’anni della Fede bahá’í e non intendo risalire alle origini di un movimento così importante, né descrivere le circostanze nelle quali è nato, né esaminare la natura della religione dalla quale è scaturito, né spingermi a valutare gli effetti prodotti dal suo impatto sui destini del genere umano. Mi limiterò invece a passare in rassegna i punti salienti della sua nascita e della sua ascesa e gli stadi iniziali della formazione delle sue istituzioni amministrative – istituzioni che vanno viste come nucleo e araldo di quell’Ordine Mondiale che incarnerà l’anima della Fede di Dio in questo giorno, ne renderà esecutive le leggi e ne realizzerà gli scopi.
E nell’esaminare il quadro che i cent’anni trascorsi offrono ai nostri occhi, non intendo ignorare il rapido intrecciarsi di apparenti sconfitte ed evidenti vittorie attraverso le quali la mano di un’imperscrutabile Provvidenza ha voluto formare l’immagine della Fede fin dai suoi primissimi giorni, o minimizzare quei disastri che così spesso si sono dimostrati il preludio di nuovi trionfi che, a loro volta, ne hanno stimolata la crescita e consolidate le passate acquisizioni. In verità, la storia dei primi cent’anni della sua evoluzione si compone di una serie di crisi esterne e interne di diversa gravità, devastanti negli effetti immediati, ma ciascuna misteriosamente apportatrice di una corrispondente misura di potere divino, capace di dare nuovo impulso al suo sviluppo, sviluppo che ingenerava a sua volta una calamità ancora più grave, seguita da una ancor più generosa effusione di grazia celeste che consentiva ai suoi sostenitori di accelerare ulteriormente la sua marcia e di riportare al suo servizio vittorie ancor più schiaccianti.
A grandi linee si può dire che il primo secolo dell’Èra bahá’í comprenda l’Età eroica, primitiva, apostolica della Fede di Bahá’u’lláh nonché le fasi iniziali dell’Età formativa, di transizione, l’Età del ferro, che vedrà le energie creative sprigionate dalla Sua Rivelazione consolidarsi e prendere forma. Può approssimativamente dirsi che i primi ottant’anni di questo secolo coprano l’intero periodo della prima età, mentre gli ultimi due decenni hanno visto l’inizio della seconda. La prima incomincia con la Dichiarazione del Báb, comprende la missione di Bahá’u’lláh e termina con il trapasso di ‘Abdu’l-Bahá. La seconda si apre con le Sue Ultime Volontà e Testamento che ne definiscono il carattere e ne stabiliscono le fondamenta.
Il secolo di cui ci occupiamo può perciò essere suddiviso in quattro distinti periodi di diversa durata, ognuno dei quali riveste una particolare importanza e un significato straordinario e in verità incalcolabile. Questi periodi sono strettamente collegati e costituiscono gli atti consecutivi di un unico dramma indivisibile, magnifico e sublime, il cui mistero nessun intelletto può penetrare, il cui culmine nessun occhio può sia pur vagamente intravedere, la cui conclusione nessuna mente può adeguatamente presagire. Ciascuno di questi atti ruota attorno a un tema, vanta i propri eroi, registra tragedie proprie e propri trionfi e contribuisce al compimento di un comune, immutabile Scopo. Isolarli gli uni dagli altri, separare le successive manifestazioni di una Rivelazione universale e onnicomprensiva dal primitivo scopo che l’animò nei primissimi giorni significherebbe mutilare la struttura su cui essa si fonda e travisare malamente la sua verità e la sua storia.
Il primo periodo (1844-1853) gravita attorno alla gentile, giovane, irresistibile figura del Báb, incomparabile nella Sua mitezza, imperturbabile nella Sua serenità, magnetico nel Suo linguaggio, impareggiabile per i drammatici episodi del Suo breve e tragico ministero. Ha inizio con la dichiarazione della Sua Missione, culmina nel Suo martirio e si conclude con una vera orgia di massacro religioso di rivoltante ferocia. È caratterizzato da nove anni di lotte aspre e ininterrotte, il cui teatro fu l’intera Persia, in cui persero la vita oltre diecimila eroi, cui parteciparono due sovrani della dinastia Qájár e i loro malvagi ministri e che furono sostenute dall’intera gerarchia ecclesiastica sciita, dalle risorse militari dello stato e dall’implacabile ostilità delle masse. Il secondo periodo (1853-1892) è ispirato dalla maestosa figura di Bahá’u’lláh, preminente nella Sua santità, maestosa nella grandezza della Sua forza e del Suo potere, inaccessibile nel trascendente splendore della Sua gloria. Si apre, mentr’Egli Si trovava nel Síyáh-Chál di Teheran, con i primi palpiti nel Suo animo della Rivelazione anticipata dal Báb, raggiunge la pienezza nella proclamazione di quella Rivelazione ai re e alle autorità ecclesiastiche della terra e termina con l’ascensione del suo Autore nelle vicinanze della colonia penale di ‘Akká. Comprende altri trentanove anni di Rivelazione continua, senza precedenti e irresistibile, è caratterizzato dalla propagazione della Fede negli attigui territori di Turchia, Russia, Iraq, Siria, Egitto e India ed è contraddistinto da un corrispondente aggravamento delle ostilità, rappresentate dagli attacchi congiunti dello Scià di Persia e del Sultano di Turchia, che erano considerati i due più potenti sovrani dell’Oriente, e dall’opposizione degli ordini sacerdotali gemelli dell’Islam sunnita e sciita. Il terzo periodo (1892-1921) ruota attorno alla vibrante personalità di ‘Abdu’l-Bahá, misterioso nella Sua essenza, unico nel Suo stadio, straordinariamente potente per il fascino e la forza del carattere. Incomincia con l’annuncio del Patto di Bahá’u’lláh, documento senza eguali nella storia delle precedenti Dispensazioni, raggiunge l’apice nella vigorosa asserzione, da parte del Centro del Patto, nella città del Patto, dell’unicità e delle importantissime implicazioni di quel Documento e si chiude con il Suo trapasso e con la tumulazione del Suo corpo sul monte Carmelo. Durato quasi trent’anni, questo periodo passerà alla storia come un periodo durante il quale le tragedie e i trionfi si sono talmente intrecciati che, in un primo tempo, hanno oscurato l’Astro del Patto e, poi, ne hanno fatto risplendere la luce sul continente europeo, in Australia, in Estremo Oriente e nel continente nordamericano. Il quarto periodo (1921-1944) trae origine dalle forze sprigionate dalle Ultime Volontà e Testamento di ‘Abdu’l-Bahá, Statuto del nuovo Ordine Mondiale di Bahá’u’lláh, il frutto scaturito dal mistico connubio fra Colui Che è la Fonte della Legge di Dio e la mente di Colui Che ne è il veicolo e l’interprete. L’inizio di questo quarto e ultimo periodo del primo secolo bahá’í coincide con la nascita dell’Età formativa dell’Èra bahá’í, con la fondazione dell’Ordine Amministrativo della Fede di Bahá’u’lláh, un sistema che è contemporaneamente precursore, nucleo e modello del Suo Ordine Mondiale. Esso copre i primi ventitré anni di questa Età formativa ed è già stato contraddistinto da un ulteriore scoppio di ostilità di diverso tipo che, da una parte, ha accelerato la diffusione della Fede in aree ancor più vaste dei cinque continenti del globo e, dall’altra, ha permesso l’emancipazione e il riconoscimento dello status indipendente di numerose comunità entro il suo ambito.
Questi quattro periodi vanno considerati non solo come inseparabili parti componenti di un meraviglioso insieme, ma come fasi successive di un unico processo evolutivo, immenso, continuo e irresistibile. Se esaminiamo l’intero quadro che le vicende di questa Fede sorta un secolo fa ci mostrano, non possiamo fare a meno di concludere che sotto qualunque aspetto osserviamo l’imponente scena, gli avvenimenti occorsi ci mostrano gli indubbi segni di un lento processo di maturazione, di uno sviluppo ordinato, di un consolidamento interno e di una espansione esterna, di una graduale emancipazione dai vincoli dell’ortodossia religiosa e di una corrispondente diminuzione delle incapacità e delle restrizioni civili.
Esaminando questi periodi della storia bahá’í come parti di un’unica entità, vediamo una catena di eventi felicemente proclamare l’apparizione di un Precursore, la Missione di Colui il Cui avvento il Precursore aveva promesso, l’istituzione di un Patto concepito dalla diretta autorità del Promesso e infine la nascita di un Sistema, figlio generato dall’Autore del Patto e dal suo Centro designato. Vediamo come il Báb, il Precursore, abbia annunciato l’imminente inizio di un Ordine divinamente concepito, come Bahá’u’lláh, il Promesso, abbia formulato le leggi e le ordinanze di quell’Ordine, come ‘Abdu’l-Bahá, il Centro nominato, ne abbia delineato le caratteristiche e come ora i suoi seguaci incomincino a erigere l’ossatura delle sue istituzioni. Durante questi periodi, osserviamo la neonata luce della Fede dalla sua culla diffondersi a est in India e in Estremo Oriente, a ovest nei vicini territori dell’Iraq, della Turchia, della Russia e dell’Egitto, giungere nel continente nordamericano, illuminare uno dopo l’altro i maggiori paesi d’Europa, avvolgere col suo splendore, in una fase successiva, gli Antipodi, rischiarare le coste dell’Artico e infine accendere gli orizzonti del Centro e del Sud America. Siamo testimoni di una corrispondente diversificazione degli elementi della sua alleanza. Inizialmente limitata, nel primo periodo della sua storia, a un oscuro gruppo di fedeli reclutati soprattutto fra le masse della Persia sciita, essa si è ampliata in una fratellanza nella quale sono rappresentati i più importanti sistemi religiosi del mondo, quasi tutte le caste e i colori, umili operai, contadini e regnanti. Analogo sviluppo si nota nelle dimensioni della sua letteratura, che, inizialmente ristretta a un esiguo numero di manoscritti frettolosamente copiati, spesso alterati, fatti circolare in segreto, letti furtivamente, ripetutamente cancellati, talvolta addirittura masticati e inghiottiti dai terrorizzati membri di una sètta proscritta, nello spazio di un secolo si è ampliata in innumerevoli edizioni, con decine di migliaia di volumi pubblicati in differenti scritture e oltre quaranta lingue, alcuni elaboratamente riprodotti, altri ampiamente illustrati, tutti distribuiti con metodo e determinazione grazie ad Assemblee e comitati sparsi per il mondo, specificamente costituiti e appositamente organizzati. Ci rendiamo conto di una non meno evidente evoluzione nella portata dei suoi insegnamenti, dapprima deliberatamente rigidi, complessi e severi, successivamente rinnovati, ampliati e liberalizzati sotto la successiva Dispensazione, poi spiegati, riaffermati e ulteriormente ampliati da un Interprete designato e infine metodicamente e universalmente applicati a individui e istituzioni. Si può scoprire la stessa gradualità nel tipo di opposizione che essa ha dovuto affrontare, un’opposizione accesasi all’inizio nel cuore dell’Islam sciita, successivamente rafforzatasi con l’esilio di Bahá’u’lláh nei domini del Sultano turco e la conseguente ostilità della più potente gerarchia sunnita e del suo Califfo, capo della grande maggioranza dei seguaci di Muhammad, un’opposizione che, ora, con la crescita del suo Ordine divinamente designato nell’Occidente cristiano e dopo il suo iniziale impatto con istituzioni civili ed ecclesiastiche, promette di includere fra i suoi sostenitori governi costituiti e sistemi associati alle più antiche gerarchie consolidate della Cristianità. Nello stesso tempo si possono vedere alcune comunità nella sua orbita faticosamente ma persistentemente avanzare, fra le nebbie di una crescente ostilità, attraverso gli stadi dell’oscurità, della proscrizione, dell’emancipazione e del riconoscimento, stadi che necessariamente culmineranno, nel corso dei successivi secoli, nell’affermazione della Fede come religione di stato e nella fondazione della Confederazione mondiale bahá’í nella pienezza del suo potere e della sua autorità. Si nota inoltre un non meno evidente progresso nella fioritura delle sue istituzioni, siano esse centri amministrativi o luoghi di culto, che, clandestine e sotterranee all’inizio, stanno impercettibilmente salendo alla ribalta del riconoscimento pubblico, legalmente protette, arricchite da pie donazioni, dapprima nobilitate dall’erezione del Mashriqu’l-Adhkár di ‘Ishqábád, il primo Tempio bahá’í, e più recentemente immortalate dall’erezione del Tempio madre dell’Occidente nel cuore del continente nordamericano, precursore di una civiltà divina che sta lentamente maturando. E, per finire, possiamo notare il notevole miglioramento delle condizioni dei pellegrinaggi compiuti dai suoi devoti seguaci ai suoi santuari consacrati nel suo centro mondiale. I pellegrinaggi originariamente difficili, pericolosi, estenuanti, spesso compiuti a piedi, a volte finiti nella delusione e limitati a un pugno di perseguitati seguaci orientali ora, per le migliorate condizioni di sicurezza e comodità, hanno gradualmente incominciato ad attrarre un crescente numero di nuovi adepti provenienti dai quattro angoli del globo e sono culminate nella visita ampiamente pubblicizzata, ma purtroppo sfumata, di una nobile regina, la quale, proprio alle soglie della città desiderata dal suo cuore, è stata costretta, secondo la sua stessa testimonianza scritta, a ritornare sui suoi passi e a rinunciare a un così prezioso beneficio.
INDICEI. LA NASCITA DELLA RIVELAZIONE BábÍ . . . 3
Dichiarazione della Missione del Báb – Lettere del Vivente, arruolamento – Pellegrinaggio del Báb alla Mecca – Arresto del Báb e partenza per Isfáhán – Soggiorno del Báb a Isfáhán.
II. LA PRIGIONIA DEL Báb IN AZERBAIGIAN . . 23
Significato della prigionia –Prigionia a Máh-Kú e Chihríq – Interrogatorio a Tabríz – Gli scritti – Il Patto – La conferenza di Badasht.
III. SOLLEVAZIONI NEL MÁZINDARÁN,Punti culminanti della sollevazione del Mázindarán – Principali caratteristiche della sollevazione di Nayríz – Episodi associati con la sollevazione di Zanján – I Sette Martiri di Teheran.
IV. L’ESECUZIONE DEL Báb . . . . . . 66
Eventi precedenti la morte del Báb – Circostanze che accompagnarono il Suo martirio – Omaggi alla Sua memoria – Parallelo fra la Sua missione e quella di Gesù Cristo – Significato della Sua missione.
V. L’ATTENTATO ALLA VITA DELLO SCIÀE LE SUE CONSEGUENZE . . . . . . 82
Circostanze dell’attentato a Násiri’d-Dín Sháh – Massacro dei Bábí a Teheran – Il ruolo di Bahá’u’lláh durante il ministero del Báb – Suo arresto e prigionia nel Síyáh-Chál – Arresto e martirio di Táhirih – Esecuzione di eminenti discepoli del Báb – Omaggi all’eroismo dei Bábí – Destino dei persecutori del Báb e dei Suoi discepoli.
SECONDO PERIODO: IL MINISTERO DI BAHÁ’U’LLÁHSignificato della Rivelazione di Bahá’u’lláh – Circostanze della Sua nascita.
VII. L’ESILIO DI BAHÁ’U’LLÁH IN IRAQ . . . 141
Liberazione dal Síyáh-Chal e partenza per Baghdad – Significato dell’esilio – Permanenza a Baghdad prima del ritiro nel Kurdistán – I due anni del ritiro nel Kurdistán.
VIII. L’ESILIO DI BAHÁ’U’LLÁH IN IRAQ. . . 173
(seguito)Aumento del prestigio della comunità Bábí – Riforma della moralità della comunità – Crescente riconoscimento della posizione di Bahá’u’lláh – Espansione della letteratura Bábí – Sconfitta dei nemici della Fede – Partenza di Bahá’u’lláh da Baghdad.
IX. LA DICHIARAZIONE DELLA MISSIONESignificato della Dichiarazione – Partenza dal Giardino del Ridvan – Episodi del viaggio – Soggiorno a Costantinopoli
X. LA RIBELLIONE DI Mirza YAHYÁ E LAMirza Yahyá ripudia la Missione di Bahá’u’lláh – Proclamazione del Messaggio di Bahá’u’lláh –Deportazione ad ‘Akká.
XI. LA PRIGIONIA DI BAHÁ’U’LLÁH IN ‘AKKÁ . 251
Significato della deportazione in Terra Santa – Stenti sofferti durante i primi anni della prigionia – Graduale diminuzione delle restrizioni imposte.
XII. LA PRIGIONIA DI BAHÁ’U’LLÁH IN ‘AKKÁ . 271
(seguito)Nuova esplosione delle persecuzioni in Persia – Seguito della proclamazione della Missione di Bahá’u’lláh in Adrianopoli – Rivelazione delle leggi e ordinanze della Dispensazione bahá’í – Enunciazione dei principi fondamentali che caratterizzano la Rivelazione bahá’í.
XIII. L’ASCENSIONE DI BAHÁ’U’LLÁH . . . 305
Circostanze del trapasso – Destino dei nemici della Fede durante il ministero di Bahá’u’lláh.
TERZO PERIODO: IL MINISTERO DI ‘ABDU’L-BaháXIV. IL PATTO DI BAHÁ’U’LLÁH . . . . . 327
Significato – Caratteristiche salienti del Libro del Patto – Il ruolo di ‘Abdu’l-Bahá durante il ministero del Padre.
XV. LA RIBELLIONE DI Mirza MUHAMMAD-‘ALÍ 337
Accuse contro ‘Abdu’l-Bahá mosse dai violatori del Patto – Comportamento di Mirza Muhammad-‘Alí e dei suoi associati – Riferimenti di Bahá’u’lláh e ‘Abdu’l-Bahá ai violatori del Patto.
XVI. NASCITA E INSEDIAMENTO DELLA FEDERiferimenti nei sacri Scritti bahá’í all’Occidente e alla sua futura importanza – Arrivo dei primi pellegrini occidentali ad ‘Akká – I primi sviluppi della Fede nell’America del Nord.
XVII. IL RINNOVAMENTO DELLA PRIGIONIAMacchinazioni dei violatori del Patto – Il sultano ‘Abdu’l-Hamíd nomina una commissione d’inchiesta – Le attività di ‘Abdu’l-Bahá durante la prigionia – Indagini e richiamo della Commissione – Scoppio della rivoluzione dei Giovani turchi e liberazione di ‘Abdu’l-Bahá.
XVIII. LA TUMULAZIONE DELLE SPOGLIE DEL BábSUL MONTE CARMELO . . . . . . 377
Segretezza sul luogo dove erano nascoste le spoglie del Báb e loro definitiva traslazione in Terra Santa – Tumulazione delle spoglie di ‘Abdu’l-Bahá.
XIX. I VIAGGI DI ‘ABDU’L-Bahá IN EUROPALe visite in Egitto – I viaggi in Europa – Il soggiorno negli Stati Uniti d’America – Momenti culminanti dei viaggi.
XX. CRESCITA ED ESPANSIONE DELLA FEDERinnovamento delle persecuzioni in Persia – Costruzione del primo Mashriqu’l-Adhkár a ‘Ishqábád – Consolidamento della Fede in Oriente, in Europa e nel continente nordamericano – La guerra 1914 – 1918 e i suoi effetti sul Centro della Fede – Espansione delle attività bahá’í e apertura del continente australiano.
XXI. IL TRAPASSO DI ‘ABDU’L-Bahá . . . 428Avvenimenti che precedettero l’ascensione – Il funerale – Significato del Suo ministero – Destino dei nemici durante il Suo ministero.
QUARTO PERIODO:Le origini – Caratteri del Periodo formativo – Natura dell’Ordine Amministrativo – Attacchi contro l’Ordine Amministrativo – Caratteristiche delle Ultime Volontà e Testamento di ‘Abdu’l-Bahá – Inizi dell’Ordine Amministrativo – Assemblee Locali – Comitati nazionali – Costituzioni bahá’í – Riconoscimento giuridico delle Assemblee bahá’í – Proprietà bahá’í – L’istituzione dell’Hazíratu’l-Quds – Scuole estive – I giovani e altre attività – Contatti con organizzazioni umanitarie e autorità governative – Consolidamento delle istituzioni bahá’í in Terra Santa – Erezione del Mashriqu’l-Adhkár a Wilmette, Illinois, U.S.A.
XXIII. ATTACCHI CONTRO LE ISTITUZIONI BAHÁ’Í . 491
I violatori del Patto s’impadroniscono delle chiavi della Tomba di Bahá’u’lláh – Gli sciiti s’impadroniscono della Casa di Bahá’u’lláh a Baghdad – Persecuzione della Fede e soppressione delle sue istituzioni in Russia – Misure repressive contro le istituzioni bahá’í in Germania – Restrizioni imposte alle istituzioni bahá’í in Persia.
XXIV. EMANCIPAZIONE E RICONOSCIMENTOEffettiva separazione della Fede dall’Islam in Egitto – Riconoscimento dello stato indipendente della Fede al Centro Mondiale – Asserzione dell’indipendenza della Fede da parte dei suoi seguaci in Persia – Riconoscimento ufficiale delle istituzioni amministrative bahá’í negli Stati Uniti d’America.
XXV. ESPANSIONE INTERNAZIONALE DELLEAmpliamento dei limiti della Fede – Diffusione della letteratura bahá’í – Attività d’insegnamento su scala mondiale svolte da Martha Root – Conversione della regina Maria di Romania – Esecuzione del Piano settennale da parte della Comunità bahá’í americana.
Passato e al futuro. . . . . . . . . . 5601 Il 23 maggio 1844 segna l’inizio del più turbolento periodo dell’Età eroica dell’Era bahá’í, un’età che inaugura l’epoca più gloriosa del massimo ciclo che si sia mai visto nella storia spirituale dell’umanità. Questo periodo, il più spettacolare, il più tragico, il più memorabile del primo secolo bahá’í, è durato soltanto nove brevi anni. Si è aperto con la nascita di una Rivelazione il cui Portatore sarà acclamato dalla posterità «Punto attorno al Quale ruotano le realtà dei Profeti e dei Messaggeri» e si è chiuso coi primi palpiti di una Rivelazione ancor più potente, «il cui giorno», afferma Bahá’u’lláh, «ogni Profeta ha annunziato», che «l’anima d’ogni Messaggero divino ha agognato» e con cui «Dio ha provato i cuori dell’intera compagnia dei Suoi Messaggeri e dei Suoi Profeti». Nessuna meraviglia, quindi, che l’immortale cronista degli eventi associati alla nascita e allo sviluppo della Rivelazione bahá’í abbia ritenuto opportuno dedicare quasi la metà della sua toccante narrazione alla descrizione di quegli avvenimenti che in un così breve lasso di tempo hanno tanto arricchito, nella tragedia e nell’eroismo, gli annali religiosi dell’umanità. Per l’intensa drammaticità, per il rapido susseguirsi d’importanti eventi, per l’olocausto che lo battezzò alla nascita, per le miracolose circostanze in cui ebbe luogo il martirio di Colui Che l’aveva inaugurato, per le potenzialità di cui era stato impregnato fin dall’inizio, per le forze che alla fine sprigionò, questo periodo novennale è veramente unico nell’intero ambito dell’esperienza religiosa. Esaminando gli episodi del primo atto di questo sublime dramma, vediamo la figura del suo eroico Protagonista, il Báb, sorgere come una meteora sull’orizzonte di Shíráz, attraversare da sud a nord il fosco cielo della Persia, declinare con tragica rapidità e perire in uno sfolgorio di gloria. Vediamo i Suoi satelliti, una galassia di eroi ebbri di Dio, levarsi dal medesimo orizzonte, irradiare la medesima incandescente luce, bruciare con la medesima rapidità e, a loro volta, conferire nuovo impeto all’incalzante avanzata della nascente Fede di Dio.
2 Colui Che impartì il primo impulso a un Movimento così imprevedibile non era altri che il promesso Qá’im (Colui Che sorge), il Sáhibu’z-Zamán (Signore dell’Era) Che Si assumeva l’esclusivo diritto d’abrogare l’intera Dispensazione coranica e Si definiva «il Punto Primo da Cui tutte le cose sono state generate… il Sembiante di Dio, il Cui splendore non potrà mai essere oscurato, la Luce di Dio, la Cui radiosità mai potrà svanire». La gente fra la quale apparve apparteneva alla più decadente razza del mondo civile, rozzamente ignorante, selvaggia, crudele, imbevuta di pregiudizi, servile nella sottomissione a una gerarchia quasi deificata, somigliante nell’abiezione agli Israeliti d’Egitto dei giorni di Mosè, nel fanatismo agli Ebrei dei tempi di Gesù e nella perversità agli Arabi idolatri dell’epoca di Muhammad. Suo mortale nemico che Ne ricusò i titoli, Ne sfidò l’autorità, Ne perseguitò la Causa, quasi riuscì a spegnerNe la luce e finì con l’essere distrutto dall’impatto della Sua Rivelazione fu il clero sciita. Ferocemente fanatici, indicibilmente corrotti, investiti d’illimitato potere sulle masse, gelosi della propria posizione e irriducibilmente ostili a qualunque idea liberale, per mille anni i membri di questa casta avevano invocato il nome dell’Imám Nascosto, i petti brucianti nell’attesa del Suo avvento, i pulpiti risonanti le lodi del Suo dominio universale, le labbra devotamente e continuamente mormoranti preghiere per affrettarNe la venuta. Gli strumenti consenzienti che prostituirono il proprio alto ufficio per la realizzazione dei disegni del nemico furono niente meno che i sovrani della dinastia Qájár, prima Muhammad Sháh, bigotto, malaticcio, indeciso, che all’ultimo momento cancellò l’imminente visita del Báb nella capitale e, poi, il giovane e inesperto Násiri’d-Dín Sháh, che prontamente acconsentì alla condanna a morte del suo Prigioniero. Gli scellerati complici dei principali istigatori della malvagia congiura furono due gran visir, Hájí Mirza Áqásí, idolatrato tutore di Muhammad Sháh, volgare, falso e sciocco mestatore, e il dispotico, sanguinario e impudente Amír-Nizám, Mirza Taqí Khán. Il primo esiliò il Báb nelle fortezze montane dell’Azerbaigian e il secondo Ne decretò la morte a Tabríz. Altro complice in questi e altri odiosi crimini fu il governo, sostenuto da un branco di principotti e governatori ignavi, parassiti, corrotti e incompetenti, tenacemente attaccati ai privilegi che avevano carpito e totalmente asserviti a un clero notoriamente degenerato. Gli eroi le cui gesta brillano negli annali di questa aspra contesa spirituale, che coinvolse popolo, clero, monarca e governo, furono gli eletti discepoli del Báb, le Lettere del Vivente, e i loro compagni, pionieri del nuovo Giorno, i quali a tanto intrigo, ignoranza, depravazione, crudeltà, superstizione e codardia opposero uno spirito eccelso, invincibile e maestoso, un sapere di sorprendente profondità, una trascinante eloquenza, un insuperato fervore religioso, un coraggio leonino, un’abnegazione santa nella sua purezza, una risoluzione granitica nella sua fermezza, una visione straordinariamente ampia, una venerazione verso il Profeta e i Suoi Imám che sconcertò gli avversari, un potere di persuasione che allarmò i loro antagonisti e un modello di fede e un codice di comportamento che sfidarono i loro concittadini e ne rivoluzionarono la vita.
3 La prima scena del primo atto di questo grandioso dramma si svolse nella sala superiore della modesta residenza del figlio di un mercante di Shíráz, in un oscuro angolo della città. L’orario, poco prima del tramonto del 22 maggio 1844. I partecipanti, il Báb, venticinquenne siyyid di puro e santo lignaggio, e il giovane Mullá Husayn, il primo credente in Lui. Il loro incontro, poco prima del colloquio, era sembrato del tutto casuale. Il colloquio si protrasse fino all’alba. Il Padrone di casa rimase da solo con l’ospite e la città addormentata non si rese minimamente conto dell’importanza della loro conversazione. Di quella notte impareggiabile non è stata lasciata ai posteri alcuna documentazione, tranne il frammentario ma illuminante racconto che uscì dalle labbra di Mullá Husayn.
4 «Sedevo affascinato dalle Sue parole, dimentico del tempo e di coloro che mi attendevano», ha testimoniato dopo aver descritto le domande che aveva posto al suo Ospite e le decisive risposte che ne aveva avute, risposte che avevano dimostrato, senz’ombra di dubbio, la validità della Sua asserzione d’essere il promesso Qá’im. «Improvvisamente il grido del mu’adhdhin, che invitava i fedeli alla preghiera mattutina, mi destò dallo stato di estasi in cui sembrava fossi caduto. Tutte le delizie, tutte le ineffabili glorie che l’Onnipotente ha elencato nel Suo libro quali possessi inestimabili degli abitanti del Paradiso, tutto questo mi sembrò di provare quella notte. Mi sembrava di essere in un luogo di cui si poteva veramente dire: “Colà non ci raggiungerà tormento, né ci toccherà stanchezza”, “nessun vano discorso essi colà udranno, né falsità veruna, ma solo il grido ‘Pace! Pace!’”, “Il loro grido colà sarà, ‘Gloria a Te, o Dio!’ e il loro saluto laggiù, ‘Pace!’”, e al termine del loro grido, “Gloria sia a Dio, Signore di tutte le creature!”. Quella notte il sonno m’aveva abbandonato. Ero affascinato dalla musica di quella voce che, mentre Egli cantava, ora si alzava ora si abbassava, ora prorompente, mentre rivelava i versetti del Qayyúmu’l-Asmá’, ora intrisa di eteree sottili armonie mentre proferiva le preghiere che stava rivelando. Alla fine di ogni invocazione ripeteva questo versetto: “Lungi sia dalla gloria del tuo Signore, il Gloriosissimo, ciò che le Sue creature affermano di Lui! E pace sia sui Suoi Messaggeri! E lode a Dio, il Signore di tutti gli esseri!”».
5 «Questa rivelazione», testimonia inoltre Mullá Husayn, «crollatami addosso così impetuosamente e improvvisamente, fu come un fulmine che, per qualche tempo sembrò aver obnubilato le mie facoltà. Ero accecato dal suo splendore abbagliante e sopraffatto dalla sua forza travolgente. Eccitazione, gioia, timore reverenziale e meraviglia sommuovevano le profondità dell’anima mia. Predominante fra queste emozioni era un senso di contentezza e di forza, che sembrava avermi trasfigurato. Quanto debole e impotente, quanto timido e abbattuto mi ero sentito prima! Allora non potevo né scrivere né camminare, tanto tremanti erano le mie mani e i miei piedi. Ora, invece, la conoscenza della Sua Rivelazione aveva galvanizzato tutto il mio essere. Mi sentivo di possedere tale coraggio e tale potenza, che se il mondo intero, tutte le sue genti e i suoi potenti, si fossero sollevati contro di me, io, solo e indomito, avrei resistito al loro assalto. L’universo mi sembrava non più di un pugno di polvere entro la mia mano. Mi sembrava di essere la voce di Gabriele personificata, che invitava l’umanità intera: “Ridestatevi, perché, ecco, la Luce del mattino è sorta! Sorgete, ché la Sua Causa si è manifestata! Il portale della Sua grazia è spalancato; entratevi, o popoli del mondo! Perché Colui che è il vostro Promesso è venuto!”».
6 Ma una luce ancor più significativa illumina questo episodio che segna la Dichiarazione della Missione del Báb, se si legge quel «primo, il più grande e il più possente» libro fra tutti i libri della Dispensazione Bábí, il celebrato commento della sura di Giuseppe, il cui primo capitolo, ci viene assicurato, sgorgò per intero dalla penna del suo divino Rivelatore nel corso di quella notte delle notti. La descrizione di questo episodio fatta da Mullá Husayn e le prime pagine del Libro attestano la grandezza e la forza di quella possente Dichiarazione. Il vanto d’essere niente meno che il portavoce di Dio promesso dai Profeti delle ere passate, l’asserzione di essere nello stesso tempo l’Araldo di Uno infinitamente più grande di Lui, lo squillo delle Sue intimazioni ai re e ai principi della terra, i severi moniti rivolti al primo magistrato del regno, Muhammad Sháh, il consiglio impartito a Hájí Mirza Áqásí di temere Iddio e il perentorio ordine di rinunciare alla sua autorità di Gran Visir dello Scià e di sottomettersi a Colui Che è l’«Erede della terra e di tutto ciò che vi si trova», la sfida lanciata ai governanti del mondo che proclamava l’autonomia della Sua Causa, denunciava la vanità del loro effimero potere e li invitava ad «abbandonare, tutti, il loro dominio» e a trasmettere ai «paesi d’Oriente e d’Occidente» il Suo Messaggio – queste sono le caratteristiche salienti di quel primo contatto, che segnò la nascita della più gloriosa era della vita spirituale dell’umanità e stabilì la data del suo inizio.
7 Con questa storica Dichiarazione era sorta l’alba di un’Età che segna il coronamento di tutte le età. Il primo impulso di una grandiosa Rivelazione era stato trasmesso a uno che, secondo la testimonianza del Kitáb-i-Íqán, «se non fosse stato per lui, Dio non sarebbe stato posto sul seggio della Sua misericordia, né sarebbe asceso al trono della gloria eterna». Ma finché non furono trascorsi quaranta giorni l’arruolamento delle altre diciassette Lettere del Vivente non ebbe inizio. A poco a poco, spontaneamente, alcuni nel sonno, altri da svegli, alcuni nel digiuno e in preghiera, altri in sogno e in una visione, scoprirono l’Oggetto della loro ricerca e furono accolti sotto la bandiera della nuova Fede. L’ultimo a essere iscritto fra queste Lettere nella Tavola Custodita, ma primo fra loro per rango, fu l’erudito, ventiduenne Quddús, diretto discendente dell’Imám Hasan, il più stimato discepolo di Siyyid Kázim. Subito prima di lui fu investita del rango dell’apostolato della nuova Dispensazione, unica del suo sesso, una donna, che a differenza dei suoi condiscepoli non giunse mai alla presenza del Báb. Poetessa meno che trentenne, di illustre nascita, seducente fascino, accattivante eloquenza, spirito indomabile, idee eterodosse, audaci azioni, immortalata dalla «Lingua della Gloria» come Táhirih (la Pura) e soprannominata Qurratu’l-‘Ayn (Consolazione degli occhi) da Siyyid Kázim, suo maestro, ricevette, in seguito a un’apparizione del Báb in sogno, la prima intimazione di una Causa che doveva innalzarla fino alle più alte vette della fama e alla quale col proprio audace eroismo ella avrebbe, a sua volta, dato lustro immortale.
8 Queste «prime Lettere generate dal Punto Primo», questa «compagnia di angeli schierati davanti a Dio nel Giorno della Sua venuta», questi «Depositari del Suo Mistero», queste «Fonti sgorgate dalla Sorgente della Sua Rivelazione», questi primi compagni che secondo il Bayán Persiano «son più vicini a Dio», questi «Luminari che dall’eternità s’inchinano e per l’eternità continueranno a inchinarsi davanti al Trono celeste» e, infine, questi «vegliardi» descritti nell’Apocalisse «seduti davanti a Dio nei loro seggi», «avvolti in candide vesti», sul capo «corone d’oro» – queste Lettere, prima che si separassero, furono convocate alla presenza del Báb, Che rivolse loro parole di commiato, affidando a ciascuna di esse uno speciale compito e assegnando ad alcune come specifico campo di attività le rispettive province d’origine. Ingiunse loro d’essere cauti e moderati nel comportamento, rivelò la sublimità del loro rango e sottolineò la grandezza delle loro responsabilità. Ricordò le parole che Gesù aveva rivolto ai discepoli ed evidenziò la suprema grandezza del nuovo Giorno. Li ammonì di non perdere il Regno di Dio voltandosi indietro e li assicurò che, se Gli avessero obbedito, Dio li avrebbe fatti Suoi eredi e condottieri spirituali fra gli uomini. Lasciò intendere il segreto di un Giorno ancor più potente che annunciò imminente e li sollecitò a prepararsi al suo avvento. Rammentò il trionfo d’Abramo su Nimrod, di Mosè sul Faraone, di Gesù sul popolo ebraico, di Muhammad sulle tribù arabe e affermò l’ineluttabilità della vittoria finale della Sua Rivelazione. A Mullá Husayn affidò una missione più specifica e più importante. Dichiarò che il Suo patto con lui era stato stabilito, l’ammonì d’essere paziente coi dottori della legge che avrebbe incontrato, gli disse di andare a Teheran e accennò, con parole appassionate, a un Mistero ancor nascosto custodito in quella città, un Mistero, affermò, che avrebbe superato la luce irradiata dall’Hijáz e da Shíráz.
9 Spronati all’azione dal mandato loro conferito, lanciati nella loro rischiosa missione rivoluzionaria, questi astri minori che assieme al Báb formano il primo Váhid (Unità) della Dispensazione del Bayán, si sparsero in tutte le provincie della loro terra natia, dove resistettero con impareggiabile eroismo al selvaggio assalto concertato delle forze schierate contro di loro, immortalarono la Fede con le loro gesta e con quelle dei loro correligionari, sollevando un tumulto che sconvolse la loro terra e fece sentire i propri echi perfino nelle capitali dell’Europa occidentale.
10 Solo dopo aver ricevuto la lettera, ansiosamente attesa, del Suo fidato e amato luogotenente, Mullá Husayn, che Gli comunicava la lieta notizia del suo colloquio con Bahá’u’lláh, il Báb Si decise a compiere il lungo e faticoso pellegrinaggio alle tombe dei Suoi avi. Nel mese di sha‘bán del 1260 dell’Egira (settembre 1844) Egli, discendente da parte di madre e di padre dell’illustre Fátimih, del lignaggio dell’Imám Husayn, il più eminente successore legittimo del Profeta dell’Islam, Si recò a visitare la Caaba, in ottemperanza alle tradizioni islamiche. S’imbarcò a Bushihr il 19 ramadán (ottobre 1844) su un’imbarcazione a vela, accompagnato da Quddús che Egli costantemente preparava al suo futuro ufficio. Sbarcato a Gedda dopo un tempestoso viaggio di oltre un mese, indossò l’abito del pellegrino, montò a cammello e Si diresse verso la Mecca dove giunse il 1° dhi’l-hajjih (12 dicembre). Quddús, tenendo le briglie, accompagnò a piedi il suo Maestro fino a quel sacro Santuario. Il giorno di ‘Arafih il Profeta pellegrino di Shíráz, riferisce il Suo cronista, dedicò l’intera giornata alla preghiera. Il giorno di Nahr, proseguì per Muná, dove sacrificò, secondo la tradizione, diciannove agnelli, nove a Suo nome, sette a nome di Quddús e tre per il domestico etiope che Lo serviva. Poi, con gli altri pellegrini, circumambulò la Caaba ed eseguì i riti prescritti del pellegrinaggio.
11 La Sua visita nell’Hijáz fu segnata da due episodi di particolare importanza. Il primo fu la dichiarazione della Sua missione e la Sua aperta sfida all’altezzoso Mirza Muhít-i-Kirmání, uno dei più illustri esponenti della scuola shaykhí che talvolta giungeva al punto di sostenere la propria indipendenza dal primato della scuola, assunto dopo la morte di Siyyid Kázim da Hájí Muhammad Karím Khán, temibile nemico della Fede Bábí. Il secondo fu un’Epistola d’invito consegnata da Quddús allo Sceriffo della Mecca, nella quale il custode della Casa di Dio era sollecitato ad abbracciare la verità della nuova Rivelazione. Ma lo Sceriffo, tutto preso dalle proprie occupazioni, non rispose. Sette anni dopo, nel corso di una conversazione con un certo Hájí Niyáz-i-Baghdádí, informato dei particolari della missione e del martirio del Profeta di Shíráz, ascoltò attentamente la descrizione di quegli eventi ed espresse la propria indignazione per il tragico destino che L’aveva colpito.
12 La visita a Medina concluse il pellegrinaggio del Báb. Da Gedda Egli tornò a Búshihr dove, fra le prime cose che fece, Si congedò dal Suo discepolo e compagno di viaggio e gli assicurò che avrebbe incontrato il Diletto dei loro cuori. Gli annunciò, inoltre, che avrebbe cinto la corona del martirio e che anche Lui avrebbe, poi, subìto la stessa sorte per mano del loro comune nemico.
13 Il ritorno del Báb nella Sua terra natia (safar 1261, febbraio-Mirza 1845) dette inizio a uno sconvolgimento che scosse l’intero paese. Il fuoco acceso dalla dichiarazione della Sua missione era stato fatto divampare dalla dispersione e dalle attività dei Suoi discepoli. In meno di due anni aveva già infiammato le passioni di amici e nemici. L’incendio divampò ancor prima che Colui Che l’aveva generato facesse ritorno nella Sua città. La Rivelazione tanto drammaticamente riversata su un popolo così degenerato e di temperamento così focoso non poteva avere altra conseguenza che eccitare nei loro petti le più accese passioni di paura, odio, rabbia e invidia. Una Fede il Cui Fondatore non Si accontentava di pretendere di essere la Porta dell’Imám nascosto, ma Si arrogava un rango superiore persino a quello del Sáhibu’z-Zamán, Che Si considerava precursore di Uno incomparabilmente più grande di Lui, Che ordinava perentoriamente non solo ai sudditi dello Scià, ma anche al monarca e persino ai sovrani e ai principi del mondo, di abbandonare tutto e di seguirLo, Che sosteneva d’essere l’erede della terra e di tutto ciò che vi si trova – una Fede che, con le sue dottrine religiose, il suo modello etico, i suoi principi sociali, le sue leggi religiose sfidava l’intera struttura della società in cui era nata, indusse subito le masse a schierarsi, con sorprendente unanimità, dietro i loro sacerdoti, il loro supremo magistrato, con i suoi ministri e il suo governo, e le coalizzò in un’opposizione determinata a distruggere radicalmente il movimento iniziato da Uno Che essi consideravano un pretendente empio e presuntuoso.
14 Col ritorno del Báb a Shíráz può dirsi aperto lo scontro iniziale di forze inconciliabili. L’energico e intrepido Mullá ‘Alíy-i-Bastámí, una delle Lettere del Vivente, «il primo a lasciare la Casa di Dio (Shíráz) e il primo a soffrire per amor Suo», aveva già audacemente asserito in presenza di uno dei principali esponenti dell’Islam sciita, il famoso Shaykh Muhammad Hasan, che dalla penna del suo nuovo Maestro erano usciti, nello spazio di quarantotto ore, tanti versetti quanto quelli che formano il Corano, la cui rivelazione aveva richiesto al Suo Autore ventitré anni, e per questo era stato scomunicato, incatenato, infamato, imprigionato e, con tutta probabilità, messo a morte. Mullá Sádiq-i-Khurásání, indotto dall’ingiunzione del Báb nel Khasá’il-i-Sab‘ih a mutare la sacrosanta formula dell’adhán, la cantò nella forma modificata di fronte a una scandalizzata congregazione di Shíráz e fu istantaneamente arrestato, insultato, spogliato e sottoposto a mille colpi di frusta. L’infame Husayn Khán, il Nizámu’d-Dawlih, governatore del Fars, che aveva letto la sfida lanciata nel Qayyúmu’l-Asmá’, ordinò che Mullá Sádiq, Quddús e un altro credente fossero sommariamente e pubblicamente puniti, che venisse loro bruciata la barba, forato il naso e, attraverso i fori, passate delle briglie. Poi, dopo essere stati condotti per le strade in questa avvilente condizione, furono espulsi dalla città.
15 La gente di Shíráz si era intanto selvaggiamente eccitata. Una violenta contesa infuriava nelle moschee, nelle madrisih, nei bazar e in altri luoghi pubblici. Pace e sicurezza erano gravemente minacciate. I mullá, spaventati, invidiosi, furibondi incominciavano a rendersi conto della gravità della loro posizione. Il governatore, assai allarmato, ordinò l’arresto del Báb. Questi fu condotto a Shíráz sotto scorta e, in presenza di Husayn Khán, aspramente redarguito e così violentemente colpito in viso che il Suo turbante cadde a terra. Rilasciato sulla parola per intercessione dell’Imám-Jum‘ih, fu affidato alla custodia dello zio materno, Hájí Mirza Siyyid ‘Alí. Seguì una breve tregua che permise al Giovane prigioniero di festeggiare quel Naw-Rúz e quello successivo in un’atmosfera di relativa tranquillità in compagnia della madre, della moglie e dello zio. Nel frattempo la febbre che aveva colto i Suoi seguaci si era trasmessa ai membri del clero e ai mercanti e aveva invaso le alte sfere della società. In effetti un’ondata di appassionata ricerca stava attraversando l’intero paese e innumerevoli gruppi ascoltavano meravigliati le testimonianze eloquentemente e intrepidamente riferite dai messaggeri itineranti del Báb.
16 L’agitazione aveva raggiunto proporzioni tali che lo Scià, non potendo ignorarla oltre, incaricò il fedele Siyyid Yahyáy-i-Dárábí, soprannominato Vahíd, uno dei suoi sudditi più eruditi, eloquenti e influenti – un uomo che aveva imparato a memoria oltre trentamila tradizioni – d’indagare e di riferirgli l’esatta situazione. Uomo di ampie vedute, grande genialità, natura zelante, intimamente legato alla corte, nel corso di tre incontri fu completamente conquistato dagli argomenti e dalla personalità del Báb. Il primo colloquio fu imperniato sugli insegnamenti metafisici dell’Islam, sui più oscuri passi del Corano e sulle tradizioni e profezie degli Imám. Nel corso del secondo, Vahíd si rese conto con stupore che le domande che aveva inteso sottoporre per avere un chiarimento si erano cancellate dalla sua ottima memoria e tuttavia, come scoprì con meraviglia, il Báb stava rispondendo a quegli stessi quesiti che egli aveva dimenticato. Nel terzo incontro il Báb rivelò il commento della sura del Kawthar, di ben duemila versetti, e il delegato dello Scià ne fu talmente sopraffatto che, limitandosi a inviare al ciambellano di corte un semplice rapporto scritto, consacrò immediatamente tutta la vita e le sostanze al servizio di una Fede che l’avrebbe ripagato con la corona del martirio durante i moti di Nayríz. Egli, che era stato fermamente determinato a confutare le argomentazioni di quell’oscuro Siyyid di Shíráz, di indurLo ad abbandonare le Sue idee, di portarLo a Teheran per dimostrare l’ascendente che aveva conseguito su di Lui, fu ridotto a sentirsi, come più tardi riconobbe, «umile come la polvere sotto i Suoi piedi». Anche Husayn Khán, che aveva ospitato Vahíd durante la sua permanenza a Shíráz, fu costretto a scrivere allo Scià per esprimergli la convinzione che l’illustre delegato di Sua Maestà era diventato Bábí.
17 Un altro famoso sostenitore della Causa del Báb, ancor più zelante di Vahíd e di rango quasi altrettanto eminente, fu Mullá Muhammad-‘Alíy-i-Zanjání, soprannominato Hujjat. Akhbárí, acceso polemista, di mente ardita e indipendente, insofferente alle costrizioni, uomo che più di una volta aveva osato condannare l’intera gerarchia ecclesiastica dagli Abváb-i-Arba‘ih al più umile mullá, col superiore talento e la fervida eloquenza aveva confuso pubblicamente i suoi avversari sciiti ortodossi. Una persona di tal fatta non poteva restare indifferente a una Causa che stava producendo una spaccatura così grave fra i suoi conterranei. Il discepolo che egli mandò a Shíráz per indagare fu immediatamente affascinato dal Báb. La lettura di una sola pagina del Qayyúmu’l-Asmá’ portato a Hujjat dal messaggero bastò a produrre in lui una tale trasformazione che, davanti agli ‘ulamá della sua città natale, dichiarò che se l’Autore di quel lavoro avesse affermato che il giorno era notte e il sole ombra, egli non avrebbe esitato a sostenerne il verdetto.
18 Un’altra recluta della crescente armata della nuova Fede fu l’eminente studioso Mirza Ahmad-i-Azghandí, il più dotto, il più saggio, il più eminente fra gli ‘ulamá del Khurásán che, in previsione dell’avvento del promesso Qá’im, aveva compilato un elenco di circa dodicimila tradizioni e profezie riguardanti l’epoca e il carattere dell’attesa Rivelazione, le aveva fatte circolare fra i suoi condiscepoli e li aveva incoraggiati a farne largo uso citandole a tutte le congregazioni e in tutte le riunioni.
19 Mentre nelle province la situazione si andava sempre più deteriorando, l’accanita ostilità della popolazione di Shíráz stava rapidamente salendo al culmine. Il vendicativo e inesorabile Husayn Khán, esasperato dalle notizie che i suoi instancabili agenti gli davano sulla continua crescita della potenza e della fama del Prigioniero, decise d’agire immediatamente. Si dice anche che il suo complice, Hájí Mirza Áqásí, gli avesse ordinato di uccidere segretamente il preteso distruttore dello stato e sovvertitore della sua religione ufficiale. Per ordine del governatore, il capo della polizia, ‘Abdu’l-Hamíd Khán, scalò in piena notte il muro della casa di Hájí Mirza Siyyid ‘Alí dove il Báb era confinato, vi si introdusse, arrestò il Báb e confiscò tutti i Suoi libri e documenti. Ma proprio quella notte avvenne un fatto che nella sua drammatica subitaneità fu senza dubbio provvidenzialmente destinato a confondere i piani dei cospiratori e a far sì che l’Oggetto del loro odio potesse prolungare il Suo ministero e completare la Sua Rivelazione. Un’epidemia di colera di devastante virulenza aveva già colpito dopo la mezzanotte oltre cento persone. Il terrore del contagio aveva invaso ogni cuore e gli abitanti della città flagellata fuggivano in grande confusione fra urla di dolore e d’angoscia. Erano già morti tre domestici del governatore. Alcuni membri della sua famiglia erano gravemente ammalati. Nella sua disperazione, questi era fuggito in un giardino nei sobborghi della città lasciando i morti insepolti. Di fronte a questo inaspettato sviluppo della situazione, ‘Abdu’l-Hamíd Khán decise di condurre il Báb nella sua casa. All’arrivo apprese inorridito che suo figlio, contagiato dalla malattia, era agonizzante. Disperato, si gettò ai piedi del Báb pregandoLo di perdonarlo e scongiurandoLo di non far ricadere sul figlio i peccati del padre, promise che si sarebbe dimesso e non avrebbe mai più accettato quell’ufficio. La sua preghiera essendo stata esaudita, rivolse al governatore una supplica in cui lo pregava di rilasciare il Prigioniero, sviando così il fatale corso di quella terribile punizione. Husayn Khán accolse la richiesta e liberò il Prigioniero a condizione che lasciasse la città.
20 Miracolosamente salvato da un’onnipotente e vigile Provvidenza, il Báb Si recò a Isfáhán (settembre 1846) accompagnato da Siyyid Kázim-i-Zanjání. Seguì un’altra tregua, un breve periodo di relativa tranquillità, durante il quale i processi divini che erano stati messi in moto acquistarono ulteriore impeto, facendo precipitare una serie di eventi che portarono all’imprigionamento del Báb nelle fortezze di Máh-Kú e Chihríq e culminarono nel Suo martirio nella piazza d’armi di Tabríz. Perfettamente consapevole delle imminenti tribolazioni che L’avrebbero colpito, il Báb, prima di separarSi definitivamente dalla famiglia, aveva lasciato alla madre e alla moglie tutti i Suoi averi, aveva confidato a quest’ultima il segreto di ciò che stava per accaderGli e rivelato per lei una speciale preghiera la cui recitazione, le assicurò, avrebbe risolto le sue difficoltà e alleviato le sue sofferenze. Trascorse i primi quaranta giorni del Suo soggiorno a Isfáhán ospite di Mirza Siyyid Muhammad, il Sultánu’l-‘Ulamá, l’Imám-Jum‘ih, uno dei più importanti dignitari ecclesiastici del regno, secondo gli ordini del governatore della città, Manúchihr Khán, il Mu‘tamidu’d-Dawlih, al quale il Báb aveva fatto avere una lettera in cui gli chiedeva di scegliere il luogo dove avrebbe dovuto abitare. Fu ricevuto cerimoniosamente e tanto affascinò la popolazione che una volta, dopo ch’era stato al bagno pubblico, una folla impaziente reclamò l’acqua che aveva usato per le abluzioni. Il Suo fascino era così magico che il Suo anfitrione, dimentico della dignità del suo rango, Lo serviva personalmente. Una notte dopo cena il Báb rivelò, per sua richiesta, il celebre commento della sura di Va’l-‘Asr. In poche ore, scrivendo con stupefacente rapidità, aveva dedicato al significato della sola prima lettera della sura, una lettera che Shaykh-Ahmad-i-Ahsá’í aveva già messo in risalto e che Bahá’u’lláh menziona nel Kitáb-i-Aqdas, un numero di versetti equivalente a un terzo del Corano, impresa che suscitò tale reverente stupore che i presenti si alzarono per baciare il lembo della Sua veste.
21 Il tumultuoso entusiasmo della popolazione di Isfáhán stava intanto palesemente crescendo. Folle di persone, alcune spinte da curiosità, altre dal desiderio di scoprire la verità, altre ancora ansiose di guarire da una malattia, da ogni quartiere della città si riversavano nella casa dell’Imám-Jum‘ih. Il saggio e prudente Manuchihr Khán non poté resistere alla tentazione di visitare un Personaggio così inusuale e affascinante. Di origine georgiana e cristiano di nascita, egli chiese al Báb, alla presenza di un brillante gruppo di distinti teologi, di spiegare e dimostrare la verità della missione specifica di Muhammad. A quella richiesta cui i presenti si erano sentiti costretti a sottrarsi, il Báb rispose prontamente. In meno di due ore e in cinquanta pagine, non solo rivelò una minuziosa dissertazione, vigorosa e originale su questo nobile tema, ma lo collegò alla venuta del Qá’im e al ritorno dell’Imám Husayn. La spiegazione spinse Manúchihr Khán a dichiarare, davanti a quella adunanza, di aver fede nel Profeta dell’Islam e di riconoscere i doni soprannaturali di cui era dotato l’Autore di una così convincente trattazione.
22 Queste prove della crescente influenza che quel Giovane incolto esercitava sul governatore e sulla popolazione della città, giustamente considerata una delle roccaforti dell’Islam sciita, allarmarono le autorità ecclesiastiche. Astenendosi da gesti d’aperta ostilità che, sapevano perfettamente, avrebbero fatto fallire i loro piani, cercarono d’incoraggiare la circolazione delle voci più insensate, in modo da indurre il Gran Visir dello Scià a porre fine a una situazione che si faceva sempre più grave e minacciosa. La popolarità di cui il Báb godeva, il Suo prestigio personale e gli onori accordatiGli dai connazionali avevano ora raggiunto il massimo. Le ombre di un’imminente rovina cominciavano ad addensarsi velocemente attorno a Lui. Da quel momento in poi si susseguirono rapidamente una serie di tragedie destinate a culminare nella Sua morte e nell’apparente estinzione dell’influenza della Sua Fede.
23 L’arrogante e astuto Hájí Mirza Áqásí, nel timore che anche il sovrano cadesse sotto l’influenza del Báb segnando così la sua fine, era più all’erta che mai. Spinto dal sospetto che Egli godesse della segreta simpatia del Mu‘tamid e consapevole della fiducia che lo Scià riponeva in lui, rimproverò duramente l’Imám-Jum‘ih per aver trascurato il suo sacro dovere. Nello stesso tempo, in diverse lettere, profuse i suoi favori sugli ‘ulamá di Isfáhán che fino a quel momento aveva sempre ignorato. L’eccitato clero della città incominciò a riversare dai pulpiti vituperi e calunnie sull’Autore di quella che per loro era un’odiosa e temibilissima eresia. Lo Scià fu indotto a convocare il Báb nella capitale. Manúchihr Khán, cui era stato ordinato d’organizzare la Sua partenza, decise di ospitarLo temporaneamente a casa propria. Nel frattempo i mujtahid e gli ‘ulamá, costernati dai segni di tanto diffusa influenza, convocarono una riunione e pubblicarono un documento ingiurioso, firmato e sigillato dai capi religiosi della città, in cui accusavano il Báb d’eresia e Lo condannavano a morte. Anche l’Imám-Jum‘ih fu costretto ad aggiungere la sua testimonianza scritta che l’Accusato mancava di raziocinio e discernimento. Il Mu‘tamid, molto imbarazzato, per calmare il crescente tumulto concepì un piano per far credere alla popolazione sempre più irrequieta che il Báb fosse partito per Teheran, assicurandoGli nel frattempo una breve tregua di quattro mesi nell’intimità dell’‘Imárat-i-Khurshíd, la residenza privata del governatore a Isfáhán. Fu in quei giorni che il padrone di casa espresse il desiderio di consacrare tutti i suoi possedimenti, valutati dai contemporanei a ben quaranta milioni di franchi, al progresso degl’interessi della nuova Fede, dichiarando la sua intenzione di convertire Muhammad Sháh e di indurlo a liberarsi di un ministro disonesto e dissoluto e d’ottenere il consenso reale al matrimonio di una delle sue sorelle col Báb. Ma l’improvvisa morte del Mu‘tamid, prevista dal Báb, accelerò il corso dell’imminente crisi. Il crudele e avido vicegovernatore, Gurgín Khán, convinse lo Scià a emanare una seconda ordinanza in base alla quale il giovane Prigioniero doveva essere travestito e mandato a Teheran con una scorta di cavalleria. A questo ordine scritto del sovrano il vile Gurgín Khán, che aveva scoperto e distrutto il testamento dello zio, il Mu‘tamid, e si era impossessato delle sue proprietà, rispose prontamente. Ma a meno di trenta miglia dalla capitale, nella fortezza di Kinár-Gird, un messaggero consegnò a Muhammad Big, capo della scorta, un’ordinanza scritta di Hájí Mirza Áqásí che gli ingiungeva di proseguire per Kulayn e di attendere lì altre istruzioni. Poco dopo seguì una lettera dello Scià al Báb, in data rabí‘u’th-thání 1263 (19 Mirza-17 aprile 1847) che, sebbene scritta in termini cortesi, indicava chiaramente quale perniciosa influenza il Gran Visir esercitasse sul sovrano. I piani che erano stati tanto a cuore a Manúchihr Khán erano ora completamente distrutti. Muhammad Sháh, consigliato dal perfido ministro, designò quale luogo dell’incarcerazione del Báb la fortezza di Máh-Kú. Non lontana dall’omonimo villaggio, i cui abitanti avevano a lungo goduto della protezione del Gran Visir, essa si trovava nel più remoto angolo nord-occidentale dell’Azerbaigian. Dei Suoi seguaci, solo un compagno e un servitore ebbero il permesso di tenerGli compagnia in quel luogo squallido e inospitale. Il potentissimo e astuto ministro, col pretesto che il suo signore doveva concentrare l’attenzione su una recente ribellione nel Khurásán e su una rivolta a Kirmán, riuscì a mettere a punto un piano che, se fosse riuscito, avrebbe avuto le più gravi ripercussioni sulle sue fortune e sugli immediati destini del governo, del sovrano e del popolo.
CAPITOLO II1 L’esilio del Báb sulle montagne dell’Azerbaigian, che durò quasi tre anni, è la fase più triste, più drammatica e in un certo senso più pregnante dei sei anni del Suo ministero. Comprende i nove mesi del Suo confino nella fortezza di Máh-Kú e la successiva detenzione nella fortezza di Chihríq, interrotta soltanto da una breve ma memorabile visita a Tabríz. È stato interamente sovrastato dall’ombra dell’implacabile e crescente ostilità dei due più potenti avversari della Fede, il gran visir di Muhammad Sháh, Hájí Mirza Áqásí, e l’Amír-Nizám, gran visir di Násiri’d-Dín Sháh. Corrisponde alla fase più critica della missione di Bahá’u’lláh, durante il Suo esilio adrianopolitano quando Egli affrontò il dispotico sultano ‘Abdu’l-Azíz e i suoi ministri ‘Alí Páshá e Fu’ád Páshá ed è paragonabile ai giorni più cupi del ministero di ‘Abdu’l-Bahá in Terra Santa sotto l’oppressivo dominio del tirannico ‘Abdu’l-Hamíd e dell’altrettanto tirannico Jamál Páshá. Shíráz era stata il memorabile scenario della Sua storica Dichiarazione. Isfáhán Gli aveva fornito, sia pur per breve tempo, un rifugio di relativa pace e sicurezza. L’Azerbaigian era destinato a divenire teatro della Sua agonia e del Suo martirio. Questi anni conclusivi della Sua vita terrena passeranno alla storia come il periodo in cui la nuova Dispensazione raggiunse la sua definitiva statura, i titoli del suo Fondatore furono pienamente e pubblicamente affermati, le sue leggi furono formulate, il Patto del suo Autore fu solidamente stabilito, la sua indipendenza proclamata e l’eroismo dei suoi campioni rifulse di gloria immortale. Durante questi drammaticissimi e fatidici anni il Báb svelò ai Suoi discepoli il pieno significato del Suo rango, che poi annunciò formalmente nella capitale dell’Azerbaigian in presenza dell’Erede al Trono, rivelò il Bayán Persiano, depositario delle leggi da Lui ordinate, specificò inequivocabilmente il momento e il carattere della Dispensazione di «Colui Che Dio manifesterà», la Conferenza di Badasht sancì la fine del vecchio ordine e si accesero le grandi conflagrazioni del Mázindarán, di Nayríz e di Zanján.
2 Eppure, il folle e miope Hájí Mirza Áqásí insensatamente credeva che, impedendo al Báb d’incontrare personalmente lo Scià nella capitale e confinandoLo nel più remoto angolo del regno, avrebbe soffocato il Movimento alla nascita e avrebbe ben presto definitivamente trionfato sul suo Fondatore. Non poteva immaginare che l’isolamento cui L’aveva costretto avrebbe consentito al Prigioniero di sviluppare il Sistema destinato a incarnare l’anima della Sua Fede e Gli avrebbe offerto l’opportunità di proteggerla dalla distruzione e dagli scismi e di proclamare formalmente e incondizionatamente la Sua missione. Né poteva pensare che tenendo confinato il Prigioniero avrebbe indotto i Suoi esasperati discepoli e compagni a spezzare le catene della vecchia teologia e a far precipitare eventi che avrebbero evocato in loro un valore, un coraggio, un’abnegazione senza eguali nella storia del paese, né che compiendo quel gesto sarebbe stato strumento dell’adempimento di una tradizione autentica attribuita al Profeta dell’Islam a proposito dell’inevitabilità di ciò che sarebbe avvenuto nell’Azerbaigian. Senza nulla apprendere dall’esempio del governatore di Shíráz il quale, spaventato e tremante, al primo accenno della collera vendicatrice di Dio era ignominiosamente fuggito lasciando libero il Prigioniero, il Gran Visir di Muhammad Sháh, con gli ordini che aveva emanato, si stava procurando una dura e inevitabile delusione e si preparava la strada verso la definitiva caduta.
3 I suoi ordini ad ‘Alí Khán, governatore della fortezza di Máh-Kú, erano stati tassativi ed espliciti. Durante il viaggio verso la fortezza, il Báb trascorse alcuni giorni a Tabríz, giorni caratterizzati da tale intensa eccitazione di popolo che solo a pochissimi fu permesso d’incontrarLo, ma né al pubblico né ai seguaci. Mentre passava sotto scorta per le strade della città, da ogni parte s’alzava il grido «Alláh-u-Akbar». Il clamore s’era talmente esteso che al banditore fu ordinato di gridare per le strade della città che chiunque avesse osato avvicinarsi al Báb, gli sarebbero stati confiscati i beni e sarebbe stato messo in prigione. Arrivato a Máh-Kú, da Lui chiamata Jabal-i-Básit (il Monte aperto), per le prime due settimane ebbero il permesso di vederLo solo l’amanuense Siyyid Husayn e il fratello di questi, ma nessun altro. Così penose erano le Sue condizioni nella fortezza che nel Bayán Persiano Egli ha detto che la notte non aveva neanche un lume acceso e che la solitaria cella costruita in mattoni crudi non aveva neppure la porta e, nella Tavola a Muhammad Sháh, lamenta che gli abitanti della fortezza erano solo due guardie e quattro cani.
4 Segregato su una remota montagna pericolosamente situata alle frontiere degli imperi ottomano e russo, prigioniero fra le solide mura di una fortezza a quattro torri, diviso dalla famiglia, dai parenti e dai discepoli, costretto a vivere accanto a una comunità bigotta e turbolenta, di razza, tradizione, lingua e credo diversi da quelli della maggioranza degli abitanti della Persia, guardato a vista dalla popolazione di un distretto che, essendo quello d’origine del Gran Visir, aveva ricevuto speciali favori dalla sua amministrazione, agli occhi del Suo avversario il Prigioniero di Máh-Kú sembrava destinato a languire per tutti gli anni della Sua giovinezza e a vedere, in giorni non lontani, le Sue speranze completamente infrante. Ma ben presto il Visir si sarebbe reso conto di quanto avesse sbagliato nel giudicare il Prigioniero e coloro ai quali aveva prodigato i suoi favori. Quella gente turbolenta, fiera e impulsiva fu gradualmente soggiogata dalla gentilezza del Báb, frenata dalla Sua modestia, edificata dai Suoi consigli e educata dalla Sua saggezza. Malgrado le rimostranze del dispotico ‘Alí Khán e le ripetute minacce di misure disciplinari giunte da Teheran, essi furono così presi d’amore per Lui che ogni mattina, per prima cosa, cercavano un posto da cui potessero intravedere il Suo volto e, da lontano, implorare la Sua benedizione sul loro lavoro quotidiano. In caso di dispute andavano ai piedi della fortezza e, con gli occhi fissi sul luogo dove Egli Si trovava, invocavano il Suo nome e si scongiuravano a vicenda di dire la verità. Lo stesso ‘Alí Khán, influenzato da una strana visione, si sentì così mortificato che fu indotto a mitigare il rigore della disciplina per fare ammenda del suo precedente comportamento. Divenne tanto indulgente che un crescente numero di impazienti e devoti pellegrini incominciò a essere ammesso alle porte della fortezza. Fra loro vi fu l’impavido e infaticabile Mullá Husayn che aveva percorso a piedi tutta la strada da Mashhad nella Persia orientale fino a Máh-Kú, l’avamposto più occidentale del regno e, dopo quel difficile viaggio, celebrò il Naw-Rúz (1848) in compagnia del suo Diletto.
5 Ma agenti segreti incaricati di sorvegliare ‘Alí Khán informarono Hájí Mirza Áqásí della piega che gli eventi stavano prendendo e questi decise di trasferire immediatamente il Báb nella fortezza di Chihríq (il 10 aprile 1848, circa), da Lui chiamata Jabal-i-Shadíd (il Monte crudele). Qui il Báb fu affidato alla custodia di Yahyá Khán, cognato di Muhammad Sháh che, inizialmente severissimo, alla fine fu costretto a cedere al fascino del Prigioniero. Nemmeno i Curdi che vivevano nel villaggio di Chihríq, che odiavano gli sciiti ancor più di quanto non li odiassero gli abitanti di Máh-Kú, riuscirono a resistere al penetrante potere della Sua influenza. Ogni mattina, prima d’incominciare il lavoro quotidiano, li si vedeva avvicinarsi alla fortezza e prostrarsi in adorazione di fronte al suo santo Ospite. «L’affluenza di popolo era così grande», scrive un testimone oculare europeo nelle sue memorie sul Báb, «che il cortile non era vasto abbastanza per contenere tutti gli uditori e la maggior parte restava nella strada ascoltando con raccoglimento i versetti del nuovo Corano».
6 In verità il turbamento suscitato a Chihríq superò le scene che si erano viste a Máh-Kú. Ben presto siyyid di grande valore, eminenti ‘ulamá e perfino funzionari governativi abbracciarono arditamente la Causa del Prigioniero. La conversione dello zelante e famoso Mirza Asadu’lláh soprannominato Dayyán, importante funzionario di grande fama letteraria cui il Báb elargì la «sapienza celata e preservata» e che elogiò come «depositario della fiducia dell’unico vero Dio», e l’arrivo dall’India di un derviscio, ex Navvab, cui il Báb aveva ordinato in una visione di rinunciare a ricchezze e posizione e di accorrere a piedi nell’Azerbaigian per incontrarLo, fecero precipitare la situazione. Resoconti di questi preoccupanti avvenimenti giunsero a Tabríz, furono comunicati a Teheran e costrinsero Hájí Mirza Áqásí a intervenire ancora. Il padre di Dayyán aveva già espresso al ministro, del quale era intimo amico, la sua grave preoccupazione per il modo in cui abili funzionari dello stato venivano conquistati dalla nuova Fede. Per placare la crescente eccitazione, il Báb fu convocato a Tabríz. Timorosi per l’entusiasmo della popolazione dell’Azerbaigian, coloro alla cui custodia Egli era stato affidato decisero di evitare la città di Khúy e deviarono invece per Urúmíyyih. Al Suo arrivo in città, il Báb fu ossequiosamente ricevuto dal principe Malik Qásim Mirza. Un venerdì costui fu anche visto accompagnare a piedi l’Ospite Che, a cavallo, Si recava al bagno pubblico, mentre i servitori tentavano di respingere la popolazione che, nel suo esuberante entusiasmo, si accalcava sperando di dare uno sguardo allo straordinario Prigioniero. Anche Tabríz, in preda a una frenetica eccitazione, salutò gioiosamente il Suo arrivo. L’ardore dei sentimenti popolari era tale che il Báb fu alloggiato fuori dalle porte della città. Ma ciò non riuscì a calmare l’emozione generale. Precauzioni, avvertimenti e restrizioni servirono solo ad aggravare la situazione che era già divenuta critica. Fu in queste circostanze che il Gran Visir emanò la storica ordinanza con cui convocava immediatamente i dignitari ecclesiastici di Tabríz perché studiassero le misure più efficaci per spegnere definitivamente le fiamme di una conflagrazione così devastante.
7 Le circostanze dell’interrogatorio del Báb, risultato di un gesto tanto avventato, si possono considerare una delle pietre miliari della Sua drammatica storia. Lo scopo dichiarato di quella convocazione era di accusare il Prigioniero e di decidere quali provvedimenti prendere per estirpare la Sua cosiddetta eresia. Invece essa offrì al Báb la migliore opportunità di tutta la Sua missione per affermare in pubblico, formalmente e senza alcuna riserva i titoli inerenti alla Sua Rivelazione. Nella residenza ufficiale del governatore dell’Azerbaigian, Násiri’d-Dín Mirza, erede al trono, alla sua presenza e sotto la presidenza di Hájí Mullá Mahmúd, il Nizámu’l-‘Ulamá, tutore del principe, di fronte all’assemblea dei dignitari ecclesiastici di Tabríz, ai capi della comunità shaykhí, allo Shaykhu’l-Islám e all’Imám-Jum‘ih, il Báb, sedutoSi nel posto d’onore riservato al Valí-‘Ahd (l’erede al trono), diede con voce squillante, la celebre risposta alla domanda postaGli dal presidente dell’assemblea: «Io sono, Io sono, Io sono il Promesso! Io sono Colui il cui nome avete invocato per mille anni, alla cui menzione vi siete alzati, il cui avvento avete desiderato di vedere e l’ora della cui Rivelazione avete pregato Iddio di affrettare. In verità vi dico, i popoli d’oriente e d’occidente devono obbedire alla Mia parola e promettere fedeltà alla Mia persona».
8 Sgomenti, per un attimo i presenti chinarono il capo silenziosi e confusi. Poi, Mullá Muhammad-i-Mamáqání, il rinnegato guercio dalla barba bianca, fattosi coraggio, Lo rimproverò con particolare insolenza d’essere un perverso e spregevole seguace di Satana. Al che l’indomito Giovane rispose che ribadiva quanto aveva già affermato. Alle successive domande posteGli dal Nizámu’l-‘Ulamá, il Báb ribatté che la più incontrovertibile prova della Sua missione erano le Sue parole e per dimostrare la verità della Sua asserzione addusse versetti del Corano e affermò d’essere in grado di rivelare, in due giorni e due notti, tanti versetti quanti ve ne sono in quel Libro. Rispondendo a una critica che richiamava la Sua attenzione su una Sua infrazione d’una regola grammaticale, citò a riprova certi passi del Corano e ignorando con fermezza e dignità un’osservazione frivola e irrilevante mossaGli da uno dei presenti, sciolse sbrigativamente la riunione alzandoSi e lasciando la stanza. L’adunanza si concluse dunque con i membri confusi, divisi fra loro, profondamente risentiti e umiliati per non essere riusciti a raggiungere lo scopo. Lungi dal domare lo spirito del Prigioniero, dall’indurLo ad abiurare o abbandonare la Sua Missione, quella riunione non ottenne altro risultato che la decisione, presa dopo molte liti e discussioni, di farLo fustigare sulla pianta dei piedi per mano di Mirza ‘Alí-Asghar, lo spietato e avido Shaykhu’l-Islám della città, nel suo oratorio. Vanificate le sue trame, Hájí Mirza Áqásí fu costretto a ordinare che il Báb fosse riportato a Chihríq.
9 Questa sensazionale, categorica, formale dichiarazione della missione profetica del Báb non fu l’unica conseguenza dello stolto atto che condannava l’Autore di una Rivelazione tanto grandiosa a tre anni di confino sulle montagne dell’Azerbaigian. Questo periodo di prigionia in un remoto angolo del regno, molto lontano dai focolai d’agitazione di Shíráz, Isfáhán e Teheran, Gli offrì l’agio necessario per lanciarSi nella Sua opera più monumentale e per impegnarSi in altre composizioni secondarie destinate a rivelare in tutta la sua ampiezza la Sua breve ma fondamentale Dispensazione e a trasmetterne tutta la forza. Per le dimensioni degli scritti fluiti dalla Sua penna e per la diversità degli argomenti trattati, la Sua Rivelazione occupa una posizione impareggiabile negli annali delle religioni precedenti. Confinato a Máh-Kú, Egli Stesso affermò che fino ad allora i Suoi scritti, che trattavano argomenti assai diversi, ammontavano a oltre cinquecentomila versetti. «I versetti piovuti da questa nube di misericordia divina», testimonia Bahá’u’lláh nel Kitáb-i-Íqán, «sono stati così numerosi, che nessuno ha potuto sapere a quanti ammontano. Una ventina di volumi sono ora disponibili. Quanti ne restano ancora inaccessibili! Quanti sono stati predati e sono caduti nelle mani del nemico e non se ne conosce la sorte!». Altrettanto stupefacente è la varietà dei temi trattati in questi voluminosi scritti: preghiere, omelie, orazioni, Tavole di visitazione, trattati scientifici, dissertazioni dottrinali, esortazioni, commentari del Corano e di varie tradizioni, epistole ai più eminenti dignitari religiosi ed ecclesiastici del regno e leggi e ordinanze per consolidare la Sua Fede e dirigerne le attività.
10 Già a Shíráz, nel primissimo periodo del Suo ministero, il Báb aveva rivelato quello che Bahá’u’lláh ha definito «il primo, il più grande, il più possente di tutti i libri» della Dispensazione Bábí, il celebre commento della sura di Giuseppe, intitolato Qayyúmu’l-Asmá’, il cui fondamentale scopo era quello di predire ciò che il vero Giuseppe (Bahá’u’lláh) avrebbe sofferto in una successiva Dispensazione, per mano di uno che sarebbe stato contemporaneamente Suo mortale nemico e fratello di sangue. Il libro, che comprende oltre novemila e trecento versetti ed è suddiviso in centoundici capitoli, ogni capitolo a commento di un versetto della sura citata, si apre con la squillante intimazione e i pressanti moniti rivolti dal Báb al «consesso di re e di figli di re», predice il destino di Muhammad Sháh, ordina al suo gran visir, Hájí Mirza Áqásí, di rinunciare alla propria autorità, redarguisce l’intero ordine ecclesiastico musulmano, ammonisce più specificamente i membri della comunità sciita, esalta le virtù di Bahá’u’lláh, «Vestigio di Dio», «Signore Supremo» e predice la Sua venuta, proclama con inequivocabile linguaggio l’indipendenza e l’universalità della Rivelazione Bábí, ne rivela l’importanza e afferma l’inevitabile trionfo del suo Autore. Inoltre ordina ai «popoli dell’Occidente» di uscire «dalle… città e» di aiutare «la Causa di Dio», avverte i popoli della terra della «terribile, atroce vendetta di Dio», minaccia all’intero mondo islamico il «supremo Fuoco» se si allontanerà dalla Legge appena rivelata, presagisce il martirio del suo Autore, inneggia all’alto rango destinato alla gente di Bahá, i «Compagni dell’Arca di rubino color di chermisi», profetizza l’indebolimento e la completa estinzione di alcuni dei più grandi luminari del firmamento della Dispensazione Bábí e predice inoltre un «duro tormento» nel «Giorno del Nostro Ritorno» e «nel mondo aldilà» per gli usurpatori dell’Imamato i quali «mossero guerra contro Husayn (l’Imám Husayn) nella terra d’Eufrate».
11 È questo il Libro che tutti i Bábí considerarono, per quasi l’intera durata del ministero del Báb, il Corano della gente del Bayán, il cui primo e più audace capitolo fu rivelato in presenza di Mullá Husayn la notte della Dichiarazione del suo Autore, alcune delle cui pagine furono portate a Bahá’u’lláh da quello stesso discepolo, le primizie di una Rivelazione che ebbe la Sua immediata entusiastica obbedienza, l’intero cui testo fu tradotto in persiano dalla brillante e dotta Táhirih, alcuni dei cui passi accesero l’ostilità di Husayn Khán e precipitarono lo scoppio iniziale delle persecuzioni a Shíráz, un’unica pagina del quale catturò l’immaginazione e affascinò l’anima di Hujjat, il cui contenuto infiammò gli intrepidi difensori del forte di Shaykh Tabarsí e gli eroi di Nayríz e Zanján.
12 Quest’opera di così eccelsi meriti e grande influenza fu seguita dalla rivelazione della prima Tavola del Báb a Muhammad Sháh, delle Tavole al sultano ‘Abdu’l-Majíd e a Najíb Páshá, valí di Baghdad, della Sahífiy-i-Baynu’l-Haramayn rivelata tra La Mecca e Medina in risposta alle domande poste da Mirza Muhít-i-Kirmání, dell’Epistola allo Sceriffo della Mecca, del Kitábu’r-Rúh composto da settecento sure, del Khasá’il-i-Sab‘ih che ingiungeva il cambiamento della formula dell’adhán, della Risáliy-i-Furú‘-i-‘Adliyyih tradotta in persiano da Mullá Muhammad-Taqíy-i-Harátí, del commentario della sura del Kawthar che operò tale trasformazione dell’animo di Vahíd, del commento della sura di Va’l-‘Asr scritto in casa dell’Imám-Jum‘ih di Isfáhán, della dissertazione sulla Missione specifica di Muhammad scritta per richiesta di Manúchihr Khán, della seconda Tavola a Muhammad Sháh nella quale gli chiedeva udienza per esporre le verità della nuova Rivelazione e dissipare i suoi dubbi e delle Tavole inviate dal villaggio di Síyáh-Dihán, una agli ‘ulamá di Qazvín e l’altra a Hájí Mirza Áqásí per chiedergli la ragione del suo improvviso cambiamento di decisione.
13 Ma la maggior parte degli scritti emanati dalla feconda mente del Báb risale al periodo del Suo confino a Máh-Kú e Chihríq. A questo periodo appartengono probabilmente le innumerevoli Epistole che, come attesta un’autorità come Bahá’u’lláh, il Báb indirizzò specificamente ai teologi di ogni città persiana e a quelli che risiedevano a Najaf e Karbilá, nelle quali sottolineava dettagliatamente gli errori che ciascuno di loro aveva commesso. E fu durante la Sua carcerazione nella fortezza di Máh-Kú che, secondo la testimonianza di Shaykh Hasan-i-Zunúzí il quale in quei nove mesi trascrisse i versetti dettati dal Báb al Suo amanuense, Egli rivelò almeno nove commentari dell’intero Corano, commenti di cui purtroppo non si conosce la fine, uno dei quali, l’Autore afferma, superava per molti aspetti un libro meritatamente famoso come il Qayyúmu’l-Asmá’.
14 Tra le mura di quella stessa fortezza fu rivelato il Bayán (Esposizione), monumentale compendio delle leggi e dei precetti della nuova Dispensazione, scrigno che racchiude la maggior parte delle allusioni, dei tributi e degli avvertimenti del Báb riguardo «Colui Che Dio manifesterà». Impareggiabile fra le opere dottrinali del Fondatore della Dispensazione Bábí, formato da nove Váhid (Unità) di diciannove capitoli ciascuno, tranne l’ultimo Váhid che ne contiene solo dieci, da non confondere col più breve e meno importante Bayán Arabo rivelato nello stesso periodo, adempimento della profezia musulmana che dice «un Giovane di fra i Baní-Háshim… rivelerà un Libro nuovo e promulgherà una Legge nuova», completamente salvaguardato da quelle interpolazioni e alterazioni cui sono state soggette tante opere minori del Báb, questo Libro di circa ottomila versetti, che occupa una posizione centrale nella letteratura Bábí, deve essere considerato essenzialmente un elogio del Promesso, piuttosto che un codice di leggi e di ordinanze destinate a essere una guida permanente per le future generazioni. Esso abroga le leggi e le cerimonie ingiunte dal Corano per la preghiera, il digiuno, il matrimonio, il divorzio e l’eredità e sostiene integralmente la fede nella missione profetica di Muhammad, come il Profeta dell’Islam prima di Lui aveva annullato le ordinanze del Vangelo pur riconoscendo l’origine divina della Fede di Gesù Cristo. Inoltre interpreta magistralmente il significato di certi termini ricorrenti nei Libri sacri delle precedenti Dispensazioni, come Paradiso, Inferno, Morte, Resurrezione, Ritorno, Bilancia, Ora, Giudizio finale e simili. Deliberatamente rigoroso nelle leggi e nelle regole che impone, rivoluzionario nei principi che inculca, designato a risvegliare dal loro secolare torpore il clero e il popolo e a vibrare un colpo repentino e fatale a istituzioni obsolete e corrotte, esso proclama con i suoi drastici provvedimenti l’avvento del Giorno atteso, il Giorno in cui «il Chiamante chiamerà per una dura bisogna», in cui Egli «distruggerà tutto ciò che è stato prima di Lui, come l’Apostolo di Dio demolì le vie di coloro che Lo precedettero».
15 Si noti a questo proposito che nel terzo Váhid del Libro c’è un passo che merita di figurare fra le più significative dichiarazioni registrate negli scritti del Báb, sia per l’esplicito riferimento al nome del Promesso, sia per l’anticipazione dell’Ordine che, in un’epoca successiva, sarebbe stato identificato con la Sua Rivelazione. «Beato colui», annuncia profeticamente, «che fissa lo sguardo sull’Ordine di Bahá’u’lláh e rende grazie al suo Signore. Egli sarà infatti sicuramente manifestato. Iddio ha invero così preordinato nel Bayán». Vent’anni dopo, il Fondatore della promessa Rivelazione, includendo lo stesso termine nel Kitáb-i-Aqdas, identificò con quell’Ordine il Sistema delineato nel Suo Libro, affermando che «questo grandioso Ordine» aveva sconvolto l’equilibrio del mondo e rivoluzionato la vita ordinata dell’umanità. In un periodo posteriore dell’evoluzione della Fede, il Centro del Patto di Bahá’u’lláh, Interprete designato dei Suoi insegnamenti, con le clausole del Suo Testamento, di quello stesso Ordine delineò le caratteristiche. Nell’Età formativa della Fede gli amministratori del Patto, i rappresentanti eletti della comunità mondiale bahá’í, stanno ora, di quello stesso Ordine, laboriosamente e di concerto gettando le basi strutturali. Alla fine, nella maturità dei tempi, l’Età dell’oro della Dispensazione vedrà la sovrastruttura di quello stesso Ordine conseguire la sua piena statura con la comparsa della Confederazione mondiale bahá’í, il Regno di Dio sulla terra.
16 Il Báb era ancora a Máh-Kú quando scrisse la Sua più dettagliata e illuminante Tavola a Muhammad Sháh. Preceduto da un riferimento laudativo all’unità di Dio, ai Suoi Apostoli e ai dodici Imám, inequivocabile nell’affermare la divinità del suo Autore e i poteri soprannaturali di cui la Sua Rivelazione era stata investita, preciso nei versetti e nelle tradizioni citati a conferma di un’affermazione tanto audace, severo nella condanna di alcuni funzionari e rappresentanti dell’amministrazione dello Scià, particolarmente del «malvagio e depravato» Husayn Khán, commovente nelle descrizioni delle sofferenze alle quali il Suo Scrittore era stato sottoposto, lo storico documento rassomiglia sotto molti aspetti alla Lawh-i-Sultán, la Tavola che Bahá’u’lláh indirizzò, quasi nelle stesse circostanze, dalla fortezza di ‘Akká, a Násiri’d-Dín Sháh, la Sua più lunga epistola a un sovrano.
17 Il Dalá’il-i-Sab‘ih (Sette Prove), la più importante opera polemica del Báb, fu rivelata nello stesso periodo. Particolarmente lucida, di straordinaria precisione, di concezione originale, inoppugnabile nelle argomentazioni, quest’opera è degna di nota, oltre che per le numerose e diverse prove che adduce a sostegno della missione del Báb, anche per la riprovazione dei «sette potenti sovrani che reggono il mondo» dei Suoi tempi, nonché per il modo in cui evidenzia le responsabilità e condanna il comportamento dei teologi cristiani di un’età passata che, afferma, se avessero riconosciuto la verità della missione di Muhammad, sarebbero stati seguiti dalla massa dei loro correligionari.
18 Durante il Suo confino nella fortezza di Chihríq, dove trascorse quasi per intero gli ultimi due anni che Gli restavano da vivere, il Báb rivelò la Lawh-i-Hurúfát (Tavola delle Lettere) in onore di Dayyán. Dapprima erroneamente interpretata come un’esposizione della scienza della divinazione, in un secondo tempo fu riconosciuto che questa Tavola svelava, da una parte, il mistero del Mustagháth e, dall’altra, alludeva velatamente ai diciannove anni che dovevano intercorrere tra la Dichiarazione del Báb e quella di Bahá’u’lláh. In quegli stessi anni oscurati dai rigori della prigionia, dalle dure offese arrecateGli e dalle notizie dei disastri toccati agli eroi del Mázindarán e di Nayríz, il Báb rivelò appena ritornato da Tabríz la Sua Tavola accusatoria contro Hájí Mirza Áqásí. Scritta con linguaggio ardito e commovente, inesorabile nella sua condanna, l’epistola fu affidata all’intrepido Hujjat che, come Bahá’u’lláh conferma, la consegnò al malvagio ministro.
19 A questo periodo di carcerazione nelle fortezze di Máh-Kú e Chihríq, un periodo d’insuperata fecondità, ma di amare e sempre più profonde umiliazioni e sofferenze, appartengono quasi tutti gli accenni scritti all’Autore della Rivelazione che avrebbe ben presto sostituito la Sua che il Báb, presagendo l’imminente ora della suprema afflizione, sentì la necessità di fare in forma di moniti, appelli o esortazioni. Consapevole fin dall’inizio della Sua duplice missione di Portatore di una Rivelazione del tutto indipendente e di Araldo di un’Altra ancor più grande della Sua, non Si accontentò dei numerosissimi commenti, preghiere, leggi e ordinanze, dissertazioni ed epistole, omelie e orazioni che erano incessantemente fluiti dalla Sua penna. Il Patto maggiore nel quale, come afferma nei Suoi scritti, Dio Si era impegnato da tempo immemorabile con l’umanità intera, attraverso i Profeti di tutte le età, riguardo la neonata Rivelazione, era già stato adempiuto. Ora doveva essere integrato da un Patto minore che Egli Si sentì spinto a fare con l’intero corpo dei Suoi seguaci riguardo Colui il Cui avvento considerava frutto e scopo ultimo della Sua Dispensazione. Tale Patto era sempre stato una delle caratteristiche di tutte le precedenti religioni. Era esistito in forme varie e con diverse accentuazioni, era sempre stato espresso con linguaggio velato, vi si era alluso con profezie enigmatiche, astruse allegorie, dubbie tradizioni e passi frammentari e oscuri delle Sacre Scritture. Ma nella Dispensazione Bábí era destinato a essere istituito con linguaggio chiaro e inequivocabile, pur non essendo incluso in un documento separato. Diversamente dai Profeti che L’avevano preceduto il Cui Patto era avvolto nel mistero, diversamente da Bahá’u’lláh il cui Patto chiaramente definito fu incorporato in uno speciale Testamento scritto da Lui intitolato «Il Libro del Mio Patto», il Báb volle disseminare nel Suo Libro di Leggi, il Bayán Persiano, innumerevoli passi, alcuni deliberatamente oscuri, la maggior parte chiari e probatori, nei quali fissa la data della Rivelazione promessa, ne esalta le virtù, ne dichiara la preminenza, le attribuisce poteri e prerogative illimitate e abbatte qualunque barriera potesse essere di ostacolo al suo riconoscimento. «In verità», dichiara Bahá’u’lláh nel Kitáb-i-Badí‘ riferendoSi al Báb, «Egli non ha mancato al Suo dovere d’esortare il popolo del Bayán e di trasmettere loro il Suo Messaggio. In nessuna età o dispensazione una Manifestazione ha fatto menzione della Manifestazione destinata a succederGli in modo così dettagliato e con linguaggio così esplicito».
20 Alcuni discepoli, il Báb li preparò assiduamente ad attendere l’imminente Rivelazione. Ad altri disse che sarebbero vissuti fino a vedere il suo giorno. A Mullá Báqir, una Lettera del Vivente, profetizzò letteralmente in una Tavola a lui indirizzata che avrebbe incontrato il Promesso faccia a faccia. A Sayyáh, un altro discepolo, dette la stessa assicurazione verbalmente. Mullá Husayn, lo mandò a Teheran affermando che in quella città era custodito un Mistero la Cui luce né l’Hijáz né Shíráz potevano eguagliare. A Quddús, alla vigilia della Sua definitiva separazione da lui, promise che sarebbe giunto alla presenza di Colui Che era l’unico Oggetto della loro adorazione e del loro amore. A Shaykh Hasan-i-Zunúsí dichiarò, mentre era a Máh-Kú, che egli avrebbe visto il volto del promesso Husayn a Karbilá. A Dayyán conferì il titolo di «terza lettera a credere in Colui Che Dio manifesterà», mentre ad ‘Azím palesò nel Kitáb-i-Panj-Sha‘n il nome di Colui Che doveva coronare la Sua Rivelazione e Ne annunciò il prossimo avvento.
21 Il Báb non nominò mai un successore o un vicario e neanche un interprete dei Suoi insegnamenti. Così trasparenti erano i Suoi riferimenti al Promesso, tanto breve la durata della Sua Dispensazione, che né l’uno né l’altro erano necessari. Tutto quel che fece, secondo la testimonianza di ‘Abdu’l-Bahá in «A Traveller’s Narrative (Il racconto di un viaggiatore)», fu di nominare Mirza Yahyá, per consiglio di Bahá’u’lláh e di un altro discepolo, capo nominale in attesa della manifestazione del Promesso, consentendo così a Bahá’u’lláh di promuovere in relativa sicurezza la Causa tanto cara al Suo cuore.
22 «Il Bayán», afferma il Báb in quel Libro riferendoSi al Promesso, «è dal principio alla fine, ricettacolo di tutti i Suoi attributi e forziere del Suo fuoco e della Sua luce». In un’altra occasione dichiara: «Se giungerai alla Sua Rivelazione e Gli obbedirai, avrai mostrato il frutto del Bayán, altrimenti, sarai indegno di menzione innanzi a Dio». «O genti del Bayán!», così ammonisce l’intera compagnia dei Suoi seguaci nello stesso Libro, «Non agite come i seguaci del Corano, perché, se così farete, saranno vanificati i frutti della vostra notte». E ingiunge solennemente: «Non permettete che il Bayán e tutto ciò che in esso è stato rivelato vi nascondano quell’Essenza dell’Essere, quel Signore del visibile e dell’invisibile». «Attento, attento», è il Suo significativo ammonimento a Vahíd, «che nei giorni della Sua Rivelazione il Váhid del Bayán (le diciotto Lettere del Vivente e il Báb) non ti separi da Lui come un velo, perché ai Suoi occhi questo Váhid non è altro che una creatura». E ancora: «O congregazione del Bayán e tutti coloro che ne fanno parte! Riconoscete i termini che vi sono stati imposti, giacché perfino Colui Che è il Punto del Bayán ha creduto in Colui Che Dio manifesterà prima che tutte le cose fossero create. Me ne glorio, certo, innanzi a tutti coloro che sono nei regni del cielo e della terra».
23 «Nell’anno nove», ha scritto esplicitamente riferendoSi alla data dell’avvento della Rivelazione promessa. «raggiungerete ogni bene». «Nell’anno nove giungerete alla Presenza di Dio». E ancora: «Dopo Hín (68) vi sarà data una Causa che conoscerete». «Le realtà delle cose create non saranno rese manifeste», ha dichiarato più chiaramente, «prima che siano trascorsi nove anni dall’inizio di questa Causa. Tutto quello che hai visto finora non è che lo stadio dell’umido germe prima che lo rivestiamo di carne. Sii paziente finché non vedrai una nuova creazione. Dì: “Benedetto perciò sia Dio, il più eccelso Creatore!”». «Attendi», dichiara ad ‘Azím, «finché nove sia trascorso dal tempo del Bayán. Poi esclama: “Sia per questo benedetto Dio, il migliore dei Creatori!”». «Sta attento», ha ammonito in un importante passo riferendoSi all’anno diciannove, «dall’inizio della Rivelazione fino al numero di Vahíd (19)». «Il Signore del Giorno del Giudizio», ha affermato ancora più esplicitamente, «sarà manifestato alla fine del Vahíd (19) e all’inizio degli ottanta (1280 dell’Egira)». «Se apparisse in questo stesso istante», ha rivelato nell’ansia d’assicurarSi che l’imminenza della promessa Rivelazione non distogliesse gli uomini dal suo Portatore, «Io sarei il primo ad adorarLo, e il primo a inchinarMi innanzi a Lui».
24 «Nella Mia menzione di Lui», così Egli esalta l’Autore dell’attesa Rivelazione, «ho scritto queste parole quali preziose gemme: “Nessun Mio cenno e nulla di ciò che è menzionato nel Bayán può alludere a Lui”». «Io non sono altro che il primo servo che crede in Lui e nei Suoi segni…». «Il tenero germoglio che racchiude le potenzialità della Rivelazione che verrà», afferma significativamente, «è dotato di una potenza superiore alle forze dell’intero Bayán». E ancora: «L’intero Bayán è solo una foglia tra le foglie del Suo Paradiso». «È meglio per te», asserisce similmente, «recitare un solo versetto di Colui Che Dio manifesterà, che trascrivere il Bayán intero, perché quel Giorno quell’unico versetto ti salverà, mentre il Bayán intero non potrà salvarti». «Oggi il Bayán è nello stadio del seme, al principio della manifestazione di Colui Che Dio manifesterà se ne vedrà la perfezione finale». «Il Bayán attinge tutta la sua gloria da Colui Che Dio manifesterà». «Tutto ciò che è stato rivelato nel Bayán non è che un anello nella Mia mano e Io non sono, in verità, che un anello nella mano di Colui Che Dio manifesterà… Egli lo gira come Gli piace. Egli, in verità, è l’Aiuto nel Pericolo, l’Altissimo». «La Certezza», aveva dichiarato rispondendo a Vahíd e a una Lettera del Vivente che L’avevano interrogato a proposito del Promesso, «ha vergogna d’essere chiamata ad attestare la Sua Verità… la Testimonianza ha vergogna di testimoniare per Lui». E rivolgendoSi allo stesso Vahíd aveva inoltre dichiarato: «Se avessi la certezza che nel giorno della Sua manifestazione tu Lo rinnegassi, non esiterei a sconfessarTi… Se, d’altra parte, Mi si dicesse che un cristiano, che non sia devoto alla Mia Fede, crede in Lui, lo considererei la pupilla dei Miei occhi».
25 E, per finire, questa Sua commovente invocazione a Dio: «Attesta Tu che, mediante questo Libro, ho stretto con tutto il creato un Patto riguardante la Missione di Colui Che Tu manifesterai, ancor prima di stringere quello relativo alla Mia missione. Come testimoni, siete bastevoli Tu e coloro che han creduto nei Tuoi segni». «In verità, non ho mancato al Mio dovere di ammonire quella gente», è un’altra testimonianza della Sua penna, «… Se il Dì della Sua Rivelazione, tutti coloro che sono sulla terra Gli renderanno omaggio, il Mio intimo essere giubilerà, perché tutti saranno pervenuti all’apice della loro esistenza… Altrimenti certo si rattristerà l’anima Mia. In verità è a tal fine che ho allevato tutte le cose. Come dunque potrà esservi alcuno separato da Lui?»
26 Come abbiamo notato nelle pagine precedenti, gli ultimi tre anni del ministero del Báb, così ricchi di eventi, avevano visto non solo la dichiarazione formale e pubblica della Sua missione, ma anche una diffusione senza precedenti dei Suoi ispirati scritti, che includevano sia la rivelazione delle leggi fondamentali della Sua Dispensazione sia l’istituzione di quel Patto minore che doveva salvaguardare l’unità dei Suoi seguaci e preparare la via all’avvento di una Rivelazione incomparabilmente più grande. Nello stesso periodo, nei primi giorni della Sua carcerazione nella fortezza di Chihríq, i Suoi discepoli riconobbero e rivendicarono apertamente l’indipendenza della Fede neonata. Le leggi basilari della nuova Dispensazione erano state rivelate dal suo Autore in una fortezza sui monti dell’Azerbaigian, mentre ora la Dispensazione stava per essere inaugurata in una pianura ai confini del Mázindarán, nel corso di una conferenza dei Suoi seguaci riuniti.
27 Bahá’u’lláh, Che Si teneva in stretto contatto con il Báb attraverso una continua corrispondenza ed era la forza animatrice delle molteplici attività dei Suoi condiscepoli in lotta, presiedette a quella conferenza, senza metterSi in mostra, ma con molta efficacia, e ne guidò e controllò i lavori. Secondo un piano prestabilito per mitigare l’allarme e la costernazione che la conferenza avrebbe sicuramente sollevato, Quddús, considerato l’esponente dei conservatori, finse di opporsi alle idee apparentemente estremiste sostenute dall’impetuosa Táhirih. Lo scopo principale della riunione era di dare effetto alla rivelazione del Bayán con una repentina, completa, drammatica rottura col passato, col suo ordine, il suo clericalismo, le sue tradizioni e le sue cerimonie. Scopo secondario della conferenza, considerare i mezzi per liberare il Báb dal crudele confino a Chihríq. Il primo ebbe completo successo, il secondo era sin dal principio destinato a fallire.
28 Teatro di questa proclamazione ardita e di vasta risonanza fu il piccolo villaggio di Badasht, nei cui ameni dintorni Bahá’u’lláh aveva preso in affitto tre giardini, uno per Quddús, un altro per Táhirih e un terzo per Sé. Gli ottantun discepoli che vi si erano riuniti provenienti da varie province furono Suoi ospiti dal giorno dell’arrivo a quello in cui si separarono. In ognuno dei ventidue giorni di permanenza nel villaggio Egli rivelò una Tavola che fu cantata ai credenti riuniti. A ciascun credente conferì un nuovo nome, senza tuttavia rivelare l’identità di colui che l’aveva conferito. Da quel momento in poi Egli fu chiamato Bahá. All’ultima Lettera del Vivente fu dato l’appellativo di Quddús, mentre Qurratu’l-‘Ayn ebbe il titolo di Táhirih. E con questi nomi, furono poi tutti chiamati dal Báb nelle Tavole che Egli rivelò per ciascuno di loro.
29 Fu Bahá’u’lláh Che costantemente, infallibilmente e pur insospettatamente, guidò il corso di quel memorabile evento e fu Lui che portò la riunione al drammatico culmine finale. Un giorno, mentre era costretto a letto da un’indisposizione, Táhirih, considerata un leggiadro e immacolato emblema di castità e l’incarnazione della santa Fátimih, apparve improvvisamente in Sua presenza di fronte ai compagni riuniti abbigliata ma senza velo, si sedette alla destra dello sgomento e infuriato Quddús e, lacerando con parole infuocate i veli che custodivano la santità delle ordinanze dell’Islam, fece squillare l’appello della nuova Dispensazione e ne proclamò l’inaugurazione. L’effetto fu sferzante e immediato. Per un attimo, agli occhi degli scandalizzati spettatori, parve che ella, così candida e pura, così venerata che persino guardare la sua ombra era considerato sconveniente, si fosse infamata, avesse disonorato la Fede che aveva abbracciato e insozzato l’immortale Volto di cui era simbolo. Timore, collera e smarrimento li sconvolsero nel più profondo dell’anima e ottenebrarono le loro facoltà. A quella vista, ‘Abdu’l-Kháliq-i-Isfáhání, inorridito e impazzito, si tagliò la gola. Imbrattato di sangue e delirante per l’eccitazione, fuggì davanti a quel volto. Alcuni abbandonarono i compagni e la Fede. Altri rimasero muti e impietriti di fronte a lei. Altri ancora devono aver ricordato con cuore palpitante la tradizione islamica che profetizza l’apparizione di Fátimih senza velo mentre attraversa il Ponte (Sirát) nel promesso Giorno del giudizio. Quddús, muto per la collera, sembrava aspettare soltanto il momento in cui avrebbe potuto abbatterla con la spada che si dava il caso avesse in mano.
30 Imperterrita, imperturbata, esultante di gioia, Táhirih si alzò e, senza la minima premeditazione e con un linguaggio singolarmente simile a quello del Corano, rivolse un fervido ed eloquente appello a quello che era rimasto dell’assemblea, terminando con questa ardita asserzione: «Io sono la Parola che il Qá’im deve proferire, la Parola che metterà in fuga i capi e i nobili della terra!». Poi li invitò ad abbracciarsi e a festeggiare un così grande evento.
31 In quel memorabile giorno fu suonato il «Corno» di cui si parla nel Corano, si levò «l’assordante squillo di tromba» e avvenne la «Catastrofe». I giorni immediatamente successivi a questa sconvolgente dissociazione dalle venerande tradizioni dell’Islam videro una vera e propria rivoluzione nel modo di vedere, nelle abitudini, nei rituali e nel modo di pregare di quelli che fino a quel momento erano stati zelanti e devoti sostenitori della Legge musulmana. Anche se la Conferenza fu travagliata dal principio alla fine e malgrado la deplorevole secessione di quei pochi che rifiutarono d’approvare l’annullamento delle leggi fondamentali della Fede islamica, lo scopo era stato completamente e gloriosamente conseguito. Solo quattro anni prima, l’Autore della Rivelazione Bábí aveva dichiarato la Sua missione a Mullá Husayn nella Sua casa di Shíráz. Tre anni dopo quella Dichiarazione, fra le mura della fortezza di Máh-Kú, Egli dettava al Suo amanuense i precetti fondamentali e peculiari della Dispensazione. Dopo un anno, nel villaggio di Badasht, i Suoi seguaci, direttamente guidati dal loro condiscepolo Bahá’u’lláh, abrogavano la Legge coranica, ripudiando tanto i precetti ordinati da Dio quanto quelli creati dagli uomini della Fede di Muhammad e liberandosi dalle pastoie del suo antiquato sistema. Quasi immediatamente dopo, il Báb, ancora prigioniero, convalidava le azioni dei Suoi discepoli, affermando formalmente e incondizionatamente d’essere il promesso Qá’im, alla presenza dell’Erede al Trono, dei principali esponenti della comunità shaykhí e dei più illustri dignitari ecclesiastici riuniti nella capitale dell’Azerbaigian.
32 Erano trascorsi poco più di quattro anni dalla nascita della Rivelazione del Báb quando risuonò lo squillo di tromba che annunciava la formale estinzione della vecchia Dispensazione e l’inaugurazione della nuova. Nessuna pompa, nessuna ostentazione segnò una svolta così importante nella storia religiosa del mondo. E il suo modesto scenario era inadeguato a una così improvvisa, completa e sorprendente emancipazione dalle oscure forze schierate del fanatismo, del clericalismo, dell’ortodossia religiosa e della superstizione. L’esercito riunito era formato soltanto da una donna e un pugno d’uomini, per lo più reclutati proprio tra quelle file che essi stavano attaccando e, tranne poche eccezioni, privi di ricchezze, prestigio e potere. Il Comandante dell’esercito era assente, prigioniero nelle mani dei nemici. Il campo di battaglia era un minuscolo villaggio nella pianura di Badasht ai margini del Mázindarán. L’araldo, una donna solitaria, la più nobile del suo sesso in quella Dispensazione, dichiarata eretica perfino da alcuni dei suoi correligionari. L’appello da lei lanciato segnava la fine della legge islamica che durava da milleduecento anni.
33 Accelerato vent’anni dopo da un altro squillo di tromba che annunciava la formulazione delle leggi di un’altra Dispensazione, questo processo di disintegrazione, associato con le declinanti fortune di una Legge che, pur divinamente rivelata, era tuttavia sorpassata, acquistò ulteriore impeto, in un’epoca successiva produsse l’annullamento in Turchia della Legge canonica della Sharí‘ah, sfociò nel virtuale abbandono della stessa Legge nella Persia sciita e, più recentemente, ha provocato in Egitto la separazione del Sistema delineato nel Kitáb-i-Aqdas dalla legge ecclesiastica sunnita, ha aperto la via al riconoscimento di quel Sistema in Terra Santa ed è destinato a culminare nella laicizzazione degli Stati musulmani, nell’universale riconoscimento della Legge di Bahá’u’lláh da parte di tutte le nazioni del mondo islamico e nel suo insediamento nei cuori di tutte le loro genti.
CAPITOLO III1 La prigionia del Báb in un remoto angolo dell’Azerbaigian, immortalata dai lavori della Conferenza di Badasht e contrassegnata da importanti avvenimenti come la dichiarazione pubblica della Sua missione, la formulazione delle leggi della Sua Dispensazione e l’istituzione del Suo Patto, doveva acquistare un significato ancor più grande con i terribili sconvolgimenti provocati dalle azioni dei Suoi avversari e dei Suoi discepoli. I tumulti che seguirono, mentre gli anni della Sua prigionia volgevano al termine, e che culminarono nel Suo martirio, evocarono una misura di eroismo nei Suoi seguaci e una ferocia di ostilità nei Suoi nemici, quali non si erano viste nei primi tre anni del Suo ministero. In effetti questo periodo breve e assai turbolento può essere giustamente considerato il più sanguinoso e drammatico dell’Età eroica dell’Èra bahá’í.
2 Gi eventi cruciali legati alla carcerazione del Báb a Máh-Kú e a Chihríq, che costituiscono il punto culminante della Sua Rivelazione, non potevano avere altra conseguenza che rinfocolare il fervore degli amici e il furore dei nemici. Doveva ben presto scatenarsi una persecuzione più crudele, più odiosa e più astutamente calcolata di quelle che Husayn Khán o lo stesso Hájí Mirza Áqásí avevano fomentate, una persecuzione accompagnata da una corrispondente manifestazione di eroismo ineguagliato perfino dalle prime esplosioni d’entusiasmo che avevano salutato la nascita della Fede a Shíráz e a Isfáhán. Questo periodo d’incessanti e inaudite agitazioni doveva rapidamente privare la Fede dei Suoi principali protagonisti, culminare nella morte del Suo Autore ed essere seguito da un’ulteriore e quasi completa eliminazione dei suoi eminenti sostenitori, con la sola eccezione di Uno al Quale, nell’ora più oscura di quella Fede duramente colpita, la Provvidenza affidò il duplice compito di salvarla dall’annientamento e di inaugurare la Dispensazione destinata a sostituirla.
3 L’esplicita assunzione da parte del Báb dell’autorità del promesso Qá’im, in circostanze tanto drammatiche e con tale tono di sfida, alla presenza di un illustre consesso di eminenti ecclesiastici sciiti, potenti, gelosi, allarmati e ostili, fu la forza dirompente che scatenò una vera e propria valanga di disgrazie che si abbatterono sulla Fede e sulla gente fra la quale essa era nata. Essa infiammò lo zelo che bruciava l’anima degli sparsi discepoli del Báb, già esasperati dalla crudele prigionia del loro Capo, ora ancor più accesi nel loro ardore dalle effusioni della Sua penna che giungevano incessantemente dal luogo del Suo confino. Suscitò una lunga e appassionata controversia nei bazar, nelle moschee, nelle madrisih e in altri luoghi pubblici in tutto il paese, approfondendo la spaccatura che aveva già diviso il popolo. In un momento così pericoloso, Muhammad Sháh stava rapidamente affondando sotto il peso delle infermità fisiche. Lo stolto Hájí Mirza Áqásí, ora perno degli affari di stato, mostrò un’indecisione e un’incompetenza che sembravano crescere con l’estendersi delle sue gravi responsabilità. Una volta pareva propenso ad appoggiare il verdetto degli ‘ulamá, un’altra ne criticava l’aggressività e diffidava delle loro affermazioni, un’altra ancora ricadeva nel misticismo e, tutto preso dai suoi sogni, perdeva di vista la gravità della situazione che doveva affrontare.
4 Un così scandaloso malgoverno degli affari nazionali imbaldanzì il clero, i cui membri lanciavano ora con maligno zelo anatemi dai loro pulpiti, da dove incitavano chiassosamente superstiziose congregazioni a prendere le armi contro i sostenitori di quell’odiato credo, ad attentare all’onore delle loro donne, a saccheggiare le loro proprietà, a molestare e maltrattare i loro figli. «Dove sono i segni e i prodigi», tuonavano di fronte a innumerevoli assemblee, «che devono preannunciare l’avvento del Qá’im? E dove sono l’Occultazione maggiore e minore? Dove le città di Jábulqá e Jábulsá? Come dobbiamo spiegare le parole di Husayn-ibn-Rúh? Quale interpretazione dobbiamo dare alle tradizioni autentiche attribuite a Ibn-i-Mihríyár? Dove sono gli Uomini dell’Invisibile che in una settimana devono attraversare la superficie della terra? Dov’è la conquista dell’Oriente e dell’Occidente che il Qá’im deve effettuare alla Sua comparsa? Dove sono il guercio Anticristo e l’asino che Egli deve cavalcare? Dove Sufyán e il suo dominio?». «Dobbiamo», protestavano a gran voce, «dobbiamo considerare lettera morta le incontestabili e innumerevoli tradizioni dei nostri santi Imám, o non dobbiamo, invece, estirpare col ferro e col fuoco questa sfacciata eresia che ha osato alzare la testa nel nostro paese?».
5 A queste diffamazioni, minacce e proteste, i dotti e risoluti campioni di quella Fede mistificata, seguendo l’esempio del loro Capo, risposero risolutamente con trattati, commenti e confutazioni, diligentemente scritti, stringenti nelle argomentazioni, colmi di testimonianze, lucidi, eloquenti e convincenti, nei quali affermavano il loro credo nella missione profetica di Muhammad, nella legittimità degli Imám, nella sovranità spirituale del Sáhibu’z-Zamán (il Signore dell’era), interpretavano magistralmente le tradizioni, i versetti e le profezie allegoriche e velate delle sacre scritture islamiche, adducevano a sostegno delle loro affermazioni la mitezza e l’apparente debolezza dell’Imám Husayn che, malgrado la sconfitta, il fallimento e l’ignominioso martirio, era stato considerato dai loro antagonisti incarnazione e impareggiabile simbolo della trionfante potenza e sovranità di Dio.
6 Questa accesa controversia nazionale aveva assunto allarmanti proporzioni quando, alla fine, Muhammad Sháh soccombette alla malattia, affrettando con la sua morte la caduta del favorito e onnipotente ministro Hájí Mirza Áqásí il quale, subito spogliato dei tesori che aveva accumulato, cadde in disgrazia, fu espulso dalla capitale e si rifugiò a Karbilá. Salì al trono il diciassettenne Násiri’d-Dín Sháh, che affidò la direzione degli affari all’inesorabile e ferrigno Amír-Nizám, Mirza Taqí Khán, il quale, senza consultare gli altri ministri, decise d’infliggere immediatamente una punizione esemplare agli sventurati Bábí. In tutte le province governatori, magistrati e funzionari, istigati dall’ignominiosa campagna denigratoria condotta dal clero e spinti dall’avidità di compensi pecuniari, gareggiavano nei rispettivi ambienti per dare la caccia agli aderenti di una Fede proscritta e per oltraggiarli. Per la prima volta nella storia della Fede fu lanciata contro di essa una campagna nella quale il potere civile ed ecclesiastico fecero lega, una campagna che doveva culminare negli orrori sperimentati da Bahá’u’lláh nel Síyáh-Chál di Teheran e nel Suo successivo esilio in Iraq. Governo, clero e popolo si sollevarono come un sol uomo, per assalire e sterminare il comune nemico. Nei centri remoti e isolati gli sparsi discepoli di quella comunità perseguitata furono spietatamente abbattuti dalla spada dei nemici, mentre nei centri dov’erano riuniti in gran numero, per difendersi, essi presero misure che, mal presentate da un avversario astuto e falso, valsero a loro volta a infiammare ulteriormente l’ostilità delle autorità e a moltiplicare le violenze perpetrate dagli oppressori. A Shaykh Tabarsí a oriente, a Nayríz nel meridione, a Zanján a occidente e nella stessa capitale vi fu un rapido susseguirsi di massacri, sollevazioni, dimostrazioni, scontri, assedi, tradimenti che dimostrarono la violenza della tempesta esplosa e rivelarono il fallimento di un popolo fiero ma degenerato e ne offuscarono la storia.
7 L’audacia di Mullá Husayn che, per ordine del Báb, aveva cinto il turbante verde del suo Maestro che Egli Stesso gli aveva inviato, che aveva alzato lo Stendardo nero il cui sventolio doveva precorrere, secondo il profeta Muhammad, l’avvento del vicario di Dio sulla terra e, montato a cavallo, stava marciando alla testa di duecentodue condiscepoli per andare incontro a Quddús nella Jazíriy-i-Khadrá (Isola verde) e assisterlo – questa audacia fu il segnale di uno scontro i cui echi sarebbero risonati in tutto il paese. La contesa durò ben undici mesi. Suo teatro fu per la maggior parte la foresta del Mázindarán. Suoi eroi furono il fior fiore dei discepoli del Báb. Suoi martiri, la metà delle Lettere del Vivente, comprese la prima e l’ultima, Mullá Husayn e Quddús. La forza che pur senza apparire li guidò e li sostenne fu quella che scaturiva dalla mente di Bahá’u’lláh. Essa fu prodotta dalla palese determinazione degli araldi della nuova Era di proclamarne, intrepidamente e degnamente, l’avvento e da una non meno irremovibile loro decisione di resistere agli attacchi di aggressori malevoli e irragionevoli e difendersene caso mai la persuasione avesse fallito. Dimostrò al di là di ogni ombra di dubbio a cosa potesse giungere l’indomito spirito di un gruppo di trecentotredici studenti, impreparati e sprovvisti di equipaggiamento ma ebbri di Dio, perlopiù sedentari anacoreti di collegi e chiostri, quando si unissero per difendersi da un esercito addestrato, ben equipaggiato, appoggiato dalle masse, benedetto dal clero, comandato da un principe di sangue reale, spalleggiato dalle risorse dello stato, operante con l’entusiastica approvazione del sovrano e animato dagli incessanti consigli di un ministro risoluto e onnipotente. Suo epilogo fu un atroce tradimento che si concluse in un’orgia di sangue, macchiò di eterna infamia i suoi perpetratori, circonfuse le vittime di un alone di gloria imperitura e generò semi che, in un’età successiva, sarebbero fioriti in istituzioni amministrative disseminate nel mondo le quali, nella pienezza dei tempi, daranno il loro aureo frutto nella forma di un Ordine fatto per pervadere e redimere il mondo.
8 Inutile tentare una sia pur concisa narrazione di questo tragico episodio, pur così importante, così frainteso da cronisti e storici ostili. Un accenno alle sue caratteristiche salienti sarà sufficiente agli scopi di queste pagine. Rievocando gli eventi di questa grande tragedia notiamo la forza, l’audacia, la disciplina e l’ingegnosità dei suoi eroi, nettamente contrastanti con la depravazione, la codardia, la riottosità e l’incostanza dei loro oppositori. Osserviamo la pazienza sublime e la nobile temperanza di uno dei suoi principali protagonisti, il valoroso Mullá Husayn, il quale si rifiutò ostinatamente di sguainare la spada finché una moltitudine armata e inferocita, che si abbandonava alle più sconce ingiurie, non si fu radunata a un farsang di distanza da Bárfurúsh per sbarrargli la strada e non ebbe ferito a morte sette dei suoi innocenti e prodi compagni. Siamo ammirati davanti alla tenacia e alla fede di Mullá Husayn che, assediato nel caravanserraglio della Sabzih-Maydán, sebbene tre dei suoi compagni saliti l’uno dopo l’altro sul tetto della locanda con l’espresso proposito di cantare l’adhán fossero stati immediatamente uccisi dai proiettili nemici, decise d’insistere nel celebrare il sacro rito. Siamo meravigliati di fronte allo spirito di rinuncia che spinse quelle vittime così duramente oppresse a ignorare sprezzantemente le ricchezze abbandonate dai nemici in fuga, che li portò a rinunciare a tutti i loro averi accontentandosi di un cavallo e di una spada, che indusse il padre di Badí‘, uno della valorosa compagnia, a gettare prontamente sul ciglio della strada un sacchetto pieno di turchesi che aveva portato dalla miniera del padre a Níshápúr, che spinse Mirza Muhammad Taqíy-i-Juvayní a buttar via una somma di monete d’oro e d’argento di valore equivalente e convinse i compagni a disdegnare, rifiutandosi perfino di toccarli, i preziosi arredi e forzieri d’oro e d’argento che il principe Mihdí-Qulí Mirza, comandante dell’armata del Mázindarán e fratello di Muhammad Sháh, scoraggiato e pieno di vergogna, aveva abbandonato nella precipitosa fuga dal campo. Non possiamo fare a meno di apprezzare l’appassionata sincerità con cui Mullá Husayn implorò il Principe e la formale assicurazione che gli dette, negando recisamente che lui o i suoi condiscepoli avessero intenzione di attentare all’autorità dello Scià o di sovvertire le fondamenta dello stato. E non possiamo non guardare con disprezzo al comportamento del miserabile, isterico e crudele Sa‘ídu’l-‘Ulamá il quale, spaventato dall’avvicinarsi dei compagni, in un parossismo di agitazione, gettò il turbante per terra al cospetto di un’immensa folla d’uomini e donne, si stracciò il collo della camicia e, lamentando lo stato in cui l’Islam era caduto, implorò la congregazione d’impugnare le armi e sterminare il gruppo che si stava avvicinando. Siamo colti da meraviglia quando consideriamo il coraggio sovrumano che permise a Mullá Husayn, nonostante la fragile costituzione e la mano tremante, di uccidere uno sleale nemico che si era rifugiato dietro un albero, troncando in due con un sol colpo di spada l’albero, l’uomo e il suo moschetto. Ci sentiamo inoltre commossi dalla scena dell’arrivo di Bahá’u’lláh al Forte e dall’indicibile gioia provata da Mullá Husayn, dalla reverente accoglienza riservataGli dai condiscepoli, dalla Sua ispezione alle fortificazioni frettolosamente erette per proteggersi e dai consigli che Egli diede loro e che sortirono la miracolosa liberazione di Quddús, la successiva stretta associazione di quest’ultimo ai difensori del Forte e la sua fattiva partecipazione alle imprese legate al suo assedio e alla sua distruzione finale. Siamo stupiti dalla serenità e dalla sagacia di Quddús, dalla fiducia che ispirò fin dal suo arrivo, dall’ingegnosità che dimostrò, dal fervore e dalla gioia con cui gli assediati ascoltavano, all’alba e al tramonto, la sua voce intonare i versetti del suo celebre commento del Sád di Samad, al quale mentre ancora si trovava a Sárí aveva dedicato un trattato lungo tre volte il Corano e che ora, malgrado i tumultuosi attacchi del nemico e le privazioni ch’egli e i suoi compagni pativano, delucidava ulteriormente aggiungendo a quella interpretazione altrettanti versetti quanti ne aveva già scritti prima. Ricordiamo con cuore palpitante il memorabile scontro quando Mullá Husayn, al grido «In sella ai vostri destrieri, o eroi di Dio!», accompagnato da duecentodue compagni assediati e stremati e preceduto da Quddús, uscì dal Forte prima dell’alba e, invocando «Yá Sáhibu’z-Zamán», si lanciò alla carica verso le fortificazioni del principe e penetrò nei suoi appartamenti privati per scoprire che egli, costernato, si era gettato nel fossato da una finestra sul retro ed era fuggito scalzo, lasciando l’esercito confuso e sconfitto. Vediamo rivivere con commozione nella memoria l’ultimo giorno di vita su questa terra di Mullá Husayn, quando poco dopo la mezzanotte, fatte le abluzioni, indossò abiti nuovi e cinse il turbante del Báb, montò a cavallo, ordinò di aprire il portone della Fortezza e ne uscì alla testa di trecentotredici compagni, gridando a gran voce «Yá Sáhibu’z-Zamán!», incurante delle pallottole che gli piovevano attorno, caricò una dopo l’altra le sette barricate erette dal nemico, le espugnò tutte e ne sbaragliò rapidamente i difensori e aveva già messo in scacco le loro forze quando, d’un tratto, nel tumulto che seguì, il suo cavallo si impigliò nella corda d’una tenda e, prima che potesse liberarsi, egli fu colpito al petto da un colpo sparato dal vile ‘Abbás-Qúlí Khán-i-Láríjání, nascosto fra i rami di un albero vicino. Acclamiamo il magnifico coraggio dimostrato da diciannove valorosi compagni i quali, in uno scontro successivo, si gettarono a capofitto nell’accampamento del nemico, formato da due reggimenti di fanteria e di cavalleria, seminandovi un tale terrore che uno degli ufficiali, ‘Abbás-Qúlí Khán, cadendo da cavallo perse nell’ansietà uno stivale che rimase appeso alla staffa e, spaventato e mezzo scalzo, fuggì dal principe, per confessargli l’ignominiosa sconfitta subita. Né possiamo fare a meno di notare la superba forza con la quale quelle eroiche anime sopportarono il peso dei patimenti, quando, dapprima, il loro cibo si ridusse alla carne dei cavalli portati via dal campo abbandonato dal nemico, quando, poi, dovettero accontentarsi dell’erba che riuscivano a strappare dai campi ogni qual volta gli assedianti gli concedevano un momento di tregua, quando, successivamente, furono costretti a nutrirsi di corteccia d’albero e del cuoio delle selle, delle cinture, dei finimenti e delle scarpe, quando, per diciotto giorni, non ebbero altro che acqua, della quale bevevano un sorso ogni mattina, quando il cannoneggiamento del nemico li costrinse a scavare passaggi sotterranei nel Forte, nei quali, immersi nel fango e nell’acqua con le vesti a brandelli per l’umidità, dovettero cibarsi di ossa triturate e quando, alla fine, sopraffatti dai morsi della fame, giunsero al punto, come testimonia un cronista contemporaneo, di disseppellire il cavallo del loro venerato maestro, Mullá Husayn, farlo a pezzi, sbriciolarne le ossa, mescolarle alla carne putrefatta, prepararne uno stufato e divorarlo avidamente.
9 E non si può fare a meno di menzionare l’abietto tradimento cui l’impotente e screditato principe alla fine ricorse e la sua violazione di quello che aveva detto essere un irrevocabile giuramento, da lui scritto e sigillato in margine alla sura aprente del Corano con cui, giurando sul sacro Libro, s’impegnava di lasciar liberi tutti i difensori del Forte e prometteva sull’onore che nessuno del suo esercito o delle vicinanze li avrebbe molestati e che egli stesso avrebbe provveduto a proprie spese a farli partire sani e salvi per le loro case. E infine ricordiamo la scena finale di quella fosca tragedia quando, avendo il principe violato il sacro giuramento, alcuni dei traditi compagni di Quddús furono riuniti nel campo nemico, spogliati dei loro averi e venduti come schiavi, mentre altri furono uccisi dagli ufficiali con lance e spade, o squartati, o legati agli alberi e crivellati di pallottole, o sparati dalle bocche dei cannoni e dati alle fiamme, o sventrati, le teste impalate su lance e picche. Con un ulteriore vergognoso atto perpetrato dal principe intimorito, Quddús, il loro amatissimo Capo, fu consegnato nelle diaboliche mani del Sa‘ídu’l-‘Ulamá il quale, nella sua inestinguibile ostilità e aiutato dalla folla che aveva assiduamente aizzato, spogliò la sua vittima delle vesti, lo caricò di catene, gli fece percorrere le strade di Bárfurúsh e incitò la feccia della popolazione femminile a maledirlo, a sputargli addosso, ad aggredirlo con coltelli e asce, a mutilarne il corpo e gettare nel fuoco i malconci brandelli.
10 Questo tumultuoso episodio, così glorioso per la Fede e così vergognoso per la reputazione dei suoi nemici – un episodio che dev’essere considerato un raro fenomeno nella storia dei tempi moderni – fu subito seguito da un’altra sollevazione, singolarmente simile nelle caratteristiche essenziali. La scena delle dolorose afflizioni si sposta ora a sud, nella provincia del Fárs, non lontano dalla città da cui l’albeggiante luce della Fede era sorta. Nayríz e i suoi dintorni dovettero sostenere l’urto della nuova ordalia in tutta la sua furia. Occhio del ciclone di questa nuova conflagrazione fu il forte di Khájih, nei pressi di Chinár-Súkhtih, un quartiere di quel villaggio in gran tumulto. L’eroe che torreggiò fra i suoi compagni, che lottò con coraggio e cadde vittima delle sue fiamme divoratrici fu il famoso Siyyid Yahyáy-i-Darábí, meglio noto come Vahíd, «unica e incomparabile figura dei suoi tempi». Il principale fra i suoi perfidi avversari che accesero e alimentarono le fiamme di questa conflagrazione fu il vile e fanatico governatore di Nayríz, Zaynu’l-Ábidín Khán, assecondato da ‘Abdu’lláh Khán, lo Shujá‘u’l-Mulk, e appoggiato dal principe Fírúz Mirza, governatore di Shíráz. Sebbene sia durata meno della sollevazione del Mázindarán protrattasi per ben undici mesi, le atrocità che segnarono la sua fase conclusiva ebbero tuttavia conseguenze non meno disastrose. Ancora una volta un manipolo di innocenti, rispettosi della legge, pacifici, ma fieri e indomabili, in questo caso perlopiù ragazzi inesperti e uomini anziani, furono colti di sorpresa, provocati, accerchiati e assediati dalle forze preponderanti di un nemico crudele e astuto, da una sterminata moltitudine di uomini validi i quali, pur bene addestrati, adeguatamente equipaggiati e costantemente riforniti, non riuscirono a costringere alla sottomissione gli avversari o a soggiogarne lo spirito.
11 La nuova agitazione aveva avuto origine da dichiarazioni di fede altrettanto intrepide e appassionate e da dimostrazioni di entusiasmo religioso altrettanto veementi e drammatiche quanto quelle che avevano dato inizio alla sollevazione del Mázindarán. Era stata istigata da un non meno prolungato e violento scoppio d’intransigente ostilità ecclesiastica. Fu accompagnata dalle stesse manifestazioni di cieco fanatismo religioso. Fu provocata dagli stessi atti di palese aggressione del clero e del popolo. Dimostrò nuovamente la stessa fermezza, fu animata dallo stesso spirito, quasi toccò le medesime vette di eroismo, forza, coraggio e rinuncia sovrumani. Mostrò un non meno astutamente calcolato coordinamento di piani e di sforzi da parte delle autorità civili ed ecclesiastiche al fine di provocare e abbattere il nemico comune. Fu preceduta dalla stessa categorica dichiarazione dei Bábí di non avere alcuna intenzione d’interferire nella giurisdizione civile del regno o di scalzare la legittima autorità del sovrano. Diede una non meno convincente testimonianza della moderazione e della pazienza delle vittime di fronte ai brutali e ingiustificati attacchi degli oppressori. Dimostrò, mentre si avviava verso il culmine, con pari evidenza, la codardia, l’indisciplina e la degradazione di un nemico spiritualmente fallito. Fu segnata, mentre si avvicinava alla fine, da un tradimento altrettanto vile e vergognoso. Si concluse con un massacro ancor più raccapricciante per l’orrore che evocò e i dolori che produsse. Suggellò il destino di Vahíd che, legato a un cavallo con il suo turbante verde, emblema del suo nobile lignaggio, fu ignominiosamente trascinato per le strade, dopo di che la sua testa mozzata fu impagliata e inviata come trofeo al Principe che festeggiava a Shíráz, mentre il suo corpo fu abbandonato alle donne inferocite di Nayríz che, eccitate a barbara gioia dalle grida di esultanza di un nemico trionfante, gli danzavano attorno al suono di tamburi e cembali. Fu infine seguita da un feroce assalto generale contro gli indifesi Bábí, per mano di ben cinquemila uomini appositamente reclutati: le loro proprietà furono confiscate, le case distrutte, la fortezza fu data alle fiamme e rasa al suolo, le donne e i bambini furono catturati e alcuni di loro, quasi completamente denudati, furono caricati su muli e fatti passare fra file di teste mozzate e corpi esanimi di padri, fratelli, figli e mariti, che erano stati marchiati a fuoco, le unghie strappate, fustigati a morte, mani e piedi inchiodati, forati i nasi per farvi passare le briglie con le quali erano stati trascinati per le strade sotto gli occhi e fra i lazzi di una moltitudine inferocita.
12 Questo tumulto così rovinoso, così doloroso si era appena placato quando un’altra conflagrazione, ancor più terribile delle due precedenti, si accese a Zanján e negli immediati dintorni. Senza precedenti per la durata e numero di persone che furono travolte dalla sua furia, questa violenta tempesta scoppiata nella Persia occidentale, nel corso della quale Mullá Muhammad-‘Alíy-i-Zanjání, soprannominato Hujjat, uno dei più capaci e formidabili campioni della Fede, vuotò la coppa del martirio con mille e ottocento condiscepoli, dimostrò ancor più chiaramente l’incolmabile abisso che separava i tedofori della Fede neonata dagli esponenti civili ed ecclesiastici di un ordine gravemente scosso. Le principali figure responsabili coinvolte in questa spaventosa tragedia furono l’invidioso e ipocrita Amír Arslán Khán, il Majdu’d-Dawlih, zio materno di Násiri’d-Dín Sháh e i suoi complici, il Sadru’d-Dawliy-i-Isfáhání e Muhammad Khán, l’Amír-Túmán, da una parte assistiti da cospicui rinforzi militari inviati per ordine dell’Amír-Nizám, dall’altra aiutati dall’entusiastico appoggio morale dell’intero corpo ecclesiastico di Zanján. Il luogo che fu teatro delle eroiche imprese, scena d’intense sofferenze, bersaglio di furiosi e ripetuti attacchi fu la fortezza di ‘Alí-Mardán Khán, che a un certo punto dette rifugio ad almeno tremila Bábí, uomini, donne e bambini, il racconto delle cui sofferenze è insuperato nella storia dell’intero secolo.
13 Un breve accenno alle caratteristiche salienti di questo doloroso episodio che conferì alla giovane Fede smisurate potenzialità, basterà a rivelarne gli aspetti peculiari. Le scene patetiche che seguirono la divisione degli abitanti di Zanján in due diversi campi per ordine del governatore, divisione che, drammaticamente proclamata da un banditore, scioglieva legami terreni di interesse e di affetto in nome di una più importante lealtà, le ripetute esortazioni di Hujjat agli assediati, che si astenessero da atti di aggressione e di violenza, la sua affermazione, mentre ricordava la tragedia del Mázindarán, che la vittoria consisteva unicamente nel sacrificare tutto ciò che possedevano sull’altare della Causa del Sáhibu’z-Zamán e la sua dichiarazione che i compagni avevano la ferma intenzione di servire fedelmente il sovrano e di essere amici del suo popolo, la stupefacente audacia con cui questi compagni respinsero il feroce assalto del Sadru’d-Dawlih che, costretto ad ammettere alla fine il proprio misero fallimento, fu redarguito dallo Scià e destituito dal suo grado, il disprezzo con cui gli occupanti del Forte accolsero gli appelli del banditore che a nome di un nemico esasperato cercava di convincerli con le lusinghe a rinunciare alla loro Causa e di ingannarli con generose offerte e promesse del sovrano, l’ingegnosità e l’incredibile audacia di Zaynab, ragazza di paese, che infiammata da un irresistibile desiderio di unirsi ai difensori della Fortezza, si travestì da uomo, si tagliò i capelli, cinse la spada e si lanciò con impeto all’inseguimento degli assalitori al grido di «Yá Sáhibu’z-Zamán!» e, disdegnando cibo e sonno, per cinque mesi continuò nel fitto della mischia a rincuorare i compagni e ad accorrere in loro difesa, lo straordinario tumulto suscitato dalle sentinelle che difendevano le barricate quando gridarono le cinque invocazioni prescritte dal Báb nella stessa notte in cui erano giunte le Sue istruzioni, un tumulto che causò la morte di alcune persone nel campo nemico, indusse i dissoluti ufficiali a lasciar cadere immediatamente i calici di vino, a rovesciare i tavoli da gioco e a fuggire scalzi e spinse altri a scappare seminudi nella campagna o, presi dal panico, a rifugiarsi in casa degli ‘ulamá – questi sono i momenti culminanti del sanguinoso scontro. Ricordiamo inoltre il contrasto fra il disordine, le imprecazioni, le sguaiate risa, la dissolutezza e l’infamia che caratterizzavano l’accampamento nemico e l’atmosfera di reverente devozione che pervadeva il Forte dal quale si levavano continuamente canti di lode e inni di gioia. E non si può fare a meno di annotare la petizione che Hujjat e i suoi principali sostenitori rivolsero allo Scià, smentendo le maligne affermazioni dei loro nemici, rassicurandolo sulla loro lealtà verso lui e il suo governo e dichiarandosi pronti a dimostrare in sua presenza la validità della loro Causa, l’intercettazione di quei messaggi da parte del governatore che li sostituì con lettere contraffatte piene d’insulti e le inviò a Teheran al loro posto, l’entusiastico aiuto dato dalle donne del Forte, le grida d’esultanza che levarono, la prontezza con la quale alcune di loro, vestite da uomini, corsero a rafforzare le difese e a sostituire i fratelli caduti, mentre altre si occupavano dei malati, trasportavano a spalla otri d’acqua per i feriti e altre ancora, come le donne cartaginesi, si tagliavano i lunghi capelli e legavano le grosse trecce a rinforzo dei cannoni, il vile tradimento degli assedianti i quali, proprio il giorno in cui avevano redatto e scritto un appello di pace mandandolo a Hujjat con una copia suggellata del Corano a testimonianza della loro promessa, non si peritarono di imprigionare i membri della delegazione, compresi i bambini, inviata per trattare con loro, di strappare la barba al suo venerato capo e mutilare selvaggiamente uno dei discepoli. E ricordiamo inoltre la grandezza d’animo di Hujjat che, pur afflitto per l’improvvisa perdita della moglie e del figlio, continuò con imperturbata serenità a esortare i compagni a essere pazienti e a rimettersi alla volontà di Dio, finché cadde per una ferita ricevuta dal nemico, la barbara vendetta che un avversario tanto superiore per numero ed equipaggiamento si prese sulle sue vittime, sottoponendole a saccheggi e massacri senza eguali per portata e ferocia, cui un esercito rapace, un’avida popolazione e un insaziabile clero s’abbandonarono sfrenatamente, l’esposizione dei prigionieri, maschi e femmine, affamati e mal vestiti, per quindici giorni e quindici notti, ai morsi del freddo di un inverno eccezionalmente rigido, mentre folle di donne danzavano allegramente attorno a loro, gli sputavano in faccia e li insultavano con le più turpi ingiurie, la selvaggia crudeltà con cui condannarono altri a essere sparati dalle bocche dei cannoni, immersi in acqua gelida e brutalmente frustati, il capo unto di olio bollente, cosparsi di melassa e lasciati morire sulla neve e infine l’odio insaziabile che indusse l’astuto governatore a convincere con le lusinghe il figlio settenne di Hujjat a rivelare il luogo dov’era sepolto il padre, per poi violarne la tomba, disseppellirne la salma e ordinare di trascinarla per le strade di Zanján al suono delle trombe e di esporla per tre giorni e tre notti a indicibili oltraggi. Questi e altri avvenimenti simili legati all’epica storia della sollevazione di Zanján, definita da lord Curzon «un terribile assedio e un terribile massacro», contribuiscono a circonfonderlo con un malinconico alone di gloria insuperata da altri episodi della stessa natura negli annali dell’Età eroica della Fede di Bahá’u’lláh.
14 L’ondata di calamità che negli ultimi anni del ministero del Báb colpì con sì funesta furia le province orientali, meridionali e occidentali della Persia non risparmiò il cuore e il centro del regno. Quattro mesi prima del martirio del Báb, anche Teheran dovette partecipare, sia pur in modo minore e in circostanze meno drammatiche, al massacro che infangava il volto del paese. In quella città si consumò una tragedia che si rivelò poi essere soltanto un preludio dell’orgia di sangue che dopo la fucilazione del Báb avrebbe sconvolto i suoi abitanti e portato il terrore nelle più lontane province. Ebbe inizio dagli ordini dell’incollerito e feroce Amír-Nizám e fu perpetrata sotto i suoi occhi, fu appoggiata da Mahmúd Khán-i-Kalántar e aiutata da un certo Husayn, ‘ulamá di Káshán. Gli eroi di quella tragedia furono i Sette Martiri di Teheran, rappresentanti delle più importanti classi sociali fra i loro concittadini, che deliberatamente rifiutarono di salvarsi la vita con quella semplice abiura verbale, chiamata taqíyyih, nella quale l’Islam sciita aveva riconosciuto per secoli un sotterfugio del tutto giustificabile, anzi, raccomandabile, nell’ora del pericolo. Né le ripetute ed energiche intercessioni di eminenti membri delle professioni alle quali i martiri appartenevano, né le cospicue somme che nel caso di uno di loro, il nobile e imperturbabile Hájí Mirza Siyyid ‘Alí, zio materno del Báb, importanti mercanti di Shíráz e Teheran erano pronti a versare per riscattarlo, né le appassionate suppliche presentate da funzionari di stato a nome di un altro, Mirza Qurbán-‘Alí, pio e stimato derviscio, e neanche l’intervento personale dell’Amír-Nizám, che tentò d’indurre questi due coraggiosi ad abiurare, riuscirono a persuadere i sette a rinunciare all’agognata palma del martirio. Le sprezzanti risposte date ai persecutori, l’estatica gioia da cui furono colti mentre si avvicinavano al luogo della morte, le grida di giubilo lanciate mentre affrontavano il carnefice, l’intensità dei versi recitati da alcuni di loro nel momento estremo, le esortazioni e le sfide rivolte alla moltitudine di spettatori che li guardava con stupore, il trasporto con cui le ultime tre vittime gareggiarono per essere il primo a suggellare col sangue la propria fede e infine le atrocità che un nemico sanguinario si abbassò a infliggere alle loro salme che giacquero insepolte per tre giorni e tre notti nel Sabzih-Maydán, durante i quali migliaia di cosiddetti devoti sciiti le presero a calci, ne coprirono di sputi i visi, le maledissero, le vilipesero, le schernirono e copersero di rifiuti – queste le principali caratteristiche della tragedia dei Sette Martiri di Teheran, una tragedia che spicca come una delle più macabre scene nel corso dello sviluppo iniziale delle Fede di Bahá’u’lláh. Non c’è da stupirsi che il Báb, piegato dal peso dei molti dolori che Lo colpirono nella fortezza di Chihríq, li acclamasse e glorificasse nelle pagine di un lungo elogio in cui immortalò la loro fedeltà alla Sua Causa, paragonandoli alle «sette Capre» che secondo la tradizione islamica, nel Giorno del giudizio, avrebbero «camminato davanti» al promesso Qá’im e la cui morte avrebbe preceduto l’imminente martirio del loro vero Pastore.
CAPITOLO IV1 Le ondate di terribili tribolazioni che si abbatterono violentemente sulla Fede e alla fine travolsero, in rapida successione, i Suoi più abili, più cari e fedeli discepoli, immersero il Báb, come si è già osservato, in un’indicibile cordoglio. Per sei mesi, narra il Suo cronista, il Prigioniero di Chihríq non fu in grado né di scrivere, né di dettare. Affranto dal dolore per le cattive notizie, che Gli giungevano l’una dopo l’altra, delle interminabili prove che colpivano i Suoi migliori luogotenenti, per le sofferenze sopportate dagli assediati e per il vergognoso tradimento ai danni dei sopravvissuti, per le dolorose afflizioni patite dai prigionieri, per l’abominevole strage di uomini, donne e bambini e per gli infami oltraggi perpetrati sulle salme, Egli, come racconta il Suo amanuense, per nove giorni Si rifiutò d’incontrare gli amici e toccò appena i cibi e le bevande che Gli venivano offerte. Continue lagrime Gli sgorgavano dagli occhi e profuse espressioni d’angoscia traboccavano dal Suo cuore ferito mentre languiva, per quasi cinque mesi, solo e sconsolato nella prigione.
2 La maggior parte delle colonne della Sua Fede infante erano state abbattute al primo insorgere dell’uragano che s’era scatenato su di essa. Quddús, che Egli aveva immortalato come Ismu’lláhi’l-Ákhir (il Nome ultimo di Dio), che Bahá’u’lláh fregiò poi, nella Tavola di Kullu’t-Ta‘ám, del titolo di Nuqtiy-i-Ukhrá (l’ultimo Punto), che innalzò, in un’altra Tavola, a un rango inferiore solo a quello dell’Araldo della Sua Rivelazione, che in un’altra Tavola ancora identifica con uno dei «messaggeri smentiti» citati nel Corano, che il Bayán Persiano glorificava come quel compagno di pellegrinaggio attorno al quale ruotano otto Váhid di specchi, del cui «distacco» e della «sincerità della cui devozione alla volontà di Dio, Dio Si gloria fra le Coorti celesti», che ‘Abdu’l-Bahá definì «Luna della salvezza» e la cui comparsa l’Apocalisse di san Giovanni predisse come uno dei due «Testimoni» nei quali, prima che il «secondo Guai sia passato», deve entrare «un soffio di vita procedente da Dio» – quest’uomo, ancora nel pieno della giovinezza, aveva subito nella Sabzih-Maydán di Bárfurúsh una morte che, attesta Bahá’u’lláh, neanche Gesù Cristo aveva dovuto affrontare nel momento della suprema agonia. Mullá Husayn, la prima Lettera del Vivente, soprannominato Bábu’l- Báb (Porta della Porta), definito «Specchio primevo», al quale la Penna del Báb aveva dedicato inni, preghiere e Tavole di visitazione in quantità equivalente a tre volte il volume del Corano, chiamato in questo elogio «Amato del Mio cuore», la polvere della cui tomba, aveva dichiarato quella stessa Penna, era così potente da rallegrare gli afflitti e risanare gli ammalati, che «le creature suscitate al principio e alla fine» della Dispensazione Bábí invidiano e continueranno a invidiare fino al «Giorno del giudizio», che il Kitáb-i-Íqán acclamò come colui senza il quale «Dio non sarebbe stato posto sul seggio della Sua misericordia, né sarebbe asceso al trono della gloria eterna», che Siyyid Kázim aveva tanto elogiato che i suoi discepoli sospettarono che egli fosse il Promesso – quest’uomo era morto nel fiore della virilità, martirizzato a Tabarsí. Vahíd, detto nel Kitáb-i-Íqán «unica e incomparabile figura dei suoi tempi», uomo d’immensa erudizione, il più eminente fra i personaggi che si arruolarono sotto la bandiera della nuova Fede, i cui «talenti», la cui «santità», i cui «nobili successi nel regno delle scienze e della filosofia», il Báb aveva attestato nel Dalá’il-i-Sab‘ih (Le sette prove), era già stato travolto, in circostanze analoghe, dal turbine di un’altra sollevazione e avrebbe presto anche lui bevuto alla coppa già vuotata dagli eroici martiri del Mázindarán. Hujjat, altro campione di cospicua audacia, indomita volontà, notevole originalità e veemente zelo, stava per essere repentinamente e inevitabilmente trascinato nell’ardente fornace le cui fiamme avevano già avviluppato Zanján e dintorni. Lo zio materno del Báb, l’unico padre che Egli avesse conosciuto fin dalla fanciullezza, Suo riparo e appoggio, fedele custode di Sua madre e di Sua moglie, Gli era stato strappato dalla scure del carnefice di Teheran. Metà dei Suoi eletti discepoli, le Lettere del Vivente, Lo avevano già preceduto nel martirio. Táhirih, sebbene ancor in vita, era coraggiosamente incamminata su una strada che l’avrebbe inevitabilmente portata alla tomba.
3 Una vita in rapido declino, così piena delle ansietà, delle delusioni, dei tradimenti e delle sofferenze accumulate di un tragico ministero, muoveva ora celermente verso l’apice. Il più turbolento periodo dell’Età eroica della nuova Dispensazione stava velocemente giungendo al culmine. L’amaro calice di dolori che l’Araldo di quella Dispensazione aveva gustato stava ora traboccando. In effetti Egli aveva già alluso alla Sua morte imminente. Nel Kitáb-i-Panj-Sha‘n, una delle Sue ultime opere, aveva accennato al fatto che il secondo Naw-Rúz dopo la Dichiarazione della Sua missione sarebbe stato l’ultimo che Egli era destinato a celebrare sulla terra. Nella Sua interpretazione della lettera Há aveva espresso il desiderio di essere martirizzato, mentre nel Qayyúmu’l-Asmá’ aveva chiaramente profetizzato l’inevitabilità di tale coronamento della Sua gloriosa vicenda. Quaranta giorni prima della Sua definitiva partenza da Chihríq aveva perfino raccolto tutti i documenti in Suo possesso e li aveva posti, con la scatola delle Sue penne, i Suoi sigilli e i Suoi anelli, nelle mani di Mullá Báqir, una delle Lettere del Vivente, invitandolo a consegnarli a Mullá ‘Abdu’l-Karím-i-Qazvíní, soprannominato Mirza Ahmad, che doveva portarli a Bahá’u’lláh a Teheran.
4 Mentre i moti del Mázindarán e di Nayríz seguivano il loro sanguinoso corso, il Gran Visir di Násiri’d-Dín Sháh, che soppesava ansiosamente il significato di quei tragici avvenimenti e si preoccupava delle ripercussioni che avrebbero potuto avere sui suoi compatrioti, sul governo e sul sovrano, rimuginava febbrilmente in cuor suo la fatale decisione che non solo era destinata a lasciare un’indelebile impronta sulle sorti del paese, ma che avrebbe comportato incalcolabili conseguenze per il destino dell’intera umanità. Le misure repressive adottate contro i seguaci del Báb, ne era ormai completamente convinto, non erano valse ad altro che a infiammarne lo zelo, rafforzarne la risolutezza e confermarne la lealtà verso quella Fede perseguitata. L’isolamento e la prigionia del Báb avevano prodotto l’effetto contrario a quello che l’Amír-Nizám si era fiduciosamente atteso. Allarmatissimo, condannava aspramente la disastrosa clemenza del suo predecessore, Hájí Mirza Áqásí, che aveva portato le cose a quel punto. Doveva essere impartita, ne era convinto, una punizione più drastica e ancor più esemplare, a quella che considerava un’abominevole eresia che stava infestando le istituzioni civili ed ecclesiastiche del regno. Per arrestare l’ondata che aveva portato tanta rovina in tutto il paese non c’era niente di meglio, credeva, che togliere la vita a Colui Che era la sorgente primigenia di una così odiosa dottrina e la forza trainante di un movimento tanto dinamico.
5 L’assedio di Zanján era ancora in corso quando egli, senza un preciso ordine del sovrano e agendo indipendentemente da consiglieri e ministri, inviò al principe Hamzih Mirza, lo Hishmatu’d-Dawlih, il governatore dell’Azerbaigian, l’ordine di giustiziare il Báb. Temendo che comminare tale adeguata punizione nella capitale del regno avrebbe potuto scatenare forze che non sarebbe stato in grado di controllare, ordinò che il Prigioniero fosse condotto a Tabríz e lì messo a morte. Essendosi l’indignato Principe seccamente rifiutato di compiere un’azione che considerava un delitto infame, l’Amír-Nizám incaricò di eseguire i suoi ordini il fratello Mirza Hasan Khán. Le usuali formalità previste per ottenere la necessaria autorizzazione dei principali mujtahid furono frettolosamente e agevolmente espletate. Ma né Mullá Muhammad-i-Mamáqání che aveva sottoscritto la condanna a morte del Báb lo stesso giorno del Suo interrogatorio a Tabríz, né Hájí Mirza Báqir e Mullá Murtadá-Qulí nelle cui case la Vittima fu ignominiosamente condotta dal farrásh-báshí per ordine del Gran Visir, accondiscesero a incontrare il temuto Avversario.
6 Immediatamente prima e subito dopo che il Báb fosse sottoposto a questo umiliante trattamento, si verificarono due episodi molto significativi che fanno luce sulle misteriose circostanze della fase iniziale del Suo martirio. Il farrásh-báshí aveva bruscamente interrotto il Báb mentre, in una stanza della caserma, era impegnato in un ultimo colloquio confidenziale con il Suo amanuense, Siyyid Husayn, e stava tirando da parte quest’ultimo per redarguirlo aspramente, quando il Prigioniero gli disse: «Finché non gli avrò detto tutte le cose che desidero dirgli nessuna forza terrena potrà farmi tacere. Se tutto il mondo si armasse contro di Me, ancora non riuscirebbe a impedirMi di mettere in atto, fino all’ultima parola, la Mia intenzione». Al cristiano Sám Khán, colonnello del reggimento armeno che aveva l’ordine di espletare l’esecuzione, il quale timoroso che il suo atto potesse suscitare l’ira di Dio L’aveva pregato d’essere sollevato dall’incarico che gli era stato imposto, il Báb dette la seguente rassicurazione: «Segui le istruzioni che hai ricevute, se la tua intenzione è sincera, l’Onnipotente può sicuramente liberarti dalla tua perplessità».
7 Così Sam Khán si apprestò a fare il proprio dovere. Un chiodo fu infisso a un pilastro che separava due stanze della caserma che davano sulla piazza. Al chiodo vennero legate due corde, alle quali furono separatamente appesi il Báb e uno dei Suoi discepoli, il giovane e devoto Mirza Muhammad-‘Alíy-i-Zunúzí, detto Anís, il quale poco prima si era gettato ai piedi del Maestro implorandoLo di non allontanarlo mai da Sé. Il plotone d’esecuzione si dispose in tre file di duecento e cinquanta uomini ciascuna. A turno ogni fila aprì il fuoco finché l’intero distaccamento non ebbe scaricato tutti i proiettili. Dai settecento e cinquanta fucili si sprigionò un fumo così denso da oscurare il cielo. Quando il fumo si fu dissipato, l’esterrefatta folla di circa diecimila persone che si era assiepata sul tetto della caserma e delle case vicine vide un scena che i suoi occhi a stento potevano credere.
8 Il Báb era sparito! In piedi, vicino al muro al quale erano stati appesi, restava soltanto il Suo compagno, perfettamente illeso. Solo le corde che erano state usate per legarli erano spezzate. «Il Siyyid-i- Báb è scomparso!», urlavano stupefatti gli spettatori. Ebbe subito inizio una frenetica ricerca. Il Báb fu trovato, sano e salvo, nella stanza dove Si trovava la notte precedente, impegnato a concludere l’interrotto colloquio con l’amanuense. «Ho terminato la Mia conversazione con Siyyid Husayn», furono le parole con cui il Prigioniero, così provvidenzialmente scampato, accolse l’ingresso del farrásh-báshí. «Ora puoi procedere a mettere in atto le tue intenzioni». Il farrásh-báshí, ricordando la precedente coraggiosa affermazione del Prigioniero e scosso da una rivelazione tanto sbalorditiva, se ne andò immediatamente e si dimise dal suo posto.
9 Anche Sám Khán, ricordando con un senso di timore e meraviglia le rassicuranti parole che il Báb gli aveva rivolto, ordinò ai suoi uomini di abbandonare all’istante la caserma e, mentre lasciava il cortile, giurò che mai più – gli fosse pure costato la vita – avrebbe ripetuto l’esecuzione. Si offrì volontario al suo posto Áqá Ján-i-Khamsih, colonnello della guardia del corpo. Il Báb e il Suo compagno furono ancora una volta appesi nello stesso modo allo stesso muro e il nuovo reggimento si mise in riga e aprì il fuoco. Ma questa volta i loro petti furono crivellati dalle pallottole e i corpi ne furono completamente dilaniati, tranne i volti che furono appena scalfiti. «O generazione perversa!», furono le ultime parole che il Báb rivolse all’attenta moltitudine mentre il reggimento si preparava a far fuoco «Se aveste creduto in Me, tutti voi avreste seguito l’esempio di questo giovane, che era di rango superiore a molti di voi e vi sareste sacrificati di buon grado sul Mio sentiero. Verrà il giorno in cui Mi riconoscerete, ma quel giorno non sarò più con voi».
10 E non fu tutto. Nel momento in cui i fucili spararono si sollevò un vento di eccezionale violenza che spazzò la città. Da mezzogiorno fino a notte un turbine di polvere oscurò la luce del sole e accecò la gente. Nel 1268 dell’Egira Shíráz fu scossa dal «terremoto» che era stato profetizzato da quell’importante libro che è l’Apocalisse di san Giovanni, un terremoto che gettò l’intera città nello scompiglio e portò devastazione fra la gente, devastazione ulteriormente aggravata da un’epidemia di colera, una carestia e altre calamità. Nello stesso anno ben duecentocinquanta componenti del plotone d’esecuzione che aveva sostituito il reggimento di Sám Khán perirono, con i loro ufficiali, durante un terribile terremoto, mentre tre anni dopo gli altri cinquecento subirono, per punizione del loro ammutinamento, lo stesso destino ch’essi avevano inflitto al Báb. Per fare in modo che nessuno sopravvivesse, furono crivellati con una seconda scarica, dopo di che i loro corpi, trafitti con lance e arpioni, furono esposti alla vista del popolo di Tabríz. Il primo istigatore della morte del Báb, l’implacabile Amír-Nizám, e il fratello, suo principale complice, morirono due anni dopo quella crudele azione.
11 La sera del giorno dell’esecuzione del Báb, che ebbe luogo il 9 luglio 1850 (28 sha‘bán 1266 dell’Egira), nel Suo trentunesimo anno di età e nel settimo del Suo ministero, i corpi straziati furono trasportati dal cortile della caserma sul ciglio del fossato fuori dalle porte della città. Quattro drappelli formati da dieci sentinelle ciascuno ebbero l’ordine di sorvegliarli a turno. La mattina dopo il console russo a Tabríz andò sul posto e ordinò a un artista che l’aveva accompagnato di disegnare uno schizzo delle spoglie che giacevano accanto al fossato. L’indomani, nel cuore della notte, un seguace del Báb, Hájí Sulaymán Khán, con l’aiuto di un certo Hájí Alláh-Yár, riuscì a trasportare i corpi al setificio di un credente di Mílán e il giorno successivo li depose in una cassa di legno appositamente preparata che poi trasferì in un luogo sicuro. Nel frattempo i mullá proclamavano tronfiamente dai loro pulpiti che, mentre il santo corpo dell’Immacolato Imám sarebbe stato preservato da predatori e da ogni cosa strisciante, il corpo di quest’uomo era stato divorato da animali selvatici. Avuta la notizia del trasferimento delle spoglie del Báb e del Suo compagno di sofferenze, Bahá’u’lláh ordinò che lo stesso Sulaymán Khán li portasse a Teheran nell’Imám-Zádih-Hasan da dove furono poi spostati in differenti luoghi, finché, per istruzione di ‘Abdu’l-Bahá, furono traslati in Terra Santa e definitivamente e solennemente da Lui tumulati in un mausoleo appositamente eretto sulle falde del monte Carmelo.
12 Così si concluse una vita che, come i posteri riconosceranno, si trova alla confluenza di due cicli profetici universali, il Ciclo adamitico che risale ai primi albori della storia religiosa del mondo e il Ciclo bahá’í destinato a prolungarsi in futuri evi per un periodo non inferiore a cinquemila secoli. Come è già stato osservato, l’apoteosi nella quale questa vita giunse a compimento segna il culmine della fase più eroica dell’Età eroica della Dispensazione bahá’í. Può essere inoltre considerata il più drammatico e tragico evento del primo secolo bahá’í. In verità, può giustamente dirsi ineguagliata negli annali della vita dei Fondatori dei sistemi religiosi del mondo.
13 Un evento così grandioso difficilmente avrebbe potuto non suscitare un diffuso e profondo interesse anche oltre i confini della terra nella quale si era verificato. Uno studioso cristiano, funzionario governativo vissuto in Persia e a conoscenza della vita e degli insegnamenti del Báb, testimonia: «C’est un des plus magnifiques exemples de courage qu’il ait été donné à l’humanité de contempler, et c’est aussi une admirable preuve de l’amour que notre héros portais à ses concitoyens. Il s’est sacrifié pour l’humanité; pour elle il a donné son corps et son âme, pour elle il a subi les privations, les affronts, les injures, la torture et le martyre. Il a scellé de son sang le pacte de la fraternité universelle, et comme Jésus il a payé de sa vie l’annonce du règne de la concorde, de l’équité et de l’amour du prochain». Commentando le circostanze del martirio del Báb, lo stesso studioso dà un’ulteriore testimonianza: «Un fait étrange, unique dans les annales de l’humanité». «Un vero miracolo», è l’affermazione di un rinomato orientalista francese. «Un vero uomo-Dio», è il verdetto di un famoso viaggiatore e scrittore britannico. Un noto pubblicista francese Gli rivolge questo tributo: «Il miglior prodotto della sua terra». Il giudizio espresso da un eminente teologo inglese è: «Quel Gesù dell’èra… un profeta e più che un profeta». «Il più importante movimento religioso dopo la fondazione del Cristianesimo», era la possibilità prevista per la Fede fondata dal Báb da uno studioso ossoniano di chiara fama, il defunto rettore di Balliol.
14 «Molte persone da tutte le parti del mondo», ha affermato per iscritto ‘Abdu’l-Bahá, «partirono per la Persia e incominciarono a indagare appassionatamente sull’argomento». Un cronista contemporaneo ha scritto che lo zar di Russia, poco tempo prima del martirio del Báb, aveva perfino ordinato al console russo a Tabríz di indagare a fondo sulle vicende di un così sorprendente Movimento e di fare un rapporto, compito che non fu portato a termine a causa della fucilazione del Báb. In terre lontane come quelle dell’Europa Occidentale s’accese un interesse altrettanto profondo che ben presto si diffuse nei circoli letterari, artistici, diplomatici e intellettuali. «Tutta l’Europa», afferma il già citato pubblicista francese, «fu mossa a pietà e indignazione… Nella Parigi del 1890, fra i letterati della mia generazione, il martirio del Báb era ancora un argomento di attualità come lo era stato il primo annunzio della Sua morte. Abbiamo composto poesie su di Lui. Sarah Bernhardt pregò Catulle Mendès di scrivere un dramma sul tema di questa tragedia della storia». Una poetessa russa, membro della Società filosofica, della Società orientale e della Società bibliologica di San Pietroburgo, pubblicò nel 1903 una dramma intitolato «Il Báb», che un anno dopo fu rappresentato in uno dei principali teatri della città e poi fu pubblicizzato a Londra, tradotto in francese a Parigi e reso in tedesco dal poeta Fiedler. Subito dopo la Rivoluzione russa, fu inoltre rappresentato nel Teatro Popolare di Leningrado, riuscendo a suscitare la genuina simpatia e l’interesse del celebre Tolstoi, il cui elogio del poema fu successivamente pubblicato dalla stampa russa.
15 In realtà non sarebbe esagerato affermare che nell’intero ambito della letteratura religiosa mondiale, a parte i Vangeli, non esiste testimonianza sulla morte di nessuno dei fondatori delle religioni del passato che sia paragonabile al martirio del Profeta di Shíráz. Un avvenimento così strano e inesplicabile, attestato da testimoni oculari, confermato da persone di chiara reputazione, riconosciuto da storici ufficiali e non ufficiali fra gente che aveva giurato eterna ostilità alla Fede Bábí, può essere sicuramente considerato la più straordinaria manifestazione delle incomparabili potenzialità di cui la Dispensazione promessa da tutte le Dispensazioni del passato era stata dotata. Soltanto la passione di Gesù Cristo e, in verità, tutto il Suo ministero pubblico, somigliano alla missione e alla morte del Báb, una somiglianza che nessuno studioso di religione comparata può non vedere o ignorare. La giovinezza e la mitezza dell’Iniziatore della Dispensazione Bábí, l’estrema brevità e tumultuosità del Suo ministero pubblico, la drammatica rapidità con cui questo giunse al culmine, l’ordine apostolico che istituì e il primato che conferì a uno dei suoi membri, l’audacia della Sua sfida a convenzioni, riti e leggi consacrati dal tempo che erano stati introdotti nella struttura della religione nella quale Egli Stesso era nato, il ruolo che la gerarchia ecclesiastica ufficialmente riconosciuta e solidamente consolidata svolse come principale istigatrice degli oltraggi che Gli furono arrecati, le ingiurie di cui fu fatto bersaglio, la repentinità del Suo arresto, l’interrogatorio al quale fu sottoposto, lo scherno di cui fu oggetto e la fustigazione che Gli fu inflitta, l’affronto pubblico che subì e infine la Sua ignominiosa esposizione, legato e appeso, agli occhi di una folla ostile – in tutto questo è impossibile non ravvisare una notevole somiglianza con i caratteri salienti della missione di Gesù Cristo.
16 Merita tuttavia ricordare che, a parte il miracolo occorso durante la Sua esecuzione, Egli, a differenza dal Fondatore della religione cristiana, non va visto solo come l’Autore di una Dispensazione divinamente rivelata, ma anche come l’Araldo di una nuova Era e l’Iniziatore di un grande ciclo profetico universale. Né va trascurato l’importante fatto che, mentre gli acerrimi nemici che Gesù Cristo ebbe durante la Sua vita furono i rabbini ebrei e i loro complici, nel caso del Báb le forze schierate contro di Lui erano costituite dai poteri civili ed ecclesiastici persiani alleati i quali, dal momento della Sua Dichiarazione a quello della Sua morte, persistettero nel cospirare congiuntamente, con tutti i mezzi a loro disposizione, contro i sostenitori della Sua Rivelazione e nel diffamare i suoi principi.
17 Acclamato da Bahá’u’lláh «Essenza delle Essenza», «Mare dei Mari», «Punto attorno al Quale ruotano le realtà dei Profeti e dei Messaggeri», «dal Quale Dio ha fatto sì che procedesse la conoscenza di tutto ciò che fu e sarà», il Cui «rango eccelle su quello di tutti i Profeti», la Cui «Rivelazione trascende la comprensione e l’intelletto di tutti i loro prescelti», il Báb aveva portato il Suo Messaggio e compiuta la Sua Missione. Egli Che, nelle parole di ‘Abdu’l-Bahá, era il «Mattino di verità» e l’«Annunziatore della Più Grande Luce», il Cui avvento aveva segnato la fine del «Ciclo profetico» e l’inizio del «Ciclo dell’adempimento», aveva, con la Sua Rivelazione, fugato le ombre della notte calate sulla terra e contemporaneamente proclamato l’imminente aurora di quell’incomparabile Astro il cui splendore avrebbe avvolto l’intera umanità. Come affermava Lui Stesso, Egli era «il Punto Primo dal quale sono state generate tutte le cose create», «una delle colonne portanti della Parola primigenia» di Dio, il «Tempio mistico», il «grande Annuncio», la «Vampa di quella Luce superna che fiammeggiò sul Sinai», il «Ricordo di Dio» per il Quale è stato «stretto un Patto separato» «con tutti i Profeti». Col Suo avvento, Egli adempiva la promessa di tutte le età e, contemporaneamente, annunziava la fine di tutte le Rivelazioni. Egli, il «Qá’im» (Colui Che sorge) promesso agli sciiti, il «Mihdí» (Colui Che è guidato) atteso dai sunniti, il «ritorno di Giovanni Battista» aspettato dai cristiani, l’«Úshídar-Máh» di cui si parla nelle scritture di Zoroastro, il «ritorno di Elia» previsto dagli ebrei, Egli, la Cui Rivelazione doveva mostrare «i segni e le prove di tutti i Profeti», Che doveva mostrare «la perfezione di Mosè, lo splendore di Gesù e la pazienza di Giobbe», era venuto, aveva manifestato la Sua Causa, era stato spietatamente perseguitato ed era morto nella gloria. Il «secondo Guai» annunciato da san Giovanni presbitero nell’Apocalisse, era apparso dopo lunga attesa e il primo dei due «Messi» il cui avvento era stato profetizzato nel Corano era stato inviato. Il primo «Squillo di tromba» destinato a portare sulla terra lo sterminio annunciato in quel Libro era finalmente stato lanciato. «L’Inevitabile», «la Catastrofe», «la Resurrezione», «la scossa dell’Ora» predette nel Libro erano tutte avvenute. I «Segni chiarissimi» erano stati «fatti scendere», lo «Spirito» aveva «alitato», le «anime» erano state «suscitate a vita», il «cielo» si era «spaccato», gli «angeli» si erano disposti «ritti a schiere», le «stelle» erano state «spente», la «terra» aveva deposto «i suoi pesi morti», il «Paradiso» era stato «avvicinato», l’«Inferno» era stato «attizzato», il «Libro» era stato «spalancato», il «Ponte» era stato «gettato», la «bilancia» era stata «drizzata» e si erano sparse «via le Montagne». La «purificazione del Santuario» profetizzata da Daniele e confermata da Gesù Cristo riguardo l’«abominio della desolazione» si era compiuta. Il «giorno della lunghezza di mille dei vostri anni» annunciato dall’Apostolo di Dio nel Suo Libro si era concluso. I «quarantadue mesi» durante i quali la «Città santa», come predetto da san Giovanni presbitero, sarebbe stata calpestata, erano trascorsi. Il «tempo della fine» era appena iniziato e il primo dei «due Testimoni» nel Quale «dopo tre giorni e mezzo un soffio di vita procedente da Dio» sarebbe entrato si era alzato ed era salito «al cielo in una nube». Le «rimanenti venticinque lettere che» secondo la tradizione islamica «devono essere rivelate» delle «ventisette lettere» di cui si riteneva fosse composta la sapienza erano state rivelate. Il «figlio maschio» destinato a «governare tutte le nazioni con scettro di ferro» di cui si parla nel libro dell’Apocalisse aveva sprigionato, con il suo avvento, energie creative che, rafforzate dalle effusioni di una Rivelazione infinitamente più potente che sarebbe rapidamente succeduta, dovevano infondere nell’intera razza umana la capacità di ottenere l’unificazione organica, conseguire la maturità e quindi giungere allo stadio finale della sua lunghissima evoluzione. Lo squillante appello rivolto al «consesso di re e di figli di re» segno dell’inizio di un processo che, accelerato dai successivi moniti di Bahá’u’lláh all’intera schiera dei sovrani dell’Oriente e dell’Occidente, doveva produrre una così diffusa rivoluzione nelle sorti delle monarchie era stato lanciato nel Qayyúmu’l-Asmá’. L’«Ordine» le cui basi il Promesso doveva fondare nel Kitáb-i-Aqdas e i cui caratteri sarebbero stati delineati nel Testamento del Centro del Patto, la cui struttura amministrativa l’intero corpo dei seguaci sta ora costruendo, era stato inequivocabilmente annunciato nel Bayán persiano. Le leggi designate da un lato ad abolire di botto i privilegi e i cerimoniali, le ordinanze e le istituzioni di una Dispensazione superata e dall’altro a colmare l’abisso fra un sistema antiquato e le istituzioni dell’ordine mondiale destinato a sostituirlo erano state chiaramente formulate e proclamate. Il Patto che, malgrado i risoluti assalti scagliatigli contro, è riuscito, diversamente che per tutte le Dispensazioni del passato, a preservare l’integrità della Fede del Suo Autore e a preparare la strada all’avvento di Colui Che doveva esserne il Centro e l’Oggetto era stato fermamente e irrevocabilmente stabilito. La luce che in periodi successivi si sarebbe gradualmente propagata dal luogo della sua nascita fino a Vancouver in occidente e al mare della Cina in oriente e avrebbe diffuso il suo splendore fino all’Islanda a nord e al mare di Tasmania a sud era sorta. Le forze delle tenebre che, dapprima limitate alla concertata ostilità del potere civile ed ecclesiastico della Persia sciita, in uno stadio successivo avevano acquistato vigore per l’aperta e persistente opposizione del Califfo dell’Islam e della gerarchia sunnita in Turchia e che erano destinate a culminare nel feroce antagonismo degli ordini sacerdotali associati ad altri sistemi religiosi ancor più potenti, avevano sferrato l’attacco iniziale. Il nucleo di una Comunità mondiale divinamente ordinata, una Comunità la cui forza infante aveva già spezzato i ceppi dell’ortodossia sciita e che, aumentando i suoi aderenti, avrebbe cercato e ottenuto un più ampio e ancor più significativo riconoscimento dei suoi titoli di religione mondiale del futuro si era formato e si stava lentamente consolidando. Infine il seme dotato dalla Mano dell’Onnipotenza di così grandi potenzialità, pur duramente calpestato e apparentemente scomparso dalla faccia della terra, aveva avuto, grazie a quegli stessi avvenimenti, l’opportunità di germogliare e di ripresentarsi nella forma di una Rivelazione ancor più irresistibile, una Rivelazione destinata a sbocciare, in un periodo successivo, nelle fiorenti istituzioni di un Sistema amministrativo mondiale e a maturare, nella futura Età dell’oro, in possenti organismi che funzioneranno in sintonia con i principi di un Ordine fatto per unificare e redimere il mondo.
CAPITOLO VL’attentato alla vita dello Scià e le sue conseguenze
1 La Fede che aveva profondamente scosso un’intera nazione, per amore della quale migliaia di anime preziose ed eroiche erano state immolate, sul cui altare il Suo Autore aveva sacrificato la vita veniva ora sottoposta allo sforzo e alla tensione di un’altra crisi di estrema violenza e di conseguenze di vasta portata. Fu una di quelle periodiche crisi che, ricorrendo per tutto un secolo, riuscirono a offuscare momentaneamente lo splendore della Fede e quasi a distruggere la struttura delle sue istituzioni fondamentali. Sempre improvvise, spesso inaspettate e apparentemente fatali al suo spirito e alla sua vita, queste inevitabili manifestazioni della misteriosa evoluzione di una Religione mondiale, intensamente viva, provocatoria nelle affermazioni, rivoluzionaria nei principi, alle prese con difficoltà schiaccianti, sono state scatenate, dall’esterno, dalla malvagità di nemici dichiarati o, dall’interno, da imprudenze di amici, apostasie di sostenitori, defezioni di eminentissimi amici e parenti dei suoi fondatori. Pur sconcertanti per la gran massa dei suoi leali seguaci, pur trionfalmente strombazzati dai suoi avversari come segni del suo declino e della sua imminente fine, questi riconosciuti arretramenti e sconfitte che la Fede ha ripetutamente e tragicamente subito non sono riusciti, se ci volgiamo a esaminarli, a fermarne la marcia o a indebolirne l’unità. Pesante davvero il tributo che questi avvenimenti hanno imposto, indicibili le sofferenze che hanno causato e vasta, e per un certo tempo paralizzante, la costernazione che hanno suscitato. Eppure, visti nella giusta prospettiva, ciascuno di essi può essere fiduciosamente considerato una benedizione nascosta che forniva un mezzo provvidenziale per lo sprigionarsi di una nuova effusione di forza celeste, una miracolosa salvezza da imminenti e ancor più terribili calamità, lo strumento per la realizzazione di antiche profezie, un agente per la purificazione e il rinnovamento della vita della comunità, un impulso per l’allargamento dei suoi confini e la propagazione della sua influenza e un’incontrovertibile dimostrazione dell’indistruttibilità della sua forza di coesione. Talvolta al culmine di una crisi, più spesso quando la crisi era passata, il significato di queste prove si è manifestato agli occhi umani e la necessità di queste esperienze è stata ampiamente e inconfutabilmente dimostrata ad amici e nemici. Raramente, per non dire mai, il mistero di questi portentosi sconvolgimenti inviati da Dio è rimasto celato e lo scopo e il significato profondo del loro avvento è stato lasciato nascosto alle menti umane.
2 La Fede del Báb, ancora nei primissimi stadi della sua infanzia, stava ora incominciando a subire una di queste durissime ordalie. Diffamata e insidiata dal momento della sua nascita, sin dai primi giorni privata della forza sostenitrice della maggior parte dei suoi principali propugnatori, sbigottita dalla tragica e repentina scomparsa del suo Fondatore, vacillante per i crudeli colpi ricevuti nel Mázindarán, a Teheran, Nayríz e Zanján, questa Fede, così duramente perseguitata, doveva subire per il vergognoso gesto di un fanatico e irresponsabile Bábí una tale umiliazione quale non aveva mai conosciuta. Alle prove che aveva già sopportate si aggiungeva ora lo schiacciante peso di una nuova disgrazia, senza precedenti nella sua gravità, disonorevole e devastante per le immediate conseguenze.
3 Ossessionato dalla dolorosa tragedia del martirio del suo amato Maestro, spinto da una crisi di disperazione a vendicare quell’odiosa azione e convinto che l’autore e l’istigatore di quel crimine non potesse essere altri che lo Scià, un certo Sádiq-i-Tabrízí, commesso in una pasticceria di Teheran, assieme a un complice, un giovane altrettanto oscuro che si chiamava Fathu’lláh-i-Qúmí, un giorno d’agosto (15 agosto 1852) si recò a Níyávarán dov’era accampato l’esercito imperiale e dove si trovava il sovrano. Qui, aspettando sul ciglio della strada come un innocente passante, poco dopo che lo Scià era uscito a cavallo dal palazzo per la passeggiata mattutina, gli sparò contro una scarica di colpi di pistola. L’arma usata dall’assalitore dimostrava inconfutabilmente la follia di quel giovane mezzo demente e indicava chiaramente che nessuna persona sana di mente avrebbe potuto istigare un gesto così insensato.
4 L’intera Níyávarán, dove la corte imperiale e le truppe erano riunite, precipitò a causa di questa aggressione in un’incredibile confusione. Capeggiati da Mirza Áqá Khán-i-Núrí, l’I‘timadu’d-Dawlih, successore dell’Amír- Nizám, i ministri dello stato accorsero inorriditi accanto al sovrano ferito. Squilli di tromba, rulli di tamburo, acuti fischi di pifferi richiamavano da ogni parte i soldati di Sua Maestà Imperiale. Gli attendenti dello Scià, chi a cavallo, chi a piedi, si precipitavano attorno al palazzo. Si scatenò un pandemonio in cui tutti davano ordini, nessuno ascoltava, nessuno ubbidiva, nessuno capiva niente. Nel frattempo, Ardishír Mirza, governatore di Teheran, aveva già ordinato alle truppe di presidiare le strade deserte della capitale, aveva sbarrato le porte della fortezza della città, caricato le batterie e precipitosamente inviato un messaggero ad accertare la veridicità delle voci incontrollate che circolavano fra la popolazione e a chiedere precise istruzioni.
5 L’attentato era appena stato compiuto che le sue ombre si protesero sull’intera comunità Bábí. Un’ondata di pubblico orrore, avversione e indignazione, inaspriti dall’implacabile ostilità della madre del giovane sovrano, percorse la nazione, impedendo così anche la più elementare inchiesta sulle origini e sugli istigatori dell’attentato. Un cenno, un bisbiglio bastavano a compromettere un innocente, facendogli ricadere addosso le più abominevoli calamità. Un esercito di nemici – ecclesiastici, funzionari dello stato e popolo uniti in un odio implacabile e alla ricerca di un’occasione per screditare e annientare il temuto avversario – aveva, finalmente, trovato l’agognato pretesto. Adesso poteva mettere in atto il suo malvagio proponimento. Sebbene la Fede avesse negato fin dall’inizio qualunque intenzione di scalzare i diritti e le prerogative dello stato, sebbene i suoi esponenti e i suoi discepoli avessero scrupolosamente evitato qualunque atto potesse suscitare il minimo sospetto che essi volessero dichiarare una guerra santa o indicare un atteggiamento aggressivo, tuttavia i suoi nemici, ignorando deliberatamente le numerose prove di notevole moderazione date dai seguaci della religione perseguitata, si dimostrarono capaci d’infliggere loro barbare atrocità simili a quelle che resteranno per sempre associate ai sanguinosi episodi del Mázindarán, Nayríz e Zanján. A quali bassezze d’infamia e crudeltà sarebbe stato pronto ad arrivare lo stesso nemico, ora che era stato compiuto un atto tanto proditorio, tanto audace? Quali accuse sarebbe stato spinto a muovere e quale trattamento avrebbe voluto riservare a coloro che potevano essere sia pur ingiustamente considerati complici di un delitto così odioso contro colui che assommava nella propria persona la massima magistratura del regno e la carica di fiduciario dell’Imám nascosto?
6 Il regno del terrore che seguì fu indescrivibilmente raccapricciante. Il desiderio di vendetta che animava coloro che avevano scatenato quegli orrori sembrava insaziabile. Ne risonarono gli echi perfino nella lontana stampa europea, che tacciò d’infamia i suoi sanguinari protagonisti. Desideroso di ridurre le occasioni di vendette di sangue, il Gran Visir suddivise il compito di giustiziare i condannati a morte fra i principi e i nobili, i principali ministri, i generali e gli ufficiali di Corte, i rappresentanti della classe sacerdotale e mercantile, l’artiglieria e la fanteria. Perfino allo Scià fu assegnata una vittima, ma per salvaguardare la dignità della corona egli delegò il maestro di palazzo perché sparasse il colpo fatale in sua vece. Da parte sua, Ardishír Mirza mise picchetti di guardia alle porte della capitale e ordinò alle sentinelle di osservare attentamente il volto di chiunque cercasse di lasciare la città. Chiamò a rapporto il kalántar, il dárúghih e i kad-khudá e intimò loro di scovare e arrestare chiunque fosse sospettato d’essere Bábí. Un giovane chiamato ‘Abbás, che aveva servito un noto seguace della Fede, fu costretto sotto la minaccia di torture disumane a camminare per le strade di Teheran indicando tutti i Bábí che riconosceva. Fu anche obbligato a denunciare qualunque individuo a suo giudizio avrebbe voluto e potuto pagare un’ingente somma per assicurarsi la libertà.
7 La prima vittima in quel giorno di sventura fu lo sciagurato Sádiq, immediatamente trucidato sul luogo del tentato crimine. Il suo corpo fu legato alla coda d’un mulo e trascinato per tutta la strada fino a Teheran, dove venne squartato e le due metà furono appese ed esposte alla pubblica vista, mentre le autorità cittadine invitavano gli abitanti a salire sui bastioni per vedere il corpo mutilato. Il suo complice, prima, fu torturato con tenaglie arroventate e messo alla ruota, poi gli fu versato piombo fuso nella gola. Hájí Qásim, un suo compagno, fu denudato e in ferite apertegli nelle carni furono introdotte candele accese e così fu fatto passare davanti a una folla che schiamazzava e lo insultava. Altri ebbero cavati gli occhi, furono segati in due, strangolati, sparati da una bocca di cannone, fatti a pezzi, squartati con asce e mazze, ferrati con ferri di cavallo, infilzati con baionette e lapidati. Gli aguzzini gareggiavano nel percorrere l’intera gamma della ferocia, mentre la popolazione, nelle cui mani i corpi delle sventurate vittime erano consegnati, s’accaniva sulle prede e le mutilava in modo tale da non lasciar traccia delle forme originarie. I boia, pur assuefatti ai loro macabri compiti, si meravigliavano per la diabolica crudeltà della gente. Si videro donne e fanciulle condotte per le strade dai carnefici, le carni a brandelli, candele accese nelle ferite, cantare con voce squillante di fronte agli spettatori ammutoliti: «In verità, veniamo da Dio e a Lui ritorniamo!». Quando un bambino moriva per la strada, gli aguzzini ne gettavano il corpo sotto i piedi del padre e delle sorelle che lo calpestavano con fierezza senza neppure degnarsi di girarsi a guardarlo. Secondo la testimonianza di un famoso scrittore francese, un padre, piuttosto che abiurare, preferì permettere che tagliassero la gola sul suo petto, mentre egli giaceva per terra, ai due figli giovinetti, già coperti di sangue, mentre il maggiore dei due, un ragazzo di quattordici anni, sostenendo energicamente il suo diritto d’anzianità, chiese d’essere il primo a morire.
8 Una fonte attendibile afferma che un ufficiale austriaco, il capitano Von Goumoens, a quel tempo al servizio dello Scià, fu tanto inorridito dalle crudeltà alle quali era stato costretto ad assistere che si dimise. In una lettera scritta due settimane dopo l’attentato in questione, che fu pubblicata nel «Soldatenfreund», il capitano testimonia: «Ora seguimi, amico mio, tu che affermi d’avere un cuore e un’etica europea, seguimi presso quegli sventurati che, con gli occhi strappati, devono mangiare, sul luogo del delitto, e senza alcuna salsa, le loro stesse orecchie amputate; ai quali sono strappati i denti con inumana violenza per mano del carnefice; o i cui crani nudi sono letteralmente schiacciati a colpi di martello; o là dove il bazar è illuminato da vittime infelici, perché a destra e a manca la gente scava profondi buchi nel loro petto e nelle loro spalle e introduce nelle ferite stoppini accesi. Ho visto alcuni trascinati in catene per il bazar, preceduti da una banda militare, i cui stoppini si erano bruciati così profondamente che il grasso friggeva convulsamente nella ferita come in una lampada appena spenta. Non di rado succede che l’instancabile ingegnosità degli orientali conduca a nuove torture. Hanno scorticato ai Bábí la pianta dei piedi, immerso le ferite in olio bollente, ferrato i piedi come zoccoli di cavallo e costretto la vittima a correre. La vittima non si lascia sfuggire un grido; il fanatico sopporta il tormento in un tetro silenzio coi sensi obnubilati; ora deve correre; il corpo non può sopportare quello che l’anima ha sopportato; egli cade. Dagli il colpo di grazia! Liberalo dal suo dolore! No! Il carnefice fa sibilare la frusta, e – l’ho visto con i miei occhi – la vittima infelice di cento torture corre! Questo è l’inizio della fine. In quanto alla fine, appendono i corpi bruciacchiati e crivellati, per le mani e i piedi a un albero, a testa in giù, e ogni Persiano può provare a sazietà la propria abilità nel tiro da una distanza fissa, ma non troppo breve, sulla nobile preda posta a sua disposizione. Ho visto cadaveri colpiti quasi da centocinquanta colpi». «Rileggendo ciò che ho scritto», prosegue, «sono colto dal pensiero che coloro che sono con te nella nostra amata Austria possano dubitare sulla piena verità del quadro, e mi accusino di esagerazione. Volesse Iddio che non fossi vissuto abbastanza per vederlo! Ma per i doveri della mia professione sono stato spesso, troppo spesso, testimone di queste abominazioni. Attualmente non esco mai di casa, per non imbattermi in nuove scene di orrore… Tutta la mia anima si rivolta contro una tale infamia… e perciò non manterrò più rapporti con il teatro di tali crimini». Non fa quindi meraviglia che un uomo famoso come Renan abbia definito nel suo «Les Apôtres» la spaventosa strage perpetrata in un unico giorno durante il grande massacro di Teheran, «un giorno forse senza eguali nella storia del mondo!».
9 La mano che si era alzata per infliggere un colpo così duro agli aderenti di una Fede così dolorosamente provata non si limitò a colpire la gente qualunque fra i perseguitati seguaci del Báb. Si levò con altrettanta furia e decisione e colpì con pari forza i pochi capi rimasti, sopravvissuti ai colpi dei venti discriminatori delle avversità che avevano già abbattuto un sì gran numero di sostenitori della Fede. Táhirih, l’immortale eroina che aveva dato lustro imperituro al proprio sesso e alla Causa che aveva abbracciata, fu trascinata nella violenta bufera che infine la travolse. Anche Siyyid Husayn, l’amanuense del Báb, Suo compagno d’esilio, fidato depositario delle Sue ultime volontà e testimone dei prodigi accaduti durante il Suo martirio, cadde vittima della sua furia. Quella mano ebbe anche la temerarietà di alzarsi contro la torreggiante figura di Bahá’u’lláh. Ma benché si fosse impadronita di Lui, non riuscì ad abbatterLo. Ne mise in pericolo la vita, impresse sul Suo corpo indelebili segni di una spietata crudeltà, ma non ebbe la forza di stroncare quella carriera destinata non solo a mantenere vivo il fuoco che lo Spirito del Báb aveva acceso, ma a produrre una conflagrazione che avrebbe coronato ed eclissato le glorie della Sua Rivelazione.
10 Durante quei tetri e tormentosi giorni in cui il Báb non era più, in cui le stelle che avevano brillato nel firmamento della Sua Fede erano state spente l’una dopo l’altra, in cui il Suo incaricato, «disorientato fuggiasco, travestito da derviscio, con il kashkúl (cestello per le elemosine) in mano», vagava per montagne e pianure nei dintorni di Rasht, Bahá’u’lláh, per le azioni che aveva compiuto, sembrò agli occhi di un vigile nemico l’avversario più potente e l’unica speranza di un’eresia non ancora estirpata. La Sua cattura e la Sua morte erano ora divenute imperative. Egli era Colui Che, appena tre mesi dopo la nascita della Fede, aveva ricevuto dall’inviato del Báb, Mullá Husayn, la pergamena che Gli portava le prime notizie di una Rivelazione recentemente annunciata e Che ne aveva istantaneamente acclamato la verità sorgendo a difenderne la Causa. Fu verso la Sua città natale e il luogo dove Egli viveva che s’incamminò quell’inviato, un luogo in cui era custodito «un Mistero di così trascendente santità che né lo Hijáz né Shíráz possono sperare di rivaleggiare». Era stato il rapporto di Mullá Husayn sul contatto così stabilito che il Báb aveva ricevuto con tale esultante gioia e che Gli aveva tanto rassicurato il cuore da convincerLo a intraprendere finalmente il previsto pellegrinaggio alla Mecca e a Medina. Solo Bahá’u’lláh era oggetto e centro delle enigmatiche allusioni, degli appassionati elogi, delle fervide preghiere, dei gioiosi annunci e dei terribili ammonimenti contenuti nel Qayyúmu’l-Asmá’ e nel Bayán, designati a essere rispettivamente la prima e l’ultima testimonianza scritta della gloria di cui Dio L’avrebbe ben presto investito. Fu Lui Che, con la Sua corrispondenza con l’Autore della Fede appena fondata e per la Sua intimità con Vahíd, Hujjat, Quddús, Mullá Husayn e Táhirih, i più illustri fra i suoi discepoli, poté incoraggiare la crescita di quella Fede, spiegarne i principi, rafforzarne i fondamenti etici, soddisfarne le più urgenti necessità, allontanare alcuni dei più immediati pericoli che la minacciavano e contribuire efficacemente alla sua crescita e al suo consolidamento. A Lui, «l’Unico Oggetto della nostra adorazione e del nostro amore», il Profeta pellegrino Si riferiva, quando, ritornato a Búshihr, nel congedare Quddús gli annunziò che avrebbe avuta la duplice gioia di giungere alla presenza del loro Amato e di vuotare la coppa del martirio. E fu ancora Lui Che, nel fiore degli anni, mettendo da parte ogni considerazione di fama terrena, salute e posizione sociale, incurante del pericolo e accettando il rischio d’essere condannato dalla Sua casta sorse, prima a Teheran e poi nella natia provincia del Mázindarán, a dare il proprio incondizionato sostegno alla causa di una sètta oscura e proscritta, conquistò l’appoggio di molti funzionari e notabili di Núr, compresi amici e parenti, spiegò con coraggio e persuasione le verità della nuova Fede ai discepoli dell’illustre mujtahid, Mullá Muhammad, arruolò sotto le sue insegne i rappresentanti nominati dal mujtahid, Si assicurò, di conseguenza, l’assoluta fedeltà di un considerevole numero di dignitari ecclesiastici, funzionari governativi, contadini e commercianti e, in un memorabile incontro, riuscì a sfidare lo stesso mujtahid. Fu solo grazie alla potenza del messaggio scritto da Lui affidato a Mullá Muhammad Mihdíy-i-Kandí e consegnato al Báb nelle vicinanze del villaggio di Kulayn, che l’anima del deluso Prigioniero, in quell’ora d’incertezza e indecisione, poté liberarsi dall’angoscia che l’aveva colta sin dall’arresto a Shíráz. Fu Lui Che per amore di Táhirih e dei suoi compagni imprigionati sopportò di buon grado un primo umiliante confino di diversi giorni in casa di un kad-khudá di Teheran. Fu alla Sua cautela, preveggenza e abilità che si devono attribuire la fuga di Táhirih da Qazvín, la sua liberazione dai suoi avversari, il suo arrivo, sana e salva, nella casa di Lui e il suo successivo trasferimento in un luogo sicuro nei pressi della capitale da dove proseguì per il Khurásán. Fu alla Sua presenza che Mullá Husayn fu segretamente introdotto quando giunse a Teheran, recandosi dopo quel colloquio nell’Azerbaigian per visitare il Báb confinato nella Fortezza di Máh-Kú. Fu Lui Che con discrezione e sicurezza diresse i lavori della Conferenza di Badasht e ospitò Quddús, Táhirih e gli ottantun discepoli riuniti per l’occasione, Che rivelò una Tavola al giorno e impose a ciascuno dei partecipanti un nuovo nome, Che a Níyálá affrontò da solo l’assalto d’una folla di oltre cinquecento persone, Che difese Quddús dalla furia dei suoi aggressori, Che riuscì a recuperare una parte delle proprietà saccheggiate dal nemico e Che assicurò protezione e salvezza a Táhirih continuamente bersagliata e offesa. Contro di Lui s’accese l’ira di Muhammad Sháh il quale fu alla fine indotto dalle continue calunnie dei seminatori di discordia a ordinare il Suo arresto e a convocarLo nella capitale, una convocazione che non ebbe esito per l’improvvisa morte del sovrano. Ai Suoi consigli e alle Sue esortazioni agli occupanti di Shaykh Tabarsí, che L’avevano accolto con tanto rispetto e simpatia durante la Sua visita al Forte, va attribuito in larga misura lo spirito dimostrato dagli eroici difensori e alle Sue esplicite istruzioni si dovettero la miracolosa liberazione di Quddús e la sua conseguente associazione a loro nelle entusiasmanti imprese che immortalarono la sollevazione del Mázindarán. Fu per amore di quei difensori ai quali intendeva unirSi che Egli subì la seconda carcerazione, questa volta nella moschea di Ámul dove fu condotto fra il tumulto prodotto da oltre quattromila spettatori, per amor loro fu fustigato a sangue sulla pianta dei piedi nel namáz-khánih del mujtahid della città e poi confinato nella residenza privata del Governatore. Sempre per amor loro fu duramente accusato dai principali mullá e insultato dalla folla tumultuante che, circondata la residenza del Governatore, Gli lanciò pietre e Gli urlò in faccia i più sconci insulti. Egli solo era Colui Cui Quddús alludeva quando, giunto nel Forte di Shaykh Tabarsí, appena smontato da cavallo pronunciò appoggiandosi alla tomba il profetico versetto: «Meglio per voi sarà il Baqíyyatu’lláh (il Vestigio di Dio) se siete credenti». Egli solo era l’Oggetto di quel prodigioso elogio, la magistrale interpretazione del Sád di Samad, lunga sei volte il Corano, che il giovane eroe scrisse in parte nel Forte, nelle più drammatiche circostanze. Alla data della Sua imminente Rivelazione, alludeva velatamente la Lawh-i-Hurúfat, rivelata dal Báb a Chihríq in onore di Dayyán, che svelava il mistero del «Mustagháth». Al conseguimento della Sua presenza l’attenzione di un altro discepolo, Mullá Báqir, Lettera del Vivente, fu espressamente diretta niente meno che dal Báb. Fu esclusivamente alla Sua cura che i documenti del Báb, il portapenne, i sigilli, gli anelli d’agata e un rotolo di pergamena su cui il Báb aveva scritto oltre trecentosessanta derivazioni della parola Bahá in forma di stella a cinque punte furono affidati, secondo le istruzioni che Egli Stesso aveva dato prima di partire da Chihríq. Fu solo per Sua iniziativa e secondo le Sue istruzioni che le preziose spoglie del Báb furono portate al sicuro da Tabríz alla capitale e nascoste e custodite con massima segretezza e cura per tutti i turbolenti anni che seguirono il Suo martirio. E infine, fu Lui Che, nei giorni precedenti l’attentato alla vita dello Scià, mentre soggiornava a Karbilá, Si era adoperato a diffondere gli insegnamenti del defunto Maestro, a proteggere gli interessi della Sua Fede, a rinvigorire lo zelo dei Suoi seguaci affranti dal dolore e a organizzare le forze dei Suoi dispersi e confusi aderenti, con lo stesso entusiasmo e la stessa abilità che avevano distinto i Suoi primi tentativi nel Mázindarán.
11 Un uomo simile, con tante imprese a Suo credito, non poteva sfuggire e non sfuggì alle ricerche e alla furia di un nemico vigile e ben desto. Fin dall’inizio infiammato d’incontenibile entusiasmo per la Causa che aveva abbracciato, palesemente intrepido nella difesa dei diritti degli oppressi, nel pieno fiore della giovinezza, estremamente abile, impareggiabilmente eloquente, dotato d’inestinguibile energia e giudizio penetrante, in possesso delle ricchezze e circondato dalla stima, dal potere e dal prestigio associati a una posizione invidiabilmente elevata e nobile e tuttavia sprezzante di ogni pompa, remunerazione, vanità e possedimenti terreni, da un lato strettamente legato attraverso una regolare corrispondenza all’Autore della Fede che Si era levato a difendere e, dall’altro, perfettamente informato delle speranze e dei timori, dei progetti e delle attività dei suoi più importanti rappresentanti, talvolta apertamente esposto e schierato nella posizione di guida riconosciuta in prima linea fra le forze che combattevano per la sua emancipazione, talaltra deliberatamente appartato con perfetta discrezione per rimediare con maggiore efficacia a una situazione difficile e pericolosa, sempre vigile, pronto e infaticabile nei Suoi sforzi per preservare l’integrità di quella Fede, risolverne i problemi, perorarne la causa, entusiasmarne i seguaci e confonderne i nemici, Bahá’u’lláh, in quest’ora supremamente critica per la Sua sorte, stava finalmente avanzando verso il centro della scena lasciata così tragicamente vuota dal Báb, una scena sulla quale Egli era destinato ad assumere, per quasi quarant’anni, un ruolo ineguagliato per maestà, pathos e splendore dai grandi Fondatori delle religioni storiche del mondo.
12 Una personalità così cospicua e superiore aveva già, per le accuse che Gli si muovevano contro, acceso l’ira di Muhammad Sháh, il quale, dopo aver sentito quanto era accaduto a Badasht, aveva ordinato il Suo arresto e manifestato la decisione di condannarLo a morte in una serie di farmán indirizzati ai khán del Mázindarán. Hájí Mirza Áqásí, che si era già allontanato dal Visir (il padre di Bahá’u’lláh) e si era infuriato per non essere riuscito a impadronirsi con la frode di una tenuta che apparteneva a Bahá’u’lláh, aveva giurato eterna inimicizia a Colui Che era riuscito così brillantemente a frustrare i suoi malvagi disegni. Inoltre, l’Amír-Nizám, perfettamente consapevole della penetrante influenza di un avversario così energico, durante un’importante riunione Lo aveva accusato d’aver inflitto al governo, con le Sue attività, una perdita di almeno cinque kurúr e Gli aveva esplicitamente chiesto, in un momento critico per le sorti della Fede, di trasferire temporaneamente la Sua residenza a Karbilá. Mirza Áqá Khán-i-Núrí succeduto all’Amír-Nizám, all’inizio del suo ministero aveva cercato di ottenere una riconciliazione fra il governo e Colui Che considerava il più abile discepolo del Báb. Non sorprende quindi che, quando più tardi fu compiuto un atto così grave e temerario, un sospetto tanto terribile quanto infondato contro Bahá’u’lláh si fosse subito insinuato nella mente dello Scià, del governo, della corte e della popolazione. Fra costoro la persona più eminente era la madre del giovane sovrano che, infiammata d’ira, Lo accusava apertamente di essere il presunto assassino del figlio.
13 Quando era stato compiuto l’attentato alla vita dello Scià, Bahá’u’lláh era a Lavásán ospite del Gran Visir e Si trovava nel villaggio di Afchih quando la grave notizia Lo raggiunse. RifiutandoSi di seguire il consiglio di restare per qualche tempo nascosto nelle vicinanze datoGli dal fratello del Gran Visir, Ja‘far-Qulí Khán, che Lo ospitava, e rinunciando ai buoni uffici del messo espressamente mandatoGli per assicurarGli la salvezza, il mattino dopo, con freddo ardimento, Si recò a cavallo nel quartier generale dell’esercito imperiale che allora era di stanza a Níyávarán nel distretto di Shimírán. Nel villaggio di Zarkandih Suo cognato, Mirza Majíd, che era allora segretario del ministro russo, il principe Dolgorouki, e occupava un’abitazione attigua a quella del suo superiore, Gli venne incontro e Lo portò a casa sua. I servitori dell’Hájibu’d-Dawlih, Hájí ‘Alí Khán, appresa la notizia dell’arrivo di Bahá’u’lláh, ne informarono immediatamente il loro signore, il quale, a sua volta, ne parlò al sovrano. Lo Scià, molto sorpreso, mandò alla Legazione ufficiali fidati, a chiedere che gli consegnassero immediatamente l’Accusato. Il Ministro russo si rifiutò di aderire alla richiesta dei messi reali e chiese a Bahá’u’lláh di trasferirSi nell’abitazione del Gran Visir al quale comunicò formalmente il suo desiderio che fosse assicurata la salvezza del Pegno che il governo russo affidava alla sua custodia. Ma la cosa non fu fatta, perché il Gran Visir temeva che proteggendo l’Accusato come gli era stato chiesto, avrebbe potuto perdere la sua posizione.
14 Consegnato nelle mani dei nemici, a questo temutissimo, duramente accusato, illustre Esponente d’una Fede perennemente perseguitata fu fatta ora assaggiare la stessa coppa che Colui Che era stato il Suo Capo riconosciuto aveva bevuto fino all’ultima goccia. Da Níyávarán fu condotto al Síyáh-Chál di Teheran, «incatenato… a piedi nudi e a capo scoperto», esposto agli implacabili raggi d’un sole di mezz’estate. Lungo la strada, più volte Gli fu strappato di dosso il soprabito, fu sbeffeggiato e preso a colpi di pietra. Quanto alla segreta nella quale fu gettato, che originariamente era servita da cisterna per uno dei bagni pubblici della capitale, lasciamo che le Sue stesse parole registrate nella Sua «Epistola al Figlio del Lupo» diano testimonianza dell’ordalia che Egli sopportò in quella pestilenziale buca: «Per quattro mesi fummo posti in un luogo di cui non s’è mai visto l’uguale… Quando entrammo nell’edificio delle prigioni, fummo condotti attraverso un corridoio buio come pece e discendemmo tre fughe di ripide scale, giungendo alla prigione sotterranea che Ci era stata destinata. Il luogo era tenebroso e gli occupanti erano circa centocinquanta: ladri, assassini e briganti. Sebbene fosse gremito, non aveva altra apertura all’infuori del passaggio attraverso il quale eravamo entrati. La penna è impotente a descrivere un simile luogo ed il suo putrido lezzo. La maggior parte di questi uomini non aveva abiti né giacigli per sdraiarsi. Dio solo sa quel che soffrimmo in quel tetro e ripugnante luogo!». Gli misero i ceppi ai piedi e, attorno al collo, le catene Qará-Guhar, così pesanti che ne portò i segni sul corpo per tutta la vita. «Gli fu passata attorno al collo una pesante catena», ha testimoniato ‘Abdu’l-Bahá, «con la quale fu legato ad altri cinque seguaci del Báb e questi ceppi furono serrati con bulloni e dadi, forti e pesantissimi. I Suoi vestiti furono fatti a brandelli, e così pure il Suo copricapo. In questa terribile condizione fu tenuto per quattro mesi». Per tre giorni e tre notti Gli fu negato ogni genere di cibo e di bevanda. Gli era impossibile dormire. Il luogo era freddo e umido, sporco, infetto, infestato da parassiti e pervaso da un disgustoso fetore. Spinti da un odio implacabile i Suoi nemici arrivarono perfino al punto d’intercettare e avvelenare il Suo cibo, sperando così d’ottenere il favore della madre del re, la Sua più implacabile nemica. Ma il tentativo fallì, anche se Gli indebolì la salute per anni. «‘Abdu’l-Bahá», scrive nel suo libro J. E. Esslemont, «narra come un giorno Gli fosse stato permesso d’entrare nel cortile della prigione per vedere l’amato Genitore quando usciva a prender aria. Bahá’u’lláh era terribilmente mutato e talmente malandato che non poteva camminare. I capelli e la barba erano incolti, il collo piagato e gonfio per la pressione di un pesante collare d’acciaio, il corpo curvo sotto il peso delle catene».
15 Mentre Bahá’u’lláh era così odiosamente e crudelmente sottoposto alle prove e alle tribolazioni inseparabili da quei giorni tumultuosi, un altro luminare della Fede, la valorosa Táhirih, rapidamente soccombeva al loro devastante potere. La sua folgorante carriera, iniziata a Karbilá, culminata a Badasht, stava adesso per concludersi con un martirio che può giustamente figurare fra gli episodi più commoventi del più turbolento periodo della storia bahá’í.
16 Discendente della stimatissima famiglia di Hájí Mullá Sálih-i-Baraqání, i cui membri occupavano una posizione invidiabile nella gerarchia ecclesiastica persiana, omonima dell’illustre Fátimih, chiamata dalla famiglia e dai parenti Zarrín-Táj (Corona d’oro) e Zakíyyih (Virtuosa), nata lo stesso anno in cui era nato Bahá’u’lláh, fin dall’infanzia considerata dai suoi concittadini un prodigio d’intelligenza e di bellezza, stimata prima della conversione per la genialità e la novità delle idee che esponeva perfino dai più orgogliosi e dotti ‘ulamá del paese, acclamata Qurrat-i-‘Ayní (consolazione dei miei occhi) da Siyyid Kázim, suo ammirato maestro, soprannominata Táhirih (la Pura) dalla «Lingua della Potenza e della Gloria», la sola donna arruolata dal Báb fra le Lettere del Vivente, in un sogno già menzionato in queste pagine, aveva preso i primi contatti con una Fede che continuò a propagare fino all’ultimo respiro e nell’ora del massimo pericolo con tutto l’ardore del suo indomabile spirito. Imperturbata davanti alle veementi proteste del padre, sprezzante degli anatemi dello zio, irremovibile di fronte alle pressanti sollecitazioni del marito e dei fratelli, imperterrita nonostante le misure che, prima a Karbilá, poi a Baghdad e più tardi a Qazvín, le autorità civili ed ecclesiastiche avevano preso per interrompere la sua attività, sostenne la Causa Bábí con grande energia. Con eloquenti perorazioni e coraggiose denuncie, con dissertazioni, poesie e traduzioni, con commentari e corrispondenze continuò ad accendere l’immaginazione di Arabi e Persiani e a guadagnarne l’obbedienza alla nuova Rivelazione, a condannare la perversità della sua generazione e a perorare una rivoluzionaria trasformazione delle abitudini e del comportamento del suo popolo.
17 Fu lei che, mentre era a Karbilá, la principale roccaforte dell’Islam sciita, aveva indirizzato lunghe lettere agli ‘ulamá che vivevano nella città, i quali relegavano le donne a un rango appena di poco superiore a quello degli animali, negando perfino che avessero un’anima, lettere nelle quali rivendicava abilmente il suo alto intendimento e denunciava i loro malevoli disegni. Fu lei che, sfidando apertamente le abitudini dei fanatici abitanti della stessa città, trascurò audacemente l’anniversario del martirio dell’Imám Husayn, commemorato con complicate cerimonie nei primi giorni di muharram, celebrando invece l’anniversario della nascita del Báb che cadeva il primo giorno dello stesso mese. Fu grazie alla prodigiosa eloquenza e alla stupefacente forza delle sue argomentazioni che riuscì a confondere la delegazione di rappresentanti dei notabili sciiti, sunniti, cristiani ed ebrei di Baghdad che avevano tentato di dissuaderla dal suo dichiarato proposito di diffondere la notizia del nuovo Messaggio. Fu lei che, con consumata abilità, difese la propria fede e giustificò la propria condotta nella casa e alla presenza dell’eminente giurista Shaykh Mahmúd-i-Álúsí, muftí di Baghdad, e in seguito tenne gli storici incontri con principi, ‘ulamá e funzionari governativi residenti a Kirmánsháh, durante i quali fu pubblicamente letto e tradotto il commento del Báb alla sura del Kawthar, incontri che culminarono con la conversione dell’Amír (il Governatore) e della sua famiglia. Fu questa donna particolarmente dotata che intraprese, a beneficio dei suoi correligionari persiani, la traduzione del lungo commentario del Báb alla sura di Giuseppe (il Qayyúmu’l-Asmá’) e si prodigò per diffondere la conoscenza di quell’importante Libro e per spiegarne il contenuto. Furono il suo coraggio, il suo acume, la sua abilità organizzativa e il suo inestinguibile entusiasmo che consolidarono le vittorie recentemente conseguite in un centro così ostile come Qazvín che si vantava d’ospitare fra le sue mura almeno un centinaio dei più eminenti capi religiosi dell’Islam. Fu lei che in casa di Bahá’u’lláh a Teheran, durante una memorabile conversazione con l’illustre Vahíd, interruppe bruscamente il dotto discorso di lui sui segni della nuova Manifestazione e, tenendo sulle ginocchia ‘Abdu’l-Bahá ancor bambino, lo sollecitò con veemenza a levarsi e a dimostrare con atti di eroismo e abnegazione la profondità e la sincerità della sua fede. Fu alle sue porte che, all’apice della sua fama e popolarità a Teheran, affluì il fior fiore della società femminile della capitale per ascoltare i suoi brillanti discorsi sulle incomparabili dottrine della sua Fede. Fu l’incanto delle sue parole che distolse dai festeggiamenti gli ospiti riuniti per il matrimonio del figlio di Mahmúd Khán-i-Kalántar, nella cui casa era agli arresti domiciliari, raccogliendoli attorno a sé, ansiosi di bere ogni sua parola. Fu la sua appassionata e incondizionata asserzione delle affermazioni e delle caratteristiche peculiari della nuova Rivelazione durante sette convegni che ella ebbe, mentre era confinata nella stessa casa, con i rappresentanti del Gran Visir incaricati d’interrogarla che alla fine portò alla sua condanna a morte. Fu dalla sua penna che fluirono odi che attestavano con inequivocabile linguaggio non solo la sua fede nella Rivelazione del Báb, ma anche il suo riconoscimento dell’eccelsa, anche se ancor nascosta, missione di Bahá’u’lláh. E infine, ma non meno importante, fu per una sua iniziativa durante la Conferenza di Badasht, che furono svelate ai suoi condiscepoli le più scottanti implicazioni di una Dispensazione rivoluzionaria e ancora imperfettamente compresa e che il nuovo Ordine si distaccò definitivamente dalle leggi e dalle istituzioni dell’Islam. Queste meravigliose imprese stavano ora per essere coronate e raggiungere il completamento finale nel suo martirio durante la tempesta che infuriava nella capitale.
18 Una notte, consapevole che l’ora della morte era imminente, indossò un abito da sposa, si cosparse di profumo e, mandata a chiamare la moglie del Kalántar, le comunicò il segreto dell’imminente martirio e le confidò le sue ultime volontà. Poi, chiusasi nella sua camera, attese in preghiera e meditazione l’ora del ricongiungimento con l’Amato. Camminava avanti e indietro nella sua stanza cantando una litania esprimente dolore e trionfo, quando, nel cuore della notte, giunsero i farrásh di ‘Azíz-Khán-i-Sardár per condurla al giardino di Ílkhání, che si trovava fuori dalle porte della città e che doveva essere il luogo del suo martirio. Quando ella arrivò, il Sardár, che nel pieno d’una avvinazzata baldoria con i suoi luogotenenti rideva sgangheratamente, ordinò sbrigativamente che fosse strangolata all’istante e gettata in un pozzo. Le fu data la morte con un fazzoletto di seta che l’immortale eroina aveva intuitivamente riservato allo scopo e che negli ultimi momenti aveva consegnato al figlio del Kalántar che l’accompagnava. Il suo corpo fu calato in un pozzo che venne poi riempito di terra e pietre, come ella stessa aveva voluto.
19 Così finì la vita di questa grande eroina Bábí, la prima martire del suffragio femminile, che nel momento di morire, girandosi verso uno di coloro alla cui custodia era stata affidata aveva coraggiosamente dichiarato: «Potete anche uccidermi, se volete, ma non fermerete l’emancipazione della donna». La sua vicenda fu abbagliante quanto breve, tragica quanto densa di eventi. Diversamente dai suoi condiscepoli le cui imprese rimasero perlopiù sconosciute e non furono cantate dai contemporanei in terre straniere, la fama di questa donna immortale ebbe risonanza all’estero e giunse con sorprendente rapidità fino alle lontane capitali dell’Europa Occidentale, suscitando l’entusiastica ammirazione e il fervido elogio di uomini e donne di nazionalità, professioni e culture diverse. Nessuna meraviglia, quindi, che ‘Abdu’l-Bahá abbia accompagnato il suo nome a quelli di Sara, Ásíyyih, Maria Vergine e Fátimih, che nel corso delle diverse Dispensazioni sono emerse fra le schiere del loro sesso per meriti intrinseci e per la posizione incomparabile. ‘Abdu’l-Bahá ha anche detto: «Per l’eloquenza era la calamità dell’epoca e per il raziocinio, il travaglio del mondo». L’ha descritta inoltre come «spada fiammeggiante d’amor di Dio» e «lampada ardente della Sua elargizione».
20 In verità, la meravigliosa storia della sua vita si propagò tanto lontano e tanto rapidamente quanto quella del Báb, diretta Fonte della sua ispirazione. «Prodige de science, mais aussi prodige de beauté», è l’elogio che le fece un noto commentatore della vita del Báb e dei Suoi discepoli. «Giovanna d’Arco persiana, capo dell’emancipazione femminile in Oriente… simile alla medievale Eloisa e alla neoplatonica Ipazia», così fu acclamata da un noto commediografo cui Sarah Bernhardt aveva espressamente chiesto di scrivere un dramma sulla sua vita. E Lord Curzon di Kedleston attesta: «L’eroismo dell’amabile e sfortunata poetessa di Qazvín, Zarrín-Táj (Corona d’oro)… è uno degli episodi più toccanti della storia moderna». «L’apparizione di una donna come Qurratu’l-‘Ayn», scrisse il notissimo orientalista britannico professor E. G. Browne, «è in qualsiasi paese e in qualsiasi epoca un avvenimento raro, ma in un paese come la Persia è un prodigio, anzi, quasi un miracolo… Se la Fede Bábí non avesse altra prova della propria grandezza, questo sarebbe sufficiente… che produsse un’eroina quale Qurratu’l-‘Ayn». In uno dei suoi libri il rinomato teologo inglese dottor T. K. Cheyne afferma significativamente: «La messe seminata da Qurratu’l-‘Ayn nei paesi islamici sta incominciando ora ad apparire… questa nobile donna… ha il merito d’aver dato inizio alla serie delle riforme sociali in Persia». «Certamente… una delle espressioni più commoventi e interessanti di questa religione», dice di lei il conte di Gobineau, noto diplomatico e brillante scrittore francese. «A Qazvín», aggiunge, «ella passava, a buon diritto, per un prodigio». E inoltre: «Molti che l’avevano conosciuta e ascoltata in diversi momenti della sua vita, mi hanno sempre fatto osservare… che… quando parlava, ci si sentiva rimescolare fino al fondo dell’anima, penetrare d’ammirazione e le lagrime colavano dagli occhi». «Nessun ricordo», scrive Sir Valentine Chirol, «è più profondamente venerato o suscita maggior entusiasmo del suo e il prestigio di cui godette mentre era ancora in vita continua ancora ad agire sul suo sesso». «O Táhirih!», esclama nel suo libro sui Bábí il grande autore e poeta turco Sulaymán Názim Bey, «Vali mille Násiri’d-Dín Sháh!». «Il massimo ideale di femminilità», è il riconoscimento tributatole dalla madre di uno dei Presidenti austriaci, la signora Marianna Hainisch, «è stata Tárihih… cercherò di fare per le donne d’Austria ciò che Táhirih fece dando la vita per le donne di Persia».
21 Molti e diversi sono i suoi ardenti ammiratori che, nei cinque continenti, desiderano sapere altro ancora di lei. Molti sono coloro la cui condotta è stata nobilitata dal suo esempio ispiratore, che hanno studiato a memoria le sue incomparabili odi, o musicato i suoi poemi, dinanzi ai cui occhi risplende la visione del suo spirito indomabile, nel cui cuore sono gelosamente custoditi un amore e un’ammirazione che il tempo non potrà mai oscurare e nella cui anima arde la determinazione di percorrere con altrettanto coraggio e con la stessa lealtà la strada ch’ella scelse e dalla quale non deviò mai dal momento della conversione a quello della morte.
22 La furiosa tempesta di persecuzioni che aveva gettato Bahá’u’lláh in una segreta e spento la luce di Táhirih suggellò anche il destino dell’illustre amanuense del Báb, Siyyid Husayn-i-Yazdí, soprannominato ‘Azíz, che aveva condiviso la Sua prigionia a Máh-Kú e a Chihríq. Uomo di vasta esperienza e grandi meriti, profondamente versato negli insegnamenti del Maestro di Cui aveva l’incondizionata fiducia, egli, rifiutando le offerte di salvezza degli alti ufficiali di Teheran, bramava incessantemente il martirio che gli era stato negato il giorno in cui il Báb aveva dato la vita nella piazza d’armi di Tabríz. Nel Síyáh-Chál di Teheran compagno di prigione di Bahá’u’lláh, dal Quale trasse ispirazione e consolazione mentre rievocava i preziosi giorni trascorsi in compagnia del Maestro nell’Azerbaigian, fu alla fine ucciso, in circostanze di vergognosa crudeltà, da quello stesso ‘Azíz Khán-i-Sardár che aveva vibrato il colpo fatale a Táhirih.
23 Un’altra vittima delle terribili torture inflitte dall’implacabile nemico fu il magnanimo, influente e coraggioso Hájí Sulaymán Khán. Tanto era stimato che l’Amír-Nizám, in una precedente occasione, si era sentito in obbligo di ignorare il suo legame con la Fede che aveva abbracciato e risparmiargli la vita. Il tumulto che scosse Teheran dopo l’attentato alla vita del sovrano precipitò il suo arresto e portò al suo martirio. Lo Scià, non essendo riuscito a farlo abiurare tramite l’Hájibu’d-Dawlih, ordinò che fosse messo a morte in qualunque modo avesse voluto. Secondo il suo espresso desiderio, gli furono aperti nove fori nelle carni e in ciascuno di essi fu posta una candela accesa. Poiché il boia esitava a eseguire questo macabro compito, egli tentò di strappargli di mano il coltello per affondarselo nel corpo. Temendo che volesse aggredirlo, il boia si rifiutò e ordinò ai suoi uomini di legargli le mani dietro la schiena, al che l’intrepida vittima li pregò di aprirgli due fori nel petto, due sulle spalle, uno sulla nuca, quattro sulla schiena, desiderio cui essi acconsentirono. Dritto come una freccia, gli occhi brillanti di stoica forza d’animo, impassibile davanti alla moltitudine ululante e alla vista del sangue che sgorgava dalle ferite, preceduto da musicanti e tamburini, guidò fino al luogo del suo martirio lo stuolo di gente che gli si stringeva attorno. Ogni pochi passi interrompeva il cammino e rivolgeva agli sconcertati spettatori parole che glorificavano il Báb e magnificavano il significato della sua morte. Quando guardava le candele tremolare nei supporti insanguinati, erompeva in esclamazioni d’irrefrenabile gioia. Se una cadeva a terra, la raccoglieva con le sue stesse mani, la riaccendeva da un’altra e la rimetteva a posto. «Se trovi la morte così piacevole», lo schernì il boia «perché non balli?». «Danzare?», gridò la vittima. «In una mano la coppa di vino, nell’altra la treccia dell’Amico. Questa danza, nella piazza del mercato, è il mio desiderio!». Era ancora nel bazar quando una folata di vento attizzò le fiamme delle candele che ora ardevano profondamente nelle carni, facendole sfrigolare, al che egli, rivolgendosi alle fiamme che divoravano le ferite, così proruppe: «Da lungo tempo avete perso il morso, o fiamme, e siete state private della capacità di tormentarmi. Fate presto, perché dalle vostre lingue di fuoco sento la voce che mi chiama verso il mio Diletto!». Camminava in una vampa di luce come un conquistatore che marciasse verso la scena della vittoria. Ai piedi del patibolo ancora una volta levò la voce in un estremo appello alla moltitudine degli astanti. Poi si prosternò in direzione della tomba dell’Imám-Zádih Hasan mormorando alcune parole in arabo. «Il mio lavoro è ora finito», gridò al boia, «vieni e fa’ il tuo». C’era ancora vita in lui quando il suo corpo fu squartato, la lode del Diletto aleggiante sulle labbra agonizzanti. I resti sanguinanti e bruciacchiati furono appesi, come lui stesso aveva chiesto, ai lati della porta di Naw, muti testimoni dell’inestinguibile amore che il Báb aveva acceso nel cuore dei Suoi discepoli.
24 La violenta conflagrazione che si era accesa per il tentato assassinio del sovrano non poteva restare circoscritta nella capitale. Percorse le province contigue, devastò il Mázindarán, provincia natale di Bahá’u’lláh, e fu seguita dalla confisca, dal saccheggio e dalla distruzione di tutti i Suoi possedimenti. Nel villaggio di Tákur, nel distretto di Núr, la casa sontuosamente arredata che Egli aveva ereditata dal padre fu completamente svuotata per ordine di Mirza Abú-Tálib Khán, nipote del Gran Visir, e fu ordinato che tutto ciò che non poteva essere asportato fosse distrutto. Le stanze, più sontuose di quelle dei palazzi di Teheran, furono irrimediabilmente deturpate. Furono rase al suolo anche le case della gente e poi l’intero villaggio fu dato alle fiamme.
25 Il tumulto che aveva scosso Teheran e provocato l’ondata di oltraggi e spoliazioni nel Mázindarán s’estese fino a Yazd, Nayríz e Shíráz, colpendo i più remoti villaggi e riaccendendo le fiamme della persecuzione. Ancora una volta avidi governatori e perfidi subordinati fecero a gara per derubare gli innocenti, massacrare gli incolpevoli e disonorare i più nobili della loro razza. Seguì una strage che ripeté le atrocità già perpetrate a Nayríz e Zanján. «La mia penna», scrive il cronista dei sanguinosi episodi connessi alla nascita e all’ascesa della nostra Fede, «si ritrae inorridita quando tento di descrivere ciò che accadde a quelle donne e quei valorosi uomini… quello che ho cercato di raccontare sugli orrori dell’assedio di Zanján… impallidisce davanti all’evidente ferocia delle atrocità perpetrate pochi anni dopo a Nayríz e a Shíráz». Le teste di oltre duecento vittime di questa esplosione di feroce fanatismo furono infilzate su baionette e portate trionfalmente da Shíráz a Ábádih. Quaranta donne e bambini furono carbonizzati in una grotta nella quale era stata ammucchiata una grande quantità di legna da ardere impregnata di nafta e poi accesa. Trecento donne furono costrette a cavalcare a bisdosso, due a due, per tutta la strada fino a Shíráz. Furono fatte passare seminude tra file di teste staccate da corpi esanimi di mariti, figli, padri e fratelli. Furono coperte di insulti irripetibili e le sofferenze che patirono furono tali che molte di loro ne morirono.
26 Così si concludeva un capitolo che registra per tutti i tempi il periodo più sanguinoso, più tragico, più eroico del primo secolo bahá’í. I torrenti di sangue versati in quegli anni densi e disastrosi possono essere considerati la fertile semente di quell’Ordine Mondiale che un’ancor più grande Rivelazione che doveva rapidamente seguire era in procinto di proclamare e instaurare. I riconoscimenti tributati al nobile esercito di eroi, santi e martiri di quest’Età primitiva, da amici e nemici, dallo stesso Bahá’u’lláh e perfino dai più disinteressati osservatori in terre lontane, dal momento della sua nascita fino ad oggi, sono una testimonianza imperitura della gloria delle gesta che immortalano quell’Età.
27 «Il mondo intero», è l’incomparabile testimonianza di Bahá’u’lláh nel Kitáb-i-Íqán, si meravigliò «per il modo in cui si erano sacrificate… La mente è sbigottita dalle loro gesta e l’anima si meraviglia della loro saldezza e resistenza fisica… Quale epoca è mai stata testimone di avvenimenti così considerevoli?». E ancora: «Dal tempo d’Adamo il mondo ha mai visto tale tumulto, un’agitazione così violenta?… Si direbbe che la pazienza fosse rivelata soltanto in virtù della loro forza d’animo e la fedeltà unicamente dai loro atti». «Grazie al sangue che hanno versato», Egli afferma in una preghiera che riguarda più esplicitamente i martiri della Fede, «la terra è stata impregnata delle meravigliose rivelazioni della Tua potenza e degli smaglianti segni della Tua gloriosa sovranità. Fra non molto quando sarà giunto il tempo stabilito, essa annunzierà le sue novelle».
28 A chi altri se non a quegli eroi di Dio che con il loro sangue inaugurarono il Giorno Promesso si riferiscono le significative parole di Muhammad, l’Apostolo di Dio, citate da Quddús mentre si rivolgeva ai compagni nel Forte di Shaykh Tabarsí? «Oh! Quanto desidero vedere il sembiante dei miei fratelli, i miei fratelli che appariranno alla fine del mondo! Noi siamo benedetti, essi sono benedetti, ma più grande della nostra è la loro benedizione». E chi altri intendeva la tradizione detta Hadíth-i-Jábir, riportata nel Káfí e dichiarata autentica da Bahá’u’lláh nel Kitáb-i-Íqán, in cui con parole inequivocabili si espongono i segni dell’apparizione del Qá’im promesso? «I suoi santi saranno umiliati durante la Sua vita e le loro teste offerte in dono, come quelle dei Turchi e dei Dailamiti. Saranno uccisi e arsi. Saranno colti da timori, sgomento e timore riempiranno di terrore i loro cuori. La terra sarà tinta dal loro sangue. Le loro donne gemeranno e si lamenteranno. Questi, invero, sono i Miei amici».
29 «Racconti di magnifico eroismo», testimonia per iscritto Lord Curzon di Kedleston, «illuminano le sanguinose pagine della storia Bábí… I fuochi di Smithfield non accesero un coraggio più nobile di quello che ha affrontato e sconfitto gli aguzzini più raffinati di Teheran. Di non poco conto devono quindi essere i principî di un credo capace di ridestare nei suoi seguaci uno spirito di abnegazione così raro e così bello. L’eroismo e il martirio dei Suoi seguaci (del Báb) interesseranno molti altri che non troveranno manifestazioni simili nella cronache contemporanee dell’Islam». «Il Bábísmo», scrisse il professor J. Darmester, «che in meno di cinque anni si diffuse da un capo all’altro della Persia e che nel 1852 era stato battezzato nel sangue dei suoi martiri, è andato progredendo e propagandosi silenziosamente. Se la Persia deve davvero rigenerarsi, ciò sarà attraverso questa nuova Fede». «Des milliers de martyrs», attesta Renan nel suo «Les Apôtres», «sont accourus pour lui (il Báb) avec allégresse au devant de la mort. Un jour sans pareil peut-être dans l’histoire du monde fut celui de la grand boucherie qui se fit des Bábís à Teheran». «Una di quelle strane esplosioni di entusiasmo, fede, fervente devozione e indomito eroismo…», dichiara il noto orientalista professor E. G. Browne, «la nascita di una Fede che probabilmente si guadagnerà un posto fra le grandi religioni del mondo». E ancora: «Lo spirito che anima i Bábí è tale che non può mancare d’influenzare molto fortemente tutti coloro che sono esposti al loro influsso… Coloro che non hanno visto non mi credano, se vogliono, ma se mai quello spirito si dovesse loro rivelare, proveranno un’emozione che probabilmente non dimenticheranno». «J’avoue même», afferma il conte di Gobineau nel suo libro, «que, si je voyais en Europe une secte d’une nature analogue au Bábysme se présenter avec des avantages tels que les siens, foi aveugle, enthousiasme extrême, courage et dévouement éprouvés, respect inspiré aux indifférentes, terreur profonde inspirée aux adversaires, et de plus, comme je l’ai dit, un prosélytisme qui ne s’arrête pas, et donc les succès sont constants dans toutes les classes de la société; si je voyais, dis-je, tut cela exister en Europe, je n’hésiterais pas à prédire que, dans un temps donné, la puissance et le sceptre appartiendront de toute nécessité aux possesseurs de ces grands avantages».
30 «La verità del fatto», si dice che ‘Abbás-Qulí Khán-i-Láríjání, il cui proiettile aveva ucciso Mullá Husayn, abbia risposto a una domanda fattagli dal principe Ahmad Mirza in presenza di diversi testimoni, «è che chiunque non abbia visto Karbilá, se avesse visto Tabarsí, non solo avrebbe compreso che cosa vi successe, ma avrebbe cessato di tenerlo in considerazione; e se avesse visto Mullá Husayn di Bushrúyih, si sarebbe convinto che era ritornato sulla terra il Capo dei Martiri (l’Imám Husayn); e se avesse visto le mie azioni, avrebbe sicuramente detto: “Costui è Shimr, ritornato con lancia e spada…”. Ma in verità non so cosa fosse stato mostrato a questa gente, o che cosa avessero visto, per venire in battaglia con tale alacrità e tale gioia… Immaginazione d’uomo non può concepire la veemenza del loro coraggio e del loro valore».
31 Qual è stato, possiamo chiederci per concludere, il destino di quell’infame ciurma che, mossa da malvagità, avidità o fanatismo, cercò di spegnere la luce che il Báb e i Suoi seguaci avevano diffuso sulla loro terra e sul loro popolo? La verga del castigo divino colpì rapidamente e con inflessibile severità, senza risparmiare né il primo magistrato del regno, né i suoi ministri e consiglieri, non i dignitari ecclesiastici della religione alla quale il suo governo era indissolubilmente legato, né i governatori che agirono quali suoi rappresentanti, non i capi delle sue forze armate che, deliberatamente, per paura o negligenza, contribuirono in grado diverso alle terribili prove cui fu immeritatamente assoggettata quella Fede neonata. Muhammad Sháh, sovrano bigotto e irresoluto, il quale, rifiutandosi di aderire alla richiesta del Báb d’essere ricevuto nella capitale per dimostrare la veridicità della Sua Causa, aveva ceduto alle insistenze d’un ministro malevolo, dopo aver subito un improvviso rovescio di fortuna soccombette alla giovane età di quarant’anni alle complicanze di una malattia e fu condannato a quelle «fiamme dell’inferno», che l’Autore del Qayyúmu’l-Asmá’ aveva giurato lo avrebbero inevitabilmente divorato «il Dì della resurrezione». Il suo genio malefico, l’onnipotente Hájí Mirza Áqásí, l’eminenza grigia che manovrava il trono, il principale istigatore degli oltraggi perpetrati contro il Báb compresa la Sua detenzione nelle montagne dell’Azerbaigian, meno di un anno e mezzo dopo che si era intromesso fra lo Scià e il suo Prigioniero, fu deposto, fu privato delle ricchezze che aveva estorto e del favore del sovrano, fu costretto a cercare riparo dalla crescente ira dei suoi concittadini nella tomba di Shah ‘Abdu’l-‘Azím e fu poi ignominiosamente esiliato a Karbilá, dove cadde in preda a malattie, povertà e ai morsi del rammarico, dolorosa dimostrazione di quella Tavola accusatoria nella quale il Suo Prigioniero aveva predetto il suo destino e denunciato la sua infamia. Quanto al plebeo e infame Amír-Nizám, Mirza Taqí Khán, il primo anno del cui breve ministero fu macchiato dalla feroce aggressione contro i difensori del Forte di Tabarsí, che autorizzò e incoraggiò l’esecuzione dei Sette Martiri di Teheran, che scatenò l’assalto contro Vahíd e i suoi compagni, che fu direttamente responsabile della condanna a morte del Báb e che scatenò la grande sollevazione di Zanján, egli perse, per l’inesorabile gelosia del sovrano e le vendette degli intrighi di corte, tutti gli onori di cui aveva goduto e fu proditoriamente messo a morte per ordine del re, svenato nel bagno del palazzo di Fín, presso Káshán. «Se l’Amír-Nizám si fosse reso conto della Mia reale posizione», Nabíl riferisce che Bahá’u’lláh ha affermato, «sicuramente si sarebbe impadronito di Me. Fece il massimo sforzo per scoprire la situazione reale, ma senza successo. Dio volle che l’ignorasse». Mirza Áqá Khán, che aveva avuto parte attiva nelle efferate crudeltà perpetrate dopo l’attentato alla vita del sovrano, fu allontanato dal suo ufficio e relegato sotto stretta sorveglianza a Yazd, dove finì i suoi giorni nella vergogna e nella disperazione.
32 Husayn Khán, governatore di Shíráz, stigmatizzato come «ubriacone» e «tiranno», il primo che maltrattò il Báb e Lo redarguì pubblicamente e che ordinò al suo attendente di schiaffeggiarLo con violenza, fu costretto non solo a sopportare la terribile disgrazia che si abbatté su di lui, sulla sua famiglia, la sua città e la sua provincia, ma anche ad assistere successivamente alla rovina di tutte le sue fatiche e a trascorrere nell’ombra i rimanenti giorni della sua vita, finché crollò nella tomba, abbandonato da amici e nemici. Hájibu’d-Dawlih, quel sanguinario demonio che aveva zelantemente braccato tanti innocenti e indifesi Bábí, cadde anche lui vittima della furia dei turbolenti Lur i quali, spogliatolo delle sue proprietà, gli tagliarono la barba e lo costrinsero a ingoiarla, lo sellarono, lo imbrigliarono e lo cavalcarono davanti agli occhi di tutti, dopo di che sotto i suoi occhi perpetrarono ignobili atrocità sulle donne e sui bambini della sua famiglia. Il Sa‘ídu’l-‘Ulamá, il fanatico, feroce, spudorato mujtahid di Bárfurúsh, la cui inestinguibile ostilità aveva attirato tali oltraggi sugli eroi di Tabarsí e procurato loro tante sofferenze, cadde preda, poco dopo il misfatto perpetrato, d’una strana malattia, che gli provocava una sete inestinguibile e tali brividi di freddo che né le pellicce in cui si avvolgeva, né il fuoco che continuamente ardeva nella sua stanza riuscivano ad alleviare le sue sofferenze. Lo spettacolo della sua casa, un tempo lussuosa e ora in rovina, tanto decaduta dopo la sua morte da essere usata come immondezzaio dalla gente della città, colpì così profondamente gli abitanti del Mázindarán che, nei reciproci insulti, usavano invocare l’uno sulla casa dell’altro la stessa sorte capitata a quella maledetta dimora. Il falso e ambizioso Mahmúd Khán-i-Kalántar, alla cui custodia Táhirih era stata affidata prima del suo martirio, incorse nove anni più tardi nell’ira del suo regale padrone e, trascinato per una corda legata ai piedi per tutto il bazar fino a un luogo fuori dalle porte della città, fu qui impiccato. Mirza Hasan Khán, che giustiziò il Báb per ordine del fratello l’Amír-Nizám, nel giro di due anni da quell’imperdonabile gesto ricevette una terribile punizione che si concluse con la sua morte. Lo Shaykhu’l-Islám di Tabríz, l’insolente, avaro, tirannico Mirza ‘Alí Asghar, il quale, essendosi la guardia del corpo del Governatore rifiutata di fustigare il Báb sulla pianta dei piedi, colpì egli stesso con le verghe undici volte i piedi del Prigioniero, in quello stesso anno fu colpito da una paralisi e dopo aver sopportato la più atroce ordalia, morì miseramente, una morte alla quale seguì subito l’abolizione della funzione di Shaykhu’l-Islám di quella città. L’altezzoso e perfido Mirza Abú-Tálib Khán che, ignorando i consigli di moderazione ricevuti da Mirza Áqá Khán, il Gran Visir, ordinò il saccheggio e l’incendio del villaggio di Tákur e la distruzione della casa di Bahá’u’lláh, un anno dopo fu colpito dalla peste e perì miseramente, abbandonato anche dai parenti più stretti. Mihr-‘Alí Khán, lo Shujá‘u’l-Mulk, che dopo l’attentato alla vita dello Scià perseguitò così selvaggiamente i superstiti della comunità Bábí di Nayríz, si ammalò e secondo la testimonianza del nipote fu colto da un mutismo che non recedette più fino al giorno della sua morte. Il suo complice, Mirza Na‘ím, cadde in disgrazia, fu pesantemente multato per due volte, sollevato dal suo ufficio e sottoposto a raffinate torture. Il reggimento che, facendosi beffe del miracolo che avvertì Sam Khán e i suoi uomini di dissociarsi da ogni altro tentativo di togliere la vita al Báb, si era volontariamente offerto di sostituirli e aveva crivellato di pallottole il Suo corpo, perse, in un terribile terremoto fra Ardibíl e Tabríz, oltre duecentocinquanta tra ufficiali e uomini. Due anni dopo gli altri cinquecento furono spietatamente fucilati per ammutinamento a Tabríz e il popolo, guardando i corpi esposti e mutilati, ricordò il loro gesto selvaggio e si abbandonò a tali espressioni di condanna e di meraviglia da indurre il capo dei mujtahid a redarguirli e farli tacere. Il comandante del reggimento, Áqá Ján Big, morì sei anni dopo il martirio del Báb durante il bombardamento di Muhammarih da parte delle forze navali britanniche.
33 Il giudizio di Dio, così rigoroso e implacabile nella punizione riservata a coloro che avevano avuto una parte direttiva o attiva nei crimini commessi contro il Báb e i Suoi seguaci, fu altrettanto severo nei confronti della massa del popolo, un popolo più fanatico degli ebrei dei tempi di Gesù, noto per la crassa ignoranza, il feroce bigottismo, la caparbia perversità e l’inumana crudeltà, un popolo venale, avaro, egoista e codardo. Non posso far di meglio che citare ciò che lo stesso Báb ha scritto nel Dalá’il-i-Sab‘ih (Le sette prove) negli ultimi giorni del Suo ministero: «Rammenta i primi giorni della Rivelazione. Quanta gente è morta di colera! Quello era uno dei prodigi della Rivelazione e nessuno l’ha capito! Il flagello ha imperversato per quattro anni fra i musulmani sciiti senza che nessuno ne avesse afferrato il significato!». «Quanto alla grande massa del popolo di Persia», ha scritto Nabíl nella sua immortale narrazione, «che assistette con cupa indifferenza alla tragedia che si svolgeva davanti ai suoi occhi e non mosse un dito per protestare contro l’orrore di quelle crudeltà, essa cadde, a sua volta, vittima di una miseria che tutte le risorse della terra e l’energia dei suoi statisti non riuscirono ad alleviare… Dal giorno in cui la mano dell’aggressore si protese contro il Báb… una calamità dopo l’altra spensero lo spirito di quel popolo ingrato e lo portarono sull’orlo della bancarotta nazionale. Pestilenze, delle quali perfino i nomi erano del tutto sconosciuti, se non per un frettoloso accenno in libri polverosi che pochi si curavano di leggere, lo assalirono con tale furia che nessuno riuscì a scampare. Quel flagello seminò la devastazione dovunque giunse. Principi e contadini ne sentirono in egual misura il morso e si piegarono sotto il suo giogo. Esso tenne la popolazione nella sua stretta e si rifiutò di allentare la presa. Maligne come la febbre che falcidiò la provincia di Gílán, queste improvvise afflizioni continuarono a gettare la desolazione sul paese. Per quanto dolorose fossero queste calamità, la vindice ira di Dio non si fermò alle disgrazie che colpirono quel popolo perverso e infedele. Si fece sentire in ogni essere vivente che respirava sulla superficie di quella terra straziata. Colpì anche la vita delle piante e degli animali e fece sentire al popolo la grandezza della sua disgrazia. La carestia aggiunse i propri orrori al terribile peso delle afflizioni sotto le quali il popolo gemeva. Lo sparuto spettro della fame s’insinuò furtivamente fra loro e la prospettiva di una morte lenta e dolorosa ossessionò le loro menti. Popolo e governo agognavano in egual misura un sollievo che non potevano trovare in nessun luogo. Bevvero la coppa del dolore fino alla feccia, del tutto dimentichi della mano che l’aveva accostata alle loro labbra e della Persona per Cui essi soffrivano».
SECONDO PERIODO1 La serie di terribili eventi che in rapida successione seguirono il rovinoso attentato alla vita di Násiri’d-Dín Sháh segna, come già osservato, la fine della Dispensazione Bábí e la conclusione del capitolo iniziale, il più oscuro e sanguinoso, della storia del primo secolo bahá’í. Quegli avvenimenti avevano dato inizio a una fase di incalcolabili tribolazioni, nel corso delle quali le sorti della Fede proclamata dal Báb toccarono il fondo. Infatti un continuo crescendo di prove e vessazioni, insuccessi e delusioni, denuncie, tradimenti e massacri avevano contribuito fin dal principio a decimare i ranghi dei suoi seguaci e sottoposto a massimo sforzo la lealtà dei suoi più valorosi sostenitori, a tutto riuscendo meno che a distruggere le fondamenta su cui posava.
2 Sin dalla sua nascita, governo, clero e popolo le si erano sollevati contro come un sol uomo e avevano giurato eterna inimicizia alla sua causa. Muhammad Sháh, debole di mente e di volontà, pressato, aveva respinto le proposte fattegli dal Báb, si era rifiutato d’incontrarLo faccia a faccia, interdicendoGli perfino l’ingresso nella capitale. Il giovane Násiri’d-Dín Sháh, di natura crudele e imperiosa, sia da principe ereditario sia da sovrano regnante, aveva sempre più dimostrato la profonda ostilità che, in un periodo successivo del suo regno, doveva esplodere in tutta la sua oscura e spietata efferatezza. Il potente e sagace Mu‘tamid, l’unica, solitaria figura che avrebbe potuto porgere al Báb il sostegno e la protezione di cui aveva tanto bisogno, Gli fu sottratto da una morte repentina. Lo Sceriffo della Mecca, che in occasione del pellegrinaggio del Báb alla Mecca era stato informato della nuova Rivelazione tramite Quddús, era rimasto sordo al Messaggio divino e aveva ricevuto il Suo messaggero con fredda indifferenza. Alla progettata riunione che doveva aver luogo nella santa città di Karbilá durante il viaggio di ritorno del Báb dall’Hijáz, si dovette definitivamente rinunciare con disappunto dei Suoi seguaci che avevano trepidamente atteso il Suo arrivo. Le diciotto Lettere del Vivente, i principali baluardi che avevano sostenuto la forza nascente della Fede, erano quasi tutti caduti. Gli «Specchi», le «Guide», i «Testimoni» che avevano formato la gerarchia Bábí erano stati passati a fil di spada o cacciati dalla terra natia o ridotti al silenzio. Il programma le cui parti essenziali erano state comunicate ai più eminenti di loro era rimasto, per eccesso di zelo, per lo più incompiuto. I tentativi che due di questi discepoli avevano fatto per introdurre la Fede in Turchia e in India erano miseramente falliti fin dall’inizio della missione. Le tempeste che avevano colpito il Mázindarán, Nayríz e Zanján, oltre che stroncare le promettenti carriere del venerato Quddús, del coraggioso Mullá Husayn, dell’erudito Vahíd, dell’indomabile Hujjat, avevano interrotto la vita di un allarmante numero di condiscepoli fra i più intraprendenti e coraggiosi. Le orrende violenze associate alla morte dei Sette Martiri di Teheran erano state responsabili della fine di un altro simbolo vivente della Fede che, per la sua stretta parentela e intimità col Báb e in virtù delle sue qualità intrinseche, se fosse stato risparmiato, avrebbe contribuito in modo determinante alla protezione e alla promozione di una Causa in lotta per emergere.
3 La bufera che si era poi scatenata con inaudita violenza su una comunità già messa in ginocchio l’aveva inoltre privata della sua massima eroina, l’incomparabile Táhirih ancora nel pieno delle vittorie, aveva suggellato il destino di Siyyid Husayn, il fido amanuense del Báb, depositario prescelto delle Sue ultime volontà, aveva abbattuto Mullá ‘Abdu’l-Karím-i-Qazvíní, uno dei pochi che si riteneva potesse vantare una profonda conoscenza delle origini della Fede, e aveva gettato in una segreta Bahá’u’lláh, l’unico superstite fra le figure di spicco della nuova Dispensazione. Lo stesso Báb, la Fonte da cui erano scaturite le energie vivificatrici della neonata Rivelazione, era caduto, prima che scoppiasse quest’uragano, in circostanze strazianti sotto il fuoco di un plotone di esecuzione, lasciando quale titolare della comunità semidistrutta un mero capo nominale, estremamente timido, buono, ma sensibile alla più lieve influenza, privo di qualunque qualità eccezionale, che ora (liberato dal controllo di Bahá’u’lláh, il vero Capo) cercava, travestito da derviscio, la protezione che le alture del nativo Mázindarán gli offrivano contro la minaccia degli assalti di un nemico mortale. I voluminosi scritti del Fondatore della Fede, manoscritti, dispersi, non classificati, malamente copiati e mal conservati, furono in parte, a causa della febbre e del tumulto dei tempi, o deliberatamente distrutti, o confiscati, o frettolosamente spediti al sicuro oltre i confini della terra in cui erano stati rivelati. Potenti avversari, fra i quali torreggiava la figura dello smodatamente ambizioso e ipocrita Hájí Mirza Karím Khán, che, per una speciale richiesta dello Scià, aveva ferocemente attaccato la nuova Fede e le sue dottrine in un trattato, avevano ora alzato la testa e, imbaldanziti dai rovesci che essa aveva subito, la bersagliavano con insulti e calunnie. Inoltre, sottoposti alla pressione di intollerabili circostanze, alcuni Bábí furono costretti a ritrattare la Fede, mentre altri arrivarono al punto da abiurare e unirsi ai ranghi del nemico. E ora, all’insieme di queste amare sventure, si aggiungeva una mostruosa calunnia, sorta dall’oltraggio perpetrato da un manipolo di irresponsabili fanatici, che marchiava una Fede santa e innocente di un’infamia che sembrava indelebile e minacciava di svellerla dalle fondamenta.
4 Eppure il Fuoco che la Mano dell’Onnipotenza aveva acceso, pur soffocato dal diluvio di tribolazioni che gli si era rovesciato addosso, non era spento. La fiamma che per nove anni aveva bruciato con tale fulgida intensità era infatti momentaneamente estinta, ma le braci che questa grande conflagrazione aveva lasciato ardevano ancora, destinate a divampare ancora una volta, in un’ora non lontana, grazie alle ravvivanti brezze di una Rivelazione incomparabilmente più grande e a diffondere una tale luminosità che non solo avrebbe dissipato l’oscurità circostante, ma avrebbe riverberato la sua luce fino agli estremi confini degli emisferi orientale e occidentale. Come la cattività e l’isolamento forzato, da una parte, avevano dato al Báb l’opportunità di formulare la Sua dottrina, spiegare il pieno significato della Sua Rivelazione, dichiarare formalmente e pubblicamente il Suo stadio e instaurare il Suo Patto e, dall’altra, Gli erano serviti a proclamare le leggi della Sua Dispensazione attraverso la voce dei Suoi discepoli riuniti a Badasht, così la crisi di inusitata gravità, che era culminata con l’esecuzione del Báb e l’imprigionamento di Bahá’u’lláh, fu il preludio di una rinascita che, grazie al potere vivificante di una ben più possente Rivelazione, doveva immortalare la fama del Profeta di Shíráz e fissare il Suo Messaggio originale su basi ancor più durature ben oltre i confini della Sua terra natia.
5 In un momento in cui la Causa del Báb sembrava sull’orlo dell’estinzione, in cui le speranze e le aspirazioni che l’animavano, ad ogni umana apparenza, erano state frustrate, in cui gli enormi sacrifici dei suoi innumerevoli ammiratori sembravano essere stati fatti invano, la Promessa divina in essa racchiusa stava per essere improvvisamente mantenuta e la sua perfezione finale misteriosamente manifestata. La Dispensazione Bábí era sul punto di concludersi (non prematuramente ma al momento stabilito), di dare il predestinato frutto e rivelare il suo scopo finale, la nascita della Missione di Bahá’u’lláh. In quest’ora tanto oscura e terribile una nuova Luce stava per spuntare gloriosamente dal fosco orizzonte della Persia. Risultato di quello che era in effetti un processo di evoluzione e maturazione, stava ora per aprirsi il più importante, se pur non il più spettacolare periodo dell’Età eroica della Fede.
6 Per nove anni, come il Báb aveva predetto, la Fede embrionale da Lui concepita si era sviluppata rapidamente, misteriosamente e irresistibilmente, fino a che, all’ora fissata, il fardello della promessa Causa di Dio fu deposto nel buio e nel dolore del Síyáh-Chál di Teheran. Anni più tardi, confutando le proteste di coloro che avevano rifiutato la validità della Sua missione che seguiva così da vicino quella del Báb, Bahá’u’lláh testimoniava: «Osservate come immediatamente dopo il compimento del nono anno di questa meravigliosa, santa e misericordiosa Dispensazione, il numero necessario di anime pure, interamente consacrate e santificate, si sia completato nel più grande segreto». «Che un tempo così breve», ha inoltre asserito, «abbia separato questa potentissima Rivelazione dalla Mia precedente Manifestazione, è un segreto che nessun uomo può capire, un mistero tale che nessuna mente può scandagliare. La sua durata è stata preordinata».
7 San Giovanni presbitero, riferendosi a queste due successive Rivelazioni, aveva chiaramente predetto: «Così passò il secondo “Guai!”, ecco viene subito il terzo “Guai!”». «Questo terzo guai», ha spiegato ‘Abdu’l-Bahá commentando questo versetto, «… è il giorno della manifestazione di Bahá’u’lláh, il Giorno di Dio, ed è prossimo al giorno dell’apparizione del Báb». «Tutti i popoli del mondo», ha inoltre asserito, «sono in attesa di due Manifestazioni, Che debbono essere contemporanee. Tutti attendono l’adempimento di questa promessa». E ancora: «Il fatto essenziale è che in tutte le religioni sono state promesse due Manifestazioni, che verranno una di seguito all’altra». Shaykh Ahmad-i-Ahsá’í, quella luminosa stella di guida divina che già prima dell’anno sessanta aveva così chiaramente intuito la sopravvenuta gloria di Bahá’u’lláh e messo in rilievo «le Rivelazioni gemelle che devono venire in rapida successione l’una dopo l’altra», aveva fatto questa significativa dichiarazione a proposito dell’imminente ora di quella suprema Rivelazione in una lettera di suo pugno indirizzata a Siyyid Kazím: «Il mistero di questa Causa deve necessariamente manifestarsi e il segreto di questo Messaggio deve necessariamente essere rivelato a tutti. Altro non posso dire, non posso fissare un giorno. La Sua Causa sarà resa nota dopo Hín (68)».
8 Le circostanze in cui il Portatore di questa Rivelazione neonata che con tanta rapidità seguiva quella del Báb ricevette le prime intimazioni della Sua sublime missione ricordano, e in realtà superano in drammaticità, la sconvolgente esperienza di Mosè quando si trovò di fronte al Roveto ardente nel deserto del Sinai, di Zoroastro quando fu risvegliato alla Sua missione da una serie di sette visioni, di Gesù quando emergendo dalle acque del Giordano vide i cieli aprirsi e lo Spirito Santo discendere in forma di colomba a illuminarLo, di Muhammad quando nella grotta di Hirá nei pressi della santa città della Mecca la voce di Gabriele Gli ingiunse: «leggi, nel nome del Tuo Signore» e del Báb quando S’avvicinò in sogno alla testa sanguinante dell’Imám Husayn e, mentre beveva il sangue che gocciolava dalla gola squarciata, Si risvegliò e Si trovò ricettacolo prescelto della straripante grazia dell’Onnipotente.
9 Qual’era, possiamo chiederci a questo punto, la natura, quali le implicazioni di questa Rivelazione che, manifestandosi così presto dopo la Dichiarazione del Báb, aboliva d’un colpo la Dispensazione che quella Fede aveva così recentemente proclamato sostenendo con tanta veemenza e forza l’autorità divina del suo Autore? Quali erano, possiamo fermarci a considerare, i titoli di Colui Che, Lui Stesso discepolo del Báb, Si considerava autorizzato ad abrogare in uno stadio così precoce la Legge che si identificava col Suo amato Maestro? Quale poteva essere, possiamo inoltre riflettere, la relazione fra i Sistemi religiosi instaurati prima di Lui e la Sua Rivelazione, una Rivelazione che, in quell’ora di estremo pericolo, sgorgava dalla Sua anima travagliata, squarciava le tenebre che si erano addensate in quella pestilenziale buca e, erompendo attraverso le sue mura e propagandosi fino agli estremi limiti della terra, infondeva nell’intero corpo dell’umanità le sue illimitate potenzialità e ora sta modellando sotto i nostri occhi il corso della società umana?
10 Colui al Quale fu imposto in così drammatiche circostanze lo schiacciante peso di una Missione tanto gloriosa non era altri che Colui Che i posteri acclameranno, e Che i Suoi innumerevoli seguaci già riconoscono, Giudice, Legislatore e Redentore dell’umanità intera, Organizzatore di tutto il pianeta, Unificatore dei figli degli uomini, Inauguratore del lungamente atteso millennio, Originatore di un nuovo «Ciclo universale», Instauratore della Più Grande Pace, Fonte della Più Grande Giustizia, Proclamatore della maggiore età dell’intera razza umana, Creatore di un nuovo Ordine Mondiale, Ispiratore e Fondatore di una civiltà mondiale.
11 Per Israele Egli altri non era che l’incarnazione del «Padre per sempre», il «Signore degli eserciti» sceso «con decine di migliaia di santi», per la Cristianità Cristo ritornato «nella Gloria del Padre», per l’Islam sciita il ritorno dell’Imám Husayn, per l’Islam sunnita la discesa dello «Spirito di Dio» (Gesù Cristo), per gli zoroastriani il promesso Sháh-Bahrám, per gli indù la reincarnazione di Krishna, per i buddhisti il quinto Buddha.
12 Nel nome che portava erano congiunti quelli dell’Imám Husayn, il più illustre dei successori dell’Apostolo di Dio, la più fulgida «stella» che risplendeva sulla «corona» citata nell’Apocalisse di san Giovanni, e dell’Imám ‘Alí, il Comandante dei Fedeli, il secondo dei due «testimoni» celebrati nello stesso Libro. Fu formalmente chiamato Bahá’u’lláh, un appellativo specificamente registrato nel Bayán persiano, che significa, contemporaneamente, gloria, luce e splendore di Dio, e designato «Signore dei signori», «il Più Grande Nome», «Antica Bellezza», «Penna dell’Altissimo», «Nome celato», «Tesoro preservato», «Colui Che Dio manifesterà», «suprema Luce», «eccelso Orizzonte», il «Più Grande Oceano», «Paradiso supremo», «Radice preesistente», «Colui Che esiste da Sé», «Astro dell’universo», «grande Annunzio», «Colui Che parlò sul Sinai», «Vagliatore di uomini», «Vilipeso del mondo», «Desiderio delle nazioni», «Signore del Patto», «Albero oltre il quale non si passa». Egli traeva origine, da una parte, da Abramo (il Padre dei fedeli) attraverso la moglie Chetura e, dall’altra, da Zoroastro e Yazdigird, ultimo re della dinastia sassanide. Discendeva inoltre da Jesse e apparteneva, da parte del padre Mirza ‘Abbás meglio conosciuto come Mirza Buzurg, gentiluomo strettamente legato alla cerchia dei ministri della corte di Fath-‘Alí Sháh, a una delle più antiche e rinomate famiglie del Mázindarán.
13 A Lui Isaia, il massimo profeta ebraico, aveva alluso come alla «Gloria del Signore», «Padre eterno», «Principe della pace», «Ammirabile», «Consigliere», «germoglio spuntato dal tronco di Jesse» e «Virgulto germogliato dalle sue radici», Colui Che «sarà posto sul trono di Davide», Che «viene con mano sicura», Che «sarà giudice fra le genti» e «percuoterà il violento con la verga della Sua bocca e farà morire l’empio con il soffio delle sue labbra», Che «raccoglierà gli espulsi di Israele e radunerà i dispersi di Giuda dai quattro angoli della terra». Di Lui Davide aveva cantato nei Salmi, acclamandoLo «Signore degli eserciti» e «Re della Gloria». A Lui Aggeo aveva alluso come al «Desiderio di tutte le nazioni» e Zaccaria come al «Germoglio» che «spunterà da sé» e «ricostruirà il tempio del Signore». Ancora Ezechiele Lo aveva esaltato come il «Signore» Che «sarà re di tutta la terra», mentre Gioele e Sofonia avevano fatto riferimento al Suo giorno come al «giorno di Geova» descrivendolo come «giorno d’ira, giorno di angoscia e di afflizione, giorno di rovina e distruzione, il giorno di tenebra, di caligine, giorno di nubi e di oscurità, giorno di squilli di tromba e d’allarme sulle fortezze e sulle torri d’angolo». Il Suo Giorno era stato inoltre acclamato da Ezechiele e da Daniele «Giorno del Signore» e Malachia lo aveva descritto come «il giorno grande e terribile del Signore» in cui «sorgerà il sole di giustizia con raggi benefici», mentre Daniele aveva dichiarato che il Suo avvento avrebbe segnato la fine dell’«abominio della desolazione».
14 Alla Sua Dispensazione i sacri libri dei seguaci di Zoroastro si erano riferiti come a quella in cui il sole avrebbe dovuto necessariamente sostare per almeno un mese. A Lui Zoroastro deve aver alluso quando, secondo la tradizione, predisse che un periodo di tremila anni di conflitti e contese doveva precedere l’avvento del Salvatore del Mondo, lo Sháh-Bahrám, Che avrebbe trionfato su Ahriman e inaugurato un’era di benessere e di pace.
15 A Lui solo allude la profezia attribuita a Gotama Buddha secondo cui «un Buddha chiamato Maitreya, il Buddha della fratellanza universale», Si sarebbe levato nella pienezza dei tempi a rivelare «la Sua illimitata gloria». Il Bhagavad-Gita degli Indù si riferì a Lui come al «Più Grande Spirito», «decimo Avatar», «immacolata Manifestazione di Krishna».
16 A Lui Gesù Cristo Si era riferito come al «Principe del mondo», il «Consolatore» Che «confuterà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio», lo «Spirito di verità» Che «vi guiderà alla verità tutta intera», Che «non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito», il «Padrone della vigna» e il «Figlio dell’uomo» Che «verrà nella gloria del Padre Suo» «sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria» con «tutti gli angeli santi» con Sé e «tutte le nazioni» riunite davanti al Suo trono. L’Autore dell’Apocalisse aveva alluso a Lui come alla «Gloria di Dio», «l’Alfa e l’Omega», «il Principio e la Fine», «il Primo e l’Ultimo». Identificando la Sua Rivelazione con il «terzo Guai», aveva inoltre glorificato la Sua Legge come «un nuovo cielo e una nuova terra», come «il Tabernacolo di Dio», «la Città santa», «la nuova Gerusalemme che scende dal cielo da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo». Gesù Cristo Si era riferito al Suo Giorno come alla «nuova creazione, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della Sua gloria». San Paolo aveva alluso all’ora del Suo avvento come all’ora dell’«ultima tromba», la «tromba di Dio», mentre san Pietro ne aveva parlato come del «Giorno di Dio, in cui i cieli si dissolveranno e gli elementi incendiati si fonderanno». Aveva inoltre descritto il Suo Giorno come «i tempi della consolazione», «i tempi della restaurazione di tutte le cose, come ha detto Dio fin dall’antichità, per bocca dei Suoi santi Profeti».
17 Muhammad, l’Apostolo di Dio, aveva alluso a Lui nel Suo Libro come all’«Annuncio massimo» e aveva dichiarato il Suo Giorno quello del «sopravvenire di Dio in ombre di nubi», il Giorno in cui «verranno il tuo Signore e gli angeli, schiera a schiera» e «lo Spirito sorgerà e gli angeli staranno ritti a schiere». In quel Libro, in una sura che si dice Egli abbia definito «il cuore del Corano», aveva presagito il Suo avvento come quello del «terzo» Messaggero inviato per «rafforzare» i due che Lo precedevano. E nelle pagine dello stesso Libro aveva reso uno splendido tributo al Suo Giorno, glorificandolo come il «Giorno grande», l’«ultimo Giorno», il «Giorno di Dio», il «Dì del giudizio», il «Dì del rendiconto», il «Giorno del reciproco inganno», il «Dì della decisione», il «Giorno del rimpianto», il «Dì dell’incontro», il Giorno «quando sarà decisa la lor sorte», il Giorno in cui squillerà il secondo «squillo», il «giorno in cui gli uomini tutti staranno ritti di fronte al Signor del creato» e «tutti verranno a Lui, supplicanti», il Giorno in cui «vedrai i monti che credevi solidi e fermi passare via come passano leggere le nubi», il Giorno «della resa dei conti», «l’Ora imminente, allorché i cuori salteranno in gola, soffocando gli uomini», il Giorno in cui «trepideranno d’angoscia gli abitatori dei cieli e gli abitatori della terra, eccetto coloro pei quali Iddio avrà voluto altrimenti», il Giorno in cui «vedrete ogni donna che allatta dimenticare il lattante e ogni donna pregna partorirà il frutto del suo ventre», il Giorno in cui «scintillerà la terra della Luce del Signore, e sarà spalancato il Libro e saran condotti i Profeti ed i martiri, e sarà pronunciato giudizio secondo verità fra gli uomini, e non sarà fatto loro alcun torto».
18 La pienezza della Sua gloria aveva inoltre l’Apostolo di Dio paragonata, come attesta lo Stesso Bahá’u’lláh, al «plenilunio nella quattordicesima notte». Il Suo rango l’Imám ‘Alí, il Principe dei credenti, aveva identificato, secondo la stessa testimonianza, come quello di «Colui Che sul Sinai conversò con Mosè dal Roveto ardente». Alla trascendenza della Sua missione, l’Imám Husayn – di nuovo secondo Bahá’u’lláh – aveva reso testimonianza come a una «Rivelazione il Cui Rivelatore sarà Colui Che rivelò» l’Apostolo di Dio Stesso.
19 Di Lui Shaykh Ahmad-i-Ahsá’i, il precursore della Dispensazione Bábí che aveva predetto gli «straordinari avvenimenti» che si sarebbero verificati «tra gli anni sessanta e sessantasette» e che aveva categoricamente affermato l’inevitabilità della Sua Rivelazione, aveva scritto, come già detto, quanto segue: «Il mistero di questa Causa deve necessariamente manifestarsi e il segreto di questo Messaggio deve necessariamente essere rivelato a tutti. Altro non posso dire, non posso fissare un giorno. La Sua Causa sarà resa nota dopo Hín (68) (cioè dopo un certo tempo)».
20 Siyyid Kázim-i-Rashtí, discepolo e successore di Shaykh Ahmad, aveva analogamente scritto: «Il Qá’im dev’essere messo a morte. Dopo che sarà stato ucciso, il mondo avrà compiuto diciott’anni». Nel suo Sharh-i-Qasídiy-i-Lámíyyih aveva anche alluso al nome «Bahá». Coll’avvicinarsi della fine aveva inoltre significativamente dichiarato ai suoi discepoli: «In verità vi dico, dopo il Qá’im si manifesterà il Qayyúm. Perché quando la Stella del Primo sarà tramontata, il sole della bellezza di Husayn sorgerà e illuminerà il mondo intero. Allora saranno dispiegati in tutta la loro gloria il “mistero” e il “segreto” di cui parlava Shaykh Ahmad… Essere giunti a quel Giorno dei giorni significa essere giunti alla gloria coronatrice delle passate generazioni e una sola buona azione compiuta in quell’epoca equivale alla pia adorazione d’innumerevoli secoli».
21 Il Báb Lo aveva esaltato in modo non meno significativo come «Essenza dell’Essere», «Vestigio di Dio», «Maestro onnipotente», «Luce cremisi che tutto avvolge», «Signore del visibile e dell’invisibile», «unico Scopo di tutte le precedenti Rivelazioni, compresa quella del Qá’im». L’aveva formalmente chiamato «Colui Che Dio manifesterà» e aveva alluso a Lui come all’«Orizzonte di Abhá» in cui Egli Stesso viveva e dimorava, aveva specificamente annotato il Suo titolo ed elogiato il Suo «Ordine» nella Sua opera più nota, il Bayán persiano, aveva svelato il Suo nome con l’allusione al «figlio di ‘Alí, un vero e indubbio Condottiero di uomini». Ripetutamente, a voce e per iscritto, aveva incontrovertibilmente fissato il tempo della Sua Rivelazione, ammonendo i Suoi seguaci di non permettere «che il Bayán e tutto ciò che in esso è stato rivelato» li «separi da Lui come un velo». Inoltre, aveva dichiarato d’essere «il primo servo che crede in Lui», aveva affermato che aveva obbedito a Lui ancor «prima che tutte le cose fossero create», che «nessun» Suo «cenno» poteva «alludere a Lui» e che «l’antico germe che contiene in sé le potenzialità della Rivelazione che sta per venire, è dotato d’una potenza superiore alle forze combinate di tutti i seguaci del Bayán». Aveva inoltre affermato chiaramente d’aver fatto un «patto con tutto il creato» riguardante Colui Che Dio manifesterà, ancor prima di stabilire il patto relativo alla Propria Missione. Aveva prontamente riconosciuto di non essere altro che «una lettera» di quel «potentissimo Libro», «una goccia» di quell’«illimitato Oceano», che la Sua Rivelazione era «solo una foglia delle foglie del Suo Paradiso», che «tutto quello che è stato esaltato nel Bayán» non era che «un anello» nella Sua mano ed Egli «un anello nella mano di Colui Che Dio manifesterà» il Quale «lo gira a proprio piacimento, per ciò che Gli piaccia». Aveva dichiarato inequivocabilmente d’aver «sacrificato» per Lui «tutto se stesso», d’aver «accettato d’esser maledetto» per amor Suo e di non aver «anelato ad altro che al martirio sul sentiero del Suo amore». Infine aveva chiaramente profetizzato: «Oggi il Bayán è nello stadio del seme. Al principio della Manifestazione di Colui Che Dio manifesterà se ne vedrà la perfezione finale». «Prima che nove anni sian trascorsi dall’inizio di questa Causa, le realtà delle cose create non saranno rese manifeste. Tutto quello che hai visto finora non è che lo stadio dell’umido germe prima che lo rivestiamo di carne. Sii paziente finché non vedrai una nuova creazione. Dì: “Benedetto perciò sia Dio, il più eccelso Creatore!”».
22 «Colui intorno al Quale il Punto del Bayán ( Báb) ha ruotato, è venuto», testimonia Bahá’u’lláh confermando l’inconcepibile grandezza e la preminenza della Propria Rivelazione. «Se tutti coloro che sono in cielo e in terra», afferma inoltre, «in questo giorno fossero investiti dei poteri e degli attributi destinati alle Lettere del Bayán, il cui rango è diecimila volte più glorioso di quello delle Lettere della Dispensazione coranica, e se essi dovessero, per un istante rapido come un batter d’occhio, esitare a riconoscere la Mia Rivelazione, agli occhi di Dio sarebbero annoverati fra coloro che hanno errato, e considerati “Lettere della Negazione”». Alludendo a Se Stesso asserisce nel Kitáb-i-Íqán: «Poiché invero Egli, Re della forza divina, ha il potere di spegnere con una lettera delle Sue parole meravigliose il soffio della vita nell’intero corpo del Bayán e dei suoi seguaci, e con una lettera può conceder loro una nuova ed eterna vita e farli risorgere ed erompere dai sepolcri dei desideri vani ed egoistici». «Questo» dichiara inoltre «è il re dei giorni», il «Giorno di Dio Stesso», il «Giorno che non sarà mai seguito dalla notte», la «Primavera che l’autunno non raggiungerà mai», «l’occhio di ere e secoli passati», cui «l’anima di ogni Profeta di Dio, di ogni Messaggero divino aveva agognato», che «tutti i popoli della terra hanno desiderato ardentemente», per il cui mezzo «Dio prova i cuori della compagnia dei Suoi Messaggeri e dei Suoi Profeti e dopo di loro quelli di coloro che stanno a guardia del Suo sacro e inviolabile Santuario, gli abitanti del Padiglione celeste e del Tabernacolo di gloria». E ancora dichiara: «In questa potentissima Rivelazione tutte le Dispensazioni del passato hanno raggiunto il loro compimento supremo e finale». E ancora: «Mai alcuna delle Manifestazioni del passato ha completamente compreso, se non per una misura prescritta, la natura di questa Rivelazione». RiferendoSi al Proprio stadio dichiara: «Non fosse stato per Lui, nessun Messaggero Divino sarebbe stato investito del Manto della Profezia né alcuna delle sacre Scritture rivelata».
23 E infine, ma non meno importante, è il tributo di ‘Abdu’l-Bahá al carattere trascendente della Rivelazione identificata con Suo Padre: «Secoli, anzi età, debbono passare prima che la Stella mattutina della Verità brilli di nuovo nel suo splendore di mezz’estate, o appaia ancora una volta nella radiosità della sua gloria primaverile». E soggiunge: «la semplice contemplazione della Dispensazione inaugurata dalla Bellezza Benedetta sarebbe stata sufficiente a lasciare attoniti i santi delle età passate, quei santi che bramarono di partecipare, anche un sol momento, alla sua grande gloria». «Nei riguardi delle Manifestazioni che discenderanno nel futuro “nelle ombre delle nubi”, sappi, in verità», dichiara significativamente, «che per quanto concerne la loro relazione con la sorgente della loro ispirazione esse sono all’ombra dell’Antica Bellezza. Ma per quanto riguarda la loro relazione con l’èra nella quale appaiono, ognuna di esse “fa tutto ciò che vuole”». E infine questa Sua illuminante spiegazione stabilisce definitivamente la vera relazione fra la Rivelazione di Bahá’u’lláh e quella del Báb: «La Rivelazione del Báb può essere paragonata alla posizione del sole quando si trova al primo segno dello Zodiaco – l’Ariete – nel quale il sole entra nell’equinozio di primavera. Il rango della Rivelazione di Bahá’u’lláh è, d’altra parte, rappresentato dal segno del Leone, lo stadio culminante del sole d’estate. Con ciò si vuol significare che questa santa Dispensazione è illuminata dalla luce del Sole della Verità che risplende dal suo più eccelso stadio e in tutta la pienezza del suo splendore, del suo calore e della sua gloria».
24 Tentare un esame esauriente delle profezie che si riferiscono alla Rivelazione di Bahá’u’lláh sarebbe davvero un compito impossibile. Lo attesta la penna dello stesso Bahá’u’lláh: «Tutti i Libri e le Scritture divine hanno predetto e annunciato agli uomini l’avvento della Più Grande Rivelazione. Nessuno può stilare un elenco adeguato dei versetti registrati nei Libri delle epoche passate che predicono questa Munificenza suprema, questa potentissima Elargizione».
25 Per concludere l’argomento, ritengo si debba dichiarare che la Rivelazione che s’identifica con Bahá’u’lláh abroga incondizionatamente tutte le Dispensazioni precedenti, sostiene incrollabilmente le eterne verità che contengono, riconosce fermamente e totalmente l’origine divina dei loro Autori, preserva inviolata la santità delle loro Scritture autentiche, nega qualunque intenzione di sottovalutare lo stato dei loro Fondatori o di sminuire gli ideali spirituali che essi inculcano, chiarisce e correla le loro funzioni, riafferma il loro scopo comune, immutabile e fondamentale, riconcilia le loro affermazioni e dottrine apparentemente divergenti, riconosce con prontezza e gratitudine i contributi di ciascuno di loro al graduale sviluppo di un’unica Rivelazione divina, ammette risolutamente d’essere anch’essa soltanto un anello di una catena di Rivelazioni continue e progressive, aggiunge ai loro insegnamenti leggi e ordinanze adatte alle imperative necessità e dettate dalla crescente recettività di una società mutevole in rapida e costante evoluzione e proclama di essere pronta a fondere e incorporare le sètte e le fazioni contendenti in cui esse si sono suddivise in una Fratellanza universale che funzioni nel quadro di un Ordine divinamente concepito per unificare e redimere il mondo e in armonia con i suoi precetti e afferma di essere capace di farlo.
26 Una Rivelazione salutata come promessa e gloria coronatrice di ère e secoli passati, come consumazione di tutte le Dispensazioni del Ciclo adamitico, che inaugura un’èra che durerà almeno mille anni e un ciclo destinato a prolungarsi per non meno di cinquemila secoli, che segna la fine dell’Èra profetica e l’inizio di quella dell’adempimento, insuperata per la durata del Ministero del suo Autore e per la fecondità e lo splendore della Sua Missione, questa Rivelazione, come già notato, era nata nell’oscurità di una prigione sotterranea di Teheran, un’abominevole spelonca che un tempo era servita come serbatoio idrico per uno dei bagni pubblici della città. Avvolto da quel buio stigio, respirando quella fetida aria, intorpidito dall’umida e gelida atmosfera, i piedi nei ceppi, il collo gravato da una pesante catena, attorniato da criminali e miscredenti della peggior risma, oppresso dalla consapevolezza della terribile colpa che aveva macchiato l’onore della Sua amata Fede, dolorosamente conscio della terribile sciagura che aveva colpito i suoi paladini e dei gravi pericoli che incombevano sugli altri suoi seguaci, in quell’ora così critica e in tali spaventose circostanze, il «Più Grande Spirito», come Egli Stesso lo chiamò – simboleggiato nelle Dispensazioni zoroastriana, mosaica, cristiana e maomettana dal sacro Fuoco, dal Roveto ardente, dalla Colomba e dall’angelo Gabriele rispettivamente – discese sull’agonizzante anima di Bahá’u’lláh rivelandosi a Lui nelle sembianze di una «Damigella».
27 «Una notte, in sogno», Egli scrive rammentando ormai al crepuscolo della vita i primi palpiti della Rivelazione di Dio nella Sua anima, «s’udirono da ogni parte queste grandiose parole: “In verità Noi Ti daremo la vittoria con l’ausilio Tuo e della Tua Penna. Non addolorarTi di ciò che T’è accaduto e non temere, perché sei salvo. Fra non molto Dio susciterà i tesori della terra: uomini che Ti aiuteranno mediante Te Stesso ed il Tuo nome col quale il Signore ha vivificato il cuore di coloro che Lo hanno riconosciuto”». In un altro passo descrive brevemente e incisivamente l’impatto della travolgente forza dei Richiami divini sul Suo intero essere, esperienza che richiama vividamente la visione di Dio che fece cadere Mosè in deliquio e la voce di Gabriele che fece precipitare Muhammad in un tale terrore da spingerLo a rifugiarSi in casa e ordinare alla moglie Khadíjih d’avvolgerLo in un mantello. «Durante i giorni in cui giacevo nella prigione di Teheran», sono le Sue memorabili parole, «sebbene il tormentoso peso delle catene e l’aria impregnata di fetore Mi permettessero ben poco riposo, pure nei rari momenti di assopimento sentivo come se qualcosa fluisse dal sommo del Mio capo sul Mio petto, proprio come un impetuoso torrente che si precipitasse sulla terra dall’alto di un eccelso monte. Ogni membro del Mio corpo era, in seguito a ciò, tutto un fuoco. In tali momenti la Mia lingua declamava cose che nessun uomo potrebbe sopportare di udire».
28 Nella Súratu’l-Haykal (Sura del Tempio), così descrive gli stupefacenti momenti in cui l’Ancella simboleggiante il «Più Grande Spirito» proclamava la Sua missione all’intera creazione: «Mentr’ero immerso nelle tribolazioni udii una mirabile, dolcissima voce che Mi chiamava sopra il Mio capo. Volgendo il viso, vidi una Damigella, incarnazione della rimembranza del nome del Mio Signore, sospesa nell’aria davanti a Me. Così giubilante era nell’anima che dal suo volto splendeva l’ornamento del beneplacito di Dio e le sue guance ardevano dello splendore del Misericordiosissimo. Essa levò fra terra e cielo un invito che ammutoliva il cuore e la mente degli uomini. Annunciò al mio essere interiore ed esteriore notizie che rallegrarono la Mia anima e le anime dei servi onorati di Dio. Additando il Mio capo, si rivolse a tutti coloro che sono in cielo e a tutti coloro che sono in terra dicendo: “In nome di Dio! Questo è il Prediletto dei mondi, eppure ancora non lo comprendete. Questa è la Beltà di Dio fra voi e il potere della Sua Sovranità in voi, se solo lo capiste. Questo è il Mistero di Dio e il Suo Tesoro, la Causa di Dio e la Sua gloria per tutti coloro che sono nei regni della Rivelazione e della creazione, se foste di coloro che intendono”».
29 Nell’Epistola a Násiri’d-Dín Sháh, il Suo regale avversario, rivelata nel pieno della proclamazione del Suo Messaggio, ricorrono questi passi che gettano ulteriore luce sull’origine divina della Sua missione: «O Re! Non ero che un uomo come gli altri addormentato sul Mio giaciglio, quand’ecco, le brezze del Gloriosissimo furono alitate su di Me e Mi insegnarono la sapienza di tutto ciò che è stato. Questo non procede da Me, ma da Uno Che è Onnipotente e Onnisciente. Ed Egli M’ingiunse di levare la voce fra la terra e il cielo, e a causa di ciò Mi accaddero cose che fecero versare lacrime ad ogni uomo perspicace… Questa non è che una foglia mossa dai venti della volontà del tuo Signore, l’Onnipotente, il Lodatissimo… Il Suo appello soggiogatore M’ha raggiunto inducendoMi a dire fra tutte le genti le Sue lodi. In verità, ero come morto, quando fu pronunziato il Suo comando. La mano della volontà del tuo Signore, il Compassionevole, il Clemente, M’ha trasformato». «Per la Mia vita!», afferma in un’altra Tavola, «Non Mi sono rivelato per Mia Propria volontà, ma Dio, di Sua scelta, Mi ha manifestato». E ancora: «E ogni qual volta ho stabilito di tacere e restar fermo, ecco, la voce dello Spirito Santo dalla Mia destra scuoterMi, e lo Spirito Supremo apparirMi innanzi, e Gabriele porMi sotto la sua ombra, e lo Spirito di Gloria agitarsi nel Mio petto, e comandarMi di sorgere e rompere il silenzio».
30 Furono queste le circostanze in cui il Sole della Verità si levò nella città di Teheran – una città che a causa di un così raro privilegio conferitole era stata glorificata dal Báb come la «Terra santa» e soprannominata da Bahá’u’lláh «Madre del mondo», «Alba della luce», «Oriente dei segni del Signore» e «Sorgente di gioia per l’umanità intera». I primi albori di quella Luce d’impareggiabile splendore erano apparsi, come si è già detto, nella città di Shíráz. Ora, sull’orizzonte del Síyáh-Chál di Teheran, appariva il bordo di quell’Astro. I suoi raggi dovevano erompere dieci anni dopo, a Baghdad, squarciando le nubi che ne oscurarono lo splendore subito dopo ch’era sorto in quel cupo ambiente. Era destinato a toccare lo zenit nella lontanissima città di Adrianopoli e infine a tramontare nelle immediate vicinanze della cittadella di ‘Akká.
31 Il processo attraverso il quale il fulgore di questa abbagliante Rivelazione fu svelato agli occhi degli uomini fu necessariamente lento e graduale. La prima intimazione ricevuta dal suo Portatore non fu accompagnata né immediatamente seguita dalla rivelazione delle sue caratteristiche ai Suoi compagni o ai Suoi parenti. Doveva trascorrere un periodo di quasi dieci anni prima che le sue vastissime implicazioni potessero essere direttamente divulgate sia pur a coloro che Gli erano stati intimamente vicini, un periodo di grande fermento spirituale durante il quale il Ricettacolo di quel possente Messaggio attendeva trepidamente l’ora in cui avrebbe potuto alleggerire l’anima così colma, così pregna delle possenti energie sprigionate dalla nascente Rivelazione di Dio. Tutto quel che fece, nel corso di questo intervallo preordinato, fu di accennare con linguaggio velato e allegorico, in epistole, commentari, preghiere e trattati ch’era spinto a rivelare, che la promessa del Báb era già stata adempiuta e che Egli era Colui Che era stato prescelto per mantenerla. Alcuni dei Suoi condiscepoli, che si distinguevano per sagacia e attaccamento personale e devozione verso di Lui, avevano intuito la radiosità della gloria non ancora rivelata che aveva inondato la Sua anima e, se non fosse stato per il freno della Sua influenza, avrebbero divulgato il Suo segreto e lo avrebbero proclamato dappertutto.
CAPITOLO VII1 L’attentato alla vita di Násiri’d-Dín Sháh, come si è detto in un precedente capitolo, fu compiuto il 28 del mese di shavval del 1268 dell’Egira, corrispondente al 15 agosto 1852. Subito dopo Bahá’u’lláh fu arrestato a Níyávarán, ignominiosamente condotto a Teheran e gettato nel Síyáh-Chál. La Sua prigionia durò quattro mesi e alla metà di questo periodo ebbe inizio «l’anno nove» (1269), preannunziato dal Báb in termini così appassionati, cui Shaykh Ahmad-i-Ahsá’í aveva alluso come l’anno «dopo Hín», conferendo al mondo intero inattese potenzialità. Due mesi dopo l’inizio dell’anno, Bahá’u’lláh, compiuto ora lo scopo della Sua detenzione, fu scarcerato e, un mese più tardi, mandato a Baghdad, la prima tappa di un memorabile esilio a vita che doveva condurLo, nel corso degli anni, fino ad Adrianopoli nella Turchia europea e concludersi con ventiquattr’anni di prigionia in ‘Akká.
2 Ora che, in seguito a quel grandioso sogno, era stato investito del potere e dell’autorità sovrana associate alla Sua missione divina, la Sua liberazione da un confino che aveva raggiunto lo scopo e che, prolungato, Gli avrebbe totalmente impedito di esercitare le funzioni appena conferiteGli, era divenuta non solo inevitabile, ma imperativa e urgente. E non mancavano mezzi e strumenti con cui la Sua liberazione dalle catene che Lo avvincevano potesse essere realizzata. Il persistente e decisivo intervento del ministro russo, principe Dolgorouki, che non lasciò niente d’intentato per dimostrare l’innocenza di Bahá’u’lláh, la pubblica confessione di Mullá Shaykh ‘Alíy-i-Turshízí, detto ‘Azím, il quale nel Síyáh-Chál, presenti lo Hájibu’d-Dawlih, l’interprete del Ministro russo e i rappresentanti del governo, Lo discolpò categoricamente riconoscendo la propria complicità, l’incontestabile testimonianza ratificata da tribunali competenti, gli incessanti sforzi dei Suoi fratelli, delle sorelle e dei parenti, tutto ciò contribuì alla Sua liberazione finale dalle mani dei Suoi avidi nemici. Un’importante, anche se meno evidente influenza che dev’essere riconosciuta fra i fattori che portarono alla Sua liberazione fu la sorte toccata a un così gran numero dei Suoi condiscepoli che si sacrificarono e languirono con Lui nella stessa prigione. Infatti, come Nabíl giustamente osserva, «il sangue versato a Teheran quell’anno fatidico da quell’eroico drappello con cui Bahá’u’lláh era stato imprigionato fu il riscatto pagato per la Sua liberazione dalla mano di un nemico che cercava d’impedirGli di realizzare lo scopo per il quale Iddio Lo aveva destinato».
3 Con queste schiaccianti testimonianze che dimostravano inconfutabilmente l’estraneità di Bahá’u’lláh, il Gran Visir, dopo essersi assicurato il riluttante consenso del sovrano a lasciar libero il Prigioniero, era ora in grado d’inviare al Síyáh-Chál il suo fido rappresentante, Hájí ‘Alí, con l’incarico di consegnare a Bahá’u’lláh l’ordine di scarcerazione. Lo spettacolo che si presentò all’emissario al suo arrivo suscitò in lui tanta ira che maledisse il suo padrone per il vergognoso trattamento inferto a un uomo di sì alto rango e illibata fama. Toltosi il mantello dalle spalle, lo offrì a Bahá’u’lláh, pregandoLo d’indossarlo quando fosse stato in presenza del Ministro e dei suoi consiglieri, ma Egli rifiutò fermamente, preferendo apparire davanti ai membri del governo imperiale nell’abito del prigioniero.
4 Appena Si presentò al Gran Visir, questi Gli disse: «Se tu avessi seguito il mio consiglio e ti fossi distaccato dalla Fede del Siyyid-i- Báb, non avresti mai subito le pene e gli affronti che ti hanno colpito». «Se tu a tua volta avessi seguito il mio consiglio», rispose Bahá’u’lláh, «gli affari di stato non sarebbero giunti a un punto così critico». Mirza Áqá Khán rammentò allora la conversazione che aveva avuto con Lui in occasione del martirio del Báb, quando era stato avvertito che «la fiamma che è stata accesa divamperà più ardente che mai». «Cosa mi consigli di fare ora?», chiese a Bahá’u’lláh. «Comanda ai governatori del regno», fu l’immediata risposta, «che cessino di versare il sangue degli innocenti, che cessino di saccheggiare le loro proprietà, che cessino di disonorare le loro donne e di tormentare i loro bambini». Lo stesso giorno il Gran Visir agì secondo il consiglio che gli era stato dato; ma qualunque effetto ciò abbia avuto fu solo momentaneo e trascurabile, come dimostrarono ampiamente gli avvenimenti che seguirono.
5 La relativa pace e tranquillità accordate a Bahá’u’lláh dopo la Sua tragica e crudele prigionia erano destinate, secondo i dettami di un’infallibile Saggezza, a essere estremamente brevi. Aveva appena raggiunto la famiglia e i parenti quando Gli fu comunicato un decreto di Násiri’d-Dín Sháh, in cui Gli si ingiungeva di lasciare il territorio persiano, si fissava il tempo massimo d’un mese per la Sua partenza e Gli si accordava il diritto di scegliere la terra d’esilio.
6 Appena fu informato della decisione imperiale, il Ministro russo espresse il desiderio di accogliere Bahá’u’lláh sotto la protezione del suo governo e si offrì di provvedere a tutto il necessario per il Suo trasferimento in Russia. Bahá’u’lláh declinò l’invito così spontaneamente offerto e, obbedendo a un infallibile istinto, preferì stabilire la Propria dimora in territorio turco, nella città di Baghdad. «Mentre giacevo incatenato e in ceppi in prigione», affermò anni dopo nella Sua Epistola allo zar di Russia, Alessandro II Nicolaevic, «uno dei tuoi ministri Mi ha porto il suo aiuto. Per questo Dio ha ordinato per te un rango che nessuna sapienza, tranne la Sua, può comprendere. Attento a non barattare questo sublime rango». «Nei giorni in cui questo Vilipeso era dolorosamente afflitto in prigione», è un’altra testimonianza chiarificatrice rivelata dalla Sua Penna, «il Ministro dello stimatissimo governo (di Russia) – possa Dio, glorificato ed esaltato sia, assisterlo! – si adoperò al massimo per ottenere la Mia scarcerazione. Più volte fu ottenuto il permesso per la Mia liberazione, ma alcuni degli ‘ulamá della città lo impedirono. Infine, la Mia libertà fu concessa grazie alla sollecitudine e ai tentativi di Sua Eccellenza il Ministro… Sua Maestà Imperiale, il Più Grande Imperatore – possa Dio, esaltato e glorificato sia, assisterlo! – Mi offrì protezione per amor di Dio, una protezione che ha suscitato l’invidia e l’inimicizia degli sciocchi della terra».
7 L’editto dello Scià, equivalente a un ordine di immediata espulsione di Bahá’u’lláh dal territorio persiano, apre un nuovo e glorioso capitolo nella storia del primo secolo bahá’í. Visto nella giusta prospettiva, si potrà anche riconoscere che ha dato inizio a una delle epoche più movimentate e importanti della storia religiosa del mondo. Essa coincide con l’inizio di un ministero protrattosi per un periodo di quasi quarant’anni, un ministero che, in virtù del potere creativo, della forza purificatrice, delle influenze risanatrici e dell’irresistibile operazione delle forze direttrici e modellatrici del mondo che sprigionò, emerge ineguagliato negli annali religiosi dell’intera razza umana. Esso segna la fase iniziale d’una serie di esili, prolungatisi per un periodo di quattro decenni e terminati soltanto con la morte di Colui Che era l’Oggetto di quel crudele editto. Mise in moto un processo che, progredendo e svolgendosi gradualmente, cominciò con lo stabilire per qualche tempo la Sua Causa nel cuore della roccaforte gelosamente custodita dell’Islam sciita e Lo portò in contatto personale con i suoi più alti e illustri esponenti. Poi, in una fase successiva, nella sede del Califfato, Lo mise a confronto con i dignitari civili ed ecclesiastici del regno e con i rappresentanti del Sultano di Turchia, il più potente sovrano del mondo islamico. E infine Lo condusse sulle coste della Terra Santa, adempiendo in questo modo le profezie del Vecchio e del Nuovo Testamento, mantenendo la promessa racchiusa in varie tradizioni attribuite all’Apostolo di Dio e agli Imám che Gli succedettero e dando inizio alla tanto attesa reintegrazione d’Israele nell’antica culla della sua Fede. Così si può dire abbia avuto inizio l’ultimo e più fecondo dei quattro periodi di una vita, i cui primi ventisette anni furono caratterizzati dal tranquillo godimento di tutti i vantaggi conferiti da nobili natali e dalla ricchezza e da un’instancabile sollecitudine per gli interessi dei poveri, degli ammalati e degli oppressi, furono seguiti da nove anni di attivo ed esemplare discepolato al servizio del Báb e infine da una prigionia di quattro mesi, sotto l’ombra continua di un pericolo mortale, amareggiata da angosciosi dolori e immortalata, verso la fine, dall’improvviso erompere delle forze sprigionate da una Rivelazione travolgente e spiritualmente rivoluzionaria.
8 La forzata e frettolosa partenza di Bahá’u’lláh dalla Sua terra natale, accompagnato da alcuni parenti, ricorda, per alcuni aspetti, la precipitosa fuga della sacra Famiglia in Egitto, l’improvvisa emigrazione di Muhammad dalla Mecca a Medina subito dopo la Sua assunzione della missione profetica, l’esodo di Mosè, di Suo fratello e dei Suoi seguaci, in risposta all’intimazione di Dio, dalla terra in cui erano nati e, soprattutto, l’esilio di Abramo da Ur dei Caldei alla Terra promessa, un esilio che, nella molteplicità di benefici che conferì a tanti e così diversi popoli, fedi e nazioni, costituisce il parallelo storico più vicino alle incalcolabili benedizioni che saranno concesse in questo giorno e nelle età future all’intera razza umana per diretta conseguenza dell’esilio subito da Colui la Cui Causa è fiore e frutto di tutte le Rivelazioni precedenti.
9 ‘Abdu’l-Bahá, dopo aver enumerato nelle «Lezioni di San Giovanni d’Acri» le importantissime conseguenze dell’esilio di Abramo, significativamente afferma: «Dato che l’esilio di Abramo da Ur ad Aleppo, in Siria, produsse tali risultati, dobbiamo considerare quale sarà l’effetto dell’esilio di Bahá’u’lláh, nelle sue varie tappe, da Teheran a Baghdad e da lì a Costantinopoli, in Rumelia (Adrianopoli) e in Terra Santa».
10 Il primo giorno del mese di rabí‘u’th-thání dell’anno 1269 dell’Egira (12 gennaio 1853), nove mesi dopo il Suo ritorno da Karbilá, Bahá’u’lláh partì con alcuni membri della Sua famiglia, scortato da un ufficiale delle Guardie del corpo imperiali e da un rappresentante ufficiale della Legazione russa, per un viaggio di tre mesi verso Baghdad. Fra coloro che condividevano il Suo esilio c’era la moglie, la santa Navvab, da Lui chiamata la «Foglia Più Eccelsa», la quale per quasi quarant’anni dimostrò una forza, una religiosità, una devozione e una nobiltà d’animo tali da meritare dalla penna del suo Signore l’ineguagliabile tributo postumo d’essere stata fatta Sua «perpetua consorte in tutti i mondi di Dio». Il figlio di nove anni, successivamente soprannominato il «Più Grande Ramo», destinato a divenire il Centro del Suo Patto e l’Interprete autorizzato dei Suoi Insegnamenti, insieme con la sorella di sette ani, conosciuta molti anni dopo con lo stesso titolo della sua illustre madre, che per i suoi servigi fino alla tarda età di ottantasei anni e per l’elevata parentela ebbe la distinzione d’essere considerata la principale eroina della Dispensazione bahá’í, erano anch’essi fra gli esuli che ora s’accomiatavano dalla terra natale. Lo accompagnavano in quel viaggio due fratelli, Mirza Músá, comunemente chiamato Áqáy-i-Kalím, Suo leale e valido sostenitore, il più abile e illustre dei Suoi fratelli e delle Sue sorelle e una delle «due sole persone che», secondo la testimonianza di Bahá’u’lláh, «erano adeguatamente informate delle origini» della Sua Fede, e Mirza Muhammad-Qulí, un fratellastro che nonostante la defezione di alcuni dei suoi parenti rimase fino alla fine leale alla Causa che aveva abbracciato.
11 Il viaggio del piccolo gruppo di esuli, così inadeguatamente equipaggiati, attraverso le montagne innevate della Persia occidentale, intrapreso nel cuore di un inverno eccezionalmente rigido, fu lungo e pericoloso, ma privo di avvenimenti degni di nota eccetto la calorosa ed entusiastica accoglienza riservata ai viaggiatori durante la loro breve sosta a Karand dal governatore, Hayát-Qulí Khán, della setta ‘alíyu’lláhí. Bahá’u’lláh lo ricambiò con tale gentilezza che la popolazione dell’intero villaggio ne fu commossa e continuò, anche molto tempo dopo, a prodigare tale ospitalità ai Suoi seguaci di passaggio sulla via di Baghdad che si fecero la reputazione d’essere Bábí.
12 In una preghiera rivelata in quel periodo Bahá’u’lláh, soffermandoSi sui dolori e sulle prove che aveva subito nel Síyáh-Chál, così testimonia le privazioni sopportate nel corso di quel «terribile viaggio»: «Mio Dio, Mio Maestro, Mio Desìo!… Hai creato quest’atomo di polvere con il perfetto potere della Tua possanza e L’hai nutrito con le Tue mani che nessuno può incatenare… Gli hai destinato prove e tribolazioni che nessuna lingua può descrivere, nessuna delle Tue Tavole adeguatamente raccontare. La gola che abituasti al tocco della seta, hai alla fine stretta con robuste catene e il corpo che hai blandito con broccati e velluti, hai poi sottoposto all’abiezione di una segreta. Il Tuo decreto Mi ha incatenato con infiniti ceppi e Mi ha posto attorno al collo catene che nessuno può spezzare. Alcuni anni son trascorsi durante i quali le afflizioni Mi son piovute addosso come scrosci di misericordia… Quante le notti durante le quali il peso delle catene e dei ceppi non Mi ha concesso alcun riposo e quanti i giorni durante i quali pace e tranquillità Mi furono negate a causa di ciò con cui le mani e le lingue degli uomini Mi hanno affitto! Il pane e l’acqua che Tu, con la Tua misericordia che tutto pervade, hai elargito agli animali dei campi, li hanno per qualche tempo negati a questo servo e le cose che si rifiutarono di infliggere a coloro che si sono separati dalla Tua Causa, hanno permesso che fossero inflitte a Me, finché, alla fine, il Tuo decreto fu irrevocabilmente fissato e il Tuo comando ha intimato a questo servo di partire dalla Persia, accompagnato da uomini di tempra fragile e da bambini in tenera età, in questa stagione in cui il freddo è così intenso che non si può nemmeno parlare e il ghiaccio e la neve sono così abbondanti che è impossibile muoversi».
13 Finalmente, il 28 jamádíyu’th-thání 1269 dell’Egira (8 aprile 1853), Bahá’u’lláh arrivò a Baghdad, capitale di quella che era allora la provincia turca dell’Iraq. Qualche giorno dopo proseguì per Kázimayn, cittadina a circa tre miglia a nord, abitata prevalentemente da persiani, dove sono sepolti i due Kázim, il settimo e il nono Imám. Subito dopo il Suo arrivo, il rappresentante del governo dello Scià di stanza a Baghdad andò a trovarLo e suggerì che, in considerazione dei numerosi visitatori che affollavano quel centro di pellegrinaggio, sarebbe stato consigliabile che prendesse residenza nella vecchia Baghdad, suggerimento che Egli subito seguì. Un mese dopo, verso la fine di rajab, prese in affitto la casa di Hájí ‘Alí Madad in un vecchio quartiere della città e vi Si trasferì con la famiglia.
14 In quella città, descritta nelle tradizioni islamiche come «Zahru’l-Kúfih», chiamata da secoli «Dimora della pace» e immortalata da Bahá’u’lláh come «Città di Dio», risiedette, fuorché durante i due anni di ritiro nelle montagne del Kurdistán e le occasionali visite a Najaf, Karbilá e Kázimayn, fino all’esilio costantinopolitano. A quella città il Corano aveva alluso come alla «Dimora della pace» cui Dio Stesso «chiama». Ad essa aveva accennato quello stesso Libro nel versetto «Per questi è la Dimora di pace presso il loro Signore… il Giorno in cui Dio li radunerà tutti». Da essa, onda dopo onda, irradiarono un potere, uno splendore e una gloria che a poco a poco rianimarono una Fede languente, duramente colpita, che stava cadendo nell’oscurità ed era minacciata dall’oblio. Da essa, giorno e notte, si diffusero con crescente energia le prime emanazioni di una Rivelazione che per vastità, copiosità e forza trainante era destinata a superare quella del Báb. Dal suo orizzonte eruppero i raggi del Sole della Verità, la cui sorgente gloria era stata per dieci lunghi anni sovrastata dall’ombra delle nere nubi di un odio macerante, d’una inestinguibile gelosia e d’una inesorabile malevolenza. Qui fu eretto per la prima volta il Tabernacolo del promesso «Signore degli Eserciti» e furono poste le inattaccabili fondamenta del lungamente atteso regno del «Padre». Da qui si sparsero le prime notizie del Messaggio di salvazione che, dopo un periodo di «milleduecentonovanta giorni» (1280 dell’Egira), doveva segnare, come profetizzato da Daniele, la fine «dell’abomino della desolazione». Entro le sue mura fu irrevocabilmente fondata e permanentemente consacrata la «Più Grande Casa di Dio», Suo «Piedistallo» e «Trono della Sua Gloria», «Stella polare di un mondo in adorazione», «Fiaccola di salvezza fra terra e cielo», «Emblema del Suo ricordo per tutti coloro che sono nei cieli e sulla terra», ricettacolo della «Gemma la cui gloria ha irradiato tutta la creazione», dello «Stendardo» del Suo Regno, del «Santuario attorno al quale circoleranno le coorti dei fedeli». Ad essa, in virtù della sua santità quale «Più Santa Dimora» di Bahá’u’lláh e «Sede della Sua gloria trascendente», fu conferito l’onore d’essere considerata il più importante luogo di pellegrinaggio dopo la sola città di ‘Akká, la Sua «Più Grande Prigione», nelle cui immediate vicinanze è custodito il Suo Santo Sepolcro, la Qiblih del mondo bahá’í. Attorno alla Mensa celeste, imbandita nel cuore di quella città, si riunirono, in numero sempre crescente, clero e laici, sunniti e sciiti, curdi, arabi e persiani, principi e nobili, contadini e dervisci, condividendo tutti secondo le necessità e le capacità una parte di quel divino sostentamento che, con l’andar del tempo, avrebbe permesso loro di spargere dappertutto la fama di quel munifico Donatore, di ingrossare le file dei Suoi ammiratori, di divulgare i Suoi Scritti, allargare i confini della Sua congregazione e gettare solide fondamenta per la futura erezione delle istituzioni della Sua Fede. E infine, sotto gli occhi delle diverse comunità che vivevano entro le sue porte, s’aprì la prima fase del graduale sviluppo della nascente Rivelazione, vennero messe per iscritto le prime effusioni dell’ispirata penna del suo Autore, furono formulate le prime norme delle Sue dottrine che si andavano lentamente consolidando, furono comprese le prime implicazioni del Suo augusto stadio, lanciati i primi attacchi per distruggere dall’interno la Sua Fede, registrate le prime vittorie su questi nemici interni e intrapresi i primi pellegrinaggi alla Porta della Sua Presenza.
15 Questo esilio a vita, al quale il Portatore di un Messaggio così prezioso era ora provvidenzialmente condannato, non mostrò improvvisamente o rapidamente le sue potenzialità latenti, né avrebbe potuto farlo. Il processo attraverso il quale i suoi insospettati benefici dovevano mostrarsi agli occhi degli uomini fu lento, penosamente lento, e caratterizzato, come la storia della Fede dall’inizio ad oggi dimostra, da un certo numero di crisi che a tratti minacciarono di arrestare la sua evoluzione e di far naufragare tutte le speranze che i suoi progressi avevano suscitato.
16 Una di queste crisi che, approfondendosi, minacciò di mettere in pericolo la Fede neonata e di sovvertirne le primissime fondamenta, oscurò i primi anni del Suo soggiorno in Iraq, la fase iniziale del Suo esilio a vita, e conferì loro un significato speciale. A differenza di quelle che l’avevano preceduta, questa era di carattere puramente interno e traeva origine unicamente dagli atti, dalle ambizioni e dalle follie di coloro ch’erano annoverati fra i Suoi condiscepoli riconosciuti.
17 I nemici esterni della Fede, civili ed ecclesiastici, che fino a quel momento erano stati i maggiori responsabili dei rovesci e delle umiliazioni che essa aveva patito, erano per ora relativamente tranquilli. Il pubblico desiderio di vendetta, che era sembrato insaziabile, ora, in seguito ai fiumi di sangue che erano corsi, si era entro certi limiti placato. Un sentimento tra lo sfinimento e la disperazione si era inoltre impadronito di alcuni dei suoi più inveterati nemici, ch’erano abbastanza astuti da intuire che, sebbene la Fede fosse stata piegata dai duri colpi che le loro mani le avevano inferto, la sua struttura era rimasta essenzialmente intatta e il suo spirito indomato. Gli ordini emanati dal Gran Visir ai governatori delle province, inoltre, avevano avuto un effetto moderatore sulle autorità locali che venivano ora dissuase dallo sfogare la loro furia sull’odiato avversario e dall’abbandonarsi a sadiche crudeltà contro di esso.
18 Di conseguenza, era momentaneamente subentrato un periodo di calma destinato a essere poi interrotto da un’ulteriore ondata di misure repressive in cui il sultano di Turchia e i suoi ministri, nonché l’ordine sacerdotale sunnita, si sarebbero alleati allo Scià e al clero sciita persiano e iracheno in un tentativo d’annientare definitivamente la Fede e tutto ciò ch’essa rappresentava. Mentre questo periodo di calma perdurava, incominciarono a manifestarsi i primi segni della crisi interna cui abbiamo accennato, una crisi che, pur meno spettacolare a occhi estranei, muovendo verso il culmine, si manifestò d’una gravità inaudita, riducendo la forza numerica della giovanissima comunità, mettendo in pericolo la sua unità, arrecando immenso danno al suo prestigio e offuscandone la gloria per un considerevole periodo di tempo.
19 Questa crisi stava già fermentando nei giorni immediatamente successivi all’esecuzione del Báb, si era approfondita nei mesi in cui il controllo della mano di Bahá’u’lláh era stato improvvisamente ritratto a causa del Suo confino nel Síyáh-Chál di Teheran, s’era ulteriormente aggravata per il Suo precipitoso esilio dalla Persia e incominciò a mostrare i suoi molesti tratti nei primi anni del Suo soggiorno a Baghdad. La sua forza devastante acquistò impeto durante i due anni del Suo ritiro nelle montagne del Kurdistán e, pur frenata per un certo tempo dopo il Suo ritorno da Sulaymáníyih per i travolgenti influssi esercitati quali preliminari della Dichiarazione della Sua Missione, scoppiò poi con violenza ancor maggiore e culminò ad Adrianopoli, solo per ricevere infine il colpo mortale sotto l’impatto delle forze irresistibili sprigionate dalla proclamazione di quella Missione a tutta l’umanità.
20 La sua figura centrale fu niente meno che la persona nominata dal Báb, il credulo e codardo Mirza Yahyá, ad alcuni tratti del cui carattere si è già accennato nelle pagine precedenti. Lo scellerato furfante che gabbò e abbindolò con raffinata abilità e caparbia insistenza questo fatuo vanesio fu un certo Siyyid Muhammad nativo di Isfáhán, famigerato per la smodata ambizione, la cieca ostinazione e l’incontrollabile gelosia. A lui Bahá’u’lláh Si sarebbe poi riferito come a uno che aveva «traviato» Mirza Yahyá e, in una delle Sue Tavole, lo avrebbe stigmatizzato come «sorgente d’invidia e quintessenza del male», mentre ‘Abdu’l-Bahá descrisse la relazione esistente fra i due come quella del «lattante» con «l’apprezzatissimo seno» della madre. Costretto ad abbandonare gli studi nella Madrisiy-i-Sadr di Isfáhán, il siyyid era emigrato, nella vergogna e nel rimorso, a Karbilá, dove si era unito ai ranghi dei seguaci del Báb e, dopo il Suo martirio, aveva mostrato segni d’incertezza che rivelavano la superficialità della sua fede e la fondamentale debolezza delle sue convinzioni. La prima visita di Bahá’u’lláh a Karbilá e i segni di aperta reverenza, amore e ammirazione che alcuni dei più illustri fra i vecchi discepoli di Siyyid Kázim avevano mostrato verso di Lui avevano suscitato l’invidia di questo intrigante, spregiudicato calcolatore, alimentando nel suo animo un’ostilità che la tolleranza e la pazienza mostratagli da Bahá’u’lláh erano valse solo a infiammare. I suoi illusi aiutanti, volontari strumenti dei suoi diabolici piani, furono quel non esiguo numero di Bábí i quali, sconcertati, delusi e senza guida, erano già predisposti a farsi abbindolare da lui seguendo una strada diametralmente opposta ai principi e ai consigli del defunto Capo.
21 Infatti ora che il Báb non era più presente fra i Suoi seguaci, che la persona da Lui nominata era in cerca di un nascondiglio sicuro nella montagne del Mázindarán e, travestito da derviscio o da arabo, errava di città in città, che Bahá’u’lláh era prigioniero e poi esule oltre i confini del Suo paese natale, che il fior fiore della Fede era stato falcidiato in una serie apparentemente interminabile di stragi, i superstiti della comunità perseguitata erano immersi in un dolore che li atterriva e li paralizzava, soffocava il loro spirito, confondeva la loro mente e provava al massimo la loro lealtà. Ridotti a questi estremi non potevano più contare su una voce che avesse sufficiente autorità da calmare i loro presentimenti, da risolvere i loro problemi o prescrivere doveri e obblighi.
22 Nabíl che in quel periodo viaggiava nella provincia del Khurásán, teatro delle prime tumultuose vittorie di quella Fede emergente, aveva riassunto le sue impressioni della situazione generale. «Il fuoco della Causa di Dio» testimonia nella sua narrazione «era quasi spento dappertutto. Non trovai traccia di calore da nessuna parte». A Qazvín, secondo la stessa testimonianza, i superstiti della comunità si erano divisi in quattro fazioni, duramente opposte fra loro e preda delle più assurde dottrine e fantasie. Bahá’u’lláh, giungendo a Baghdad, città ch’era stata testimone delle appassionate dimostrazioni dell'infaticabile zelo di Táhirih, trovò fra i Suoi concittadini residenti nella città un solo Bábí, mentre a Kázimayn, abitata principalmente da persiani, restava soltanto un pugno di Suoi compatrioti che professavano ancora, nel timore e nell'oscurità, la Fede del Báb.
23 La moralità e il numero dei membri di questa comunità in declino si erano nettamente abbassati. Tale era la loro «ostinazione e follia», per citare le stesse parole di Bahá’u’lláh, che, liberato dalla prigione, la Sua prima decisione fu di dedicarSi «col più grande zelo al compito di rigenerare quella gente».
24 Mentre il carattere dei seguaci professi del Báb declinava e si moltiplicavano le prove della crescente confusione che li affliggeva, sempre più s’imbaldanzivano i fomentatori di discordie che stavano in agguato e il cui unico scopo era quello di sfruttare a proprio vantaggio il progressivo deterioramento della situazione. Il comportamento di Mirza Yahyá, che pretendeva d’essere il successore del Báb e che si gloriava degli altisonanti titoli di Mir’átu’l-Azalíyyih (Specchio eterno), Subh-i-Azal (Mattino dell’eternità) e Ismu’l-Azal (Nome dell’eternità), e soprattutto le macchinazioni di Siyyid Muhammad, da lui elevato al rango di primo fra i «Testimoni» del Bayán, assumevano ora un carattere tale che il prestigio della Fede stava per esserne direttamente compromesso e la sua sicurezza futura seriamente messa in pericolo.
25 Il primo, dopo l’esecuzione del Báb, aveva subito un colpo così violento che la fede l’aveva quasi abbandonato. Errando per un certo tempo sulle montagne del Mázindarán travestito da derviscio, con la sua condotta aveva così duramente provato la lealtà dei suoi confratelli di Núr, la maggior parte dei quali era stata convertita dall’infaticabile zelo di Bahá’u’lláh, che anche loro divennero insicuri delle proprie convinzioni e alcuni giunsero al punto di mettersi in combutta con il nemico. In seguito proseguì fino a Rasht e rimase nascosto nella provincia di Gílán fino alla partenza per Kirmánsháh, dove, per camuffarsi meglio, entrò al servizio di un certo ‘Abdu’lláh-i-Qazvíní, fabbricante di sudari, mettendosi a vendere le sue merci. Si trovava ancora lì quando Bahá’u’lláh passò per la città diretto a Baghdad e, avendo egli espresso il desiderio di vivere vicino a Lui, ma in una casa propria dove avrebbe potuto esercitare in incognito qualche commercio, riuscì a ottenere da Lui una somma di denaro con cui acquistò alcune balle di cotone e poi, travestito da arabo, si recò a Baghdad passando per Mandalíj. Là si stabilì nella via dei carbonai, situata in un quartiere fatiscente della città e, avvoltosi il capo con un turbante e assunto il nome di Hájí ‘Alíy-i-Lás-Furúsh, si dedicò a questa nuova occupazione. Frattanto Siyyid Muhammad si era sistemato a Karbilá e, facendo leva su Mirza Yahyá, era attivamente occupato a rinfocolare dissensi e a rovinare la vita degli esuli e della comunità che si era riunita attorno a loro.
26 Non fa meraviglia che dalla penna di Bahá’u’lláh, il Quale non poteva ancora divulgare il Segreto che fremeva nel Suo petto, siano sgorgate, in un momento in cui le ombre incominciavano ad addensarsi attorno a Lui, queste parole di avvertimento, di consiglio e rassicurazione: «I giorni delle prove sono ora giunti. Oceani di discordia e di tribolazione si sollevano e i Vessilli del dubbio sono intenti in tutti gli angoli a suscitare guai e a condurre gli uomini alla perdizione… Non lasciate che voci di soldati della negazione spargano dubbi fra voi, non permettete a voi stessi di divenire incuranti di Colui Che è la Verità, perché simili contese sono state suscitate in ogni Dispensazione. Ma Dio instaurerà la Sua Fede e manifesterà la Sua Luce, sebbene i fomentatori di discordia la aborriscano… Vegliate ogni giorno sulla Causa di Dio… Tutti sono prigionieri nel Suo pugno. Non v’è posto per alcuno ove fuggire. Non pensate che la Causa di Dio sia cosa da prendersi alla leggera, in cui ognuno possa soddisfare i propri capricci. In vari luoghi diverse anime hanno, attualmente, avanzato la medesima rivendicazione. S’avvicina il momento in cui… ciascuno di loro perirà e andrà perduto, anzi, diverrà un nulla, cosa dimenticata come polvere».
27 A Mirza Áqá Ján, «il primo a credere» in Lui, chiamato più tardi Khádimu’lláh (Servo di Dio) – un giovane Bábí infiammato di devozione che, influenzato da un sogno che aveva fatto del Báb e in seguito alla lettura di certi scritti di Bahá’u’lláh, aveva precipitosamente abbandonato la propria casa di Káshán per andare in Iraq nella speranza di giungere alla Sua presenza e che da allora Lo servì assiduamente per un periodo di quarant’anni nella triplice veste di amanuense, compagno e attendente – a lui, più che a chiunque altro, Bahá’u’lláh fu spinto a rivelare, in quell’ora critica, un barlume della gloria ancor nascosta del Suo rango. Lo stesso Mirza Áqá Ján, raccontando a Nabíl le sue esperienze di quella prima e indimenticabile notte trascorsa a Karbilá in presenza dell’Amato appena trovato Ch’era allora ospite di Hájí Mirza Hasan-i-Hakím-Báshí, aveva dato la seguente testimonianza: «Essendo estate Bahá’u’lláh aveva l’abitudine di trascorrere le serate e dormire sul tetto della casa… Quella notte, quando Egli andò a dormire, mi sdraiai, secondo le Sue istruzioni, per un breve riposo a pochi metri di distanza da Lui. Mi ero appena alzato e… stavo incominciando a recitare le preghiere in un angolo del tetto vicino alla parete, quando vidi la Sua benedetta Persona alzarSi e venire verso di me. Allorché mi fu vicino, disse: “Anche tu sei sveglio”. Dopo di che incominciò a cantare e a passeggiare avanti e in dietro. Come potrò mai descrivere quella voce e i versi che intonava e la Sua andatura mentre camminava a grandi passi davanti a me. A ogni passo che faceva e a ogni parola che pronunziava, sembrava che migliaia di oceani di luce sorgessero innanzi al mio volto e migliaia di mondi d’incomparabile splendore fossero svelati ai miei occhi e migliaia di soli dardeggiassero i loro raggi su di me! Circonfuso dalla luce della luna, continuò così a camminare e cantare. Ogni volta che mi Si avvicinava, Si fermava e con un tono così meraviglioso che nessuna lingua può descrivere diceva: “AscoltaMi, figlio Mio, in nome di Dio, l’Unico Vero! Questa Causa sarà sicuramente resa manifesta. Non badare alle oziose chiacchiere della gente del Bayán, che perverte il significato d’ogni parola”. In tal modo continuò a camminare e cantare e a rivolgermi queste parole finché non apparve il primo chiarore dell’alba… Poi trasportai il Suo giaciglio nella Sua stanza e, dopo che Gli ebbi preparato il tè, fui congedato dalla Sua presenza».
28 La fiducia che questo inaspettato e improvviso contatto con lo spirito e il genio direttivo della Rivelazione neonata infuse in lui, agitarono profondamente l’anima di Mirza Áqá Ján, un’anima già infiammata da uno struggente amore nato dal suo riconoscimento dell’ascendente che il Maestro appena scoperto aveva già conseguito sui Suoi condiscepoli in Iraq e in Persia. Questa profonda adorazione che improntava tutto il suo essere e che egli non poteva né reprimere né dissimulare fu subito scoperta da Mirza Yahyá e dal suo complice Siyyid Muhammad. Le circostanze che portarono alla rivelazione della Tavola di Kullu’t-Ta‘ám, scritta in quel periodo per richiesta di Hájí Mirza Kamálu’d-Dín-i-Naráqí, Bábí d’alto rango e grande cultura, non poterono non aggravare una situazione ch’era già divenuta seria e minacciosa. Spinto dal desiderio di avere una sua spiegazione sul significato del versetto coranico «Ogni cibo era lecito ai figli d’Israele», Hájí Mirza Kamálu’d-Dín aveva chiesto a Mirza Yahyá di scriverne un commento. La richiesta fu esaudita, ma con riluttanza e in una maniera che dimostrò tale incompetenza e superficialità da deludere Hájí Mirza Kamálu’d-Dín e distruggere la sua fiducia nell’autore. Egli si rivolse allora a Bahá’u’lláh ripetendo la richiesta ed ebbe l’onore di ricevere una Tavola in cui Israele e i suoi figli erano ravvisati rispettivamente nel Báb e nei Suoi compagni. Per le allusioni che conteneva, la bellezza del linguaggio e la forza di persuasione degli argomenti, la Tavola rapì talmente l’anima di colui al quale era diretta che egli, se non fosse stato frenato dalla mano di Bahá’u’lláh, avrebbe immediatamente proclamato d’aver scoperto il Segreto nascosto di Dio nella persona di Colui Che l’aveva rivelata.
29 A queste dimostrazioni di crescente venerazione per Bahá’u’lláh e di appassionato attaccamento alla Sua persona s’aggiungevano ora altri motivi per far esplodere le gelosie represse che il Suo crescente prestigio suscitava nel petto dei Suoi malevoli nemici. Il costante ampliamento della cerchia dei Suoi conoscenti e ammiratori, gli amichevoli rapporti con le autorità, compreso il governatore della città, il sincero omaggio spontaneamente tributatoGli in tante occasioni da uomini che erano stati in passato illustri compagni di Siyyid Kázim, la delusione creatasi per la persistente latitanza di Mirza Yahyá e le voci poco lusinghiere che circolavano sul suo carattere e sulle sue capacità, i segni di crescente indipendenza, innata sagacia, intrinseca superiorità e attitudine al comando inequivocabilmente mostrati da Bahá’u’lláh – tutto ciò contribuiva ad allargare la breccia che l’infame e astuto Siyyid Muhammad aveva assiduamente cercato di creare.
30 Si poteva ora vedere chiaramente un’opposizione clandestina, che si prefiggeva d’annullare ogni sforzo compiuto da Bahá’u’lláh e vanificare ogni disegno da Lui concepito per riabilitare la comunità sconvolta. Venivano fatte continuamente circolare insinuazioni allo scopo di spargere i semi del dubbio e del sospetto e di farLo apparire un usurpatore, il sovvertitore delle leggi istituite dal Báb e il distruttore della Sua Causa. Le Sue Epistole, interpretazioni, invocazioni e commentari erano nascostamente e indirettamente criticati, messi in discussione e travisati. Fu persino messo a punto un attentato contro la Sua persona, ma la sua realizzazione fallì.
31 La coppa delle sofferenze di Bahá’u’lláh stava ora traboccando. Tutte le Sue esortazioni, tutti i Suoi sforzi per rimediare una situazione che andava rapidamente deteriorandosi, si erano dimostrati vani. Il ritmo delle Sue molteplici sventure accelerava visibilmente di ora in ora. Sulla tristezza che Gli colmava l’anima e sulla gravità della situazione che doveva affrontare, gli scritti rivelati in quel fosco periodo gettano ampia luce. In alcune preghiere confessa amaramente che «tribolazione su tribolazione» Gli si sono addensate attorno, che i Suoi «avversari di comune accordo» si sono avventati contro di Lui, che «la malvagità» Lo ha dolorosamente toccato e che Gli sono accadute «le più nere sventure». Chiama Dio Stesso a testimone dei Suoi «sospiri e lamenti», della Sua «impotenza, povertà e desolazione», delle «offese» che ha sopportato e dell’«umiliazione» che ha sofferto. «Così doloroso è stato il Mio pianto», confessa in una di queste preghiere, «che m’ha impedito di menzionarTi e di cantare le Tue lodi». «Così alta è stata la voce del Mio lamento», dice in un altro passo, «che ogni madre che piange la morte del figlio ne sarebbe meravigliata e placherebbe le lacrime e il dolore». «I torti che ho subito», lamenta nella Lawh-i-Maryam, «hanno cancellato dalla Tavola del creato quelli subiti dal Mio primo Nome (il Báb)». E prosegue: «O Maryam! Dalla Terra di Tá (Teheran), dopo innumerevoli afflizioni, per ordine del Tiranno di Persia raggiungemmo l’Iraq, dove, dopo i ceppi dei nemici, fummo afflitti dalla perfidia degli amici. Sa Dio cosa Mi accadde poi!» E ancora: «Ho sopportato ciò che nessun uomo, passato o futuro, ha sofferto o soffrirà». Nella Tavola di Kullu’t-Ta‘ám testimonia: «Oceani di tristezza si sono sollevati su di Me e nessuno potrebbe sopportare di berne una sola goccia. Tale è il Mio dolore che la Mia anima si è quasi dipartita dal Mio corpo». «Presta orecchio, o Kamál!», esclama nella stessa Tavola descrivendo la Sua situazione, «alla voce di questa misera, questa negletta formica, che si è nascosta nel nido, il cui desiderio è di allontanarsi da voi e di scomparire dalla vostra vista, a causa di ciò che le mani degli uomini hanno operato. In verità, Dio è stato testimone fra Me e i Suoi servi». E ancora: «Guai a Me! Guai a Me!… tutto quello che ho visto, dal giorno in cui per la prima volta ho bevuto puro latte dal seno di Mia madre sino ad ora, è stato cancellato dalla Mia memoria, in conseguenza di ciò che le mani della gente hanno commesso». E nella Sua Qasídiy-i-Varqá’íyyih, un’ode rivelata durante i giorni del ritiro nelle montagne del Kurdistán in lode dell’Ancella che personificava lo Spirito di Dio recentemente sceso su di Lui, così dà sfogo alle sofferenze del Suo cuore addolorato: «Il diluvio di Noè non è che la misura delle lacrime che ho versato e il fuoco di Abramo un’effervescenza della Mia anima. Il dolore di Giacobbe non è che un riflesso delle Mie pene e le afflizioni di Giobbe una frazione delle Mie calamità». E questa è la Sua supplica in una delle Sue preghiere: «ElargisciMi la pazienza, Mio Signore! e rendiMi vittorioso sui trasgressori». Descrivendo nel Kitáb-i-Íqán la violenza della gelosia che a quel tempo incominciava a sguainare velenosi artigli, scriveva: «Oggigiorno, però, si diffondono tali sentori di gelosia che… dal principio della creazione del mondo… fino ad oggi mai si erano sollevati, né più si solleveranno per l’avvenire tanto odio, invidia, malignità». Allo stesso modo in un’altra Tavola dichiara: «Per due anni o poco meno ho evitato tutto fuorché Dio e ho chiuso gli occhi a tutto eccetto Lui, caso mai si spegnesse il fuoco dell’odio e si riducesse il calore della gelosia».
32 Lo stesso Mirza Áqá Ján ha testimoniato: «Quella Bellezza Benedetta palesava una tristezza tale che le membra del mio corpo tremavano». Ha anche riferito, come dice Nabíl nella sua narrazione, di aver visto una volta Bahá’u’lláh, poco prima del Suo ritiro, uscire improvvisamente di casa fra l’alba e l’aurora, il berretto da notte ancora sul capo, e, manifestando segni di agitazione tali da non poterLo guardare in viso, osservare con ira mentre camminava: «Queste creature sono le stesse che per tremila anni hanno adorato gli idoli e si sono inchinate davanti al Vitello d’oro. Anche adesso non sanno fare nulla di meglio. Quale relazione può esservi fra questa gente e Colui Che è il Sembiante della Gloria? Quali legami possono unire costoro a Colui Che è la suprema incarnazione di tutto ciò che è degno d’essere amato?». «Rimasi fermo», narra Mirza Áqá Ján, «inchiodato a terra, esanime, rinsecchito come un albero morto, pronto a cadere sotto i colpi del potere di quelle sconvolgenti parole. Infine Egli disse: “Ordina loro di recitare: ‘Chi può rimuovere le difficoltà eccetto Dio? Dite: Lodato sia Iddio! Egli è Dio! Tutti sono Suoi servi e tutti stanno al Suo comando!’. Dì loro di ripeterlo cinquecento, anzi, mille volte, giorno e notte, dormendo e vegliando, affinché, forse, il Sembiante della Gloria sia svelato ai loro occhi e cortine di luce discendano su loro”. Lui Stesso, ne fui informato in seguito, recitò questo versetto e dal Suo volto traspariva la più profonda tristezza… Molte volte in quei giorni Lo sentimmo osservare: “Ci siamo soffermati per un po’ di tempo fra questa gente e non abbiamo visto la minima risposta da parte loro”. Alludeva spesso alla Propria sparizione, ma nessuno di noi ne comprese il significato».
33 Alla fine, come attesta nel Kitáb-i-Íqán, scorgendo «i segni di imminenti avvenimenti», decise che prima che questi accadessero Si sarebbe ritirato. «Unico scopo del Nostro esilio», afferma in quello stesso Libro, «era quello di evitare di divenire ragione di discordia fra i fedeli, fonte di turbamento per i compagni, ragione d’oltraggio per una qualsiasi anima, o causa di sofferenza per un qualsiasi cuore». «Il Nostro ritiro», ha inoltre sottolineato con forza nello stesso passo, «non contemplava ritorno e la Nostra separazione non sperava riunione».
34 Improvvisamente e senza informarne nessuno, nemmeno i membri della famiglia, il 12 rajab 1270 dell’Egira (10 aprile 1854) partì accompagnato da un attendente, un musulmano che si chiamava Abu’l-Qásim-i-Hamadání, al quale dette una somma di danaro, ordinandogli di comportarsi da mercante e di usarla per sé. Poco dopo il servo fu aggredito dai ladri e ucciso e Bahá’u’lláh rimase completamente solo a errare per le desolate lande del Kurdistán, regione i cui gagliardi e bellicosi abitanti erano noti per la secolare ostilità contro i persiani che consideravano dissidenti dalla Fede islamica e dai quali differivano per modo di vedere, razza e lingua.
35 Indossato l’abito del viaggiatore, rozzamente vestito, senza prendere con sé nient’altro che un kashkúl (il piatto delle elemosine) e un cambio d’abito e assunto il nome di Darvísh Muhammad, Bahá’u’lláh Si ritirò in solitudine e visse per un certo tempo su una montagna chiamata Sar-Galú, così lontana da abitazioni umane che i contadini della regione vi si recavano soltanto due volte l’anno per la semina e per il raccolto. Solo e indisturbato, trascorse buona parte del Suo ritiro in cima a quella montagna in una rudimentale costruzione di pietra che ai contadini serviva da riparo contro gli eccessi del clima. A volte stava in una caverna alla quale accenna nelle Tavole indirizzate al famoso Shaykh ‘Abdu’r-Rahmán e a Maryam, una Sua parente. «Errai nel deserto della rassegnazione», così descrive i rigori della solitudine nella Tavola a Maryam, «viaggiando in tal guisa che nel Mio esilio ogni occhio pianse amaramente per Me e tutte le cose create versarono lagrime di sangue per la Mia angoscia. Miei compagni erano gli uccelli dell’aria e Mie alleate le bestie dei campi». «Dai Nostri occhi», testimonia nel Kitáb-i-Íqán, riferendoSi a quei giorni, «scorrevano lacrime d’angoscia e nel cuore sanguinante ondeggiava un oceano di atroce sofferenza. Più di una sera non avemmo di che sostentarCi e più di un giorno il Nostro corpo non trovò riposo… Soli, comunicavamo col Nostro spirito, dimentichi del mondo e di quanto contiene».
36 Nelle odi che rivelò assorto in preghiera durante quei giorni di completa solitudine, nelle preghiere e nei soliloqui, in versi e in prosa, in arabo e in persiano, che scaturirono dalla Sua anima oppressa dal dolore, molti dei quali cantava a voce alta all’alba e nelle veglie notturne, lodò i nomi e gli attributi del Creatore, esaltò le glorie e i misteri della Sua Rivelazione, cantò le lodi di quell’Ancella che personificava lo Spirito di Dio dentro di Lui, parlò della Sua solitudine e delle Sue tribolazioni passate e future, si soffermò sulla cecità della Sua generazione, la perfidia degli amici e la perversità dei nemici, espresse la Sua determinazione di levarSi e, se fosse stato necessario, di offrire la vita in difesa della Sua Causa, evidenziò i requisiti essenziali che ogni ricercatore della Verità deve possedere e ricordò, in anticipazione di quello che doveva essere il Suo destino, la tragedia dell’Imám Husayn a Karbilá, le difficoltà di Muhammad alla Mecca, le sofferenze di Gesù per mano dei giudei, le prove inflitte a Mosè dal faraone e dal suo popolo e l’ordalia di Giuseppe languente in una fossa per il tradimento dei fratelli. Queste prime appassionate effusioni di un’Anima che cerca di liberarSi nella solitudine di un esilio autoimposto (molte, purtroppo, perdute ai posteri), assieme alla Tavola di Kullu’t-Ta‘ám e al poema intitolato Rashh-i-‘Amá, rivelato a Teheran, sono i primi frutti della Sua Penna Divina. Essi anticipano quelle opere immortali, il Kitáb-i-Íqán, le Parole Celate e le Sette Valli, che negli anni precedenti la Sua Dichiarazione a Baghdad dovevano tanto arricchire la crescente mole dei Suoi Scritti e che aprirono la strada a un’ulteriore fioritura del Suo genio profetico nella Sua storica Proclamazione al mondo, espressa in forma di grandiose Epistole ai sovrani e ai governanti dell’umanità, e infine all’ultimo frutto della Sua Missione nelle Leggi e Ordinanze della Sua Dispensazione formulate durante il confino nella Più Grande Prigione di ‘Akká.
37 Bahá’u’lláh viveva ancora in solitudine sulla montagna quando uno Shaykh, che abitava a Sulaymáníyyih e aveva una proprietà nelle vicinanze, Lo cercò come gli era stato detto in sogno dal Profeta Muhammad. Poco dopo che fu stabilito questo contatto, Shaykh Ismá‘íl, capo dell’ordine dei khálidíyyih che viveva a Sulaymáníyyih, andò a trovarLo e dopo molte insistenze riuscì a convincerLo a trasferirSi in quella città. Nel frattempo i Suoi amici di Baghdad avevano scoperto dove Si trovava e avevano inviato Shaykh Sultán, suocero di Áqáy-i-Kalím, a scongiurarLo di ritornare. E fu mentre Egli viveva a Sulaymáníyyih in una stanza del Takyiy-i-Mawláná Khálid (un seminario teologico), che quel messo arrivò. «Trovai», ha dichiarato Shaykh Sultán raccontando a Nabíl le sue esperienze, «tutti quelli che vivevano con Lui in quel luogo, dal Maestro al più umile neofita, così invaghiti e rapiti d’amore per Bahá’u’lláh e così impreparati a prevedere la possibilità della Sua partenza, ch’ero sicuro che se li avessi informati dello scopo della mia visita non avrebbero esitato a porre fine alla mia vita».
38 Shaykh Sultán ha riferito che non molto tempo dopo il Suo arrivo in Kurdistán, Bahá’u’lláh era riuscito, grazie ai Suoi contatti personali con Shaykh ‘Uthmán, Shaykh ‘Abdu’r-Rahmán e Shaykh Ismá‘íl, onorati e indiscussi capi rispettivamente degli Ordini naqshbandíyyih, qádiríyyih e khálidíyyih, a conquistarne completamente il cuore e a stabilire su di loro il Suo ascendente. Il primo, Shaykh ‘Uthmán, contava fra i suoi seguaci niente meno che il Sultano e la sua corte. Il secondo, in risposta a una cui richiesta furono poi rivelate le «Quattro Valli», poteva contare sull’incrollabile lealtà di almeno centomila devoti seguaci e il terzo era talmente venerato dai suoi sostenitori da essere considerato pari a Khálid, il fondatore dell’ordine.
39 Quando Bahá’u’lláh giunse a Sulaymáníyyih, dato l’assoluto silenzio e la riservatezza inizialmente mantenuti, nessuno sospettò che possedesse sapere o saggezza. Fu solo per caso, vedendo un saggio della Sua squisita calligrafia mostrato loro da uno degli studenti che Lo servivano, che i dotti maestri e gli studenti del seminario s’incuriosirono e furono spinti ad avvicinarLo per saggiare il Suo sapere e la Sua conoscenza delle arti e delle scienze in auge fra loro. Quel centro di studi era rinomato per le vaste proprietà, le numerose takyih e il legame con Saláhí’d-Dín-i-Ayyúbí e i suoi discendenti e alcuni dei più illustri esponenti dell’Islam sunnita ne erano usciti per andare a divulgarne i precetti. E ora una delegazione, capeggiata dallo stesso Shaykh Ismá‘íl e composta dai più eminenti dottori e dai più distinti studenti, fece visita a Bahá’u’lláh e, appreso ch’era disposto a rispondere a qualunque domanda volessero rivolgerGli, Gli chiesero di spiegare, nel corso di diversi incontri, i passi oscuri contenuti nel Futúhát-i-Makkíyyih, la celebre opera del famoso Shaykh Muhíyi’d-Dín-i-‘Arabí. «Dio Mi è testimone», rispose immediatamente Bahá’u’lláh alla dotta delegazione, «che non ho mai visto il libro cui vi riferite. Ma considero che, grazie al potere di Dio,… qualunque cosa vogliate Io faccia sia facile a compiersi». Chiesto a uno di loro di leggerGliene ad alta voce una pagina al giorno, risolse le loro perplessità in modo così sorprendente ch’essi furono sopraffatti dall’ammirazione. Non Si accontentava semplicemente di chiarire i passi oscuri del testo, ma interpretava le intenzioni dell’autore, ne spiegava la dottrina e ne svelava lo scopo. Talvolta arrivava perfino a discutere la validità di alcune delle opinioni esposte nel libro e dava la corretta interpretazione dei temi ch’erano stati male interpretati, sostenendola con prove e dimostrazioni del tutto convincenti per gli ascoltatori.
40 Sorpresi dalla profondità del Suo intuito e dalla vastità della Sua comprensione, essi si spinsero fino a chiederGli quella che consideravano una prova finale e conclusiva del potere e dell’incomparabile sapienza che ai loro occhi Egli sembrava possedere. «Fra i mistici, i saggi e i sapienti», affermarono chiedendoGli quest’ulteriore favore, «nessuno finora è stato in grado di scrivere un poema di rima e metro identici alla più lunga delle due odi composte da Ibn-i-Faríd e intitolata Qasídiy-i-Tá’íyyih. Vi preghiamo di scrivere per noi un poema nello stesso metro e nella stessa rima». Egli acconsentì alla richiesta e dettò non meno di duemila versi esattamente come avevano specificato, ne scelse centoventisette che permise loro di conservare, ritenendo gli argomenti degli altri prematuri e inadatti alle necessità dei tempi. Quei centoventisette versi costituiscono la Qasídiy-i-Varqá’íyyih, tanto conosciuta e diffusa fra i Suoi seguaci di lingua araba.
41 La reazione a questa meravigliosa dimostrazione della sagacia e del genio di Bahá’u’lláh fu tale che essi riconobbero unanimemente che ogni verso di quel poema era dotato di tanta forza, bellezza e potenza da superare di gran lunga qualunque cosa fosse contenuta nelle odi maggiori e minori del celebre poeta.
42 Questo episodio, senza dubbio il più straordinario tra gli eventi che si verificarono nei due anni d’assenza di Bahá’u’lláh da Baghdad, stimolò moltissimo l’interesse col quale un crescente numero di ‘ulamá, studiosi, shaykh, dottori, santi uomini e principi che si erano raccolti nei seminari di Sulaymáníyyih e Karkúk seguivano ora le Sue attività giornaliere. Con numerosi discorsi ed epistole Egli dischiuse nuovi orizzonti ai loro occhi, risolse le perplessità che agitavano la loro mente, spiegò il significato recondito dei numerosi passi oscuri degli scritti di diversi commentatori, poeti e teologi che essi non avevano capito e ricompose le affermazioni apparentemente contraddittorie che abbondavano in queste dissertazioni, poemi e trattati. La stima e il rispetto che Gli portavano erano tali che alcuni Lo consideravano uno degli «Uomini dell’invisibile», altri un esperto di alchimia e scienza della divinazione, altri ancora Lo chiamavano «perno dell’universo», mentre un non esiguo numero di Suoi ammiratori giunse al punto da credere che il Suo stadio non fosse inferiore a quello di un profeta. Curdi, arabi e persiani, colti e analfabeti, grandi e umili, giovani e vecchi che erano venuti per conoscerLo, Lo consideravano con pari reverenza e non pochi di loro con genuino e profondo affetto, e ciò malgrado Egli avesse fatto pubblicamente alcune affermazioni e allusioni al Proprio rango che, se fossero uscite dalla bocca di qualsiasi altro membro della Sua razza, avrebbero scatenato un’ira tale da metterne a repentaglio la vita. Non fa quindi meraviglia che Bahá’u’lláh nella Lawh-i-Maryam abbia giudicato il periodo del Suo isolamento come «la più potente testimonianza» e «la prova più perfetta e conclusiva» della verità della Sua Rivelazione. «In breve tempo», dice la testimonianza di ‘Abdu’l-Bahá, «il Kurdistán fu magnetizzato dal Suo amore. In quel periodo Bahá’u’lláh visse in povertà. Le Sue vesti erano quelle del povero e del bisognoso. Il Suo cibo quello dell’indigente e del misero. Un’aura di maestà aleggiava attorno a Lui come un sole del meriggio. Era molto riverito e amato dappertutto».
43 Mentre le fondamenta della futura grandezza di Bahá’u’lláh venivano poste in terra straniera e fra gente straniera, la situazione della comunità Bábí stava rapidamente andando di male in peggio. I fomentatori di discordia con i complici che avevano ingannato, compiaciuti e imbaldanziti dal Suo inatteso e prolungato ritiro dalla scena dei Suoi lavori, s’impegnavano attivamente per allargare il raggio delle loro nefaste attività. Mirza Yahyá, rinchiuso per la maggior parte del tempo in casa, dirigeva segretamente, per mezzo di una corrispondenza con Bábí di sua piena fiducia, una campagna destinata a screditare completamente Bahá’u’lláh. Temendo qualsiasi potenziale avversario, aveva inviato nell’Azerbaigian uno dei suoi sostenitori, Mirza Muhammad-i-Mázindarání, col preciso incarico di assassinare Dayyán, il «depositario della sapienza di Dio», che lui aveva soprannominato «Padre d’iniquità» e stigmatizzato come «Tághút» e che il Báb aveva celebrato come «Terza Lettera a credere in Colui Che Dio manifesterà». Nella sua follia, aveva inoltre indotto Mirza Áqá Ján a recarsi a Núr e attendervi il momento opportuno per attentare con successo alla vita del sovrano. La sua impudenza e sfrontatezza erano arrivate a tal segno da indurlo a perpetrare un atto che avrebbe poi permesso a Siyyid Muhammad di ripeterlo dopo di lui, così odioso che Bahá’u’lláh lo definì un «gravissimo tradimento», un atto che disonorava il Báb e che «sopraffece di dolore tutta la terra». A riprova dell’enormità dei suoi crimini, ordinò anche che Mirza ‘Alí-Akbar, cugino del Báb e fervente ammiratore di Dayyán, fosse segretamente messo a morte, un ordine che fu eseguito in tutta la sua iniquità. Quanto a Siyyid Muhammad al quale il suo padrone Mirza Yahyá aveva lasciato mano libera, come Nabíl che a quel tempo era con lui a Karbilá afferma categoricamente, si era circondato di una banda di malviventi ai quali permetteva, anzi che incoraggiava a strappare la notte il turbante dal capo dei ricchi pellegrini riuniti a Karbilá, a rubarne le scarpe, ad asportare dalla tomba dell’Imám Husayn divani e candele, a impadronirsi dei bicchieri delle fontane pubbliche. La profonda degradazione nella quale erano caduti quei cosiddetti aderenti della Fede del Báb non poteva non rievocare in Nabíl il ricordo della sublime rinuncia dimostrata dalla condotta dei compagni di Mullá Husayn che, per suggerimento del loro capo, avevano sdegnosamente gettato sul ciglio della strada l’oro, l’argento e i turchesi che possedevano, o del comportamento di Vahíd che si era rifiutato di lasciare che anche il meno prezioso dei tesori contenuti nella sua sontuosa casa di Yazd fosse portato in salvo prima che essa fosse saccheggiata dalla folla, o della decisione di Hujjat di non permettere ai compagni morenti di fame d’appropriarsi di cose altrui neanche per salvare la propria vita.
44 Tali erano l’audacia e la sfrontatezza di questi demoralizzati e traviati Bábí che, secondo la testimonianza di ‘Abdu’l-Bahá, almeno venticinque persone ebbero la sfrontatezza di dichiararsi il Promesso predetto dal Báb! Tale era il declino delle loro fortune che a mala pena osavano mostrarsi in pubblico. Quando li incontravano per la strada, curdi e persiani facevano a gara nell’insultarli e nel disprezzare apertamente la Causa che professavano. Non fa meraviglia che, ritornato a Baghdad, Bahá’u’lláh descrivesse la situazione con queste parole: «Trovammo non più che un manipolo di anime, deboli e scoraggiate, anzi completamente perdute e morte. La Causa di Dio aveva cessato di essere sulla bocca della gente, né vi era alcun cuore ricettivo al Suo messaggio». Tale fu la tristezza che Lo colse all’arrivo che Si rifiutò per qualche tempo di uscire di casa, fuorché per le visite a Kázimayn o per gli occasionali incontri con amici residenti in quella città o a Baghdad.
45 La tragica situazione che si era creata nei due anni della Sua assenza richiedeva ora imperativamente il Suo ritorno. «Dalla mistica Sorgente», spiega Egli Stesso nel Kitáb-i-Íqán, «venne l’appello che Ci ordinò di ritornare là donde eravamo venuti. Sottomettendo la Nostra volontà alla Sua, Ci conformammo alla Sua ingiunzione». «Nel nome di Dio oltre il Quale altro Dio non v’è!», disse con forza a Shaykh Sultán, come Nabíl riferisce nel suo libro. «Se non avessi riconosciuto che la Causa benedetta del Punto Primo era sul punto di essere completamente annientata e che tutto il sacro sangue versato sulla via di Dio sarebbe stato sparso invano, non avrei mai acconsentito a ritornare al popolo del Bayán e li avrei abbandonati ad adorare gli idoli che le loro immaginazioni avevano creato».
46 Inoltre, Mirza Yahyá, rendendosi pienamente conto a qual punto la sua incontrollata guida della Fede lo aveva portato, aveva insistentemente e per iscritto scongiurato Bahá’u’lláh di ritornare. Non meno urgenti erano le preghiere dei parenti e degli amici, in particolare quelle del figlio dodicenne ‘Abdu’l-Bahá al Quale dolore e solitudine avevano tanto consumato l’anima che, come aveva confessato in una conversazione riferita da Nabíl nella sua storia, in seguito alla partenza di Bahá’u’lláh, pur fanciullo, era diventato vecchio.
47 Deciso a concludere il periodo del Proprio isolamento, Bahá’u’lláh Si congedò dagli shaykh di Sulaymáníyyih, che erano ora fra i Suoi più ardenti e devoti sostenitori, come il loro comportamento poi dimostrò. Accompagnato da Shaykh Sultán, Si rincamminò verso Baghdad sulle «rive del Fiume della tribolazione», come lo definì, procedendo con lentezza, poiché Si rendeva conto, come disse al Suo compagno di viaggio, che quegli ultimi giorni di ritiro sarebbero stati «i soli giorni di pace e tranquillità» che Gli erano rimasti, «giorni che non Mi sarebbero mai più toccati in sorte».
48 Arrivò a Baghdad il 12 rajab 1272 dell’Egira (19 Mirza 1856), esattamente due anni lunari dopo la Sua partenza per il Kurdistán.
CAPITOLO VIII1 Il ritorno di Bahá’u’lláh da Sulaymáníyyih a Baghdad segna una svolta della massima importanza nella storia del primo secolo bahá’í. Le sorti della Fede, dopo aver toccato il fondo, stavano ora incominciando a risollevarsi ed erano destinate a procedere, stabilmente e maestosamente, verso una nuova vetta, associata questa volta alla Dichiarazione della Sua Missione, la vigilia del Suo esilio a Costantinopoli. Con il Suo ritorno a Baghdad, veniva ora fissato un solido ancoraggio, quale la Fede non aveva mai conosciuto nella sua storia. Mai prima, fuorché nei primi tre anni della sua vita, poteva affermare d’aver avuto un centro fisso e accessibile al quale i suoi aderenti potessero rivolgersi per avere una guida e da cui potessero continuamente e liberamente trarre ispirazione. Il Báb aveva trascorso circa la metà del Suo breve ministero nei più remoti confini del Suo paese natale, dove era stato tenuto segregato e virtualmente tagliato fuori dalla grande maggioranza dei Suoi discepoli. Il periodo immediatamente successivo al Suo martirio era stato caratterizzato da una confusione ancor più dolorosa dell’isolamento causato dalla forzata cattività. E quando la Rivelazione da Lui predetta fece la sua apparizione, non fu seguita da un’immediata dichiarazione che permettesse ai membri della sconvolta Comunità di stringersi attorno alla figura dell’atteso Liberatore. La prolungata latitanza cui si era dato Mirza Yahyá, centro provvisoriamente nominato in attesa della manifestazione del Promesso, i nove mesi d’assenza di Bahá’u’lláh dalla terra natia per una visita a Karbilá ben presto seguiti dalla carcerazione nel Síyáh-Chál, dall’esilio in Iraq e dal ritiro nel Kurdistán – tutto contribuì a prolungare la fase d’instabilità e incertezza che la comunità Bábí doveva attraversare.
2 Ora finalmente, malgrado la riluttanza di Bahá’u’lláh a rivelare il mistero della Sua posizione, i Bábí potevano concentrare le loro speranze e le loro mosse attorno a Colui Che (qualunque fossero le loro opinioni quanto al Suo rango) credevano capace di garantire la stabilità e l’integrità della loro Fede. L’orientamento che la Fede aveva così assunto e la stabilità del centro verso il quale ora gravitava continuarono, in una forma o nell’altra, a essere le sue eccezionali caratteristiche, delle quali non sarebbe mai più stata privata.
3 La Fede del Báb, come si è già osservato, a causa dei successivi e terribili colpi ricevuti, era giunta sull’orlo dell’estinzione. E l’importantissima Rivelazione conferita a Bahá’u’lláh nel Síyáh-Chál non aveva prodotto immediatamente risultati tangibili di natura tale da esercitare un’influenza stabilizzante su quella comunità quasi disfatta. L’inatteso esilio di Bahá’u’lláh era stato un ulteriore colpo per i suoi membri che avevano imparato a riporre la loro fiducia in Lui. L’isolamento e l’inerzia di Mirza Yahyá avevano ulteriormente accelerato il processo di disgregazione già iniziato. Il prolungato ritiro di Bahá’u’lláh nel Kurdistán sembrò averne suggellato la completa dissoluzione.
4 Ma ora la marea che si era abbassata in modo così allarmante incominciava a risalire, portando con sé, mentre si avvicinava al culmine, gli inestimabili benefici che dovevano precedere l’annuncio della Rivelazione già segretamente palesata a Bahá’u’lláh.
5 Nei sette anni che trascorsero fra la ripresa del Suo impegno e la dichiarazione della Sua missione profetica – anni verso i quali è rivolta ora la nostra attenzione – non sarebbe esagerato dire che, sotto il nome e nella forma di una risorta comunità Bábí, era nata e andava lentamente prendendo forma la comunità bahá’í, sebbene il suo Creatore apparisse ancora come uno dei più eminenti discepoli del Báb e come tale continuasse ancora ad operare. Fu un periodo durante il quale il prestigio del capo nominale della comunità andò sempre più affievolendosi, mentre impallidiva di fronte al sorgente splendore di Colui Che era il vero Capo e Liberatore. Fu un periodo durante il quale maturarono e furono raccolti i primi frutti di un esilio dotato di incalcolabili potenzialità. Fu un periodo che passerà alla storia come un momento durante il quale il prestigio di quella comunità ricreata crebbe enormemente, la sua morale fu riformata, il suo riconoscimento di Colui Che ne riabilitava le sorti fu entusiasticamente dichiarato, la sua letteratura si arricchì grandemente e le sue vittorie sui nuovi avversari furono universalmente riconosciute.
6 Il prestigio della comunità, e in particolare quello di Bahá’u’lláh, incominciavano ora dopo un primo inizio nel Kurdistán a salire in un continuo crescendo. Bahá’u’lláh aveva appena ripreso in pugno le redini dell’autorità che aveva abbandonato, quando i devoti ammiratori lasciati a Sulaymáníyyih incominciarono ad affluire a Baghdad, sulle labbra il nome di «Darvísh Muhammad», loro mèta la «casa di Mirza Músá, il Bábí». Stupefatti nel vedere tanti ‘ulámá e súfí di origine curda degli ordini qádiríyyih e khálidíyyih affollare la casa di Bahá’u’lláh e spinti da rivalità razziali e confessionali, i capi religiosi della città, come il famoso Ibn-i-Álúsí, muftí di Baghdad, assieme a Shaykh ‘Abdu’s-Sálam, Shaykh ‘Abdu’l-Qádir e Siyyid Dáwúdí, incominciarono a cercare la Sua presenza e, avendo avuto risposte del tutto soddisfacenti ai loro numerosi quesiti, si unirono al gruppo dei Suoi primi ammiratori. Il fatto che questi eminenti capi riconoscessero incondizionatamente i tratti che contraddistinguevano il carattere e il comportamento di Bahá’u’lláh stimolarono la curiosità e poi suscitarono gli illimitati elogi di numerosi osservatori di posizione più modesta, fra i quali figuravano poeti, mistici e notabili che visitavano la città o vi risiedevano. Funzionari governativi, primi fra tutti ‘Abdu’lláh Páshá, il suo luogotenente, Mahmúd Áqá, e Mullá ‘Alí Mardán, un curdo assai noto in quei circoli, vennero a poco a poco in contatto con Lui e contribuirono a spargere dappertutto la Sua fama che si andava rapidamente diffondendo. Neppure gli illustri persiani che vivevano a Baghdad e nei dintorni, o che visitavano da pellegrini i Luoghi santi, potevano restare indifferenti alla seduzione del Suo fascino. Principi di sangue reale, fra i quali personaggi come il Ná’ibu’l-Íyálih, lo Shujá‘u’d-Dawlih, il Sayfu’d-Dawlih e Zaynu’l-Ábidín Khán, il Fakhru’d-Dawlih, furono anch’essi irresistibilmente attratti nella cerchia sempre più ampia dei Suoi amici e conoscenti.
7 Coloro che nei due anni di assenza di Bahá’u’lláh da Baghdad avevano con tale pervicacia disprezzato e chiassosamente dileggiato i Suoi compagni e familiari erano ora, per la maggior parte, zittiti. Un non esiguo numero di costoro finse per Lui stima e rispetto, alcuni pretesero d’essere Suoi difensori e sostenitori, altri dichiararono di condividere il Suo credo e s’unirono di fatto alla comunità cui Egli apparteneva. Tale fu la portata della reazione che si era messa in moto che uno di loro fu perfino udito vantarsi d’aver conosciuto e abbracciato la Sua Fede nel 1250 dell’Egira, dieci anni prima della Dichiarazione del Báb!
8 A pochi anni dal ritorno di Bahá’u’lláh da Sulaymáníyyih la situazione era completamente capovolta. La casa di Sulaymán-i-Ghannám, che venne poi ufficialmente chiamata Bayt-i-A‘zam (la Più Grande Casa) e che a quel tempo era conosciuta come l’abitazione di Mirza Músá, il Bábí, una modestissima residenza situata nel quartiere di Karkh, nelle vicinanze della riva occidentale del fiume, nella quale la famiglia di Bahá’u’lláh si era trasferita prima del Suo ritorno dal Kurdistán, era ora divenuta il punto focale di un gran numero di ricercatori, visitatori e pellegrini, curdi, persiani, arabi e turchi, di estrazione musulmana, ebrea e cristiana. Era inoltre diventata un vero e proprio santuario in cui le vittime dell’ingiustizia dei rappresentanti ufficiali del governo persiano usavano rifugiarsi nella speranza di ottenere riparazione dei torti subiti.
9 Allo stesso tempo un afflusso di Bábí persiani, il cui unico scopo era di giungere alla presenza di Bahá’u’lláh, ingrossava la fiumana di visitatori che affluiva attraverso le sue porte ospitali. Riportando al ritorno nel loro paese natale innumerevoli testimonianze verbali e scritte del Suo potere e della Sua gloria in costante ascesa, essi dettero un importante contributo all’espansione e al progresso della Fede recentemente rinata. Quattro cugini e lo zio materno del Báb, Hájí Mirza Siyyid Muhammad, una nipote di Fath-‘Alí Sháh, detta Varaqatu’r-Ridvan, fervente ammiratrice di Táhirih, l’erudito Mullá Muhammad-i-Qá’iní, detto Nabíl-i-Akbar, il già famoso Mullá Sádiq-i-Khurásání, detto Ismu’lláhu’l-Asdaq, che con Quddús era stato ignominiosamente perseguitato a Shíráz, Mullá Báqir, una delle Lettere del Vivente, Siyyid Asadu’lláh, soprannominato Dayyán, il reverendo Siyyid Javád-i-Karbilá’í, Mirza Muhammad-Hasan e Mirza Muhammad-Husayn, più tardi immortalati rispettivamente coi titoli di Sultánu’sh-Shuhadá e Mahbúbu’sh-Shuhadá (Re dei martiri e Benamato dei martiri), Mirza Muhammad-‘Alíy-i-Nahrí, la cui figlia fu successivamente unita in matrimonio con ‘Abdu’l-Bahá, l’immortale Siyyid Ismá‘íl-i-Zavári’í, Hájí Shaykh Muhammad, che il Báb aveva soprannominato Nabíl, il distinto Mirza Áqáy-i-Munír, detto Ismu’lláhu’l-Muníb, il paziente Hájí Muhammad-Táqí, detto Ayyúb, Mullá Zaynu’l-Ábidín, soprannominato Zaynu’l-Muqarrabín che era stato uno stimatissimo mujtahid – tutti costoro furono fra i visitatori e i condiscepoli che varcarono la Sua soglia, colsero un barlume dello splendore della Sua maestà e trasmisero dappertutto l’influenza creatrice istillata in loro dal contatto col Suo spirito. Mullá Muhammad-i-Zarandí, detto Nabíl-i-A‘zam, che può essere considerato il Suo poeta laureato, il Suo cronista e Suo infaticabile discepolo, aveva già raggiunto gli esuli e si era imbarcato nella sua ardua e lunga serie di viaggi in Persia per promuovere la Causa del suo Diletto.
10 Perfino la maggior parte di coloro che a Baghdad, Karbilá. Qum, Kashán, Tabríz e Teheran, nella loro follia e temerarietà, si erano arrogati i diritti di «Colui Che Dio manifesterà» assumendone il titolo, cercarono istintivamente la Sua presenza, confessarono il proprio errore e Lo supplicarono di perdonarli. Col passar del tempo, i fuggiaschi, spinti dal timore sempre presente delle persecuzioni, cercarono con mogli e figli la relativa sicurezza offerta loro dalla vicinanza a Colui Che era già divenuto punto di raccolta per i membri di una comunità duramente provata. Esuli persiani d’alto rango, ignorando, di fronte al crescente prestigio di Bahá’u’lláh, i dettami della moderazione e della prudenza, sedevano ai Suoi piedi, dimentichi del proprio orgoglio, e assimilavano, ciascuno secondo le proprie capacità, una parte del Suo spirito e della Sua saggezza. I più ambiziosi, come ‘Abbás Mirza, uno dei figli di Muhammad Sháh, il Vazír-Nizám e Mirza Malkam Khán, come anche alcuni funzionari di governi stranieri, cercarono, nella loro miopia, di assicurarsi il Suo appoggio e la Sua assistenza a favore dei disegni che stavano loro a cuore, disegni che Egli condannò risolutamente e severamente. Non restò insensibile alla posizione occupata ora da Bahá’u’lláh neppure l’allora rappresentante del Governo britannico, il colonnello Sir Arnold Burrows Kemball, console generale a Baghdad. Scambiando con Lui un’amichevole corrispondenza, Gli offrì, come attesta lo Stesso Bahá’u’lláh, la protezione della cittadinanza britannica, andò a trovarLo di persona e s’impegnò di trasmettere alla regina Vittoria qualunque comunicazione Egli desiderasse inoltrarle. Si dichiarò anche pronto a organizzarGli un trasferimento di residenza in India o in qualsiasi altro posto di Suo gradimento. Bahá’u’lláh declinò il suggerimento, preferendo rimanere nei domini del Sultano di Turchia. E alla fine, nell’ultimo anno del Suo soggiorno a Baghdad, il governatore Námiq-Páshá, colpito dai molteplici innumerevoli segni di stima e venerazione nei Suoi riguardi, andò a trovarLo per porgere il suo personale omaggio a Colui Che aveva già conseguito una vittoria così notevole sul cuore e sull’anima di coloro che Lo avevano incontrato. Così profondo era il rispetto che il Governatore nutriva per Lui, Che considerava una della Luci dell’Era, che solo dopo tre mesi, durante i quali aveva ricevuto una dopo l’altra cinque ordinanze da ‘Alí Páshá, egli si decise a informare Bahá’u’lláh che il governo turco voleva che Egli Si recasse nella capitale. Una volta in cui ‘Abdu’l-Bahá e Áqáy-i-Kalím avevano ricevuto da Bahá’u’lláh l’incarico di fargli visita, egli li intrattenne con un così elaborato cerimoniale che il Vicegovernatore dichiarò che, per quanto ne sapesse, nessun governatore fino ad allora aveva mai accordato a un notabile della città un’accoglienza così calorosa e cortese. Il sultano ‘Abdu’l-Majíd era stato infatti tanto colpito dai favorevoli rapporti su Bahá’u’lláh ricevuti dai successivi governatori di Baghdad (così il Vicegovernatore disse personalmente a Bahá’u’lláh) che si era costantemente rifiutato di approvare le richieste del governo persiano di consegnarLo al loro rappresentante o di espellerLo dal territorio turco.
11 In nessuna circostanza precedente, fin dall’inizio della Fede, nemmeno durante i giorni in cui a Isfáhán, Tabríz e Chihríq il Báb fu acclamato dalle ovazioni della popolazione entusiasta, uno dei suoi esponenti era assurto a tale eminenza nella pubblica opinione o aveva esercitato un’influenza tanto estesa e potente su una cerchia di ammiratori così varia. Eppure, sebbene l’influenza conseguita da Bahá’u’lláh mentre, in quella prima fase della Fede, viveva a Baghdad fosse senza precedenti, il suo ambito, a quel tempo, era modesto in confronto alle dimensioni della fama che la Fede acquistò alla fine di quella stessa fase nei continenti europeo e americano per diretta ispirazione del Centro del Suo Patto.
12 L’ascendente conseguito da Bahá’u’lláh fu dimostrato soprattutto nella perizia con cui allargò le vedute e trasformò il carattere della comunità alla quale apparteneva. Sebbene fosse nominalmente un Bábí e le leggi del Bayán fossero ancora considerate obbligatorie e inviolabili, Egli riuscì a inculcare un modello di vita che, pur non essendo incompatibile con le dottrine della Dispensazione Bábí, era eticamente superiore ai più eccelsi principi da essa stabiliti. Inoltre Egli delucidò, riaffermò e ripristinò nella vita collettiva della comunità e nell’animo degli individui che la componevano le salutari e fondamentali verità sostenute dal Báb, ch’erano state oscurate, trascurate o fraintese. La dissociazione della Fede Bábí da qualunque forma di attività politica e da ogni associazione o fazione segreta, l’enfasi data al principio della non violenza, l’obbligo della rigorosa obbedienza alle autorità costituite, il bando imposto a ogni forma di sedizione, maldicenza, rappresaglia e disputa, l’importanza attribuita alla religiosità, alla gentilezza, all’umiltà e alla pietà, all’onestà e alla sincerità, alla castità e alla fedeltà, alla giustizia, alla tolleranza, alla socievolezza, all’amicizia e alla concordia, all’acquisizione di arti e scienze, al sacrificio e al distacco, alla pazienza, alla fermezza e alla rassegnazione al volere di Dio – queste le caratteristiche salienti di un codice di comportamento etico di cui libri, trattati ed epistole rivelati dall’infaticabile penna di Bahá’u’lláh in quegli anni recano inequivocabile testimonianza.
13 «Con l’aiuto di Dio e della Sua divina grazia e misericordia», ha scritto Lui Stesso riferendoSi al carattere e alle conseguenze dei Suoi sforzi in quel periodo, «rivelammo come pioggia copiosa i Nostri versetti e li inviammo in varie parti del mondo. Con i Nostri saggi consigli e amorevoli ammonimenti esortammo tutti gli uomini, e in particolare queste genti, e proibimmo loro di suscitare sedizioni, dissensi, dispute e conflitti. Perciò e per grazia di Dio, ostinazione e follia si tramutarono in devozione e comprensione e le armi divennero strumenti di pace». «Dopo il Suo ritorno (da Sulaymáníyyih)», affermò ‘Abdu’l-Bahá, «Bahá’u’lláh fece tali vigorosi sforzi per educare e addestrare questa comunità, per riformarne gli atteggiamenti, per regolarne gli affari e riabilitarne le sorti, che in breve tempo tutte le difficoltà e i torti s’appianarono e nel cuore degli uomini regnarono una grande pace e una grande tranquillità». E ancora: «Quando questi principi si stabilirono nel cuore di questa gente, essi agirono dappertutto in modo tale che, nella considerazione delle persone autorevoli, divennero famosi per l’integrità del carattere, la fermezza del cuore, la purezza dei moventi, la lodabilità degli atti e l’eccellenza della condotta».
14 L’eccelso carattere degli insegnamenti di Bahá’u’lláh proposti in quel periodo è forse meglio illustrato dalla seguente dichiarazione da Lui fatta in quei giorni a un funzionario che Gli aveva riferito della propria esitazione a infliggere a un delinquente la punizione che meritava a causa della devozione che quel malfattore aveva per Lui: «Ditegli che nessuno in questo mondo può vantarsi di avere una relazione con Me, tranne coloro che, in tutte le azioni e nel comportamento, seguono il Mio esempio, in tal guisa che tutti i popoli della terra non potrebbero impedir loro di fare e dire quello che è acconcio e conveniente». «Se questo Mio fratello», dichiarò inoltre a quel funzionario, «Mirza Músá, figlio dei Miei stessi padre e madre, che dalla prima infanzia Mi ha tenuto compagnia, dovesse commettere un atto contrario agli interessi dello Stato o della religione e la sua colpevolezza fosse dimostrata ai vostri occhi, se gli legaste le mani e lo gettaste ad annegare nel fiume rifiutando di tener conto di qualunque intercessione in suo favore, sarei soddisfatto e apprezzerei la vostra azione». In un’altra occasione, volendo sottolineare la Sua ferma condanna d’ogni atto di violenza, ha scritto: «È più accettabile ai Miei occhi che si faccia del male a uno dei Miei figli e dei Miei parenti, piuttosto che si offenda un’anima».
15 «La maggior parte di coloro che circondavano Bahá’u’lláh», scrisse Nabíl descrivendo lo spirito che animava la riformata comunità Bábí a Baghdad, «ponevano una tale cura nel purificarsi e santificarsi l’anima che non si lasciavano uscire di bocca una sola parola che non fosse conforme al volere di Dio e non muovevano neanche un passo che potesse essere contrario al Suo beneplacito». «Ognuno di loro», riferisce, «aveva fatto con un condiscepolo un patto, in base al quale s’impegnavano d’ammonirsi reciprocamente e, se necessario, di punirsi vicendevolmente con un certo numero di colpi sulla pianta dei piedi, proporzionato alla gravità dell’infrazione contro i nobili modelli che avevano giurato d’osservare». Descrivendo il fervore del loro zelo egli dichiara che «il trasgressore non accettava di mangiare o di bere finché non era stato punito».
16 La completa trasformazione che la parola scritta e proferita da Bahá’u’lláh aveva effettuato sulle idee e sul carattere dei Suoi compagni era pari all’ardente devozione che il Suo amore aveva acceso nelle loro anime. Uno zelo e un fervore appassionati, che emulavano l’entusiasmo che aveva bruciato con tanto ardore in petto ai discepoli del Báb nei momenti di maggiore esaltazione, avevano ora preso il cuore degli esuli di Baghdad e galvanizzato tutto il loro essere. «Così inebriato, così rapito dai dolci aromi del Mattino della Rivelazione divina era ciascuno di loro», ha scritto Nabíl descrivendo la fecondità di questa straordinaria rinascita spirituale, «che pareva che da ogni rovo sbocciassero mazzi di fiori e ogni seme producesse innumerevoli raccolti». «La stanza della Più Grande Casa riservata al ricevimento dei visitatori di Bahá’u’lláh», racconta il nostro cronista «pur cadente e da tempo priva della sua funzionalità, essendo stata sfiorata dai passi benedetti del Benamato, gareggiava con il più Eccelso Paradiso. Pur avendo un soffitto basso, sembrava toccare le stelle e per quanto non vantasse che un solo sedile fatto di rami di palma sul quale abitualmente sedeva Colui Che è il Re dei nomi, attraeva a sé come una calamita il cuore dei principi».
17 Malgrado la rozza semplicità, questa stanza da ricevimento aveva tanto incantato lo Shujá‘u’d-Dawlih ch’egli aveva detto ai principi suoi pari che intendeva costruirne una copia nella sua casa di Kázimayn. Si dice che, quando seppe di questa intenzione, Bahá’u’lláh abbia osservato sorridendo: «Può anche riuscire a riprodurre esteriormente l’esatta copia di questa stanza dal basso soffitto, fatta di fango e paglia e il suo minuscolo giardino. Ma come potrà aprirvi le porte spirituali che conducono ai celati mondi di Dio?». «Non so spiegarlo», aveva detto un altro principe, Zaynu’l-Ábidín Khán, il Fakhru’d-Dawlih, descrivendo l’atmosfera che pervadeva quella stanza, «ma se tutti i dolori del mondo mi gremissero il cuore, credo che in presenza di Bahá’u’lláh svanirebbero tutti. È come se fossi entrato in Paradiso».
18 Le gioiose feste che, malgrado i guadagni estremamente modesti, questi compagni continuamente offrivano in onore del loro Diletto, le riunioni che si protraevano fino a tarda notte, in cui con preghiere, poesie e canti essi declamavano le lodi del Báb, di Quddús e di Bahá’u’lláh, i digiuni che osservavano, le veglie che facevano, i sogni e le visioni che infiammavano le loro anime e che si raccontavano fra loro con sentimenti d’irrefrenabile entusiasmo, lo zelo con cui coloro che servivano Bahá’u’lláh eseguivano i Suoi incarichi, attendevano alle Sue necessità e trasportavano pesanti otri d’acqua per le Sue abluzioni e altri usi domestici, gli atti d’imprudenza che, in momenti di rapimento, talvolta commettevano, le espressioni di meraviglia e ammirazione che le loro parole e i loro atti suscitavano nella popolazione che raramente aveva visto simili dimostrazioni di trasporto religioso e di devozione personale – questi fatti e molti altri rimarranno per sempre associati alla storia di quell’immortale periodo intercorso fra la nascita della Rivelazione di Bahá’u’lláh e il suo annuncio alla vigilia della Sua partenza dall’Iraq.
19 Numerosi e sorprendenti sono gli aneddoti narrati da coloro che il dovere, il caso o la preferenza avevano portato a diretto contatto con Bahá’u’lláh, nel corso di quegli anni intensi. Molte e commoventi le testimonianze di passanti che, mentre Egli camminava per i vicoli e le strade della città o passeggiava sulle rive del fiume, ebbero il privilegio di vedere il Suo volto, osservare il Suo portamento, o udire le Sue osservazioni, o di devoti che Lo videro pregare nelle moschee, o di mendicanti, infermi, vecchi e sventurati che Egli soccorse, guarì, aiutò e confortò, di visitatori, dal più altezzoso principe al più misero mendicante, che varcarono la Sua soglia e sedettero ai Suoi piedi, di mercanti, artigiani, negozianti che Lo servirono e Gli fornirono quotidianamente il necessario, di Suoi fedeli che avevano percepito i segni della Sua gloria celata, di Suoi avversari che furono confusi o disarmati dalla potenza delle Sue parole e dal calore del Suo amore, di sacerdoti e laici, nobili e letterati che Lo cercarono con l’intenzione di sfidare la Sua autorità, o di verificare il Suo sapere, o di indagare sulle Sue affermazioni, o di confessare le proprie imperfezioni, o di dichiarare la propria conversione alla Causa che Egli aveva abbracciato.
20 Da tale tesoro di preziose memorie sarà sufficiente al mio scopo citare un solo esempio, quello di uno dei Suoi ardenti ammiratori, un nativo di Zavárih, di nome Siyyid Ismá‘íl, detto Dhabíh (il Sacrificio), un tempo noto teologo, taciturno, meditativo, completamente distaccato da ogni legame terreno, che si era assunto il compito, di cui si gloriava, di spazzare le vie d’accesso alla casa dove Bahá’u’lláh viveva. Togliendosi dal capo il turbante verde, emblema del suo alto lignaggio, soleva raccogliere all’alba con infinita pazienza il pietrisco calpestato dal suo Diletto, toglieva la polvere dalle crepe del muro adiacente la porta della casa, la riponeva nel mantello e, non sopportando che altri la calpestassero, la portava sulle rive del fiume e la gettava in acqua. Alla fine, incapace di contenere l’oceano d’amore che colmava la sua anima, un giorno, dopo essersi negato cibo e riposo per quaranta giorni e dopo aver compiuto per l’ultima volta il servizio tanto caro al suo cuore, si recò sulle rive del fiume sulla strada per Kázimayn, fece le abluzioni, si distese supino, il viso rivolto verso Baghdad, si tagliò la gola con un rasoio, si posò il rasoio sul petto e spirò (1275 dell’Egira).
21 E non fu il solo a meditare questo gesto e a decidere di compierlo. Altri erano pronti a farlo, se Bahá’u’lláh non fosse prontamente intervenuto ordinando ai rifugiati che vivevano a Baghdad di ritornare immediatamente in patria. Quando fu definitivamente dimostrato che Dhabíh era morto di propria mano, le autorità non poterono restare indifferenti a una Causa il cui Capo era in grado d’ispirare una devozione così rara e avere un potere così assoluto sul cuore di coloro che L’amavano. Informato delle apprensioni che l’episodio aveva suscitato in alcuni ambienti di Baghdad, si dice che Bahá’u’lláh abbia osservato: «Siyyid Ismá‘íl aveva una forza e una potenza tali che se tutti i popoli della terra lo avessero affrontato egli sarebbe sicuramente stato in grado di imporre il proprio ascendente su di loro». «Finora sulla terra», si dice abbia detto riferendoSi sempre a Dhabíh, che esaltò col titolo di «Re e Amato dei martiri», «non è mai stato versato sangue così puro come quello ch’egli ha versato».
22 «Così inebriati erano coloro che avevano bevuto alla coppa della presenza di Bahá’u’lláh», dice un’altra testimonianza della penna di Nabíl, testimone oculare della maggior parte di questi toccanti episodi, «che ai loro occhi una reggia appariva più effimera d’una ragnatela… Le loro celebrazioni e festività erano quali i re della terra non avevano mai sognato». «Io e altri due», riferisce, «vivevamo in una stanza priva di mobili. Un giorno Bahá’u’lláh vi entrò e guardandoSi attorno osservò: “Questa nudità Mi piace. Ai Miei occhi è preferibile a molti spaziosi palazzi, poiché qui gli amati di Dio sono intenti a ricordare l’incomparabile Amico con cuori completamente svuotati dalle scorie di questo mondo”». Anche la Sua vita era caratterizzata dalla medesima austerità e mostrava la stessa semplicità cui era improntata la vita dei Suoi amati compagni. «Vi fu un tempo in Iraq», afferma in una delle Sue Tavole, «in cui l’Antica Bellezza… non aveva un cambio di biancheria. L’unica camicia che possedeva veniva lavata, fatta asciugare e nuovamente indossata».
23 «Molte notti», prosegue Nabíl descrivendo la vita di quegli amici dimentichi di se stessi, «non meno di dieci persone vissero con non più di un centesimo di datteri. Nessuno sapeva realmente a chi appartenessero scarpe, mantelli, abiti ch’erano nelle loro case. Chiunque andasse al bazar poteva dire che le scarpe che aveva ai piedi erano sue e chi entrava da Bahá’u’lláh poteva affermare che il mantello e l’abito che in quel momento indossava gli appartenevano… Perfino il proprio nome avevano dimenticato, i loro cuori s’erano svuotati di tutto fuorché dell’adorazione del Benamato… Oh! la gioia di quei giorni, e la felicità e la meraviglia di quelle ore!».
24 L’enorme aumento dei temi e del volume degli scritti di Bahá’u’lláh dopo il Suo ritorno da Sulaymáníyyih è un’altra caratteristica del periodo che stiamo esaminando. I versetti che fluirono dalla Sua penna in quegli anni in forma di epistole, esortazioni, commentari, apologie, dissertazioni, profezie, preghiere, odi o Tavole specifiche, da Lui descritti come una «pioggia copiosa», contribuirono in maniera rilevante a riformare e far progressivamente sviluppare la comunità Bábí, ad allargarne le vedute, a espanderne le attività e a illuminare la mente dei suoi membri. Così fecondo fu quel periodo che, secondo la testimonianza di Nabíl che a quel tempo viveva a Baghdad, nei primi due anni dopo il Suo ritorno dal ritiro i versetti non trascritti che fluivano dalle Sue labbra in un sol giorno equivalevano in media all’intero Corano! Quanto ai versetti che dettò o scrisse, il loro numero non fu meno rilevante del materiale che contenevano o della varietà degli argomenti che trattavano. Gran parte di questi scritti, in verità la maggior parte, è purtroppo irrimediabilmente perduta alla posterità. Una fonte autorevole come l’amanuense di Bahá’u’lláh, Mirza Áqá Ján, afferma, come dice Nabíl, che per espresso Suo ordine centinaia di migliaia di versetti, perlopiù scritti di Suo pugno, furono distrutti e gettati nel fiume. «Vedendomi riluttante a eseguire i Suoi ordini», Mirza Áqá Ján ha raccontato a Nabíl, «Bahá’u’lláh mi rassicurava dicendomi: “Non c’è nessuno in questo momento che sia degno di ascoltare queste melodie”… Non una sola volta o due, ma innumerevoli volte mi fu imposto di ripetere questo atto». Un certo Muhammad Karím, nato a Shíráz, che era stato testimone della rapidità e del modo in cui il Báb scriveva i versetti che Gli venivano ispirati, dopo esser stato in quei giorni alla presenza di Bahá’u’lláh e aver visto con i suoi occhi quella ch’egli considerava l’unica prova del Promesso, ha lasciato ai posteri la seguente dichiarazione: «Faccio testimonianza che i versetti rivelati da Bahá’u’lláh erano superiori, per la velocità con cui erano vergati, per la facilità con cui fluivano, per lucidità, profondità e dolcezza a quelli che vidi sgorgare dalla penna del Báb quando ero in Sua presenza. Se Bahá’u’lláh non avesse altra prova della Sua grandezza, questa sarebbe sufficiente agli occhi del mondo e dei suoi popoli: l’aver prodotto i versetti che sono fluiti dalla Sua penna in questo giorno».
25 Il principale fra gli inestimabili tesori prodotti dall’ondeggiante oceano della Rivelazione di Bahá’u’lláh è il Kitáb-i-Íqán (Il Libro della Certezza), rivelato in due giorni e due notti negli ultimi anni di quel periodo (1278 dell’Egira-1862 A.D.). Esso fu scritto per adempiere la promessa del Báb, il Quale aveva specificamente dichiarato che il Promesso avrebbe completato il testo incompiuto del Bayán persiano, e per rispondere alle domande rivolteGli da Hájí Mirza Siyyid Muhammad, zio materno del Báb non ancora convertito, mentre era in visita a Karbilá con il fratello Hájí Mirza Hasan-‘Alí. Modello di prosa persiana di stile originale, puro e vigoroso, ma anche estremamente lucido, persuasivo nelle argomentazioni e nello stesso tempo ineguagliabile nell’irresistibile eloquenza, questo Libro che spiega a grandi linee il grande Piano redentivo di Dio occupa una posizione ineguagliata fra le opere dell’intera letteratura bahá’í eccettuato il Kitáb-i-Aqdas, il Più Santo Libro di Bahá’u’lláh. Rivelato alla vigilia della dichiarazione della Sua Missione, offre all’umanità il «Vino squisito suggellato» il cui «suggello» è di «muschio», infrange il sigillo del «Libro» menzionato da Daniele e svela il significato delle «parole» destinate a rimanere «chiuse» «fino al tempo della fine».
26 Nello spazio di duecento pagine proclama inequivocabilmente l’esistenza e l’unicità di un Dio personale, inconoscibile, inaccessibile, sorgente di tutte le Rivelazioni, eterno, onnisciente e onnipossente; asserisce la relatività della verità religiosa e la continuità della Rivelazione Divina; afferma l’unità dei profeti, l’universalità dei loro Messaggi, l’identità dei loro insegnamenti fondamentali, la santità delle loro scritture e il duplice carattere del loro stadio; denuncia la cecità e la perversità dei teologi e dei dottori di tutti i tempi; cita e spiega passi allegorici del Nuovo Testamento, versetti del Corano di difficile interpretazione, enigmatiche tradizioni musulmane che hanno alimentato secolari malintesi, dubbi e animosità che hanno diviso e tenuti separati i seguaci dei principali sistemi religiosi del mondo; enumera i requisiti essenziali perché un ricercatore sincero possa raggiungere l’oggetto della sua ricerca; dimostra la validità, la sublimità e il significato della Rivelazione del Báb; celebra l’eroismo e il distacco dei Suoi discepoli; prevede e profetizza il trionfo mondiale della Rivelazione promessa alla gente del Bayán; conferma la purezza e l’innocenza della Vergine Maria; glorifica gli Imám della Fede di Muhammad; esalta il martirio dell’Imám Husayn e decanta la sua sovranità spirituale; svela il significato di termini simbolici quali «Ritorno», «Resurrezione», «Suggello dei Profeti» e «Giorno del giudizio»; tratteggia e distingue i tre piani della Rivelazione divina; Si sofferma con termini appassionati sulle glorie e sulle meraviglie della «Città di Dio» rinnovata a determinati intervalli dalla dispensazione della Provvidenza, per la guida, il bene e la salvezza di tutto il genere umano. Si può certamente dire che fra tutti i libri rivelati dall’Autore della Rivelazione bahá’í, questo solo Libro, spazzando via antichissime barriere che hanno così irrimediabilmente separato le grandi religioni del mondo, ha posto ampie e inattaccabili fondamenta per la completa e permanente riconciliazione dei loro seguaci.
27 Dopo questo incomparabile scrigno di tesori inestimabili viene la meravigliosa raccolta di preziosi detti, le «Parole Celate», che furono ispirate a Bahá’u’lláh mentre assorto in meditazione passeggiava sulle rive del Tigri. Rivelato nel 1274 dell’Egira, parte in persiano e parte in arabo, fu originariamente chiamato «Il Libro celato di Fátimih» e identificato dal suo Autore con l’omonimo Libro che l’Islam sciita riteneva essere in possesso del promesso Qá’im e che consisteva di parole di consolazione rivolte, per ordine di Dio, dall’angelo Gabriele a Fátimih e dettate all’Imám ‘Alí al solo scopo di confortarla in un momento di amaro cordoglio dopo la morte del suo illustre Genitore. L’importanza di questo dinamico lievito spirituale immesso nella vita del mondo per il riorientamento delle menti, l’edificazione delle anime e il miglioramento del comportamento degli uomini può essere meglio compreso dalla descrizione delle sue caratteristiche data dal suo Autore nella pagina iniziale: «Questo è quel che è disceso dal Regno della Gloria, proferito dalla lingua della forza e del potere e rivelato ai profeti dell’antichità. Noi ne abbiamo presa l’intima essenza e l’abbiamo adornata con la veste della brevità quale pegno di favore ai giusti, acciocché essi possano rimanere fedeli al Patto di Dio, adempiendo nella vita la Sua consegna e ottenendo nel regno dello spirito la gemma della virtù divina».
28 A questi due eccezionali contributi alla letteratura religiosa mondiale che occupano rispettivamente posizioni d’insuperata rilevanza fra gli scritti dottrinali ed etici dell’Autore della Dispensazione bahá’í, s’aggiunse nello stesso periodo un trattato che può essere considerato la Sua maggiore composizione mistica, intitolato «Le Sette Valli», che Egli scrisse in risposta alle domande di Shaykh Muhyi’d-Dín, il qádí di Khániqayn, nel quale descrive i sette stadi che l’anima del ricercatore deve necessariamente attraversare prima di conseguire lo scopo della propria esistenza.
29 Le «Quattro Valli», epistola indirizzata al dotto Shaykh ‘Abdu’r-Rahmán-i-Karkúkí, la «Tavola del Santo Marinaio», in cui Bahá’u’lláh predice le dure afflizioni che Lo avrebbero colpito, la «Lawh-i-Húríyyih» (Tavola dell’Ancella) in cui sono previsti eventi di un ancor più remoto futuro, la «Súriy-i-Sábr» (Sura della Pazienza), rivelata il primo giorno del Ridvan, che esalta Vahíd e i suoi compagni di sventura a Nayríz, il commentario delle lettere premesse alle sure del Corano, il commentario della lettera Váv citata negli scritti di Shaykh Ahmad-i-Ahsá’í e di altri enigmatici passi delle opere di Siyyid Kázim-i-Rashtí, la «Lawh-i-Madínatu’t-Tawhíd» (Tavola della Città dell’unità), la «Sahífiy-i-Shattíyyih», la «Musíbát-i-Hurúfát-i-‘Álíyát», il «Tafsír-i-Hú», il «Javáhiru’l-Asrár» e una moltitudine di scritti in forma di epistole, odi, omelie, Tavole specifiche, commentari e preghiere contribuirono, ciascuno a proprio modo, a gonfiare i «fiumi di vita eterna» che sgorgarono dalla «Dimora della pace» e conferirono un possente impulso all’espansione della Fede del Báb in Persia e in Iraq, vivificando le anime e trasformando il carattere dei suoi aderenti.
30 Le innegabili dimostrazioni della vastità e della magnificenza dell’emergente potere di Bahá’u’lláh, il Suo prestigio in rapido aumento, la miracolosa trasformazione che, con i precetti e con l’esempio, aveva prodotto nelle vedute e nel carattere dei Suoi compagni da Baghdad fino alle città e ai più remoti villaggi della Persia, lo struggente amore per Lui che bruciava nei petti, la prodigiosa mole di scritti che sgorgava giorno e notte dalla Sua penna non potevano non infiammare l’ostilità che covava nel cuore dei Suoi nemici sciiti e sunniti. Ora che aveva trasferito la Sua residenza nei pressi della roccaforte dell’Islam sciita e che era quasi quotidianamente in diretto contatto con i fanatici pellegrini che gremivano i sacri luoghi di Najaf, Karbilá e Kázimayn, non poteva tardare molto una prova di forza fra la crescente luminosità della Sua gloria e le forze schierate del fanatismo religioso. Sarebbe bastata una scintilla per accendere questa miscela infiammabile di tutti gli odi, i timori e le gelosie accumulati che le rinate attività dei Bábí avevano suscitato. La scintilla fu fornita da un certo Shaykh ‘Abdu’l-Husayn, prete intrigante e ostinato, la cui macerante gelosia per Bahá’u’lláh era superata soltanto dalla sua capacità di seminar zizzania fra personaggi d’alto rango e fra i più umili degli umili, arabi o persiani, che affollavano le strade e i mercati di Kázimayn, Karbilá e Baghdad. Bahá’u’lláh lo aveva stigmatizzato nelle Sue Tavole con epiteti come lo «scellerato», l’«intrigante», il «malvagio» che «sfoderò la spada dell’io contro il sembiante di Dio», «nella cui anima Satana ha sussurrato» e «dalla cui empietà Satana rifugge», il «depravato», «dal quale hanno avuto origine e al quale ritorneranno ogni infedeltà, ogni crudeltà, ogni crimine». Soprattutto grazie agli sforzi del Gran Visir che voleva liberarsene, questo molesto mujtahid era stato incaricato dallo Scià di andare a Karbilá per restaurare i luoghi santi della città. In cerca di una buona occasione, egli si alleò con Mirza Buzurg Khán, il console generale persiano di recente nomina, il quale, avendo la sua stessa iniqua forma mentale, essendo uomo di scarsa intelligenza, falso, privo di buon senso e senza onore, un bevitore incallito, presto cadde preda dell’influenza di quel corrotto intrigante e divenne strumento consenziente delle sue trame.
31 La loro prima impresa concertata fu di cercare di ottenere, alterando grossolanamente la verità, che il governatore di Baghdad, Mustafá Páshá, ordinasse l’estradizione di Bahá’u’lláh e dei Suoi compagni, ma il loro sforzo fallì miseramente. Rendendosi conto della futilità di ogni tentativo per raggiungere lo scopo attraverso l’intervento delle autorità locali, Shaykh ‘Abdu’l-Husayn incominciò a far circolare insistentemente notizie di sogni che prima inventava e poi interpretava, allo scopo d’eccitare gli animi della popolazione superstiziosa e facilmente infiammabile. Il risentimento conseguente alla mancata risposta fu esasperato dall’ignominioso fallimento di affrontare la sfida di un suo colloquio con Bahá’u’lláh che era stato predisposto. Mirza Buzurg Khán, da parte sua, usò la propria influenza per accendere contro il comune Avversario l’animosità degli elementi della popolazione di più bassa estrazione, incitandoli ad affrontarLo in pubblico, nella speranza di provocare qualche avventato atto di rappresaglia che avrebbe poi potuto utilizzare come pretesto per false accuse con le quali procurarsi l’agognato ordine di estradizione di Bahá’u’lláh. Anche questo tentativo fu vano perché la presenza di Bahá’u’lláh, Che malgrado gli avvertimenti e le preghiere degli amici continuava a camminare senza accompagnatori di giorno e di notte per le strade della città, bastava a gettare nella costernazione e nella vergogna i possibili molestatori. Perfettamente consapevole dei loro piani, Egli li avvicinava, li motteggiava per le loro intenzioni, scherzava con loro e li lasciava confusi e fermamente decisi ad abbandonare qualunque progetto avessero in mente. Il console generale era giunto perfino al punto d’assoldare per la somma di cento túmán un sicario, un turco di nome Ridá, di dargli un cavallo e due pistole e di ordinargli di cercare Bahá’u’lláh e di ucciderLo, promettendogli piena protezione. Un giorno Ridá, saputo che la sua eventuale vittima Si trovava nel bagno pubblico, eluse la sorveglianza dei Bábí di guardia, entrò nel bagno con una pistola nascosta sotto il mantello e affrontò Bahá’u’lláh nella camera interna, solo per scoprire che gli mancava il coraggio di portare a termine l’incarico. Egli stesso, anni più tardi, raccontò che in un’altra occasione stava aspettando in agguato Bahá’u’lláh, pistola in pugno, ma quando Questi Si avvicinò egli fu colto da tale sgomento che la pistola gli cadde di mano. Al che Bahá’u’lláh invitò Áqáy-i-Kalím, che Lo accompagnava, a restituirgliela e a mostrargli la strada di casa.
32 Sconfitto nei suoi ripetuti tentativi di realizzare il malvagio proposito, Shaykh ‘Abdu’l-Husayn rivolse ora le sue energie verso una nuova direzione. Promise al suo complice che, se fosse riuscito a indurre il governo persiano a richiamare Bahá’u’lláh a Teheran e a farLo rimettere in prigione, lo avrebbe elevato al rango di ministro della corona. Spedì quasi giornalmente lunghi rapporti all’immediato entourage dello Scià. Dipinse in maniera esagerata l’ascendente conseguito da Bahá’u’lláh, dicendo che Si era conquistato l’alleanza delle tribù nomadi dell’Iraq. Affermò che Bahá’u’lláh era nella posizione di poter radunare in un solo giorno oltre centomila uomini pronti a impugnare le armi a un Suo cenno. Lo accusò di meditare, assieme a vari capi in Persia, un’insurrezione contro il sovrano. Con questi mezzi riuscì a esercitare sulle autorità di Teheran una pressione sufficiente a indurre lo Scià a concedergli un mandato che gli dava pieni poteri e che ingiungeva agli ‘ulamá e ai funzionari persiani di prestargli ogni soccorso. Lo Shaykh inoltrò immediatamente il mandato agli ecclesiastici di Najaf e Karbilá, chiedendo loro d’indire un incontro a Kázimayn dove lui risiedeva. Uno stuolo di shaykh, mullá e mujtahid, desiderosi d’accattivarsi il favore del sovrano, accorse prontamente. Informati dello scopo per cui erano stati convocati, decisero di dichiarare una guerra santa contro la colonia degli esuli e, lanciando un improvviso assalto generale contro di essa, distruggere la Fede alle radici. Con stupore e disappunto, tuttavia, scoprirono che il più importante mujtahid fra loro, il famoso Shaykh Murtadáy-i-Ansárí, uomo rinomato per la tolleranza, la saggezza e l’inflessibile giustizia, la devozione e la nobiltà del carattere, informato dei loro progetti, si rifiutava di pronunciare la necessaria sentenza contro i Bábí. Fu lui che in seguito Bahá’u’lláh esaltò nella «Lawh-i-Sultán» annoverandolo fra «quei dottori che hanno veramente bevuto la coppa della rinuncia» e «non Lo hanno mai ostacolato» e che ‘Abdu’l-Bahá definì «illustre e colto dottore, nobile e celebre erudito, suggello dei ricercatori della verità». Con il pretesto di non conoscere abbastanza i principi di quella comunità e dichiarando di non aver mai visto, da parte dei suoi membri, un atto contrario al Corano, incurante delle rimostranze dei colleghi, lasciò bruscamente la riunione e, dopo aver espresso a Bahá’u’lláh tramite un messaggero il suo rammarico per l’accaduto e i suoi sinceri auguri per la Sua protezione, se ne tornò a Najaf.
33 Vanificati i loro piani, gli ecclesiastici riuniti, irremovibili nella loro ostilità, incaricarono il dotto e devoto Hájí Mullá Hasan-i-‘Ammú, noto per onestà e saggezza, di sottoporre a Bahá’u’lláh vari quesiti perché li spiegasse. Quando le domande furono presentate e il messaggero ebbe ricevuto risposte del tutto soddisfacenti, Hájí Mullá Hasan, affermando che gli ‘ulamá riconoscevano la vastità del sapere di Bahá’u’lláh, chiese a riprova della verità della Sua missione un miracolo che soddisfacesse completamente tutti gli interessati. «Sebbene non abbiate alcun diritto di chiedere questo», replicò Bahá’u’lláh, «poiché Dio dovrebbe mettere alla prova le creature e non le creature mettere alla prova Dio, tuttavia permetto e accolgo questa richiesta… Gli ‘ulamá devono riunirsi e, di comune accordo, scegliere un miracolo e mettere per iscritto che, dopo il suo compimento, non avranno più dubbi su di Me e che tutti riconosceranno e confesseranno la verità della Mia Causa. Appongano i sigilli su questo documento e Me lo portino. Questo è il criterio che devono accettare: se il miracolo si compie, nessun dubbio resterà in loro, altrimenti, saremo incolpati di impostura». Questa chiara risposta di sfida, senza precedenti negli annali delle religioni, rivolta ai più illustri ecclesiastici sciiti riuniti nella loro veneranda roccaforte, tanto soddisfece l’inviato, ch’egli si alzò immediatamente, baciò il ginocchio di Bahá’u’lláh e andò a riferire il messaggio. Tre giorni dopo mandò a dire che l’augusta assemblea non era riuscita ad arrivare a una decisione e aveva preferito lasciar cadere la questione, decisione alla quale egli dette poi larga pubblicità mentre era in visita in Persia e che comunicò personalmente anche all’allora ministro degli affari esteri, Mirza Sa‘íd Khán. «Inviando questo messaggio del tutto soddisfacente e onnicomprensivo», si dice che Bahá’u’lláh abbia commentato quando fu informato della loro reazione a questa sfida, «Noi abbiamo rivelato e rivendicato i miracoli di tutti i Profeti, poiché avevamo lasciato la scelta agli stessi ‘ulamá, impegnandoCi a rivelare qualunque cosa decidessero». «Se esaminiamo attentamente il testo della Bibbia», ha scritto ‘Abdu’l-Bahá a proposito di una sfida analoga lanciata in seguito da Bahá’u’lláh nella «Lawh-i-Sultán», «vediamo che la Manifestazione divina non ha mai detto a coloro che La negavano: “Qualunque miracolo desideriate, sono pronto a compierlo e Mi sottoporrò a qualunque prova proponiate”. Ma nell’Epistola allo Scià Bahá’u’lláh disse chiaramente: “Riunisci gli ‘ulamá e convocaMi, in modo che testimonianze e prove siano stabilite”».
34 Sette anni di ininterrotto e paziente consolidamento, coronato da un completo successo, volgevano ora al termine. Una comunità priva di pastore, sottoposta a una prolungata e terribile tensione dall’interno e dall’esterno, minacciata di annientamento, era stata resuscitata e portata ad avere un’influenza senza eguali nel corso della sua storia ventennale. Le fondamenta rafforzate, lo spirito innalzato, il modo di vedere trasformato, la guida salvaguardata, i principi riaffermati, il prestigio aumentato, i nemici sconfitti, la Mano del destino si stava gradualmente preparando a lanciarla in una nuova fase delle sue movimentate vicende, durante la quale la buona e la cattiva sorte dovevano farle attraversare un ulteriore stadio della sua evoluzione. Il Liberatore, l’unica speranza, il capo virtualmente riconosciuto della comunità, Che aveva invariabilmente intimidito gli autori di tanti complotti intesi ad assassinarLo, Che aveva sdegnosamente rifiutato tutti i pavidi consigli di fuggire dal luogo del pericolo, Che aveva fermamente declinato ripetute e generose offerte di tanti amici e sostenitori d’assicurarGli la salvezza personale, Che aveva riportato sui Suoi antagonisti una vittoria così cospicua – in quest’ora fatidica, stava per essere costretto dagli irresistibili processi della Sua sbocciante Missione a trasferire la Sua residenza in un centro d’importanza ancor maggiore, la capitale dell’Impero ottomano, sede del califfato, centro amministrativo dell’Islam sunnita, dimora del più potente sovrano del mondo islamico.
35 Egli aveva già lanciato una temeraria sfida all’ordine sacerdotale rappresentato dagli eminenti ecclesiastici residenti a Najaf, Karbilá e Kázimayn. E ora mentre Si trovava vicino alla corte del Suo regale avversario, stava per lanciare un’analoga sfida al capo riconosciuto dell’Islam sunnita e al sovrano di Persia, fiduciario dell’Imám nascosto. Inoltre, tutti i re della terra, e in particolare il Sultano e i suoi ministri, stavano per ricevere i Suoi appelli e consigli, mentre i re della Cristianità e la gerarchia sunnita sarebbero stati severamente redarguiti. Non meraviglia che, anticipando il futuro splendore della Lampada della Sua Fede, l’esiliato Latore della Rivelazione recentemente annunziata abbia, dopo il Suo trasferimento dall’Iraq, proferito queste profetiche parole: «Essa risplenderà vividamente entro un altro globo come predestinato da Colui Che è l’Onnipotente, l’Antico dei Giorni… Che lo Spirito debba uscire dal corpo dell’Iraq è invero un meraviglioso segno per tutti coloro che sono in cielo e tutti coloro che sono sulla terra. Fra breve vedrete questo divino Giovane cavalcare il destriero della vittoria. Allora i cuori degli invidiosi saranno scossi dal tremore».
36 Scoccata l’ora predestinata della partenza di Bahá’u’lláh dall’Iraq, ebbe inizio il processo attraverso il quale essa si sarebbe verificata. I nove mesi di ininterrotti sforzi compiuti dai Suoi nemici, e in modo particolare da Shaykh ‘Abdu’l-Husayn e dal suo alleato Mirza Buzurg Khán, stavano per dare i loro frutti. Da un lato Násiri’d-Dín Sháh e i suoi ministri e, dall’altro, l’ambasciatore persiano a Costantinopoli erano continuamente sollecitati a prendere un’immediata decisione che assicurasse l’allontanamento di Bahá’u’lláh da Baghdad. Travisando grossolanamente la reale situazione e diffondendo notizie allarmanti, il maligno ed energico nemico riuscì infine a convincere lo Scià a dare istruzioni al ministro degli esteri, Mirza Sa‘íd Khán, di ordinare all’ambasciatore persiano presso la Sublime Porta, Mirza Husayn Khán, amico intimo di ‘Alí Páshá, gran visir del Sultano, e di Fu’ád Páshá, ministro degli affari esteri, di indurre il sultano ‘Abdu’l-‘Azíz a decretare l’immediato trasferimento di Bahá’u’lláh in un luogo lontano da Baghdad, con il pretesto che il protrarsi della Sua permanenza in quella città, vicina al territorio persiano e a un così importante centro di pellegrinaggio sciita, costituiva una diretta minaccia alla sicurezza della Persia e del suo governo.
37 Mirza Sa‘íd Khán, nella sua comunicazione all’Ambasciatore, stigmatizzò la Fede come una «setta fuorviata e detestabile», deplorò la liberazione di Bahá’u’lláh dal Síyáh-Chál e Lo accusò di non aver mai smesso di «corrompere segretamente e indurre al male gli stolti e i poveri ignoranti». «In ottemperanza agli ordini del re», egli scrisse, «è stato ordinato a me, vostro fedele amico… di darvi istruzioni per ottenere senza indugio un appuntamento con le Loro Eccellenze il Sadr-i-A‘zam e il Ministro degli affari esteri… per chiedere… l’allontanamento di questa fonte di discordia da un centro come Baghdad che è il punto d’incontro di popoli così diversi e si trova vicino alle frontiere delle province persiane». In quella lettera scrive citando un celebre verso, «“Vedo sotto le ceneri bagliore di fiamma, ci vuole ben poco perché divampi in fuoco”», tradendo così i suoi timori e cercando di trasmetterli al suo corrispondente.
38 Incoraggiato dalla presenza sul trono di un monarca che aveva delegato ai ministri molti dei suoi poteri e aiutato da ambasciatori e ministri stranieri a Costantinopoli, Mirza Husayn Khán, a forza di persuasione e amichevoli pressioni esercitate su questi ministri, riuscì a procurarsi l’autorizzazione del Sultano per il trasferimento di Bahá’u’lláh e dei Suoi compagni (che nel frattempo erano stati costretti dalle circostanze a cambiare cittadinanza) a Costantinopoli. Si dice anzi che la prima richiesta fatta dalle autorità persiane a quella Potenza amica dopo l’ascesa al trono del nuovo Sultano sia stata quella di un attivo e pronto intervento in questa faccenda.
39 Il cinque di Naw-Rúz (1863) mentre Bahá’u’lláh celebrava la festività di Mazra’iy-i-Vashshásh nei sobborghi di Baghdad e aveva appena rivelato la «Tavola del Santo Marinaio», le cui cupe previsioni avevano suscitato profonda apprensione fra i Suoi compagni, giunse un emissario di Námiq Páshá e consegnò nelle Sue mani una comunicazione che Gli chiedeva un colloquio con il governatore.
40 Già negli ultimi anni della Sua permanenza a Baghdad, Bahá’u’lláh, come Nabíl ha osservato nella sua narrazione, aveva alluso nei Suoi discorsi al periodo di prove e di disordini che si stava inesorabilmente avvicinando e aveva mostrato una tristezza e un accoramento che aveva molto turbato coloro che Lo attorniavano. Un sogno che Egli fece in quel periodo, il cui infausto auspicio non poteva essere equivocato, valse a confermare i timori e le apprensioni che avevano assalito i Suoi compagni. «Vidi», scrisse in una Tavola, «i Profeti e i Messaggeri riunirsi e sedersi attorno a Me. Gemevano, piangevano e si lamentavano a gran voce. Stupito ne chiesi loro la ragione, al che lamenti e pianti aumentarono ancora, e mi dissero: “Piangiamo per Te, sommo Mistero, Tabernacolo d’immortalità!” E piansero di un tal pianto che piansi anch’Io con loro. Allora l’alto Consesso si rivolse a Me dicendo: “…Fra breve vedrai con i Tuoi occhi ciò che nessun Profeta ha mai veduto… sii paziente, sii paziente”… Continuarono a parlarMi per tutta la notte fino all’avvicinarsi dell’alba». «Oceani di dolore», afferma Nabíl, «sorsero nel cuore degli ascoltatori quando fu letta loro a voce alta la Tavola del Santo Marinaio… Era evidente per tutti che il capitolo di Baghdad stava per chiudersi e che un altro stava aprendosi in sua vece. Appena la Tavola fu cantata Bahá’u’lláh ordinò che le tende ch’erano state piantate fossero ripiegate e che tutti i compagni ritornassero in città. Mentre le tende venivano rimosse osservò: “Queste tende si possono paragonare agli ornamenti di questo mondo che, non appena sono stati esposti, arriva il momento di riporli.” Da queste parole chi le udì comprese che quelle tende non sarebbero state mai più piantate in quel luogo. Non erano state ancora tolte che arrivò da Baghdad il messaggero per consegnare la comunicazione del governatore cui si è già accennato».
41 L’indomani il Vicegovernatore aveva già consegnato a Bahá’u’lláh, in una moschea nei pressi della casa del Governatore, la lettera che ‘Alí Páshá aveva indirizzato a Namíq Páshá scritta in termini cortesi, che invitava Bahá’u’lláh ad andare a Costantinopoli ospite del governo ottomano, ponendo a Sua disposizione un somma di danaro e ordinando a una scorta equestre di accompagnarLo per proteggerLo. Bahá’u’lláh accolse prontamente l’invito, ma Si rifiutò di accettare la somma offerta. Alle insistenti rimostranze del Vice che quel rifiuto avrebbe offeso le autorità, acconsentì riluttante a prendere il generoso assegno destinato a Suo uso personale e lo stesso giorno lo distribuì fra i poveri.
42 L’effetto che questa improvvisa notizia ebbe sulla colonia degli esuli fu istantaneo e travolgente. «Quel giorno» scrisse un testimone oculare descrivendo la reazione della comunità alla notizia dell’imminente partenza di Bahá’u’lláh «si vide un turbamento simile a quello associato al Giorno della resurrezione. Sembrava che perfino le porte e le mura della città piangessero forte per l’imminente separazione dal Diletto Abhá. La prima notte dopo che fu accennato alla Sua progettata partenza, tutti i Suoi amati rinunciarono al sonno e al cibo… Nessuno di loro poté essere tranquillizzato. Molti avevano deciso che, nel caso fosse loro negata la grazia di accompagnarLo, non avrebbero esitato a uccidersi… A poco a poco, tuttavia, grazie alle parole che Egli rivolse loro, alle Sue esortazioni e alla Sua amorevole benevolenza, si calmarono e si rassegnarono al Suo volere». Per ognuno di coloro che vivevano a Baghdad, arabo o persiano, uomo o donna, bambino o adulto, Egli rivelò in quei giorni una Tavola personale scrivendola di Suo pugno. In molte di queste predisse l’apparizione del «Vitello» e degli «Uccelli della notte», allusioni a coloro che, come previsto nella Tavola del Santo Marinaio e nel sogno prima citato, stavano per innalzare lo stendardo della ribellione e scatenare la più grave crisi della storia della Fede.
43 Ventisette giorni dopo che ebbe inaspettatamente rivelato quella triste Tavola e che Gli fosse consegnata nelle mani la fatidica comunicazione che preannunziava la Sua partenza per Costantinopoli, un mercoledì pomeriggio (22 aprile 1863), trentun giorni dopo Naw-Rúz, il terzo giorno di dhi’l-qa‘dih del 1279 dell’Egira, Bahá’u’lláh partì per la prima tappa del Suo viaggio di quattro mesi alla volta della capitale dell’Impero ottomano. Quello storico giorno, per sempre poi indicato come primo giorno della festività del Ridvan, culmine delle innumerevoli visite che amici e conoscenti d’ogni classe e denominazione Gli fecero, fu un giorno di cui raramente gli abitanti di Baghdad avevano visto l’eguale. Un assembramento di persone d’ambo i sessi e di tutte le età, amici ed estranei, arabi, curdi e persiani, notabili ed ecclesiastici, ufficiali e mercanti, e molti delle classi più umili, poveri, orfani, proscritti, alcuni sorpresi, altri affranti, molti in lagrime e spaventati, certi spinti da curiosità o segreta soddisfazione, s’affollarono vicino alla Sua casa sperando di dare un ultimo fugace sguardo a Colui Che per dieci anni, con l’insegnamento e l’esempio, aveva esercitato un’influenza così potente su un così gran numero degli eterogenei abitanti della città.
44 Lasciando per l’ultima volta, fra pianti e lamenti, la Sua «santissima Dimora» dalla quale era «spirato il soffio del Gloriosissimo» ed era scaturita in «incessanti accordi» la «melodia del Misericordiosissimo», Egli, elargendo lungo la strada con prodiga mano un’ultima elemosina ai poveri che aveva fedelmente aiutato e dicendo parole di conforto agli sconsolati che Lo imploravano da ogni parte, raggiunse infine le rive del fiume e fu traghettato con i figli e gli amanuensi al Giardino di Najíbíyyih situato sulla riva opposta. «Miei compagni», così disse alla fedele compagnia che Lo circondava prima d’imbarcarSi, «affido alla vostra custodia questa città di Baghdad nello stato in cui la vedete ora, mentre dagli occhi di amici ed estranei, che affollano i tetti delle case, le strade e i mercati, scorrono lacrime come pioggia di primavera e Io parto. A voi spetta ora di vigilare affinché le vostre azioni e il vostro comportamento non offuschino la fiamma d’amore che brilla nel petto dei suoi abitanti».
45 Il muezzin aveva appena cantato l’invito pomeridiano alla preghiera quando Bahá’u’lláh entrò nel Giardino di Najíbíyyih dove Si trattenne dodici giorni prima della definitiva partenza dalla città. Qui amici e compagni, arrivando alla spicciolata, giunsero in Sua presenza e, con sentimenti di profondo dolore, Si congedarono da Lui. Eminenti fra loro il rinomato Álúsí, il muftí di Baghdad, il quale, con gli occhi velati di lacrime, malediceva il nome di Násiri’d-Dín Sháh che giudicava il principale responsabile di un bando così immeritato. «Ho smesso di considerarlo Násiri’d-Dín (l’aiuto della Fede)», asserì apertamente, «per considerarlo invece il suo distruttore». Un altro eminente visitatore fu il governatore Námiq Páshá che, dopo aver esternato in termini rispettosissimi il suo rammarico per le circostanze che avevano portato alla partenza di Bahá’u’lláh e averGli assicurato d’essere pronto ad aiutarLo in ogni modo possibile, consegnò all’ufficiale incaricato di accompagnarLo un ordine scritto in cui si comandava ai governatori delle province che gli esuli dovevano attraversare d’usar loro la massima considerazione. «Qualunque cosa vogliate», egli informò Bahá’u’lláh dopo essersi profuso in scuse, «non avete che da comandare. Noi siamo pronti a eseguire». «Estendi la tua considerazione ai Nostri diletti», fu la risposta alle sue insistenti e reiterate offerte, «e trattali con gentilezza» – richiesta alla quale egli dette un pronto e caloroso assenso.
46 Fa poco meraviglia, quindi, che di fronte a tante prove di profonda devozione, simpatia e stima, così straordinariamente manifestate da nobili e umili dal giorno in cui Bahá’u’lláh aveva annunciato il Suo previsto viaggio fino al giorno della Sua partenza dal Giardino di Najíbíyyih, coloro che avevano instancabilmente cercato di procurarsi l’ordine del Suo bando e s’erano rallegrati del successo dei loro sforzi dovessero ora dolersi amaramente della loro azione. «Tale è stato l’intervento di Dio», afferma ‘Abdu’l-Bahá in una lettera scritta da quel Giardino, riferendoSi a quei nemici, «che la gioia che avevano provato si è tramutata in cruccio e dolore, tanto che il Console generale persiano a Baghdad si rammaricava profondamente dei piani e dei complotti che gli intriganti hanno escogitato. Lo stesso Námiq Páshá, il giorno in cui Lo (Bahá’u’lláh) visitò affermò: “Prima insistevano per la Vostra partenza. Ma ora insistono ancora di più che Voi restiate”».
CAPITOLO IX1 L’arrivo di Bahá’u’lláh nel giardino di Najíbíyyih, chiamato poi dai Suoi seguaci Giardino di Ridvan, segna l’inizio di quella che è stata poi riconosciuta come la più santa e più significativa di tutte le festività bahá’í, la festività che commemora la Dichiarazione della Sua Missione ai Suoi compagni. Una così importante Dichiarazione può ben essere considerata il logico coronamento di quel rivoluzionario processo da Lui iniziato al Suo ritorno da Sulaymáníyyih e il preludio della definitiva proclamazione di quella Missione al mondo e ai suoi capi da Adrianopoli.
2 Con quel solenne atto l’«indugio» di quasi un decennio divinamente interposto fra la nascita della Rivelazione di Bahá’u’lláh nel Síyáh-Chál e il suo annuncio ai discepoli del Báb era finalmente terminato. Il «tempo stabilito per l’occultazione» durante il quale, come Egli ha testimoniato, i «segni e i pegni di una Rivelazione divinamente designata» erano stati riversati su di Lui, era compiuto. Le «miriadi di veli di luce» in cui la Sua gloria era stata avvolta furono, in quella storica ora, parzialmente sollevati, concedendo al genere umano «un bagliore infinitesimo» del fulgore del Suo «Sembiante impareggiabile, sacrosanto ed eccelso». I «milleduecentonovanta giorni» fissati da Daniele nell’ultimo capitolo del Suo libro come durata dell’«abominio della desolazione» erano ora trascorsi. I «cento anni lunari» destinati a precedere immediatamente quella beata consumazione (1335 giorni), annunciati da Daniele nello stesso capitolo, erano incominciati. I diciannove anni che costituivano il primo «Váhid» preordinato nel Bayán Persiano dalla penna del Báb erano finiti. Il Signore del Regno, Gesù Cristo ritornato nella Gloria del Padre, era in procinto di salire al trono e di assumere lo scettro di una sovranità universale e indistruttibile. La comunità del Più Grande Nome, i «compagni dell’Arca cremisi» lodati con termini entusiastici nel Qayyúmu’l-Asmá’, erano visibilmente apparsi. La profezia del Báb riguardante il «Ridvan», il luogo in cui la trascendente gloria di Bahá’u’lláh sarebbe stata svelata, s’era adempiuta alla lettera.
3 Impavido di fronte alle terribili avversità che, come aveva predetto, Lo avrebbero ben presto sopraggiunto, alla vigilia di un secondo esilio che sarebbe stato pieno di rischi e pericoli e che Lo avrebbe ulteriormente allontanato dalla Sua terra natia, la culla della Sua Fede, in un paese di razza, lingua e cultura differenti, profondamente consapevole dell’ampliamento della cerchia dei Suoi avversari fra i quali vi sarebbero presto stati un monarca più dispotico di Násiri’d-Dín Sháh e ministri non meno implacabili nell’ostilità di Hájí Mirza Áqásí o dell’Amír-Nizám, incurante delle continue interruzioni dovute all’afflusso di una moltitudine di visitatori che affollavano la Sua tenda, Bahá’u’lláh scelse quell’ora critica e apparentemente avversa per rivendicare un mandato così impegnativo, per svelare il mistero che circondava la Sua persona e assumere, nella loro totalità, il potere e l’autorità che erano esclusivo privilegio di Colui il Cui avvento il Báb aveva profetizzato.
4 L’ombra di quel grande, imminente evento si era già protesa sulla colonia di esuli che ne attendevano con grande aspettativa il compimento. Mentre l’anno «ottanta» si andava costantemente e inesorabilmente avvicinando, Colui Che era divenuto il vero capo della comunità sperimentava sempre più gli impetuosi influssi della sua forza ispiratrice e li comunicava progressivamente ai Suoi futuri seguaci. Le festose incantevoli odi che rivelava quasi ogni giorno, le Tavole dense di allusioni che fluivano dalla Sua penna, gli accenni all’ora ormai vicina che faceva nelle conversazioni e nei discorsi pubblici, l’esaltazione che nei momenti di gioia o di tristezza inondava la Sua anima, l’estasi che colmava coloro che L’amavano già rapiti dalle sempre più numerose manifestazioni della Sua grandezza e della Sua gloria, l’evidente cambiamento che si notava nel Suo contegno e infine la Sua adozione del táj (alto berretto di feltro) il giorno della partenza dalla Sua Più Santa Casa – tutto proclamava incontrovertibilmente la Sua imminente assunzione della funzione profetica e dell’aperta guida della comunità dei seguaci del Báb.
5 «Molte notti», racconta Nabíl, descrivendo il tumulto che aveva colto il cuore dei compagni di Bahá’u’lláh nei giorni precedenti la dichiarazione della Sua Missione, «Mirza Áqá Ján li riuniva nella sua stanza, chiudeva la porta, accendeva numerose candele canforate e cantava ad alta voce le odi e le Tavole appena rivelate di cui era in possesso. Completamente dimentichi di questo mondo contingente, totalmente immersi nei reami dello spirito, immemori della necessità di cibo, sonno o bevanda, improvvisamente essi scoprivano che la notte era divenuta giorno e che il sole era vicino allo zenit».
6 Delle esatte circostanze che accompagnarono quella storica Dichiarazione siamo, purtroppo, solo scarsamente informati. Le parole che Bahá’u’lláh realmente pronunciò in quell’occasione, la forma della Sua Dichiarazione, la reazione che produsse, l’effetto su Mirza Yahyá, l’identità di coloro che ebbero il privilegio di ascoltarLo sono avvolti in un’oscurità che difficilmente i futuri storici potranno penetrare. La frammentaria descrizione lasciata ai posteri dal Suo cronista Nabíl è una delle pochissime cronache autentiche che possediamo dei memorabili giorni che Egli trascorse in quel giardino. «Ogni giorno prima dell’alba», ha raccontato Nabíl, «i giardinieri coglievano le rose sui bordi dei quattro viali del giardino e le ammucchiavano in terra al centro della Sua tenda benedetta. Il mucchio era talmente alto che i compagni quando si riunivano per bere il tè del mattino in Sua presenza non riuscivano a vedersi l’un l’altro. Bahá’u’lláh consegnava di Sua mano tutte quelle rose a coloro che ogni mattina congedava dalla Sua presenza perché le portassero a Suo nome agli amici persiani e arabi della città». «Una notte», prosegue, «la nona notte di luna crescente, ebbi la ventura di essere fra coloro che vegliavano presso la Sua tenda benedetta. Era quasi mezzanotte quando Lo vidi uscire dalla tenda, passare vicino ai luoghi dove alcuni compagni dormivano e incominciare a passeggiare su e giù per i viali del giardino contornati di fiori e rischiarati dalla luna. Il canto degli usignoli era dappertutto così alto che soltanto chi Gli era vicino poteva udire distintamente la Sua voce. Continuò a camminare finché, fermatoSi in mezzo a un viale, osservò: “Guarda gli usignoli. Tanto grande è il loro amore per le rose che, insonni dall’imbrunire all’alba, gorgheggiano le loro melodie e conversano con passione ardente con l’oggetto della loro adorazione. Come possono dunque coloro che si proclamano infiammati dalla bellezza di rosa del Benamato scegliere di dormire?”. Per tre notti successive vegliai e mi aggirai attorno alla Sua tenda benedetta. Ogni qual volta passavo accanto al letto ove giaceva Lo trovavo sveglio e ogni giorno Lo vedevo incessantemente impegnato, mattina e sera, a conversare con la fiumana di visitatori che continuavano ad affluire da Baghdad. Nemmeno una volta scoprii, nelle parole che diceva, traccia di dissimulazione».
7 Quanto al significato di quella Dichiarazione lasciamo che sia lo Stesso Bahá’u’lláh a rivelarcene l’importanza. Acclamando quella storica occasione come la «Più Grande Festività», la «Regina delle Festività» e la «Festività di Dio», Egli l’ha definita nel Kitáb-i-Aqdas il Giorno in cui «tutte le cose create furono immerse nel mare della purificazione», mentre in una delle Sue Tavole specifiche vi Si riferisce come al Giorno in cui «le brezze del perdono furono alitate sull’intera creazione». «Esulta di suprema gioia, o gente di Bahá!», ha scritto in un’altra Tavola, «nell’evocare il ricordo del Giorno di felicità suprema, il Giorno in cui la Lingua dell’Antico dei giorni ha parlato mentre lasciava la Sua Dimora per recarSi al Luogo dal quale ha diffuso sull’intera creazione gli splendori del Suo nome, il Misericordiosissimo… Se rivelassimo i segreti celati di questo Giorno, tutti coloro che dimorano in terra e nei cieli cadrebbero in deliquio e morirebbero, eccetto coloro che Dio, l’Onnipotente, l’Onnisciente, il Più Sapiente, volesse salvare. Tale è l’effetto inebriante delle parole di Dio su Colui Che è il Rivelatore delle Sue indubbie prove, che la Sua Penna non può più muoversi». E ancora: «La Primavera divina è giunta, o eccelsa Penna, poiché la Festività del Misericordiosissimo si avvicina rapidamente… L’astro della beatitudine brilla sull’orizzonte del Nostro nome, il Beato, poiché il regno del nome di Dio è stato abbellito dell’ornamento del nome del tuo Signore, il Creatore dei cieli… Sta’ attenta che nulla ti distolga dall’esaltare la grandezza di questo Giorno, il Giorno in cui il Dito della maestà e del potere ha infranto il suggello del Vino del ricongiungimento e ha chiamato tutti coloro che sono in cielo e sulla terra… Questo è il Giorno in cui il mondo invisibile esclama: “Grande, o terra, è la tua benedizione poiché sei stata fatta piedistallo del tuo Dio e prescelta quale sede del Suo potente trono”… Dì:… Egli è Colui Che ha svelato innanzi a voi la Gemma celata e custodita, se voleste cercarla! Egli è Colui Che è il Benamato di tutte le cose, del passato e del futuro». E ancora: «Sorgi e proclama all’intera creazione le novelle che Colui Che è il Misericordiosissimo ha diretto i passi verso il Ridvan e vi è entrato. Poi guida le genti nel giardino della delizia di cui Dio ha fatto il Trono del Suo Paradiso… In questo Paradiso e dall’alto delle sue più eccelse stanze, le Ancelle dei Cieli hanno gridato e acclamato: “Esultate o abitatori dei regni superni, poiché le dita di Colui Che è l’Antico dei Giorni suonano, in nome del Gloriosissimo, la Più Grande Campana nel cuore dei cieli. Le mani della munificenza hanno offerto in giro la coppa della vita eterna. Avvicinatevi e bevetene la vostra parte”». E infine: «Dimentica il mondo della creazione, o Penna, e volgiti verso il volto del tuo Signore, il Signore di tutti i nomi. Abbellisci, dunque, il mondo con l’ornamento dei favori del tuo Signore, il Re dei giorni eterni. Poiché sentiamo la fragranza del Giorno in cui Egli, il Desiderio di tutte le nazioni, ha fatto brillare sui regni dell’invisibile e del visibile lo splendore della luce dei Suoi più eccelsi nomi e li ha avvolti nella radiosità delle lampade dei Suoi più amabili favori, favori che nessuno può valutare eccetto Lui, Che è il Protettore onnipotente dell’intera creazione».
8 Alla partenza di Bahá’u’lláh dal Giardino di Ridvan a mezzogiorno del 14 di dhi’l-qa‘dih del 1279 dell’Egira (3 maggio 1863) si videro scene di tumultuoso entusiasmo non meno spettacolari e ancor più toccanti di quelle che L’avevano salutato mentre lasciava la Più Grande Casa di Baghdad. «Il gran tumulto» scrisse un testimone oculare «associato nella nostra mente al Giorno della gran radunanza, il Dì del giudizio, lo vedemmo in quell’occasione. Credenti e non credenti singhiozzavano e gemevano. I capi e notabili riuniti erano sbalorditi. Le emozioni erano così profondamente rimescolate da non potersi descrivere a parole e nessuno degli osservatori poté evitarne il contagio».
9 Montato a cavallo, uno stallone roano rosso della razza più pregiata, il migliore che i suoi fedeli potessero comprarGli, partì per la prima tappa del viaggio che doveva portarLo a Costantinopoli, lasciandoSi alle spalle una reverente moltitudine di ferventi ammiratori. «Molte erano le teste», racconta Nabíl che fu testimone di quella mirabile scena, «che, da ogni lato, chinate nella polvere ai piedi del Suo cavallo, ne baciavano gli zoccoli e numerosissimi coloro che si accalcavano per abbracciare le Sue staffe». «Quante personificazioni di fedeltà», attesta un compagno di viaggio, «si gettarono davanti al destriero preferendo la morte alla separazione dal Benamato! Quel cavallo benedetto pareva calpestasse i corpi di quelle anime pure». «È Lui (Dio)», dichiara lo Stesso Bahá’u’lláh, «Che mi ha consentito di lasciare la città (Baghdad) ammantato di una maestà che nessuno, tranne i negatori e i maligni, può fare a meno di ammettere». Questi segni di omaggio e devozione continuarono a circondarLo finché non Si fu sistemato a Costantinopoli. Mirza Yahyá, che per sua scelta correva a piedi dietro al carro di Bahá’u’lláh, il giorno del Suo arrivo in quella città, fu sorpreso da Nabíl mentre diceva a Siyyid Muhammad: «Se non avessi deciso di nascondermi, se avessi rivelato la mia identità, gli onori accordati a Lui (Bahá’u’lláh) oggi sarebbero stati anche miei».
10 Le stesse manifestazioni di devozione dimostrate a Bahá’u’lláh nel momento in cui aveva lasciato la Sua Casa e poi il Giardino di Ridvan si ripeterono quando, accompagnato dai membri della famiglia e da ventisei discepoli, il 20 dhi’l-qa‘dih (9 maggio 1863) Egli partì da Firayját, prima tappa del viaggio. Si formò una carovana composta da cinquanta muli, un picchetto di dieci soldati a cavallo con un ufficiale e sette paia di howdah, ciascun paio sormontato da quattro parasole, che procedette a piccole tappe per centodieci giorni verso il porto di Sámsún sul Mar Nero, attraversando l’altopiano, le gole, i boschi, le valli e i pascoli che formano il pittoresco paesaggio dell’Anatolia orientale. A volte a cavallo, a volte riposando nell’howdah riservataGli spesso attorniata dai compagni, la maggior parte dei quali viaggiava a piedi, mentre procedeva verso nord nel corso della primavera, i válí, i mutisarrif, i qa’im-maqám, i mudír, gli shaykh, i muftí e i qádí, i funzionari governativi e i notabili dei distretti attraverso i quali passava Gli accordarono, grazie all’ordine scritto di Námiq Páshá, un’accoglienza entusiastica. A Karkúk, Irbíl, Mosul dove Si trattenne tre giorni, a Nísíbín, Márdín, Díyár-Bakr, dove sostò per un paio di giorni, a Khárpút e Sívas e anche in altri villaggi e borgate, fu ricevuto da una delegazione immediatamente prima dell’arrivo e accompagnato per un tratto di strada da una delegazione analoga alla partenza. I festeggiamenti che in alcuni luoghi furono tenuti in Suo onore, i cibi che gli abitanti dei villaggi preparavano e Gli portavano perché li accettasse, lo zelo che spesso mostravano nel procurarGli i mezzi di conforto, ricordavano la reverenza che la gente di Baghdad Gli aveva mostrato in numerosissime occasioni.
11 «Quando quel mattino attraversammo la città di Márdín», racconta quello stesso compagno di viaggio, «fummo preceduti da una scorta di soldati governativi a cavallo che, portando le bandiere, suonavano i tamburi in segno di benvenuto. Ci accompagnarono il mutisarrif, con ufficiali e notabili, mentre uomini, donne e bambini affollavano i tetti delle case e invadevano le strade, in attesa del nostro arrivo. Attraversammo la città con dignità e pompa e riprendemmo il viaggio scortati per lungo tratto dal mutisarrif e da coloro ch’erano con lui». «Secondo l’unanime testimonianza di coloro che incontrammo nel corso di quel viaggio», ha annotato Nabíl nella sua narrazione, «lungo questa strada sulla quale c’era un continuo andirivieni di governatori e mushír fra Costantinopoli e Baghdad, non si era mai visto prima nessuno viaggiare in tale condizione, dispensando a tutti tanta ospitalità ed elargendo a ciascuno tanta parte di generosità». Mentre Si avvicinava al porto di Sámsún, avvistato dall’howdah il Mar Nero, per richiesta di Mirza Áqá Ján Bahá’u’lláh rivelò una Tavola intitolata Lawh-i-Hawdaj (Tavola dell’Howdah) che, con allusioni tipo la «divina Pietra di paragone», «il grave e tormentoso Torto» riaffermò e completò le terribili predizioni annotate nella Tavola del Santo Marinaio recentemente rivelata.
12 A Sámsún l’Ispettore capo dell’intera provincia, che si estendeva da Baghdad a Costantinopoli, andò a farGli visita, accompagnato da molti páshá, Gli mostrò massimo rispetto e fu trattenuto a pranzo. Ma sette giorni dopo il Suo arrivo, come previsto nella Tavola del Santo Marinaio, fu imbarcato su un vapore turco e tre giorni dopo, a mezzogiorno del 1° rabí‘u’l-avval 1280 dell'Egira (16 agosto 1863), sbarcò con i compagni nel porto di Costantinopoli. Andò con la famiglia, su due speciali carrozze che Lo attendevano al molo, a casa di Shamsí Big, l’ufficiale incaricato dal governo di ricevere gli ospiti, che abitava nelle vicinanze della moschea di Khirqiy-i-Sharíf. Furono poi trasferiti nella più comoda casa di Vísí Páshá, nei pressi della moschea di Sultán Muhammad.
13 Con l’arrivo di Bahá’u’lláh a Costantinopoli, capitale dell’Impero ottomano e sede del Califfato (acclamata dai musulmani «Cupola dell’Islam», ma da Lui biasimata come luogo nel quale era stato insediato il «trono della tirannia») può dirsi aperto il più spaventoso e disastroso, ma anche il più glorioso capitolo della storia del primo secolo bahá’í. Aveva ora inizio un periodo nel quale indicibili privazioni e prove inaudite si alternarono ai più nobili trionfi spirituali. L’astro del ministero di Bahá’u’lláh stava per toccare lo zenit. Gli anni più importanti dell’Età eroica della Sua Dispensazione erano vicini. Il catastrofico processo, previsto fin dal lontano anno sessanta dal Suo Precursore nel Qayyúmu’l-Asmá’, stava per essere messo in moto.
14 Esattamente due decenni prima, la Rivelazione Bábí era nata nella Persia tenebrosa, nella città di Shíráz. Malgrado la crudele prigionia alla quale il Suo Autore era stato sottoposto, le portentose rivendicazioni Che Egli aveva espresso erano state da Lui proclamate di fronte a un’illustre assemblea a Tabríz, capitale dell’Azerbaigian. Nella borgata di Badasht, la Dispensazione cui la Sua Fede aveva dato inizio era stata intrepidamente inaugurata dai campioni della Sua Causa. Nella disperazione e nell’agonia del Síyáh-Chál di Teheran, nove anni dopo, quella Rivelazione era stata repentinamente e misteriosamente portata a improvvisa fruizione. Il processo di rapido deterioramento delle fortune di quella Fede, che era gradualmente incominciato e si era paurosamente accelerato negli anni del ritiro di Bahá’u’lláh nel Kurdistán, era stato magistralmente arrestato e invertito dopo il Suo ritorno da Sulaymáníyyih. I fondamenti etici, morali e dottrinali della nascente comunità erano stati poi inattaccabilmente stabiliti nel corso del Suo soggiorno a Baghdad. E infine nel Giardino di Ridvan, alla vigilia del Suo esilio a Costantinopoli, la decennale dilazione decretata da un’imperscrutabile Provvidenza era terminata con la Dichiarazione della Sua Missione e l’evidente emersione di quello che doveva divenire il nucleo di una Fratellanza mondiale. Rimaneva ora da realizzare la Proclamazione di quella stessa Missione ai capi laici ed ecclesiastici del mondo nella città di Adrianopoli, alla quale sarebbero seguiti, nei decenni successivi, nella fortezza di ‘Akká, un ulteriore sviluppo dei principi e dei precetti che costituiscono le solide basi di quella Fede, la formulazione di leggi e ordinanze destinate a salvaguardarne l’integrità, l’instaurazione immediatamente dopo la Sua ascensione del Patto designato a preservarne l’unità e a perpetuarne l’influenza, la prodigiosa estensione delle sue attività in tutto il mondo sotto la guida di ‘Abdu’l-Bahá, Centro di quel Patto, e infine la nascita nell’Età formativa di quella Fede del suo Ordine Amministrativo, precursore della sua Età dell’oro e della sua futura gloria.
15 Questa storica Proclamazione fu fatta in un periodo in cui la Fede era alle prese con una crisi di violenza estrema e fu indirizzata principalmente ai re della terra e ai capi religiosi cristiani e musulmani i quali, a causa del loro immenso prestigio, del loro ascendente e della loro autorità, si assunsero una terrificante responsabilità cui non potevano sottrarsi per gli immediati destini dei loro sudditi e seguaci.
16 Si può dire che la fase iniziale di quella Proclamazione si sia aperta a Costantinopoli con la comunicazione di Bahá’u’lláh (di cui, purtroppo, non abbiamo il testo) al sultano ‘Abdu’l-‘Azíz, sedicente vicario del Profeta dell’Islam e sovrano assoluto di un possente impero. Quel personaggio così potente, così augusto fu il primo sovrano del mondo a ricevere l’Appello divino e il primo monarca orientale a sostenere l’impatto della giustizia retributiva di Dio. L’occasione di questa comunicazione fu fornita dall’infame editto, promulgato dal Sultano meno di quattro mesi dopo l’arrivo degli esuli nella capitale, che li bandiva improvvisamente e senza alcuna giustificazione, nel cuore dell’inverno e nelle più umilianti circostanze, ad Adrianopoli, ai confini del suo impero.
17 Quella fatidica e ignominiosa decisione presa dal Sultano e dai suoi principali ministri, ‘Alí Páshá e Fu’ád Páshá, è attribuibile in larga misura ai continui intrighi dell’ambasciatore persiano presso la Sublime Porta, il Mushíru’d-Dawlih, Mirza Husayn Khán, denunciato da Bahá’u’lláh come il Suo «calunniatore», che attendeva la prima occasione per colpire Lui e la Causa della quale Egli era il capo dichiarato e riconosciuto. L’Ambasciatore era stato continuamente pressato dal suo governo affinché insistesse nella politica di istigare contro Bahá’u’lláh l’ostilità delle autorità turche. Egli fu incoraggiato dal rifiuto di Bahá’u’lláh di seguire la prassi abituale secondo la quale gli ospiti del governo, per quanto altolocati, giunti nella capitale si recavano personalmente in visita dallo Shaykhu’l-Islam, dal Sadr-i-A‘zam e dal Ministro degli esteri – Bahá’u’lláh non restituì neppure le visite fatteGli da diversi ministri, da Kamál Páshá e da un ex inviato turco alla corte persiana. Non fu distolto dall’atteggiamento retto e indipendente di Bahá’u’lláh che contrastava così nettamente con la venalità dei principi persiani che, al loro arrivo, erano soliti «sollecitare a tutte le porte qualunque concessione o dono potessero ottenere». Si offese perché Bahá’u’lláh non volle presentarSi all’Ambasciata persiana e ricambiare la visita del suo rappresentante e, assecondato nei suoi sforzi dal suo complice Hájí Mirza Hasan-i-Safá, al quale aveva dato incarico di far circolare voci infondate su di Lui, riuscì, grazie alla sua influenza di funzionario e alle sue relazioni private con ecclesiastici, notabili e funzionari del governo, a fare apparire Bahá’u’lláh come una persona orgogliosa e arrogante, Che Si considerava non soggetto ad alcuna legge, Che nutriva intenzioni ostili contro ogni autorità costituita e Che con la Sua insolenza aveva scatenato i gravi dissapori insorti fra Lui e il Governo persiano. E non fu il solo che si dedicò a queste nefaste macchinazioni. Secondo ‘Abdu’l-Bahá, altri «condannarono e diffamarono» gli esuli come «una disgrazia per tutto il mondo», «distruttori di trattati e di patti», «funesti per ogni terra» e «meritevoli di ogni castigo e punizione».
18 Nientemeno che il rispettatissimo cognato del Sadr-i-A‘zam fu incaricato di informare il Prigioniero dell’editto emanato contro di Lui, un editto che dimostrava una virtuale coalizione dei governi imperiali turco e persiano contro un avversario comune e che alla fine ebbe conseguenze così tragiche per il sultanato, il califfato e la dinastia dei Qajár. EssendoSi Bahá’u’lláh rifiutato di dargli udienza, l’inviato dovette accontentarsi di presentare le sue puerili osservazioni e i suoi meschini argomenti ad ‘Abdu’l-Bahá e Áqáy-i-Kalím che erano stati delegati a incontrarlo, ai quali egli comunicò che sarebbe ritornato dopo tre giorni per avere la risposta all’ingiunzione che gli era stato ordinato di trasmettere.
19 Lo stesso giorno Bahá’u’lláh rivelò una dura Tavola di condanna che il mattino seguente affidò, in busta sigillata, a Shamsí Big, incaricandolo di consegnarla nelle mani di ‘Alí Páshá e di dirgli ch’era stata inviata da Dio. «Non so cosa contenesse quella lettera», Shamsí Big informò poi Áqáy-i-Kalím, «perché il Gran Visir, non appena l’ebbe esaminata attentamente, diventò cadaverico e osservò: “È come se il Re dei re trasmettesse i suoi ordini al più umile vassallo, regolandone la condotta”. Così penoso era il suo stato che mi ritirai dalla sua presenza». Si dice che Bahá’u’lláh, commentando l’effetto prodotto dalla Tavola, abbia dichiarato: «Qualunque azione i ministri del Sultano abbiano intrapreso contro di Noi dopo esser venuti a conoscenza del suo contenuto non può essere considerata ingiustificabile. Ma gli atti che hanno commesso prima di leggerla non hanno giustificazione alcuna».
20 Quella Tavola, secondo Nabíl, era di considerevole lunghezza, si apriva con parole rivolte al sovrano, biasimava severamente i ministri, ne denunciava l’immaturità e l’incompetenza e comprendeva alcuni passi direttamente rivolti ai ministri, nei quali essi erano audacemente sfidati e severamente ammoniti di non gloriarsi dei possedimenti terreni, di non cercare insensatamente ricchezze di cui il tempo li avrebbe inesorabilmente spogliati.
21 Bahá’u’lláh era alla vigilia della partenza che seguì quasi immediatamente la promulgazione dell’editto del Suo esilio, quando in un ultimo, memorabile colloquio con il già menzionato Hájí Mirza Hasan-i-Safá inviò all’Ambasciatore persiano il seguente messaggio: «Quale profitto traeste, tu e coloro che sono come te, dall’uccidere, anno dopo anno, tanti oppressi e dall’infliggere loro molteplici dolori, quando essi si sono centuplicati e voi vi sentite completamente smarriti, non sapendo come liberarvi la mente da questo angoscioso pensiero… La Sua Causa trascende qualunque piano meditiate. Sappiatelo bene: anche se tutti i governi della terra si unissero per togliere la vita a Me e a tutti coloro che portano questo Nome, questo Fuoco divino non si spegnerebbe mai. E invece la Sua Causa avvolgerà tutti i sovrani della terra, anzi tutto ciò che è stato creato dall’acqua e dalla creta… Qualunque cosa Ci accada ancora, grande sarà il Nostro profitto ed evidente il danno che li affliggerà».
22 Secondo gli ordini perentori emanati per l’immediata partenza degli esuli già due volte banditi, Bahá’u’lláh, la Sua famiglia e i Suoi compagni, alcuni su carri, altri in groppa ad animali da soma, le loro cose ammucchiate su carri trainati da buoi, partirono accompagnati da ufficiali turchi in una fredda mattinata decembrina fra i pianti degli amici che lasciavano, per un viaggio di dodici giorni attraverso un paese desolato e spazzato dal vento, verso una città definita da Bahá’u’lláh «il luogo nel quale nessuno entra eccetto chi si è ribellato all’autorità del sovrano». «Essi ci espulsero dalla tua città (Costantinopoli)», attesta nella Súriy-i-Mulúk, «con un’umiliazione alla quale nessuna umiliazione sulla terra può paragonarsi… Né la Mia famiglia, né coloro che Mi accompagnavano avevano gli indumenti necessari per proteggersi dal freddo in quel clima glaciale». E ancora: «Gli occhi dei Nostri nemici piansero per Noi e, oltre a loro, quelli di ogni persona di discernimento». «Un esilio», lamenta Nabíl, «sopportato con tale sottomissione che la penna versa lacrime raccontandolo e la pagina si vergogna di portarne la descrizione». «Quell’anno», racconta il medesimo cronista, «ci fu un freddo di tale intensità che i novantenni non ne ricordavano uno eguale. In alcune regioni della Turchia e della Persia gli animali soccombettero al suo rigore e morirono nella neve. Il corso superiore dell’Eufrate a Ma‘dan-Nuqrih rimase coperto di ghiaccio per parecchi giorni – un fenomeno senza precedenti – e a Diyár-Bakr il fiume gelò per oltre quaranta». «Per avere acqua dalle sorgenti», racconta uno degli esuli di Adrianopoli, «si doveva accendere un gran falò nelle immediate vicinanze e mantenerlo acceso per un paio d’ore prima che le sorgenti si sgelassero».
23 Viaggiando sotto la pioggia e la tempesta, a volte marciando persino la notte, gli affaticati viaggiatori, dopo brevi soste a Kúchik-Chakmachih, Búyúk-Chakmachih, Salvarí, Birkás e Bábá-Ískí, il primo rajab 1280 dell’Egira (12 dicembre 1863), arrivarono a destinazione. Vennero alloggiati nel Khán-i-‘Arab, un caravanserraglio a due piani vicino alla casa di ‘Izzat-Áqá. Tre giorni dopo Bahá’u’lláh e la Sua famiglia furono trasferiti in una casa adatta solo come abitazione estiva nel quartiere Murádíyyih presso il Takyiy-i-Mawlaví e dopo una settimana furono nuovamente spostati in un’altra casa vicino a una moschea nello stesso rione. Circa sei mesi dopo si trasferirono in un’abitazione più comoda, nota come casa di Amru’lláh (Casa del comando di Dio) situata a nord della moschea del sultano Salím.
24 Così si chiude la prima scena di uno dei più drammatici episodi del ministero di Bahá’u’lláh. Il sipario si alza ora su quello che è riconosciuto come il periodo più turbolento e più critico del primo secolo bahá’í, un periodo destinato a precedere la fase più gloriosa del Suo ministero, la proclamazione del Suo Messaggio al mondo e ai suoi capi.
CAPITOLO X1 La Fede ventennale aveva appena incominciato a riprendersi da una ripetuta serie di colpi quando un’imponente crisi l’investì e la scosse fino alle radici. Il tragico martirio del Báb, l’ignominioso attentato alla vita del sovrano e le sue sanguinose conseguenze, l’umiliante esilio di Bahá’u’lláh dalla Sua terra natale e perfino il Suo ritiro biennale nel Kurdistán, pur disastrosi per le conseguenze che ebbero, non si possono tuttavia paragonare per gravità al primo grande sconvolgimento interno che colse la comunità appena risollevatasi e minacciò di provocare un’irreparabile frattura nelle file dei suoi membri. Più odioso dell’implacabile ostilità mostrata da Abú-Jahl, zio di Muhammad, più vergognoso del tradimento di Gesù Cristo da parte del Suo discepolo Giuda Iscariota, più perfido della condotta dei figli di Giacobbe verso il fratello Giuseppe, più abominevole dell’azione commessa da uno dei figli di Noè, più infame persino del criminoso atto perpetrato da Caino contro Abele, il mostruoso comportamento di Mirza Yahyá, uno dei fratellastri di Bahá’u’lláh, la persona nominata dal Báb, il capo riconosciuto della comunità Bábí, si portò dietro un periodo di travaglio che lasciò il segno sui destini della Fede per quasi mezzo secolo. Bahá’u’lláh definì questa suprema crisi Ayyám-i-Shidád (Giorni difficili), durante i quali fu lacerato «il più pesante dei veli» e irrevocabilmente prodotta la «massima separazione». Essa gratificò e imbaldanzì immensamente i suoi nemici esterni, civili ed ecclesiastici, fece il loro gioco e suscitò la loro palese derisione. Sconcertò e confuse gli amici e i sostenitori di Bahá’u’lláh e danneggiò gravemente il prestigio della Fede agli occhi dei suoi estimatori occidentali. Fermentava sin dai primi tempi del soggiorno di Bahá’u’lláh a Baghdad, era stata temporaneamente repressa dalle forze creatrici che, sotto la Sua guida non ancora proclamata, avevano rianimato la comunità che andava disgregandosi e alla fine scoppiò in tutta la sua violenza negli anni immediatamente precedenti la proclamazione del Suo Messaggio. Addolorò immensamente Bahá’u’lláh, Lo invecchiò visibilmente e Gli inflisse con le sue ripercussioni il più grave colpo che Egli avesse mai ricevuto nella Sua vita. Fu interamente architettata dai tortuosi intrighi e dalle incessanti macchinazioni del diabolico Siyyid Muhammad, il vile maldicente che ignorando il consiglio di Bahá’u’lláh aveva insistito per accompagnarLo a Costantinopoli e Adrianopoli e ora raddoppiava, con scrupolosa attenzione, gli sforzi per portarla a un punto critico.
2 Fin da quando Bahá’u’lláh era ritornato da Sulaymáníyyih, Mirza Yahyá aveva preferito restarsene ingloriosamente segregato in casa oppure, ogni qual volta un pericolo lo minacciasse, si era ritirato in luoghi sicuri come Hillih o Basra. In questa città era fuggito travestito da ebreo di Baghdad ed era diventato mercante di calzature. Così grande era il suo terrore che si dice abbia detto: «Chiunque affermi d’avermi visto o d’aver udito la mia voce, lo dichiaro infedele». Quando fu informato dell’imminente partenza di Bahá’u’lláh per Costantinopoli, in un primo momento si nascose nel giardino di Huvaydar nei pressi di Baghdad, meditando nel frattempo sull’opportunità di fuggire in Abissinia, in India o in qualche altro paese. Rifiutandosi di seguire il consiglio di Bahá’u’lláh di recarsi in Persia per diffondervi gli scritti del Báb, mandò al palazzo del governo un certo Hájí Muhammad Kázim che gli rassomigliava, perché gli procurasse un passaporto a nome di Mirza ‘Alíy-i-Kirmánsháhí, lasciò Baghdad abbandonandovi gli scritti e, accompagnato da un Bábí arabo chiamato Záhir, proseguì in incognito per Mosul, dove si unì agli esuli che erano in cammino per Costantinopoli.
3 Costante testimone del sempre più profondo attaccamento degli esuli verso Bahá’u’lláh e della loro sorprendente venerazione per Lui, perfettamente consapevole delle vette cui era giunta la popolarità del Fratello a Baghdad, durante il Suo viaggio per Costantinopoli e poi grazie alla Sua amicizia con i notabili e i governanti di Adrianopoli, furibondo per le molteplici dimostrazioni di coraggio, dignità e indipendenza che quel Fratello aveva dimostrato nei rapporti con le autorità della capitale, irritato dalle numerose Tavole che l’Autore della nuova Dispensazione aveva continuato incessantemente a rivelare, abbindolato dalle allettanti prospettive di illimitato comando prospettategli da Siyyid Muhammad, l’Anticristo della Rivelazione bahá’í – così come Muhammad Sháh era stato tratto in inganno da Hájí Mirza Áqásí, l’Anticristo della Rivelazione Bábí – rifiutandosi di ascoltare eminenti membri della comunità che gli scrivevano consigliandolo d’usare saggezza e riserbo, dimentico della gentilezza e dei consigli di Bahá’u’lláh Che, tredici anni più anziano di lui, aveva vegliato sulla sua prima adolescenza e giovinezza, imbaldanzito dall’occhio indulgente del Fratello Che, in tante occasioni, aveva steso un velo sui suoi numerosi crimini e follie, questo arciviolatore del Patto del Báb, pungolato da una crescente gelosia e spinto da un appassionato amore per il comando, fu indotto a perpetrare atti che non potevano essere nascosti o tollerati.
4 Irrimediabilmente corrotto dal costante rapporto con Siyyid Muhammad incarnazione vivente di malvagità, cupidigia e inganno, già durante l’assenza di Bahá’u’lláh da Baghdad e anche dopo il Suo ritorno da Sulaymáníyyih aveva macchiato gli annali della Fede con atti d’indelebile infamia. L’alterazione, in moltissimi casi, del testo degli scritti del Báb, la blasfema aggiunta alla formula dell’adhán nella quale introdusse un passo in cui identificava se stesso con la Divinità, l’interpolazione in quegli scritti di riferimenti a una successione nella quale nominava se stesso e i suoi discendenti eredi del Báb, l’esitazione e l’apatia che aveva palesato quand’era stato informato della tragica morte del Maestro, la condanna a morte di tutti gli Specchi della Dispensazione Bábí, pur essendo anche lui uno di loro, il vile atto di promuovere l’assassinio di Dayyán da lui temuto e invidiato, il turpe gesto di provocare, durante l’assenza di Bahá’u’lláh da Baghdad, l’assassinio di Mirza ‘Alí-Akbar, cugino del Báb e, la cosa più nefanda di tutte, l’indicibilmente ripugnante violazione dell’onore del Báb, nello stesso periodo, tutto ciò, come Áqáy-i-Kalím afferma e Nabíl riferisce nella sua narrazione, doveva assumere tinte ancor più sinistre a causa di atti successivi la cui perpetrazione avrebbe irreparabilmente segnato il suo destino.
5 Disperati progetti d’avvelenare Bahá’u’lláh e i Suoi compagni, per rianimare così la propria estinta autorità, incominciarono a turbare la sua mente circa un anno dopo il loro arrivo in Adrianopoli. Ben sapendo che il fratellastro Áqáy-i-Kalím era un erudito nei temi pertinenti la medicina, con vari pretesti gli chiese chiarimenti sugli effetti di certe erbe e veleni e poi, contrariamente alle sue abitudini, incominciò a invitare Bahá’u’lláh a casa sua, dove un giorno, spalmata la Sua tazza da tè con una sostanza da lui preparata, riuscì ad avvelenarLo tanto da procurarGli un grave malessere che durò oltre un mese e che fu accompagnato da forti dolori e febbre alta, le cui conseguenze lasciarono a Bahá’u’lláh un tremito alle mani per il resto della vita. Le Sue condizioni erano talmente gravi che si ricorse, per assisterLo, a un dottore forestiero che si chiamava Shíshmán. Il dottore fu tanto spaventato dal Suo pallore che giudicò il caso disperato e, dopo essersi prostrato ai Suoi piedi, se ne andò senza prescrivere alcun rimedio. Pochi giorni dopo il medico si ammalò e morì. Prima della sua morte Bahá’u’lláh aveva dichiarato che il dottor Shíshmán aveva sacrificato la vita per Lui. A Mirza Áqá Ján che Bahá’u’lláh aveva mandato a fargli visita, il dottore aveva detto che Dio aveva risposto alle sue preghiere e che dopo la sua morte avrebbero potuto all’occorrenza chiamare in sua vece un certo dottor Chúpán, ch’egli conosceva come persona fidata.
6 In un’altra occasione Mirza Yahyá aveva, secondo la testimonianza di una delle sue mogli che l’aveva temporaneamente abbandonato e che raccontò i particolari dell’atto sopra menzionato, avvelenato il pozzo che forniva acqua alla famiglia e ai compagni di Bahá’u’lláh, per cui gli esuli avevano presentato strani segni di malessere. Aveva inoltre, con gradualità e grande circospezione, manifestato a uno dei compagni, il barbiere Ustád Muhammad-‘Alíy-i-Salmání, al quale aveva prodigato grandi segni di favore, il desiderio ch’egli in un’occasione propizia assassinasse Bahá’u’lláh mentre Lo assisteva nel bagno. «Quando gli fu fatta questa proposta», ha affermato Áqáy-i-Kalím raccontando l’episodio a Nabíl in Adrianopoli, «Ustád Muhammad-‘Alí s’infuriò talmente che gli venne un gran desiderio di uccidere immediatamente Mirza Yahyá e l’avrebbe fatto se non fosse stato per il timore della disapprovazione di Bahá’u’lláh. Il caso volle che fossi io la prima persona ch’egli incontrò mentre usciva piangente dal bagno… Alla fine, dopo molte insistenze, riuscii a indurlo a rientrare nel bagno e a completare il lavoro interrotto». Sebbene Bahá’u’lláh gli avesse poi raccomandato di non far parola dell’accaduto con nessuno, il barbiere non riuscì a tacere e svelò il segreto, gettando la comunità nella costernazione. «Quando il segreto che (Mirza Yahyá) covava in seno fu rivelato da Dio», afferma Bahá’u’lláh, «egli negò d’aver avuto simile intenzione e l’attribuì a quel servitore (Ustád Muhammad-‘Alí)».
7 Era ora giunto per Colui Che da così breve tempo aveva rivelato verbalmente e in numerose Tavole le implicazioni dei titoli che accampava il momento d’informare formalmente del carattere della Sua Missione colui che era la persona nominata dal Báb. Mirza Áqá Ján fu pertanto incaricato di portare a Mirza Yahyá la Súriy-i-Amr appena rivelata che affermava chiaramente quei titoli, di leggergliene a voce alta il contenuto e di chiedere una risposta inequivocabile e conclusiva. La richiesta di Mirza Yahyá di un giorno di tempo per poter meditare la risposta fu accolta. Ma l’unica risposta che arrivò fu una controdichiarazione che specificava l’ora e il minuto in cui egli aveva ricevuto una rivelazione indipendente, che comportava che i popoli della terra d’Oriente e d’Occidente si sottomettessero completamente a lui.
8 Un’asserzione tanto presuntuosa fatta da un avversario così perfido all’inviato del Portatore di una Rivelazione così importante segnò una rottura aperta e definitiva tra Bahá’u’lláh e Mirza Yahyá, una rottura che segna una delle date più nere della storia bahá’í. Desiderando placare il feroce astio che bruciava nel petto dei Suoi nemici e garantire a tutti gli esuli la completa libertà di scegliere tra Lui e loro, Bahá’u’lláh Si ritirò con la famiglia nella casa di Ridá Big (22 shavvál 1282 dell’Egira) presa in affitto per Suo ordine e per due mesi Si rifiutò di frequentare amici o estranei, compresi i compagni. Ordinò ad Áqáy-i-Kalím di dividere tutto il mobilio, i letti, il vestiario e gli utensili che si trovavano nella Sua residenza e di mandarne la metà nell’abitazione di Mirza Yahyá, di consegnargli alcune reliquie che aveva a lungo ardentemente desiderato, come sigilli, anelli e manoscritti autografi del Báb, e di assicurarsi che ricevesse per intero la sua parte dell’assegno stanziato dal governo per il mantenimento degli esuli e delle loro famiglie. Inoltre diede istruzioni ad Áqáy-i-Kalím affinché ordinasse ad alcuni compagni, di sua scelta, di assistere Mirza Yahyá nelle compere per parecchie ore al giorno e affinché lo assicurasse infine che qualsiasi cosa da quel momento in poi fosse arrivata a suo nome dalla Persia sarebbe stata consegnata nelle sue mani.
9 «Quel giorno», si dice che Áqáy-i-Kalím abbia riferito a Nabíl, «fu testimone di una grandissima agitazione. Tutti i compagni si lamentavano per la separazione dalla Bellezza Benedetta». «Quei giorni», attesta per iscritto uno dei compagni, «furono caratterizzati da tumulto e confusione. Eravamo gravemente perplessi e temevamo molto d’essere privati per sempre della grazia della Sua presenza».
10 Ma il dolore e la perplessità erano destinati a essere di breve durata. Le calunnie di cui ora Mirza Yahyá e Siyyid Muhammad riempivano le lettere che diffondevano in Persia e in Iraq e le petizioni, espresse in termini ossequiosi, che il primo aveva indirizzato a Khurshíd Páshá, governatore di Adrianopoli, e al suo assistente ‘Azíz Páshá costrinsero Bahá’u’lláh a uscire dal Suo ritiro. Immediatamente dopo Egli fu informato che il fratello aveva mandato al palazzo del governo una delle sue mogli a lamentarsi che il marito fosse stato defraudato dei suoi diritti e che i suoi figli fossero alla fame, un’accusa che si diffuse dappertutto e, raggiunta Costantinopoli, divenne, con profonda angustia di Bahá’u’lláh, tema di concitate discussioni e ingiuriosi commenti in circoli che in precedenza erano stati molto impressionati dall’alto esempio che il Suo nobile e dignitoso comportamento aveva rappresentato per la città. Siyyid Muhammad andò nella capitale e pregò l’ambasciatore persiano, il Mushíru’d-Dawlih, di assegnare a Mirza Yahyá e a lui un appannaggio, accusò Bahá’u’lláh d’aver mandato un sicario ad assassinare Násiri’d-Dín Sháh e non risparmiò sforzi per coprire d’insulti e calunnie Colui Che così a lungo e con tanta pazienza Si era mostrato indulgente con lui e aveva sopportato in silenzio le enormità di cui egli si era reso colpevole.
11 Dopo circa un anno di permanenza nella casa di Ridá Big, Bahá’u’lláh ritornò nella casa che aveva occupato prima di separarSi dai compagni e da qui, dopo tre mesi, trasferì la Sua residenza nella casa di ‘Izzat Áqá dove abitò finché non partì da Adrianopoli. Fu in quella casa che, nel mese di jamádíyu’l-avval del 1284 dell’Egira (settembre 1867), avvenne un fatto altamente significativo che debellò completamente Mirza Yahyá e i suoi sostenitori e proclamò ad amici e nemici il trionfo di Bahá’u’lláh su di loro. Un certo Mír Muhammad, un Bábí di Shíráz, profondamente sdegnato per le pretese e per la pavida latitanza di Mirza Yahyá, riuscì a costringere Siyyid Muhammad a indurlo a incontrare Bahá’u’lláh faccia a faccia, in modo che si potesse fare pubblicamente distinzione fra vero e falso. Stoltamente supponendo che il suo illustre Fratello non avrebbe mai accettato una simile proposta, Mirza Yahyá scelse come luogo d’incontro la moschea di Sultán Salím. Appena fu informato di questo accomodamento, Bahá’u’lláh uscì a piedi nella calura del mezzogiorno e, accompagnato dallo stesso Mír Muhammad, Si diresse verso la moschea che si trovava in una zona fuori mano della città, recitando versetti, mentre camminava per le strade e i mercati, con una voce e in un modo tali che coloro che Lo videro e Lo udirono se ne meravigliarono molto.
12 «O Muhammad», sono alcune delle parole che pronunziò in quella memorabile occasione, come Egli Stesso attesta in una Tavola, «Colui Che è lo Spirito è, in verità, uscito dalla Sua dimora e con Lui sono uscite le anime degli eletti di Dio e le realtà dei Suoi Messaggeri. Guarda, dunque, gli abitanti dei reami del cielo sul Mio capo e tutte le testimonianze dei Profeti nel Mio pugno. Dì: Se tutti i teologi, tutti i saggi, tutti i re e i governanti della terra si riunissero, in verità, li affronterei e proclamerei i versetti di Dio, il Sovrano, l’Onnipotente, l’Onnisciente. Sono Colui Che non teme nessuno, anche se tutti coloro che sono in cielo e tutti coloro che sono sulla terra si levassero contro di Me… Questa è la Mia mano che Dio ha fatto diventare bianca perché tutti i mondi la possano mirare. Questa è la Mia verga, se la gettassi a terra, in verità, inghiottirebbe tutte le cose create». Mír Muhammad ch’era stato mandato avanti per annunciare l’arrivo di Bahá’u’lláh ritornò immediatamente e Lo informò che colui che aveva sfidato la Sua autorità desiderava, per circostanze impreviste, rimandare l’incontro di uno o due giorni. Tornato a casa, Bahá’u’lláh rivelò una Tavola nella quale raccontava l’accaduto e fissava la data dell’incontro rimandato, la sigillò col Suo sigillo e, affidatala a Nabíl, lo incaricò di consegnarla a uno dei nuovi credenti, Mullá Muhammad-i-Tabrízí, perché ne informasse Siyyid Muhammad ch’era solito frequentare il suo negozio. Fu concordato di chiedere a Siyyid Muhammad, prima di consegnargli la Tavola, una nota sigillata che impegnava Mirza Yahyá ad affermare per iscritto, nel caso non si fosse presentato nel luogo convenuto, che le sue pretese erano false. Siyyid Muhammad promise di portare l’indomani il documento richiesto, ma sebbene Nabíl aspettasse la riposta nel negozio per tre giorni consecutivi, il Siyyid non si fece vivo né inviò la nota richiestagli. Ventitré anni dopo annotando questo episodio nella sua cronaca, Nabíl afferma che quella Tavola non consegnata era ancora in suo possesso, «fresca come il giorno in cui il Più Grande Ramo l’aveva trascritta e il sigillo dell’Antica Bellezza l’aveva chiusa e decorata», tangibile e inconfutabile testimonianza della dimostrata superiorità di Bahá’u’lláh sull’oppositore sconfitto.
13 La reazione di Bahá’u’lláh a questo penosissimo episodio del Suo ministero fu caratterizzata, come si è già osservato, da profonda angoscia. «Colui che per mesi e anni», Egli lamenta, «educai con la mano della Mia amorevole gentilezza si era levato per toglierMi la vita». «Le crudeltà che i Miei oppressori Mi hanno inflitto», scrisse riferendoSi a questi perfidi nemici, «M’hanno sopraffatto e fatto incanutire. Se ti presentassi davanti al Mio trono, stenteresti a riconoscere l’Antica Bellezza, poiché la freschezza del Suo sembiante s’è alterata e il Suo splendore è offuscato a causa dell’oppressione degli infedeli». «In nome di Dio!», esclama, «Non c’è punto del Mio corpo che non sia stato toccato dai dardi delle tue macchinazioni». E ancora: «Hai perpetrato contro tuo Fratello ciò che nessuno ha mai perpetrato contro un altro». «Ciò che è uscito dalla tua penna», ha affermato inoltre, «ha fatto sì che i Sembianti della Gloria fossero prostrati nella polvere, ha squarciato il Velo della Magnificenza nel Sublime Paradiso e dilaniato il cuore dei favoriti assisi sui seggi più eccelsi». Eppure, nel Kitáb-i-Aqdas questo indulgente Signore incoraggia il fratello, questa «sorgente di perversione» «dalla cui anima i venti della passione si sono alzati soffiando su di lui», di «non temere a cagione dei tuoi atti», gli ordina di ritornare «a Dio, umile, sottomesso e mansueto» e afferma che «Egli rimetterà i tuoi peccati» e che «il tuo Signore, di certo, è il Perdonatore, il Possente, il Misericordiosissimo».
14 Per ordine e per il potere di Colui Che è la Sorgente primigenia della Più Grande Giustizia, il «Più Grande Idolo», era stato espulso dalla comunità del Più Grande Nome, confuso, aborrito e distrutto. Ripulita da questa contaminazione, liberata da questa orribile possessione, l’infante Fede di Dio poteva ora proseguire e, malgrado le agitazioni che l’avevano sconvolta, dimostrarsi capace di combattere altre battaglie, di raggiungere più alte vette e vincere più grandi vittorie.
15 Nelle file dei suoi sostenitori si era dichiaratamente prodotta una temporanea rottura. La sua gloria era stata eclissata e i suoi annali erano stati macchiati per sempre. Ma il suo nome non poteva essere cancellato, il suo spirito era ben lontano dall’essere spezzato e questo cosiddetto scisma non poteva smembrare la sua struttura. A salvaguardia di quella Fede c’era il Patto del Báb, del quale si è già parlato, con le sue immutabili verità, le sue incontrovertibili profezie e i ripetuti ammonimenti, che ne assicurava l’integrità, ne dimostrava l’incorruttibilità e ne perpetuava l’influenza.
16 Pur affranto dal dolore, ancora sofferente dei postumi dell’attentato alla Sua vita e consapevole che probabilmente un ulteriore esilio era imminente, e tuttavia imperturbato nonostante il colpo inferto alla Sua Causa e i pericoli da cui essa era circondata, Bahá’u’lláh, ancor prima che la crisi fosse superata, Si levò con incomparabile potenza a proclamare a coloro che in Oriente e in Occidente impugnavano le redini della suprema autorità temporale la Missione che Gli era stata affidata. Era destino che, proprio grazie a questa proclamazione, l’astro della Sua Rivelazione brillasse all’apice della gloria e la Sua Fede manifestasse la pienezza del Suo divino potere.
17 Seguì un periodo di prodigiosa attività che superò nella sue ripercussioni lo splendore degli anni primaverili del ministero di Bahá’u’lláh. «Giorno e notte», ha scritto un testimone oculare, «i versetti divini piovevano in tal numero che era impossibile registrarli. Mirza Áqá Ján li scriveva così come venivano dettati, mentre il Più Grande Ramo era continuamente occupato a trascriverli. Non c’era un momento da perdere». «Diversi segretari», ha testimoniato Nabíl, «erano impegnati giorno e notte, ma non erano in grado di far fronte al compito. Fra loro c’era Mirza Báqir-i-Shírází… Solo lui trascriveva almeno duemila versetti al giorno. Lavorò per sei o sette mesi. Ogni mese trascrisse l’equivalente di parecchi volumi che vennero poi mandati in Persia. Venti volumi, nella sua raffinata calligrafia, li lasciò per ricordo a Mirza Áqá Ján». Bahá’u’lláh, riferendoSi ai versetti che rivelò, ha scritto: «Sono tali le effusioni… delle nuvole della divina Munificenza che nello spazio di un’ora è stato rivelato l’equivalente di un migliaio di versetti». «Così grande è la grazia elargita in questo Giorno che, ammesso fosse possibile trovare un amanuense capace di compiere il lavoro, in un solo giorno e in una sola notte dal cielo della divina santità sarebbe stato inviato l’equivalente del Bayán Persiano». «Giuro su Dio!», ha affermato in un’altra occasione, «In quei giorni fu rivelato l’equivalente di tutto ciò ch’era stato precedentemente inviato ai Profeti». «Ciò che è già stato rivelato in questa terra (Adrianopoli)», ha inoltre dichiarato riferendoSi alla copiosità dei Suoi scritti, «i segretari non sono in grado di trascriverlo ed è perciò rimasto, perlopiù, non trascritto».
18 Già nel bel mezzo di quella grave crisi e ancor prima che essa giungesse a un punto critico, dalla penna di Bahá’u’lláh fluirono innumerevoli Tavole nelle quali erano pienamente esposte le implicazioni dei Suoi diritti recentemente affermati. La Súriy-i-Amr, la Lawh-i-Nuqtih, la Lawh-i-Ahmad, la Súriy-i-Asháb, la Lawh-i-Sayyáh, la Súriy-i-Damm, la Súriy-i-Hajj, la Lawhu’r-Rúh, la Lawhu’r-Ridvan, la Lawhu’t-Tuqá sono fra le Tavole che la Sua penna aveva già scritto quando trasferì la residenza nella casa di ‘Izzát Áqá. Quasi immediatamente dopo la «massima Separazione», furono rivelate le Tavole più importanti associate al Suo soggiorno adrianopolitano. La Súriy-i-Mulúk, la più importante Tavola rivelata da Bahá’u’lláh (Sura dei Re), nella quale Egli rivolse, per la prima volta, le Sue parole alla schiera dei monarchi dell’Oriente e dell’Occidente collettivamente e nella quale Si rivolge inoltre al Sultano di Turchia e ai suoi ministri, ai re della Cristianità, agli Ambasciatori francese e persiano accreditati alla Sublime Porta, ai capi ecclesiastici musulmani di Costantinopoli, ai suoi saggi e ai suoi abitanti, al popolo di Persia e ai filosofi del mondo separatamente, il Kitáb-i-Badí‘, l’apologia che scrisse per confutare le accuse formulate contro di Lui da Mirza Mihdíy-i-Rashtí, corrispondente al Kitáb-i-Íqán che rivelò in difesa della Rivelazione Bábí, le Munájátháy-i-Síyám (Preghiere per il Digiuno), scritte in anticipazione del Libro delle Sue Leggi, la prima Tavola a Napoleone III, nella quale Si rivolge all’Imperatore dei Francesi e mette alla prova la sincerità delle sue dichiarazioni, la Lawh-i-Sultán, la dettagliata epistola a Násiri’d-Dín Sháh, nella quale sono esposti le finalità, gli scopi e i principi della Sua Fede ed è dimostrata la validità della Sua Missione, la Súriy-i-Ra’ís, incominciata nel villaggio di Káshánih sulla strada per Gallipoli e finita poco tempo dopo a Gyáwur-Kyuy – queste possono essere considerate le principali fra le innumerevoli Tavole rivelate a Adrianopoli, Tavole che inoltre occupano una posizione di primo piano fra tutti gli scritti dell’Autore della Rivelazione bahá’í.
19 Nel Suo messaggio ai re della terra, nella Súriy-i-Mulúk, Bahá’u’lláh svela il carattere della Sua missione, li esorta ad abbracciare il Suo Messaggio, afferma la validità della Rivelazione del Báb, li rimprovera per la loro indifferenza alla Sua Causa, ingiunge loro di essere giusti e vigili, di comporre le controversie e di ridurre gli armamenti, descrive le Sue afflizioni, affida i poveri alle loro cure, li avverte che, se si rifiuteranno di seguire i Suoi consigli, «il Castigo divino li assalirà da ogni parte» e profetizza il Suo «trionfo sulla terra» anche se non si trovasse un solo re che volgesse lo sguardo verso di Lui.
20 Nella stessa Tavola Bahá’u’lláh critica più specificamente i re della Cristianità per non averGli «fatto buona accoglienza» e non essersi «avvicinati» a Lui Che è lo «Spirito della verità» e per aver continuato a «trastullarsi» con i loro «passatempi» e «capricci» e dichiara che sarà loro «chiesto conto» delle loro azioni «alla presenza di Colui Che radunerà la creazione intera».
21 Ingiunge al sultano ‘Abdu’l-‘Azíz di «ascoltare le parole di… Colui Che percorre senza errare il retto Sentiero», lo esorta a dirigere personalmente gli affari del suo popolo e a non dare fiducia a ministri indegni, l’ammonisce di non fare assegnamento sui suoi tesori e di non «oltrepassare i limiti della moderazione», ma di agire con i sudditi con «rigorosa giustizia» e lo informa del gravoso peso delle Sue tribolazioni. Nella stessa Tavola proclama la Sua innocenza e la Sua lealtà verso il Sultano e i suoi ministri, descrive le circostanze del Suo bando dalla capitale e lo assicura che pregherà Dio per lui.
22 Al Sultano, come è attestato dalla Súriy-i-Ra’ís, fece inoltre giungere da Gallipoli tramite un ufficiale turco di nome ‘Umar un messaggio verbale col quale chiedeva al sovrano di concederGli un colloquio di dieci minuti «in modo che egli potesse domandarGli qualunque cosa ritenesse sufficiente testimonianza e reputasse una prova della veridicità di Colui Che è la Verità», aggiungendo che «se Dio Gli avesse dato la capacità di fornirla, allora egli avrebbe dovuto liberare questi vilipesi abbandonandoli a se stessi».
23 A Napoleone III Bahá’u’lláh indirizzò una Tavola specifica che fu inoltrata all’Imperatore attraverso uno dei ministri francesi, nella quale esponeva le sofferenze sopportate da Lui e dai Suoi seguaci, dichiarava la loro innocenza, gli rammentava le sue due dichiarazioni in favore degli oppressi e dei derelitti e, desiderando saggiare la sincerità dei suoi moventi, lo invitava a «informarsi sulle condizioni di coloro ai quali è stato fatto torto», ad «accordare la sua protezione ai deboli» e a guardare a Lui e ai Suoi compagni d’esilio «con occhio di benevolo riguardo».
24 Per Násiri’d-Dín Sháh rivelò la più lunga delle epistole da Lui inviate a un sovrano, nella quale attestava l’ineguagliata durezza delle pene che Lo avevano colpito, Gli ricordava che il Sovrano aveva riconosciuto la Sua innocenza alla vigilia della Sua partenza per l’Iraq, lo supplicava di governare con giustizia, gli descriveva la chiamata ricevuta da Dio a levarSi e a proclamare il Suo Messaggio, affermava l’imparzialità dei Suoi consigli, proclamava la Sua fede nell’unità di Dio e nei Suoi Profeti, pronunciava diverse preghiere per lo Scià, giustificava la Propria condotta in Iraq, evidenziava la benefica influenza dei Suoi insegnamenti e poneva una speciale enfasi sulla Sua condanna di ogni forma di violenza e di dissenso. Nella stessa Tavola dimostrava inoltre la validità della Sua Missione, esprimeva il desiderio d’essere «messo a confronto con i teologi dell’epoca e di produrre prove e testimonianze alla presenza di Sua Maestà», che avrebbero stabilito la verità della Sua Causa, smascherava la perversità dei capi ecclesiastici dei Suoi giorni, nonché di quelli dei giorni di Gesù Cristo e di Muhammad, profetizzava che le Sue sofferenze sarebbero state seguite dall’«effusione di una suprema misericordia» e da una «prosperità traboccante», tracciava un parallelo fra i dolori che avevano colpito i Suoi congiunti e quelli sopportati dai parenti del profeta Muhammad, Si diffondeva sull’instabilità delle cose umane, descriveva la città nella quale stava per essere bandito, prediceva la futura umiliazione degli ‘ulamá e concludeva con un’ulteriore espressione di speranza che il sovrano fosse assistito da Dio ad «aiutare la Sua Fede e a volgersi verso la giustizia».
25 Ad ‘Alí Páshá, il gran visir, Bahá’u’lláh indirizzò la Súriy-i-Ra’ís. In essa gli ordina di «ascoltare la voce di Dio», afferma che né i suoi «grugniti», né «i latrati» di coloro che gli stanno intorno, né «gli eserciti del mondo» possono impedire all’Onnipotente di raggiungere il Suo scopo, lo accusa di avere perpetrato ciò che ha fatto «gemere l’Apostolo di Dio nel più eccelso Paradiso» e di aver cospirato con l’Ambasciatore persiano a Suo danno, predice «la manifesta rovina» in cui sarebbe presto incorso, glorifica il Giorno della Propria Rivelazione, profetizza che questa «fra breve circonderà la terra e tutto ciò che vi si trova» e che la «Terra del mistero (Adrianopoli) e ciò che le è vicino… sfuggiranno dalle mani del Re, e verranno agitazioni, e risuoneranno voci lamentose, e appariranno in ogni luogo segni di discordia», identifica questa Rivelazione con le Rivelazioni di Mosè e di Gesù, ricorda l’«arroganza» dell’Imperatore persiano nei giorni di Muhammad, la «trasgressione» del Faraone nei giorni di Mosè e l’«empietà» di Nimrod nei giorni di Abramo e proclama la Sua intenzione di «vivificare il mondo e di unire tutti i suoi popoli».
26 Ai ministri del Sultano, rimprovera la loro condotta, nella Súriy-i-Mulúk, in alcuni passi nei quali mette in dubbio la validità dei loro principi, predice che saranno puniti per le loro azioni, ne denuncia l’orgoglio e l’ingiustizia, afferma la Propria integrità e il Proprio distacco dalle vanità del mondo e proclama la Propria innocenza.
27 All’ambasciatore francese accreditato alla Sublime Porta, rimprovera nella stessa Sura di aver complottato contro di Lui con l’Ambasciatore persiano, gli ricorda i consigli di Gesù Cristo riportati nel Vangelo secondo san Giovanni, lo avverte che sarà chiamato a rispondere di ciò che le sue mani hanno fatto e consiglia a lui e a coloro che sono come lui di non comportarsi con nessun altro come egli si è comportato con Lui.
28 All’Ambasciatore persiano a Costantinopoli dedica, nella stessa Tavola, lunghi passi nei quali espone i suoi inganni e le sue calunnie, denuncia la sua ingiustizia e quella dei suoi concittadini, gli assicura di non nutrire alcun malanimo contro di lui, dichiara che, se si rendesse conto dell’enormità della sua azione, se ne dorrebbe per tutti i giorni della sua vita, afferma che persisterà nell’incuria fino alla morte, giustifica la Propria condotta a Teheran e in Iraq e attesta la corruzione del ministro persiano a Baghdad e la sua collusione con questo ministro.
29 All’intera compagnia dei capi ecclesiastici dell’Islam sunnita a Costantinopoli rivolge uno speciale messaggio nella stessa Súriy-i-Mulúk nei quali li denuncia di essere negligenti e spiritualmente morti, li rimprovera per il loro orgoglio e per non aver cercato la Sua presenza, svela loro la piena gloria e importanza della Sua Missione, afferma che i loro capi, se fossero vivi, «avrebbero gravitato attorno a Lui», li condanna come «adoratori dei nomi» e amanti del potere e dichiara apertamente che Dio non troverà nulla di accettabile da loro a meno che non siano «rinnovati» nel Suo giudizio.
30 Ai saggi di Costantinopoli e ai filosofi del mondo dedica i passi conclusivi della Súriy-i-Mulúk, nei quali li ammonisce a non essere orgogliosi davanti a Dio, rivela loro l’essenza della vera saggezza, sottolinea l’importanza della fede e della retta condotta, li rimprovera di non aver cercato lumi presso di Lui e li consiglia di non «oltrepassare i limiti di Dio» e di non volgere lo sguardo verso le «vie degli uomini e le loro abitudini».
31 Agli abitanti di Costantinopoli dichiara, nella stessa Tavola, che Egli «non teme nessuno fuorché Dio», che parla soltanto «per Suo ordine», che non segue nient’altro che la verità di Dio, che ha trovato governatori e anziani della città «riuniti a trastullarsi come bambini con la creta» e che non ha percepito nessuno sufficientemente maturo per acquisire le verità che Dio Gli aveva insegnato. Ingiunge loro di attenersi fermamente ai precetti di Dio, li ammonisce a non essere orgogliosi davanti a Dio e ai Suoi amati, ricorda le tribolazioni dell’Imám Husayn e ne esalta le virtù, prega di poter soffrire anche Lui simili afflizioni, profetizza che fra non molto Dio susciterà un popolo che racconterà i Suoi affanni e chiederà agli oppressori la restituzione dei Suoi diritti e li invita a prestare ascolto alle Sue parole, a ritornare a Dio e a pentirsi.
32 E infine rivolgendoSi al popolo di Persia Egli afferma, nella stessa Tavola, che se Lo mettessero a morte, Dio sicuramente susciterebbe un Altro in Sua vece e asserisce che l’Onnipotente «perfezionerà la Sua luce», anche se nel segreto del cuore essi la detestano.
33 Questa proclamazione tanto importante, in un periodo così critico, compiuta dal Portatore di un Messaggio così sublime, ai re della terra, musulmani e cristiani, a ministri e ambasciatori ai capi ecclesiastici dell’Islam sunnita, ai saggi e agli abitanti di Costantinopoli, sede del Sultanato e del Califfato, ai filosofi del mondo e al popolo di Persia non dev’essere considerata il solo evento rilevante associato al soggiorno adianopolitano di Bahá’u’lláh. Altri sviluppi e avvenimenti di grande, sia pur minore, significato devono essere annotati in queste pagine, se vogliamo giudicare correttamente l’importanza di questa travagliata e importantissima fase del ministero di Bahá’u’lláh.
34 Fu in questo periodo e per diretta conseguenza della ribellione e dell’orribile caduta di Mirza Yahyá che alcuni discepoli di Bahá’u’lláh (che possono essere considerati fra i «tesori» promessiGli da Dio mentre era piegato dalle catene nel Síyáh-Chál di Teheran), fra i quali vi erano una Lettera del Vivente, alcuni superstiti della battaglia di Tabarsí e l’erudito Mirza Ahmad-i-Azghandí, si levarono a difendere la Fede neonata, a confutare, in numerose, dettagliate apologie, come il loro Maestro aveva fatto nel Kitáb-i-Badí‘, gli argomenti dei Suoi oppositori e a smascherare le loro odiose azioni. Fu in questo periodo che i confini della Fede s’allargarono, che il suo vessillo fu permanentemente piantato nel Caucaso per mano di Abú-Tálib e di altri che Nabíl aveva convertito, che fu installato il suo primo centro egiziano nel periodo in cui Siyyid Husayn-i-Káshání e Hájí Báqir-i-Káshání vi presero residenza e che alle terre già riscaldate e illuminate dai primi raggi della Rivelazione di Dio – Iraq, Turchia e Persia – s’aggiunse la Siria. Fu in questo periodo che il saluto «Alláh-u-Abhá» sostituì il vecchio «Alláh-u-Akbar» e fu adottato contemporaneamente ad Adrianopoli e in Persia, dove il primo a usarlo fu, per suggerimento di Nabíl, Mullá Muhammad-i-Furúghí, uno dei difensori del Forte di Shaykh Tabarsí. Fu in questo periodo che la frase «gente del Bayán», che indicava ora i seguaci di Mirza Yahyá, fu abbandonata e sostituita dal termine «gente di Bahá». Fu durante quei giorni che Nabíl, recentemente onorato col titolo di Nabíl-i-A‘zam in una Tavola a lui specificamente indirizzata nella quale gli si ingiungeva di «trasmettere il Messaggio» del suo Signore «all’Oriente e all’Occidente», si levò, malgrado le ripetute persecuzioni, a squarciare il «più pesante dei veli», a infondere nel cuore dei Suoi concittadini l’amore di un adorato Maestro e a difendere la Causa che il suo Amato aveva proclamato in così tragiche condizioni. Fu durante quegli stessi giorni che Bahá’u’lláh incaricò questo stesso Nabíl di recitare a Suo nome le due Tavole del pellegrinaggio recentemente rivelate e di compiere in Sua vece i riti in esse prescritti, mentre visitava la Casa del Báb a Shíráz e la Più Grande Casa a Baghdad – un atto che segna l’inizio di una delle più sacre osservanze che il Kitáb-i-Aqdas avrebbe formalmente istituito in un periodo successivo. Fu durante questo periodo che Bahá’u’lláh rivelò le «Preghiere del digiuno» in previsione della Legge che quello stesso Libro avrebbe presto promulgato. Fu nei giorni del Suo esilio adrianopolitano che Bahá’u’lláh indirizzò una Tavola anche a Mullá ‘Alí-Akbar-i-ShaMirzadí e a Jamál-i-Burújirdí, due Suoi conosciutissimi seguaci di Teheran, incaricandoli di trasferire, nella massima segretezza, le spoglie del Báb dall’Imám-Zadih Ma‘súm, dov’erano nascoste, in altro luogo più sicuro – atto che si dimostrò poi provvidenziale e che si può dire abbia segnato un ulteriore stadio del lungo e laborioso trasferimento di quelle spoglie nel cuore del monte Carmelo e nel luogo che Egli avrebbe poi indicato nelle Sue istruzioni ad ‘Abdu’l-Bahá. Fu durante quel periodo che venne rivelata la Súriy-i-Ghusn (Sura del Ramo), nella quale è presagito il futuro stadio di ‘Abdu’l-Bahá Che è elogiato come «Ramo di santità», «Braccio della Legge di Dio», «Fiduciario di Dio», «inviato in terra nella forma di tempio umano» – una Tavola che può giustamente essere considerata annunciatrice del ruolo che doveva esserGli conferito nel Kitáb-i-Aqdas e che sarebbe poi stato chiarito e confermato nel Libro del Suo Patto. E infine fu durante quel periodo che si ebbero i primi pellegrinaggi alla residenza di Colui Che era adesso il Centro visibile della Fede recentemente stabilita – pellegrinaggi che, a causa del loro numero e della loro natura, il governo persiano, allarmato, fu dapprima spinto a limitare e poi a proibire, ma che comunque precorsero quelle convergenti fiumane di pellegrini che, da Oriente e da Occidente, inizialmente fra pericoli e difficoltà, avrebbero diretto i loro passi verso la fortezza di ‘Akká – pellegrinaggi che dovevano culminare con lo storico arrivo ai piedi del monte Carmelo di una regina convertita la quale, sulle soglie di un pellegrinaggio tanto desiderato e ampiamente annunciato, si vide negare la possibilità di realizzare il suo intento.
35 Questi rilevanti sviluppi, alcuni contemporanei alla proclamazione della Fede di Bahá’u’lláh, altri derivati da essa e dagli sconvolgimenti interni che la Causa aveva subito, non potevano sfuggire all’attenzione dei nemici esterni del Movimento, che erano ben decisi a sfruttare al massimo qualunque crisi follie di amici o perfidie di rinnegati potessero in qualsiasi momento far scoppiare. Le dense nubi erano state appena dissipate dall’improvviso erompere dei raggi di un Sole che ora risplendeva dal suo meriggio, quando l’oscurità di un’altra catastrofe, l’ultima che l’Autore della Fede era destinato a subire, s’abbatté su di essa oscurandone il firmamento e sottoponendola a una delle più dure prove che avesse mai sostenuto.
36 Imbaldanziti dalle recenti ordalie da cui Bahá’u’lláh era stato tanto crudelmente colpito, questi nemici, che erano rimasti temporaneamente tranquilli, incominciarono a dimostrare nuovamente e in vari modi la latente animosità che nutrivano nel cuore. Persecuzioni di diverso grado di durezza ancora una volta incominciarono a scoppiare in varie zone. Nell’Azerbaigian e a Zanján, a Níshápúr e a Teheran, i seguaci della Fede furono imprigionati, umiliati, puniti, messi a morte. Fra le vittime si può citare l’intrepido Najaf-‘Alíy-i-Zanjání, superstite della battaglia di Zanján immortalato nell’«Epistola al Figlio del Lupo», che lasciò al carnefice l’oro che possedeva e che tutti udirono gridare forte «Yá Rabbíya’l-Abhá» prima della decapitazione. In Egitto, un avido e depravato console generale estorse ben centomila túmán a un facoltoso convertito persiano, Hájí Abu’l-Qásim-i-Shírází, arrestò Hájí Mirza Haydar-‘Alí e sei suoi compagni di fede e ne istigò la condanna a nove anni di esilio a Khartúm, confiscando tutti gli scritti in loro possesso, poi gettò in prigione Nabíl che Bahá’u’lláh aveva mandato perché si appellasse al Chedivè in loro favore. A Baghdad e a Kázimayn instancabili nemici, in attesa del momento propizio, sottoposero i fedeli sostenitori di Bahá’u’lláh a un duro e ignominioso trattamento, sventrarono selvaggiamente ‘Abdu’r-Rasúl-i-Qumí mentre all’alba trasportava acqua con un otre dal fiume alla Più Grande Casa ed esiliarono a Mosul, fra scene di pubblico ludibrio, circa settanta compagni, compresi donne e bambini.
37 Non furono da meno Mirza Husayn Khán, il Mushíru’d-Dawlih, e i suoi soci i quali, decisi a trarre pieno vantaggio dalle disgrazie che avevano recentemente colpito Bahá’u’lláh, si levarono per completare la Sua distruzione. Le autorità della capitale s’infuriarono per la stima dimostrataGli dal governatore Muhammad Pásháy-i-Qibrisí, ex gran visir, e dai suoi successori Sulaymán Páshá dell’ordine qádiríyyih, e in modo particolare da Khurshíd Páshá che in molte occasioni frequentò apertamente la casa di Bahá’u’lláh, s’intrattenne con Lui nei giorni del ramadán e mostrò una fervida ammirazione per ‘Abdu’l-Bahá. Erano consapevoli del tono di sfida che Bahá’u’lláh aveva assunto in alcune delle Tavole recentemente rivelate e consci dell’instabilità prevalente nel paese. Erano infastiditi dal continuo viavai di pellegrini in Adrianopoli e dagli esagerati rapporti di Fu’ád Páshá che era recentemente passato per un giro d’ispezione. Le petizioni di Mirza Yahyá giunte loro attraverso il suo agente Siyyid Muhammad li avevano irritati. Lettere anonime (scritte dallo stesso Siyyid e da un complice, Áqá Ján, che prestava servizio nell’artiglieria turca) che alteravano gli scritti di Bahá’u’lláh e Lo accusavano d’aver cospirato con i capi bulgari e certi ministri di potentati europei per ottenere, con l’aiuto di migliaia di seguaci, la conquista di Costantinopoli, aveva riempito di timore i loro petti. E ora incoraggiati dai dissidi interni che avevano scosso la Fede e irritati dall’evidente stima in cui i consoli delle potenze straniere di stanza in Adrianopoli tenevano Bahá’u’lláh, decisero di prendere provvedimenti drastici e immediati per estirpare la Fede, isolare il suo Autore e ridurLo all’impotenza. Le imprudenze commesse da alcuni Suoi seguaci troppo zelanti che erano giunti a Costantinopoli indubbiamente aggravarono una situazione già critica.
38 Alla fine si giunse alla disastrosa decisione di esiliare Bahá’u’lláh nella colonia penale di ‘Akká e Mirza Yahyá a Famagosta nell’isola di Cipro. Questa decisione era contenuta in un Farmán redatto in termini duri emanato dal sultano ‘Abdu’l-‘Azíz. I compagni di Bahá’u’lláh, che erano arrivati nella capitale, con pochi altri che più tardi si unirono a loro e con Áqá Ján, il famigerato mestatore, furono arrestati, interrogati, privati dei loro documenti e gettati in prigione. I membri della comunità di Adrianopoli furono ripetutamente convocati al palazzo del governatore per accertare il loro numero, mentre girava la voce che sarebbero stati dispersi e banditi in luoghi diversi o segretamente messi a morte.
39 Improvvisamente una mattina la casa di Bahá’u’lláh fu circondata dai soldati, le porte furono piantonate, i Suoi seguaci furono nuovamente convocati e interrogati dalle autorità ed ebbero l’ordine di prepararsi alla partenza. «La prima notte gli amati di Dio e i Suoi congiunti», è la testimonianza di Bahá’u’lláh nella Súriy-i-Ra’ís, «furono lasciati senza cibo… Il popolo circondò la casa, musulmani e cristiani piansero per Noi… Ci accorgemmo che il pianto del popolo del Figlio (i cristiani) superava quello degli altri, un segno per coloro che meditano». «Una grande agitazione scosse la gente», scrive Áqá Ridá, uno dei più coraggiosi sostenitori di Bahá’u’lláh, esiliato con Lui per tutto il tratto da Baghdad ad ‘Akká, «tutti erano confusi e pieni di rammarico… Alcuni esprimevano la loro simpatia, altri ci consolavano e piangevano per noi… La maggior parte delle nostre proprietà furono vendute all’asta per la metà del loro valore». Alcuni consoli di potenze straniere visitarono Bahá’u’lláh e si dissero pronti a intervenire in Suo favore presso i rispettivi governi, offerte per le quali Egli espresse apprezzamento ma che rifiutò fermamente. «I consoli di quella città (Adrianopoli) si riunirono alla presenza di questo Giovane nell’ora della Sua partenza» ha scritto «ed espressero il desiderio di aiutarLo. In verità, Ci dimostrarono un palese affetto».
40 L’Ambasciatore persiano informò immediatamente i consoli del suo paese in Iraq e in Egitto che il governo turco aveva tolto la sua protezione sui Bábí e che essi erano liberi di trattarli come meglio credevano. Parecchi pellegrini, tra i quali Hájí Muhammad Ismá‘íl-i-Káshání soprannominato Anís nella Lawh-i-Ra’ís, che nel frattempo erano arrivati ad Adrianopoli, dovettero ripartire per Gallipoli senza nemmeno vedere il volto del loro Maestro. Due compagni furono costretti a divorziare dalle mogli, perché i parenti si rifiutavano di lasciarle andare in esilio. Khurshíd Páshá, che già più volte aveva smentito categoricamente le accuse scritte inviategli dalle autorità di Costantinopoli e aveva interceduto energicamente in favore di Bahá’u’lláh, fu così imbarazzato dall’azione del governo che, appena fu informato della Sua imminente partenza dalla città, decise d’assentarsi affidando al Cancelliere l’incarico di comunicarGli il contenuto dell’editto del Sultano. Hájí Ja‘far-i-Tabrízí, uno dei fedeli, quando scoprì che il suo nome era stato escluso dall’elenco degli esuli che potevano accompagnare Bahá’u’lláh, si tagliò la gola con un rasoio, ma fu salvato in tempo, un gesto che Bahá’u’lláh nella Súriy-i-Ra’ís definisce «mai udito nei secoli passati», un gesto che «Dio ha tenuto in serbo per questa Rivelazione come prova della grandiosità della sua potenza».
41 Il 22 del mese di rabí‘u’th-thání del 1285 dell’Egira (12 agosto 1868) Bahá’u’lláh e la Sua famiglia, scortati da un capitano turco di nome Hasan Effendi e da altri soldati incaricati dal governo locale, partirono per un viaggio di quattro giorni alla volta di Gallipoli, viaggiando su carri e fermandosi lungo la strada a Uzún-Kúprú e a Káshánih dove fu rivelata la Súriy-i-Ra’ís. «Gli abitanti del quartiere in cui Bahá’u’lláh aveva vissuto e i vicini di casa che si erano riuniti per salutarLo», scrive un testimone oculare, «giunsero uno dopo l’altro molto tristi e rammaricati per baciarGli le mani e l’orlo della veste, esprimendoGli contemporaneamente il loro dolore per la Sua partenza. Anche quello fu un giorno straordinario. Sembrava che la città, le mura e le sue porte piangessero l’imminente separazione da Lui». «Quel giorno», scrive un altro testimone oculare, «vi fu una straordinaria affluenza di musulmani e cristiani alle porte della casa del nostro Maestro. Il momento della partenza fu memorabile. Molti dei presenti piangevano e gemevano, soprattutto i cristiani». «Dite», dichiara Bahá’u’lláh nella Súriy-i-Ra’ís, «questo Giovane è partito da questa terra e sotto ogni albero e ogni pietra ha lasciato un pegno, che fra breve Dio mostrerà col potere della verità».
42 Molti compagni ch’erano stati portati da Costantinopoli li aspettavano a Gallipoli. All’arrivo Bahá’u’lláh fece ad Hasan Effendi, che portato a termine il suo compito si disponeva alla partenza, la seguente dichiarazione: «Dì al re che questo territorio gli sfuggirà di mano e che i suoi affari saranno gettati nel disordine». Áqá Ridá, cronista dell’episodio, ha scritto: «A questo Bahá’u’lláh ha poi aggiunto: “Non sono Io che dico queste parole, Iddio le dice”. In quei momenti pronunciò versetti che noi da basso potevamo udire distintamente. Li pronunciò con tale veemenza e forza che sembrò tremassero anche le fondamenta della casa».
43 Neanche a Gallipoli dove trascorsero tre notti, nessuno sapeva quale sarebbe stata la destinazione di Bahá’u’lláh. Alcuni pensavano che Egli e i Suoi fratelli sarebbero stati banditi in un luogo e gli altri dispersi e mandati in esilio. Altri pensavano che i compagni sarebbero stati rimandati in Persia, mentre altri ancora s’aspettavano un immediato sterminio. L’ordine originale del governo era che Bahá’u’lláh, Áqáy-i-Kalím e Mirza Muhammad-Qulí con un servitore, fossero esiliati ad ‘Akká, mentre gli altri dovevano proseguire per Costantinopoli. Quest’ordine, che provocò scene d’indescrivibile costernazione, fu però revocato per le insistenze di Bahá’u’lláh e con l’aiuto di ‘Umar Effendi, il maggiore che era stato incaricato di accompagnare gli esuli. Alla fine fu deciso che tutti gli esuli, circa settanta, fossero banditi ad ‘Akká. Inoltre fu dato ordine che alcuni seguaci di Mirza Yahyá, fra cui Siyyid Muhammad e Áqá Ján, li accompagnassero, mentre quattro compagni di Bahá’u’lláh dovevano partire con gli azalí per Cipro.
44 Così gravi erano i pericoli e le prove che Bahá’u’lláh dovette affrontare nel momento della partenza da Gallipoli che Egli avvertì i Suoi compagni che «questo viaggio sarebbe stato diverso da qualsiasi altro precedente» e che chiunque non si fosse sentito «abbastanza uomo da affrontare il futuro» avrebbe fatto meglio «a partire per qualunque posto volesse, sottraendosi così alle prove, perché, da quel momento in poi non avrebbe più potuto ritirarsi», consiglio che i Suoi compagni decisero unanimemente d’ignorare.
45 La mattina del 2 jamádíyu’l-avval 1285 dell’Egira (21 agosto 1868) s’imbarcarono tutti per Alessandria su un piroscafo del Lloyd austriaco, toccando Madellí e fermandosi per due giorni a Smirne. Qui Jináb-i-Munír, soprannominato Ismu’lláhu’l-Muníb, s’ammalò gravemente e, con sua profonda costernazione, dovette essere lasciato in un ospedale dove poco dopo morì. Ad Alessandria trasbordarono su un piroscafo della stessa compagnia diretto ad Haifa. Approdarono dopo brevi soste a Porto Said e a Jaffa, ripartendo poche ore dopo con un veliero per ‘Akká, dove sbarcarono il pomeriggio del 12 jamádíyu’l-avval 1285 dell’Egira (31 agosto 1868). Nel momento in cui Bahá’u’lláh mise piede sull’imbarcazione che doveva portarLo alla banchina di Haifa ‘Abdu’l-Ghaffár, uno dei quattro compagni condannati a condividere l’esilio di Mirza Yahyá, il cui «distacco, amore e fiducia in Dio» Bahá’u’lláh aveva molto lodato, disperato si gettò a mare gridando «Yá Bahá’u’l-Abhá». Ripescato, fu rianimato con grandissima difficoltà, solo per essere costretto da inflessibili ufficiali a proseguire il viaggio con il gruppo di Mirza Yahyá verso la destinazione che gli era stata originariamente assegnata.
CAPITOLO XI1 L’arrivo di Bahá’u’lláh ad ‘Akká segna l’inizio dell’ultima fase del Suo ministero quarantennale, il periodo finale e, in verità, il momento culminante dell’esilio in cui trascorse l’intero ministero. Un bando che L’aveva portato, prima, nelle immediate vicinanze delle roccaforti dell’ortodossia sciita e a contatto con i suoi più illustri esponenti e che poi L’aveva condotto nella capitale dell’Impero ottomano e indotto a indirizzare le Sue storiche dichiarazioni al Sultano, ai suoi ministri e ai capi ecclesiastici dell’Islam sunnita, Lo faceva ora approdare sulle coste della Terra Santa, la Terra promessa da Dio ad Abramo, santificata dalla Rivelazione di Mosè, onorata dalla vita e dalle opere dei patriarchi, dei giudici, dei re e dei profeti ebraici, venerata in quanto culla della Cristianità e luogo dove, secondo la testimonianza di ‘Abdu’l-Bahá, Zoroastro «conversò con alcuni dei profeti di Israele» e associata dall’Islam al viaggio notturno dell’Apostolo nei sette cieli fino al Trono dell’Onnipotente. Entro i confini di questo santo e invidiabile paese, «nido di tutti i Profeti di Dio», «Valle dell’impenetrabile Decreto di Dio, candido Sito, Terra d’inalterabile splendore», l’Esule di Baghdad, Costantinopoli e Adrianopoli fu condannato a trascorrere un terzo del tempo che Gli era stato dato da vivere e oltre la metà dell’intero periodo della Sua missione. «E non si vede», dichiara ‘Abdu’l-Bahá, «come Bahá’u’lláh avrebbe potuto essere costretto a lasciare la Persia e a piantare la Sua tenda in Terra Santa se non a causa delle persecuzioni dei Suoi nemici, della Sua condanna e del Suo esilio».
2 In verità questa conclusione, Egli ci assicura, era stata effettivamente profetizzata «per bocca dei Profeti, due o tremila anni prima». Dio, «fedele alla Sua promessa», aveva «rivelato la buona novella» «ad alcuni dei Profeti» «che “il Signore degli eserciti’ Si sarebbe manifestato ‘in Terra Santa”». A questo proposito Isaia aveva annunciato nel suo Libro: «Sali su un alto monte, o Sion che rechi liete novelle; alza la voce con forza, o Gerusalemme che rechi liete notizie. Alza la voce, non temere; annunzia alle città di Giuda: “Ecco il vostro Dio! Ecco, il Signore Dio viene con forte mano, con il braccio egli detiene il dominio”». Davide aveva predetto nei Salmi: «Sollevate, porte, i vostri frontali, alzatevi porte antiche, ed entri il Re della Gloria. Chi è questo Re della Gloria? il Signore degli eserciti, è Lui il Re della Gloria». «Da Sion, splendore di bellezza, Dio rifulge. Viene il nostro Dio e non sta in silenzio». Anche Amos Ne aveva predetto la venuta: «Il Signore ruggisce da Sion e da Gerusalemme fa udire la Sua voce; son desolate le steppe dei pastori, è inaridita la cima del Carmelo».
3 La stessa ‘Akká, fiancheggiata dalla «gloria del Libano», situata in piena vista dello «splendore del Carmelo», ai piedi dei colli che circondano la terra natale di Gesù Cristo, era stata descritta da Davide come «la Città fortificata», definita da Osea «porta di speranza» e indicata da Ezechiele come «la porta che guarda a oriente» alla quale «la gloria del Dio d’Israele giungeva dalla via orientale», «il Suo rumore… come il rumore delle grandi acque». Il Profeta arabo l’aveva menzionata come «una città della Siria, alla quale Iddio ha mostrato la Sua speciale misericordia», situata «fra due montagne, nel mezzo di una prateria», «presso le rive del mare… sospesa sotto il Trono», «candida, di un candore caro a Dio». «Benedetto l’uomo», ha inoltre dichiarato, come Bahá’u’lláh conferma, «che ha visitato ‘Akká e benedetto colui che ha visitato il visitatore di ‘Akká». Inoltre: «E colui che vi recita l’invito alla preghiera, la sua voce salirà insino al Paradiso». E ancora: «I poveri di ‘Akká sono i principi e i sovrani del Paradiso. È meglio un mese ad ‘Akká che mill’anni altrove». Inoltre in un’importante tradizione contenuta nell’opera di Shaykh Ibnu’l-‘Arabí intitolata «Futúhát-i-Makkíyyih», riconosciuta come parola autentica di Muhammad e citata da Mirza Abu’l-Fadl nel suo «Fará’id», è stata fatta questa significativa predizione: «Saranno uccisi tutti (i compagni del Qá’im), tranne Uno Che arriverà nella piana di ‘Akká, la Sala dei banchetti di Dio».
4 Lo Stesso Bahá’u’lláh, come attesta Nabíl nella sua narrazione, fin dal primo anno dell’esilio adrianopolitano, aveva alluso alla città nella Lawh-i-Sayyáh, chiamandola «Valle di Nabíl», dato che la parola Nabíl ha lo stesso valore numerico di ‘Akká. «Al Nostro arrivo», aveva predetto quella Tavola, «fummo salutati da vessilli di luce, sui quali la Voce dello Spirito si levò dicendo: “Ben presto tutto ciò che dimora sulla terra sarà arruolato sotto questi vessilli”».
5 Questo esilio, che durò ventiquattro anni, al quale due despoti orientali, nella loro implacabile inimicizia e imprevidenza, s’erano accordati di condannare Bahá’u’lláh passerà alla storia come un periodo che vide un miracoloso e invero rivoluzionario mutamento delle circostanze che caratterizzavano la vita e le attività dell’Esule, sarà ricordato soprattutto per la discontinua, ma particolarmente crudele, generale recrudescenza delle persecuzioni nella Sua terra, per il simultaneo aumento del numero dei Suoi seguaci e infine per l’enorme ampliamento dell’estensione e del volume dei Suoi Scritti.
6 L’arrivo alla colonia penale di ‘Akká lungi dal segnare la fine delle Sue afflizioni, non fu che l’inizio di una grande crisi caratterizzata da amare sofferenze, dure restrizioni e grande subbuglio, tanto grave da superare persino le angosce del Síyáh-Chál di Teheran, una crisi alla quale nessun altro evento della storia dell’intero secolo, fuorché la agitazione interna che scosse la Fede ad Adrianopoli, può essere paragonato. «Sappi», ha scritto Bahá’u’lláh, volendo sottolineare le difficoltà dei primi nove anni di esilio nella città-prigione, «che giunti in questo Luogo, decidemmo di chiamarlo “la Più Grande Prigione”. Benché in precedenza sottoposto in altra terra (Teheran) a catene e ceppi, pure Ci rifiutammo di chiamarla con questo nome. Dì: meditate su ciò, voi dotati di comprensione!»
7 La prova che subì come diretta conseguenza dell’attentato alla vita di Násiri’d-Dín Sháh Gli era stata inflitta unicamente da nemici esterni della Fede. Il travaglio di Adrianopoli, i cui effetti quasi spaccarono la comunità dei seguaci del Báb, era stata d’altra parte di carattere puramente interno. Questa nuova crisi che per quasi un decennio turbò Lui e i Suoi compagni fu invece caratterizzata non solo da aggressioni di avversari esterni, ma anche da macchinazioni di nemici interni e da gravi misfatti di persone che, pur portando il Suo nome, perpetrarono cose che fecero gemere il Suo cuore e la Sua penna.
8 ‘Akká, l’antica Tolemaide, la San Giovanni d’Acri dei Crociati, che aveva sfidato con successo l’assedio di Napoleone, sotto i turchi era decaduta al livello di una colonia penale nella quale assassini, briganti e agitatori politici venivano inviati da tutte le parti dell’impero turco. Cinta da un doppio sistema di bastioni, abitata da una popolazione che Bahá’u’lláh definì «stirpe di vipere», priva di qualsiasi sorgente d’acqua entro le mura, era infestata dalle pulci, umida e intersecata da un reticolo di viuzze tetre, maleodoranti e tortuose. «A quanto si dice», ha attestato la Penna Suprema nella Lawh-i-Sultán, «è la più desolata città del mondo, quella che ha l’aspetto più squallido, il clima più detestabile e l’acqua più putrida. È come se fosse la metropoli dei gufi». Così malsana era la sua aria che, secondo un proverbio, l’uccello che l’avesse sorvolata sarebbe caduto morto.
9 Il Sultano e i suoi ministri avevano impartito ordini espliciti di sottoporre al più stretto isolamento gli esuli che erano accusati d’essersi macchiati di gravi colpe e d’aver indotto altri in errore. Era stata confidenzialmente espressa la speranza che la condanna a vita emessa contro di loro potesse portare al loro definitivo sterminio. Il farmán del sultano ‘Abdu’l-’Azíz datato 5 rabí‘u’th-thání 1285 dell’Egira (26 luglio 1868) non solo li condannava all’esilio perpetuo, ma ne decretava la rigorosa carcerazione e proibiva che s’incontrassero fra loro e con gli abitanti del luogo. Il testo del farmán fu pubblicamente letto nella principale moschea della città subito dopo l’arrivo degli esuli per avvertire la popolazione. L’Ambasciatore persiano accreditato alla Sublime Porta, in una lettera che scrisse poco più d’un anno dopo il loro esilio ad ‘Akká, aveva rassicurato il suo governo in questi termini: «Ho diramato istruzioni telegrafiche e scritte vietando che Egli (Bahá’u’lláh) S’incontri con chiunque eccetto le mogli e i figli o che esca, in qualunque circostanza, dalla casa dov’è tenuto prigioniero. Tre giorni fa ho mandato indietro, con l’ordine di recarsi direttamente ad ‘Akká… ‘Abbás-Qulí Khán, Console generale a Damasco… perché conferisca col Governatore in merito a tutte le misure necessarie per la rigorosa osservanza della prigionia… e, prima di ritornare a Damasco, incarichi un rappresentante locale, in modo da assicurarsi che gli ordini emessi dalla Sublime Porta non siano in alcun modo trasgrediti. Gli ho anche ordinato di recarsi una volta ogni tre mesi da Damasco ad ‘Akká, per controllare di persona e fare un rapporto alla Legazione». Tale fu l’isolamento imposto che i bahá’í in Persia, sconvolti dalle voci messe in giro dagli azalí di Isfáhán, secondo le quali Bahá’u’lláh era stato annegato, fecero accertare la cosa attraverso l’ufficio telegrafico inglese di Julfá.
10 Sbarcati ad ‘Akká dopo un penoso viaggio, tutti gli esuli, uomini, donne e bambini, sotto gli occhi di una popolazione curiosa e indurita che s’era radunata nel porto per vedere il «Dio dei Persiani», furono condotti in caserma dove vennero rinchiusi e posti sotto la sorveglianza di sentinelle. «La prima notte», dichiara Bahá’u’lláh nella Lawh-i-Ra’ís, «tutti furono privati di cibi e di bevande… Pregarono per avere un po’ d’acqua ed ebbero un rifiuto». L’acqua del pozzo nel cortile era così sporca e salmastra che nessuno poté berne. A ciascuno furono assegnate tre pagnotte di pane nero e salato che in seguito, quando furono scortati al mercato da due guardie, ebbero il permesso di scambiare con due di qualità migliore. In sostituzione della razione di pane furono poi concessi quattro soldi. Appena arrivati tutti s’ammalarono tranne due. Alle loro sofferenze si aggiunsero la malaria e la dissenteria oltre al caldo soffocante. Ne morirono tre, fra i quali due fratelli che soccombettero nella stessa notte «stretti», come dice Bahá’u’lláh, «uno nelle braccia dell’altro». Bahá’u’lláh fece vendere il tappeto da Lui usato per provvedere ai sudari e alla sepoltura. La misera somma ricavata dalla vendita fu consegnata alle guardie che si erano rifiutate di seppellirli senza prima esser pagate per le spese necessarie. Si seppe poi che li avevano sepolti senza lavarli, senza sudario e senza bara, con i vestiti che avevano addosso, sebbene, come afferma Bahá’u’lláh, avessero ricevuto il doppio della cifra necessaria. «Nessuno», ha scritto, «sa quello che Ci è accaduto, fuorché Dio, l’Onnipotente, l’Onnisciente… Dalla creazione del mondo sino ad oggi non s’è mai vista né udita una simile crudeltà». «La maggior parte della Sua vita», ha scritto inoltre riferendoSi a Se Stesso, «Egli è stato duramente provato tra le grinfie dei nemici. Le Sue sofferenze hanno ora raggiunto il culmine in questa triste Prigione in cui i Suoi oppressori Lo hanno così iniquamente gettato».
11 I pochi pellegrini che malgrado il divieto così rigorosamente imposto s’adoperarono per giungere alle porte della Prigione, alcuni dopo aver percorso a piedi l’intero tragitto dalla Persia, dovettero accontentarsi d’un fuggevole sguardo al viso del Prigioniero stando al di là del secondo fossato di fronte alla finestra della Sua cella. I pochissimi che riuscirono a entrare nella città dovettero tornare desolatissimi sui loro passi senza poter nemmeno vedere il Suo volto. Il primo che giunse alla Sua presenza, il devoto Hájí Abu’l-Hasan-i-Ardikání soprannominato Amín-i-Iláhí (il Fidato di Dio), poté farlo in un bagno pubblico dov’era stato combinato ch’egli vedesse Bahá’u’lláh senza avvicinarsi o fare cenni di riconoscimento. Un altro pellegrino, Ustád Ismá’íl-i-Káshí, giunto da Mosul, s’appostò sul lato esterno del fossato a fissare per ore, in rapita devozione, la finestra del Diletto, ma, essendo debole di vista, non vide il Suo volto e dovette ritornare alla caverna del monte Carmelo di cui si serviva come abitazione, episodio che fece piangere la santa Famiglia che da lontano aveva trepidamente assistito alla delusione delle sue speranze. Anche Nabíl, essendo stato riconosciuto, dovette lasciare precipitosamente la città, accontentandosi di un rapido sguardo a Bahá’u’lláh attraverso il fossato e continuò a vagare per la campagna attorno a Nazareth, Haifa, Gerusalemme ed Hebron, finché la graduale attenuazione delle restrizioni non gli permise di unirsi agli esuli.
12 Al tormentoso peso di queste tribolazioni si aggiunse ora l’amaro cordoglio di un’improvvisa tragedia, la prematura perdita del nobile e pio Mirza Mihdí, il Purissimo Ramo, ventiduenne fratello di ‘Abdu’l-Bahá, amanuense e compagno d’esilio di Bahá’u’lláh fin dai giorni in cui ancor bambino era stato condotto da Teheran a Baghdad per raggiungere il Padre ritornato da Sulaymáníyyih. Una sera al crepuscolo passeggiava sul tetto della caserma rapito nelle abituali devozioni, quando cadde attraverso un abbaino incustodito su una cassa di legno che si trovava sul pavimento sottostante e che gli penetrò fra le costole producendo, ventidue ore dopo, la sua morte, il 23 rabí‘u’l-avval 1287 dell’Egira (23 giugno 1870). La sua estrema supplica al Padre costernato fu che accettasse la sua vita come riscatto per coloro ai quali era negato di giungere alla presenza del Benamato.
13 In una preghiera di profondo significato rivelata da Bahá’u’lláh in memoria del figlio, una preghiera che ne esalta la morte al rango dei grandi atti di espiazione come il sacrificio del figlio deciso da Abramo, la crocifissione di Gesù Cristo e il martirio dell’Imam Husayn, si legge: «O Mio Signore! Ho offerto ciò che Mi hai dato, perché i Tuoi servi siano vivificati e tutto quello che dimora sulla terra sia unito». E anche queste profetiche parole rivolte al figlio martirizzato: «Sei il Pegno di Dio e il Suo tesoro in questa terra. Fra non molto Dio rivelerà tramite te quello che ha desiderato».
14 Dopo essere stato lavato alla presenza di Bahá’u’lláh, egli, «che era stato creato dalla luce di Bahá», la cui «mansuetudine» la Penna Suprema aveva attestato e i «misteri» della cui ascensione quella stessa Penna aveva ricordato, fu portato via, scortato dalle guardie della fortezza, e deposto in un luogo oltre le mura della città vicino alla tomba di Nabí Sálih, donde settant’anni dopo le sue spoglie furono trasferite assieme a quelle della sua illustre madre sulle pendici del monte Carmelo nei pressi della tomba della sorella e all’ombra del santo sepolcro del Báb.
15 Neppure questo completò la misura delle afflizioni che colpirono il prigioniero di ‘Akká e i Suoi compagni d’esilio. Quattro mesi dopo questo tragico evento, una mobilitazione delle truppe turche rese necessario che Bahá’u’lláh e tutti coloro che Lo accompagnavano fossero spostati dalla caserma. Di conseguenza a Lui e alla Sua famiglia fu assegnata la casa di Malik nel quartiere occidentale della città, da dove, dopo una breve permanenza di tre mesi, furono trasferiti dalle autorità nella casa di Khavvám, che si trova dirimpetto. Da qui, dopo un paio di mesi, furono costretti di nuovo a spostarsi nella casa di Rábi’ih e, quattro mesi più tardi, furono infine trasferiti nella casa di ‘Udí Khammár, che era così inadeguata alle loro necessità che in una sola stanza si dovettero sistemare tredici persone d’ambo i sessi. Alcuni compagni dovettero abitare in altre case e gli altri furono alloggiati in un caravanserraglio chiamato Khán-i-‘Avámíd.
16 Il loro stretto isolamento era stato appena mitigato e le guardie che li avevano sorvegliati erano state da poco allontanate, quando una crisi interna che era fermentata in seno alla comunità precipitò improvvisamente e catastroficamente. Tale era stato il comportamento di due degli esuli che erano stati inclusi fra coloro che avevano accompagnato Bahá’u’lláh ad ‘Akká, che Egli infine fu costretto a espellerli, un atto dal quale Siyyid Muhammad non esitò a trarre pieno vantaggio. Aiutato dalle nuove reclute, assieme ai vecchi soci che agivano da spie, egli intraprese una campagna d’ingiurie, calunnie e intrighi, persino più perniciosa di quella che aveva lanciato a Costantinopoli, calcolata per provocare la popolazione già prevenuta e sospettosa a un nuova punta di animosità ed eccitazione. Un nuovo pericolo minacciava ora chiaramente la vita di Bahá’u’lláh. Sebbene, in molte occasioni, Egli avesse rigorosamente proibito ai Suoi seguaci, sia verbalmente sia per iscritto, ogni atto di rappresaglia contro i loro tormentatori e avesse anche rimandato a Beirut un irresponsabile arabo convertito, che meditava di vendicare i torti subiti dal suo benamato Capo, sette dei compagni cercarono di nascosto e uccisero tre dei loro persecutori, fra i quali vi erano Siyyid Muhammad e Áqá Ján.
17 La costernazione che si impossessò della già oppressa comunità fu indescrivibile. L’indignazione di Bahá’u’lláh non conobbe limiti. Egli così esprime le Sue emozioni, in una Tavola rivelata poco dopo che questo atto era stato commesso: «Dovessimo Noi fare menzione di ciò che Ci è accaduto, i cieli verrebbero squarciati e i monti crollerebbero». In un’altra circostanza scrisse: «La Mia prigionia non può nuocerMi. Ciò che può nuocerMi è la condotta di coloro che Mi amano, che pretendono di essere congiunti a Me, eppure commettono ciò che fa gemere il Mio cuore e la Mia penna». E ancora: «La prigionia non può apportarMi vergogna, anzi, per la Mia vita, essa Mi conferisce gloria. Ciò che può costituire per Me ragione di vergogna è la condotta di certi Miei seguaci che professano di amarMi ma che di fatto seguono il Malefico».
18 Egli stava dettando una Tavola all’amanuense, quando il governatore in testa alle sue truppe con le sciabole sguainate circondò la Sua casa. L’intera popolazione e le autorità militari erano in grande agitazione. Si udivano da ogni parte le grida e il clamore della gente. Bahá’u’lláh fu perentoriamente convocato al Governatorato, interrogato, tenuto sotto sorveglianza la prima notte con uno dei Suoi figli in una camera del Khán-i-Shávirdí, trasferito per le due notti successive in un alloggio migliore nelle vicinanze e solo dopo settanta ore ebbe il permesso di ritornare a casa. ‘Abdu’l-Bahá la prima notte fu messo in prigione e incatenato, poi Gli fu concesso di raggiungere il Padre. Venticinque compagni portati in un’altra prigione, furono messi ai ceppi e dopo sei giorni furono trasferiti tutti al Khán-i-Shávirdí e qui confinati per sei mesi, eccetto i responsabili di quell’odioso atto che furono trattenuti in prigione per diversi anni.
19 «È giusto» chiese sfacciatamente il Comandante della città, rivolgendosi a Bahá’u’lláh quando Egli arrivò al Governatorato «che alcuni dei vostri seguaci agiscano in questo modo?». «Se uno dei vostri soldati», fu l’immediata risposta, «commettesse un’azione riprovevole, ne sareste considerato responsabile e punito in sua vece?». Quando, interrogandoLo, Gli chiesero di dichiarare il Proprio nome e il paese da cui proveniva, Egli rispose: «È più evidente del sole». La stessa domanda Gli fu posta una seconda volta, al che dette la seguente risposta: «Non ritengo opportuno menzionarlo. Riferitevi al farmán del governo che è in vostro possesso». Ancora una volta, con notevole deferenza, ripeterono la richiesta, allora Bahá’u’lláh con maestà e forza pronunciò queste parole: «Il Mio nome è Bahá’u’lláh (Luce di Dio) e il Mio paese è Núr (Luce). Siatene informati». RivolgendoSi poi al Muftì pronunciò parole di velato rimprovero, dopo di che parlò all’intera adunanza con linguaggio così veemente ed elevato, che nessuno ebbe il coraggio di risponderGli. Dopo aver citato alcuni versetti della Súriy-i-Mulúk, Si alzò e lasciò la riunione. Subito dopo il Governatore Gli comunicò che era libero di ritornare a casa, scusandosi per l’accaduto.
20 Dopo quell’incidente la popolazione, già mal disposta verso gli esuli, fu infiammata da un’incontrollabile ostilità verso tutti coloro che portavano il nome della Fede che gli esuli professavano. Furono apertamente e liberamente accusati di empietà, ateismo, terrorismo ed eresia. ‘Abbúd, che abitava porta a porta con Bahá’u’lláh, rinforzò la parete che divideva la sua casa da quella del Vicino, ora molto temuto e sospettato. Persino i figlioletti degli esuli imprigionati, quando si avventuravano per le strade, in quei giorni, venivano molestati, insultati e presi a colpi di pietra.
21 La coppa delle tribolazioni di Bahá’u’lláh era ormai colma fino all’orlo. La situazione, molto umiliante, piena di ansietà e perfino di pericoli, continuò a pesare sugli esuli fino al momento fissato da un’imperscrutabile Volontà, allorché l’ondata della sventura e dell’umiliazione incominciò a defluire, segnando una trasformazione nelle fortune della Fede ancor più considerevole del rivoluzionario cambiamento avvenuto negli ultimi anni della permanenza di Bahá’u’lláh a Baghdad.
22 Il graduale riconoscimento da parte di tutti gli elementi della popolazione della completa innocenza di Bahá’u’lláh, la lenta penetrazione del vero spirito dei Suoi insegnamenti sotto la dura crosta dell’indifferenza e del bigottismo, la nomina del sagace e umano governatore, Ahmad Big Tawfíq, in sostituzione di una persona la cui mente era stata irrimediabilmente avvelenata contro la Fede e i suoi seguaci, l’incessante opera di ‘Abdu’l-Bahá, ora nel pieno fiore della maturità, Che attraverso i Suoi contatti con la massa della popolazione sempre meglio dimostrava la Sua capacità di fare scudo al Padre, la provvidenziale destituzione dei funzionari che erano stati lo strumento della protrazione della prigionia dei compagni innocenti – tutto ciò preparò la strada alla reazione che stava ora per incominciare, una reazione alla quale il periodo dell’esilio acritano di Bahá’u’lláh rimarrà per sempre indissolubilmente associato.
23 Una tale devozione s’era gradualmente accesa nel cuore del Governatore, grazie alla sua relazione con ‘Abdu’l-Bahá e poi all’esame della letteratura della Fede che alcuni malintenzionati avevano sottoposto alla sua considerazione nella speranza di farlo andare in collera, che egli si rifiutava invariabilmente di presentarsi a Lui senza prima essersi tolto le scarpe in segno di rispetto. In giro si mormorava anche che i suoi consiglieri favoriti fossero gli stessi esuli che erano anche seguaci del Prigioniero in sua custodia. Soleva mandare il figlio da ‘Abdu’l-Bahá per averne istruzioni e chiarimenti. Fu in occasione di un’udienza a lungo sollecitata che Bahá’u’lláh, rispondendo alla richiesta del permesso di renderGli un favore, gli suggerì di restaurare l’acquedotto che per trent’anni era stato lasciato cadere in disuso, un suggerimento che egli si accinse a realizzare immediatamente. All’afflusso dei pellegrini, fra i quali vi furono il devoto e venerabile Mullá Sádiq-i-Khurásání e il padre di Badí‘, entrambi sopravvissuti alla battaglia di Tabarsí, egli offrì scarsa opposizione, sebbene il testo del farmán imperiale ne proibisse l’accesso in città. Mustafá Díyá Páshá, che divenne governatore pochi anni dopo, era giunto al punto da lasciar intendere che il Prigioniero era libero di uscire dalle porte della città quando voleva, un suggerimento che Bahá’u’lláh declinò. Perfino il muftí di ‘Akká, Shaykh Mahmúd, uomo noto per il bigottismo, era stato convertito alla Fede e, infiammato dal nuovo entusiasmo, compilò una raccolta di tradizioni musulmane su ‘Akká. Neppure gli occasionali governatori mal disposti inviati nella città, nonostante il potere arbitrario assoluto che avevano, riuscirono a controllare le forze che stavano portando l’Autore della Fede verso la virtuale emancipazione e il definitivo conseguimento del Suo scopo. Letterati e persino ‘ulamá residenti in Siria dovettero dichiarare, col passar degli anni, che riconoscevano la crescente grandezza e potenza di Bahá’u’lláh. ‘Azíz Páshá, che ad Adrianopoli aveva dimostrato un profondo attaccamento per ‘Abdu’l-Bahá e che nel frattempo era stato promosso al grado di Válí, visitò ‘Akká due volte con l’espresso proposito di rendere omaggio a Bahá’u’lláh e rinnovare la sua amicizia con Colui Che aveva imparato ad ammirare e riverire.
24 Sebbene Bahá’u’lláh non concedesse praticamente mai colloqui personali come soleva fare a Baghdad, ora l’influenza che esercitava era tale che gli abitanti asserivano apertamente che il notevole miglioramento del clima e dell’acqua della città era da attribuirsi direttamente alla Sua continua presenza fra loro. Gli stessi appellativi coi quali scelsero di chiamarLo, come «augusto capo» e «sua altezza», rivelavano la reverenza che Egli ispirava loro. Una volta un generale europeo che aveva ottenuto un’udienza da Lui assieme al Governatore ne fu tanto impressionato che «rimase inginocchiato a terra accanto alla porta». Shaykh ‘Alíy-i-Mírí, muftí di ‘Akká, dovette insistere a lungo, per suggerimento di ‘Abdu’l-Bahá, perché Bahá’u’lláh accettasse di porre fine al Suo novennale confino entro le mura della città-prigione, prima che Egli acconsentisse all’idea di uscire dalle sue porte. Il giardino di Na‘mayn, un’isolotto situato in mezzo a un fiume a est della città, onorato col nome di Ridvan, da Lui definito «nuova Gerusalemme» e la «Nostra verdeggiante Isola», insieme con la residenza di ‘Abdu’lláh Páshá, per Lui affittata e preparata da ‘Abdu’l-Bahá, situata qualche chilometro a nord di ‘Akká, divennero ora i rifugi favoriti di Colui Che per quasi un decennio non aveva messo piede fuori delle mura della città, il cui solo esercizio era stato quello di percorrere con monotona ripetitività il pavimento della camera da letto.
25 Due anni dopo il palazzo di ‘Údí Khammár, nella cui costruzione era stata profusa tanta ricchezza mentre Bahá’u’lláh era prigioniero nella caserma e che era stato precipitosamente abbandonato dal proprietario e dalla sua famiglia per il diffondersi di una malattia epidemica, fu preso in affitto e poi comprato per Lui, una residenza che Egli definì «nobile abitazione», il luogo che «Dio ha decretato come la più sublime visione per l’umanità». La visita di ‘Abdu’l-Bahá a Beirut, per invito di Midhat Páshá, ex gran visir di Turchia, avvenuta più o meno in questo periodo, i Suoi rapporti di amicizia con i capi civili ed ecclesiastici della città, i numerosi incontri col notissimo Shaykh Muhammad ‘Abdu contribuirono ad aumentare enormemente il crescente prestigio della comunità e a diffondere la fama del suo più illustre componente. La splendida accoglienza accordataGli dal dotto e stimatissimo Shaykh Yúsuf, muftí di Nazareth, che ospitava i válí di Beirut e che aveva mandato tutti i notabili della comunità a riceverLo a parecchie miglia di distanza mentre con il fratello e il Muftì di ‘Akká Si avvicinava alla città, la magnifica accoglienza riservata da ‘Abdu’l-Bahá allo stesso Shaykh Yúsuf quando questi Gli fece visita ad ‘Akká furono tali da destare l’invidia di chi, solo pochi anni prima, aveva trattato Lui e i Suoi compagni d’esilio con sentimenti misti di condiscendenza e disdegno.
26 Il drastico farmán del sultano ‘Abdu’l-’Azíz, pur non essendo stato ufficialmente revocato, era ormai diventato lettera morta. Sebbene nominalmente Bahá’u’lláh fosse ancora prigioniero, «le porte della maestà e della vera sovranità», come dice ‘Abdu’l-Bahá, «erano spalancate». «I governanti della Palestina», ha scritto inoltre, «invidiavano la sua influenza e il suo potere. Governatori e mutisarrif, generali e funzionari locali chiedevano umilmente l’onore di giungere in Sua presenza, richiesta alla quale Egli raramente accondiscendeva».
27 Fu in quella Magione che il distinto orientalista professor E. G. Browne ebbe i quattro incontri concessigli da Bahá’u’lláh durante i cinque giorni in cui fu Suo ospite a Bahjí (15-20 aprile 1890), incontri che furono immortalati dalla storica dichiarazione dell’Esule che «le lotte infruttuose, le guerre rovinose svaniranno e si avrà l’avvento della “Più Grande Pace”». «Non potrò mai dimenticare», è la memorabile testimonianza che l’intervistatore lasciò alla posterità, «il viso di Colui Che ammiravo, sebbene ora io sia incapace di descriverlo. Quegli occhi penetranti sembravano leggere nell’anima; la fronte assai spaziosa denotava possanza e autorità… Non vi era certo bisogno di chiedere alla presenza di Chi mi trovassi, mentre m’inchinavo dinanzi a Colui Che è oggetto di devozioni e d’amore tali che i re possono invidiare e gli imperatori sospirare invano!». «Qui», ha detto il visitatore, «trascorsi cinque memorabili giorni, durante i quali ebbi occasioni irripetibili e insperate d’intrattenermi con coloro i quali sono le fonti primigenie di quello spirito possente e meraviglioso che opera con forza invisibile ma sempre crescente per la trasformazione e la vivificazione di un popolo che dorme un sonno simile alla morte. È stata in verità un’esperienza strana e toccante e dispero di poterne dare altro che la più debole impressione».
28 In quello stesso anno la tenda di Bahá’u’lláh, il «Tabernacolo della Gloria», fu piantata sul monte Carmelo, «Collina di Dio e Sua Vigna», la casa di Elia, esaltato da Isaia come «il monte del Signore» al quale «affluiranno tutte le genti». Egli visitò Haifa quattro volte e l’ultima visita durò più di tre mesi. Nel corso di una di queste visite in cui la Sua tenda venne piantata vicino al monastero carmelitano, Egli, «il Padrone della Vigna», rivelò la Tavola del Carmelo, importante per le sue allusioni e profezie. In un’altra occasione, mentre Si trovava sul pendio della montagna, indicò ad ‘Abdu’l-Bahá il punto che doveva essere la perpetua estrema dimora del Báb, dove sarebbe poi stato eretto un degno mausoleo.
29 Per ordine di Bahá’u’lláh furono acquistate proprietà adiacenti al lago associato al ministero di Gesù Cristo, designate a essere consacrate alla gloria della Sua Fede e a precorrere quegli «edifici nobili e imponenti» che, come aveva detto nelle Sue Tavole, sarebbero stati eretti «in lungo e in largo» in Terra Santa nonché nei «territori ubertosi e sacri attigui al Giordano e (nelle) sue vicinanze» che, in quelle Tavole, aveva permesso fossero dedicati «al culto e all’ufficio divino dell’unico vero Dio».
30 L’enorme aumento del volume della corrispondenza di Bahá’u’lláh, l’istituzione di un’agenzia bahá’í ad Alessandria per la sua spedizione e distribuzione, le facilitazioni fornite dal Suo leale seguace Muhammad Mustafá, ora stabilitosi a Beirut, per tutelare gli interessi dei pellegrini che passavano per la città, la relativa facilità con cui un nominale Prigioniero comunicava con sempre più numerosi centri in Persia, in Iraq, nel Caucaso, nel Turchestan e in Egitto, la missione che affidò a Sulaymán Khán-i-Tanakábuní, conosciuto come Jamál Effendi, perché iniziasse una sistematica campagna di insegnamento in India e in Birmania, la nomina di alcuni Suoi seguaci a «Mani della Causa di Dio», il restauro della Santa Casa di Shíráz la cui custodia fu formalmente affidata alla moglie del Báb e a sua sorella, la conversione di un considerevole numero di ebrei, zoroastriani e buddhisti, i primi frutti dello zelo e della perseveranza straordinariamente dimostrate dagli insegnanti viaggianti in Persia, in India e in Birmania, conversioni che automaticamente significarono anche un incrollabile riconoscimento da parte loro dell’origine divina del Cristianesimo e dell’Islam, tutto ciò attesta la vitalità di un primato che né sovrani né ecclesiastici, per quanto potenti o ostili, poterono distruggere o indebolire.
31 E non si può omettere un riferimento alla nascita di una prosperosa comunità nella città recentemente costruita di ‘Ishqábád nel Turchestan russo, certa della benevolenza d’un governo ben disposto che le permise d’avere un cimitero bahá’í e di acquistare proprietà sulle quali furono erette strutture che precorsero il primo Mashriqu’l-Adhkár del mondo bahá’í, o l’insediamento di nuovi avamposti della Fede nelle lontane Samarcanda e Bukhárá nel cuore del continente asiatico in seguito ai discorsi e agli scritti dell’erudito Fádil-i-Qá’iní e del dotto apologista Mirza Abu’l-Fadl, o la pubblicazione in India di cinque volumi di scritti dell’Autore della Fede compreso il Suo «Libro Più Santo», pubblicazioni che dovevano precedere la grande proliferazione della Sua letteratura in varie scritture e linguaggi e la sua diffusione nei decenni successivi in Oriente e in Occidente.
32 «Il sultano ‘Abdu’l-’Azíz», uno dei Suoi compagni d’esilio riferisce che Bahá’u’lláh abbia dichiarato, «Ci ha esiliati in questa terra nel più grande avvilimento e poiché il suo obiettivo era di distruggerCi e umiliarCi, ogni qual volta i mezzi della gloria e dell’agio si presentarono, non li rifiutammo». «Ora, sia lodato Iddio», osservò Egli una volta, come Nabíl racconta nella sua narrazione, «si è giunti al punto in cui i popoli di queste regioni Ci manifestano la loro sottomissione». E ancora come è registrato nella stessa narrazione: «Il Sultano ottomano si è levato a opprimerCi e Ci ha mandati nella fortezza di ‘Akká senza alcuna giustificazione o ragione. Il suo farmán imperiale decretava che nessuno Ci avvicinasse e che divenissimo oggetto dell’odio di tutti. Perciò la Mano della potenza divina Ci ha rapidamente vendicati. Prima scatenò i venti della distruzione sui suoi due implacabili ministri e confidenti, ‘Alí e Fu’ád, poi quella Mano si protese a schiacciare la panoplia dello stesso ‘Azíz e a colpirlo, come può colpire solo Lui, Che è il Possente, il Forte».
33 «I Suoi nemici», ha scritto ‘Abdu’l-Bahá riferendoSi allo stesso argomento, «Lo imprigionarono al fine di annientare la Causa benedetta, ma, in realtà, la prigionia fu il Suo maggior ausilio e divenne un ottimo mezzo per lo sviluppo della Causa stessa». «…Questo illustre Essere», ha inoltre affermato, «eresse la Sua Causa nella Più Grande Prigione. Dalla Sua Prigione la Sua luce si è diffusa dappertutto, la Sua fama ha conquistato il mondo e la proclamazione della Sua gloria è giunta in Oriente e in Occidente». «La Sua luce dapprima è stata una stella, ora è divenuta un possente sole». Questo «fatto», ha affermato ancora, non era «mai accaduto fino ad oggi».
34 Nessuna meraviglia che, in considerazione di un ribaltamento così straordinario delle circostanze verificatosi nei ventiquattro anni del Suo esilio acritano, lo Stesso Bahá’u’lláh abbia scritto queste importanti parole: «L’Onnipotente… ha trasformato questa Casa-Prigione nel Paradiso Più Eccelso, il Paradiso dei Paradisi».
CAPITOLO XII1 Mentre Bahá’u’lláh e il piccolo gruppo che Lo accompagnava erano sottoposti alle dure privazioni di un esilio inteso a cancellarli dalla faccia della terra, nel paese della Sua nascita la comunità dei Suoi seguaci in costante espansione stava sostenendo una persecuzione più violenta e prolungata delle prove da cui Egli e i Suoi compagni erano afflitti. Pur in misura di gran lunga inferiore ai bagni di sangue che avevano battezzato la nascita della Fede, quando in un solo anno, come attesta ‘Abdu’l-Bahá, «oltre quattromila anime furono uccise e una gran moltitudine di donne e bambini furono lasciati senza protettori o soccorritori», gli orrendi assassini successivamente perpetrati da un nemico insaziabile e implacabile furono altrettanto estesi e caratterizzati da una ferocia ancor maggiore.
2 Nel periodo in esame, Násiri’d-Dín Sháh, che Bahá’u’lláh stigmatizzò come «Principe degli oppressori», colui che aveva «perpetrato ciò che aveva fatto gemere gli abitanti delle città della giustizia e dell’equità», era nel pieno della virilità e aveva raggiunto il culmine del suo dispotico potere. Unico arbitro delle sorti di un paese «fermamente stereotipato nelle tradizioni immemorabili dell’Oriente», circondato da ministri «venali, astuti e falsi» che poteva innalzare o umiliare a suo piacere, capo di un’amministrazione in cui «ogni attore è, da punti di vista diversi, il corruttore e il corrotto», alleato, nell’opposizione alla Fede, con un ordine sacerdotale che costituiva un vero e proprio «stato-chiesa», sostenuto da un popolo che primeggia nell’atrocità, famigerato per il fanatismo, la servilità, la cupidigia e le abitudini corrotte, questo capriccioso monarca, ormai incapace di mettere le mani sulla persona di Bahá’u’lláh, dovette accontentarsi di tentare di schiacciare i resti della temutissima comunità nuovamente risorta nei suoi domini. Dopo di lui per rango e potere venivano i suoi tre figli maggiori, ai quali aveva praticamente delegato la propria autorità nella amministrazione interna e dato il governo di tutte le province del regno. Al debole e timido Muzaffari’d-Dín Mirza, erede al trono, che era caduto sotto l’influenza della setta shaykhí e mostrava un grande rispetto verso i mullá, aveva affidato la provincia dell’Azerbaigian. Al duro e crudele governo dell’astuto Mas‘úd Mirza comunemente conosciuto come Zillu’s-Sultán, il maggiore dei suoi figli sopravvissuti, la cui madre era stata di origine plebea, aveva consegnato oltre due quinti del regno comprese le province di Yazd e Isfáhán, mentre a Kámrán Mirza, il figlio favorito comunemente chiamato col titolo di Náyibu’s-Saltanih, aveva concesso il governo del Gílán e del Mázindarán nominandolo governatore di Teheran, ministro della guerra e comandante in capo dell’esercito. Tale era la rivalità fra questi due principi che essi facevano a gara per accattivarsi il favore del padre e, con l’aiuto dei maggiori mujtahid delle rispettive giurisdizioni, l’uno si sforzava di eclissare l’altro nel meritorio compito di cacciare, depredare e sterminare i membri di una comunità indifesa che, per ordine di Bahá’u’lláh, aveva cessato d’opporre resistenza armata anche in caso di autodifesa e metteva in pratica la Sua ingiunzione che «è meglio essere uccisi che uccidere». Neppure i litigiosi ecclesiastici Hájí Mullá ‘Alíy-i-Kaní e Siyyid Sádiq-i-Tabátabá’í, i due principali mujtahid di Teheran, né Shaykh Muhammad Báqir, loro collega di Isfáhán, né Mír Muhammad-Husayn, Imám-Jum‘ih della città, erano disposti a lasciarsi sfuggire la più piccola opportunità per colpire, con tutta la forza e l’autorità che avevano, un avversario la cui influenza liberalizzante avevano ancor maggiore motivo di temere dello stesso sovrano.
3 Nessuna meraviglia, quindi, che dovendo affrontare una situazione così piena di pericoli, la Fede sia stata portata alla clandestinità e che arresti, interrogatori, carcerazioni, vituperi, saccheggi, torture ed esecuzioni capitali costituissero le principali caratteristiche di questo convulso periodo del suo sviluppo. I pellegrinaggi che erano iniziati ad Adrianopoli e che avevano poi ad ‘Akká assunto proporzioni impressionanti, nonché la disseminazione delle Tavole di Bahá’u’lláh e la circolazione di entusiastici resoconti da parte di coloro che erano stati in Sua presenza valsero anch’essi a infiammare l’odio del clero e dei laici che si erano stoltamente immaginati che la frattura nei ranghi dei seguaci della Fede determinatasi ad Adrianopoli e la sentenza d’esilio a vita successivamente comminata al Suo Capo, ne avrebbero irrimediabilmente segnato il destino.
4 In Ábádih un certo Ustád ‘Alí-Akbar fu catturato per istigazione di un siyyid locale e così spietatamente fustigato che si ricoprì di sangue da capo a piedi. Nel villaggio di Tákur, per ordine dello Scià, furono saccheggiate le proprietà degli abitanti, Hájí Mirza Ridá-Qulí, un fratellastro di Bahá’u’lláh, fu arrestato, condotto nella capitale e gettato nel Síyáh-Chál dove rimase per un mese, mentre il cognato di Mirza Hasan, un altro fratellastro di Bahá’u’lláh, fu preso e torturato con ferri roventi, dopo di che il vicino villaggio di Dár-Kalá fu dato alle fiamme.
5 Áqá Buzurg del Khurásán, l’illustre «Badí‘» (Meraviglioso), convertito alla Fede da Nabíl, soprannominato «Orgoglio dei martiri», diciassettenne latore della Tavola indirizzata a Násiri’d’Dín Sháh, nel quale, come afferma Bahá’u’lláh, «era stato alitato lo spirito della forza e del potere», fu arrestato, torturato per tre giorni consecutivi, ebbe il capo ridotto in poltiglia col calcio di un fucile, dopodiché il suo corpo fu gettato in un pozzo e ricoperto di terra e pietre. Dopo aver visitato Bahá’u’lláh nella caserma, durante il secondo anno del Suo confino, egli si era levato con stupefacente alacrità per portare da solo e a piedi quella Tavola a Teheran e consegnarla nelle mani del Sovrano. Giunto nella città dopo un viaggio di quattro mesi, dopo aver trascorso tre giorni di digiuno e veglia, aveva incontrato lo Scià mentre si recava a Shimírán per una battuta di caccia. Composto e rispettoso aveva avvicinato Sua Maestà esclamando: «O Re! Vengo a te da Saba con un messaggio poderoso». Al che per ordine del Sovrano la Tavola gli fu tolta e consegnata ai mujtahid che ebbero l’ordine di rispondere all’Epistola, un ordine al quale essi si sottrassero raccomandando invece che il messaggero fosse messo a morte. La Tavola fu successivamente inoltrata dallo Scià all’ambasciatore persiano a Costantinopoli con la speranza che la sua lettura servisse a rinfocolare l’odio dei ministri del Sultano. Per ben tre anni Bahá’u’lláh continuò a celebrare nei Suoi scritti l’eroismo del giovane, definendo i riferimenti da Lui fatti a quel sublime sacrificio «il sale delle Mie Tavole».
6 Abá-Basír e Siyyid Ashraf, i cui padri erano stati uccisi nella battaglia di Zanján, furono decapitati nello stesso giorno in quella città, il primo, mentre pregava inginocchiato, giunse a istruire il carnefice su come meglio vibrare il colpo mortale e il secondo, dopo essere stato tanto brutalmente percosso che gli sanguinavano le unghie, fu decapitato mentre teneva tra le braccia il corpo del compagno martirizzato. Fu la madre di questo Ashraf che, convocata alla prigione nella speranza che avrebbe persuaso il suo unico figlio ad abiurare, aveva minacciato di disconoscerlo se avesse rinunciato alla fede, lo aveva invitato a seguire l’esempio di Abá-Basír e, senza versare una lacrima, l’aveva persino guardato spirare. A Burújird il ricco ed eminente Muhammad-Hasan Khán-i-Káshí fu bastonato così spietatamente che soccombette alla prova. A Shíráz, Mirza Áqáy-i-Rikáb-Sáz e Mirza Rafí‘-i-Khayyát e Mashhadí Nabí furono, per ordine del mujtahid del luogo, strangolati contemporaneamente nel cuore della notte e poi le loro tombe furono profanate da una turba che le coprì di immondizie. A Káshán, Shaykh Abu’l-Qásim-i-Mázkání, che aveva rifiutato un sorso d’acqua offertogli prima della morte affermando di aver sete della coppa del martirio, ricevette un colpo mortale alla nuca mentre era prostrato in preghiera.
7 Mirza Báqir-i-Shírází, che ad Adrianopoli aveva trascritto le Tavole di Bahá’u’lláh con tale zelante devozione, fu ucciso a Kirmán, mentre ad Ardikán l’anziano e infermo Gul-Muhammad fu assalito da una turba furiosa, gettato a terra e talmente calpestato dagli stivali chiodati di due siyyid che ne ebbe le costole sfondate e i denti spezzati, dopo di che il suo corpo fu portato ai margini della città e sepolto in un pozzo, solo per essere riesumato l’indomani, trascinato per le strade e alla fine abbandonato in aperta campagna. Nella città di Mashhad famigerata per lo sfrenato fanatismo, Hájí ‘Abdu’l-Majíd, l’ottantacinquenne padre del già menzionato Badí’, uno dei sopravvissuti della battaglia di Tabarsí che dopo il martirio del figlio aveva visitato Bahá’u’lláh ed era ritornato nel Khurásán infiammato di zelo, fu squartato dalla cintola alla gola, la sua testa fu esposta su una lastra di marmo alla vista di una moltitudine di insolenti spettatori i quali, dopo averne ignominiosamente trascinato il corpo per i bazar, lo lasciarono all’obitorio a disposizione dei parenti.
8 A Isfáhán, Mullá Kázim fu decapitato per ordine di Shaykh Muhammad-Báqir e un cavallo fu lanciato al galoppo sul suo cadavere, che fu poi dato alle fiamme, mentre Siyyid Áqá Ján ebbe le orecchie tagliate e fu trascinato alla cavezza per strade e bazar. Un mese dopo nella stessa città ebbe luogo la tragedia dei due famosi fratelli Mirza Muhammad-Hasan e Mirza Muhammad-Husayn le «due fulgide luci inseparabili» soprannominati rispettivamente «Sultánu’sh-Shuhadá» (Re dei martiri) e «Mahbúbu’sh-Shuhadá» (Benamato dei martiri), celebrati per la generosità, la fidatezza, la gentilezza e la devozione. Il loro martirio fu istigato dal malvagio e disonesto Mír Muhammad-Husayn, l’Imám- Jumi‘ih, che Bahá’u’lláh chiamò «la serpe», il quale, avendo contratto un grosso debito nelle sue transazioni con loro, tramò per annullare i suoi obblighi denunciandoli come Bábí e provocandone così la morte. Le loro case riccamente arredate e persino gli alberi e i fiori dei giardini furono saccheggiati, tutti gli altri possedimenti furono confiscati. Shaykh Muhammad-Báqir, denunciato da Bahá’u’lláh come «il lupo», pronunciò la loro sentenza di morte, lo Zillu’s-Sultán ratificò la decisione, dopo di che essi furono incatenati, decapitati, trascinati al Maydán-i-Sháh e là esposti alle ingiurie di una popolazione depravata e avida. «In tal guisa», ha scritto ‘Abdu’l-Bahá, «fu sparso il sangue di questi due fratelli che i preti cristiani di Julfá, quel giorno, proruppero in gridi, lamenti e pianti». Per diversi anni Bahá’u’lláh continuò a nominarli nelle Sue Tavole, a esprimere il Suo cordoglio per il loro trapasso e a esaltarne le virtù.
9 Mullá ‘Alí Ján fu condotto a piedi dal Mázindarán a Teheran e le condizioni di quel viaggio furono così dure che gli si piagò il collo e gli si gonfiò il corpo dalla cintola ai piedi. Il giorno del martirio chiese un po’ d’acqua, fece le abluzioni, recitò le preghiere, dette un cospicuo dono in denaro al carnefice e stava ancora pregando quando gli fu tagliata la gola con un pugnale, il suo cadavere fu poi coperto di sputi e fango, lasciato esposto per tre giorni e infine fatto a pezzi. A Námiq, Mullá ‘Alí, convertito alla Fede nei giorni del Báb, fu così brutalmente assalito ed ebbe la costole così malamente spezzate a colpi di piccone che morì sul colpo. Mirza Ashraf venne ucciso a Isfáhán, il suo corpo fu calpestato da Shaykh Muhammad Taqíy-i-Najafí il «figlio del lupo» e dai suoi discepoli, orrendamente mutilato e consegnato alla folla che lo bruciasse, dopo di che le ossa carbonizzate furono sepolte sotto i ruderi di un muro che fu abbattuto per ricoprirle.
10 A Yazd, per istigazione del mujtahid della città e per ordine dell’insensibile Mahmúd Mirza, il Jalúlu’l-Dawlih, il governatore, figlio dello Zillu’s-Sultán, ne furono messi a morte sette in un solo giorno e circostanze orribili. Il primo, un giovane di ventisette anni, ‘Alí-Asghar, fu strangolato e il suo cadavere fu consegnato nelle mani di un gruppo di ebrei i quali, costringendo i sei compagni del morto ad andare con loro, trascinarono il corpo per le strade circondati da una turba di gente e di soldati che suonavano tamburi e trombe, poi, giunti presso l’ufficio telegrafico, decapitarono l’ottantacinquenne Mullá Mihdí e lo trascinarono allo stesso modo in un altro quartiere della città dove, data la gran ressa di spettatori sovreccitati dall’ossessivo suono della musica, giustiziarono Áqá ‘Alí nello stesso modo. Quindi proseguendo verso la casa del mujtahid locale e portando con sé i quattro compagni rimasti, tagliarono la gola a Mullá ‘Alíy-i-Sabzivárí mentre parlava alla folla gloriandosi dell’imminente martirio, ne straziarono il corpo ancora vivo con una spada e gli ridussero la testa in poltiglia a colpi di pietra. In un altro quartiere, vicino alla porta di Mihríz, uccisero Muhammad-Baqír e poi, nel Maydán-i-Khán, mentre la musica diventava più selvaggia e copriva le urla della gente, decapitarono i sopravvissuti, due fratelli poco più che ventenni, ‘Alí-Asghar e Muhammad Hasan. A quest’ultimo fu squartato lo stomaco e gli furono strappati cuore e fegato, poi la sua testa fu impalata su una lancia e portata per le strade della città con accompagnamento di musica, fu poi appesa a un gelso e lapidata da una gran folla. Il suo corpo fu gettato davanti alla porta di casa della madre, nella quale le donne entrarono deliberatamente per danzare e far festa. Pezzi delle loro carni furono portati via da usarsi come medicamenti. Infine, la testa di Muhammad-Hasan fu attaccata alle parti basse del suo corpo e portata nei sobborghi della città, assieme a quelle degli altri martiri, le teste furono così ferocemente percosse con pietre che i crani si fratturarono, poi costrinsero gli ebrei a rimuovere i resti e a gettarli in un pozzo nella piana di Salsabíl. Il governatore decretò festa per la popolazione, per suo ordine tutti i negozi furono chiusi, la città restò illuminata tutta la notte e i festeggiamenti proclamarono la consumazione di uno degli atti più barbari che siano stati perpetrati nei tempi moderni.
11 Neppure gli ebrei e i parsi, che si erano recentemente convertiti alla Fede e che vivevano gli uni ad Hamadán e gli altri a Yazd, sfuggirono alle aggressioni dei nemici la cui furia era esasperata dai segni della penetrazione della luce della Fede in ambienti che stoltamente pensavano le fossero irraggiungibili. Anche nella città di ‘Ishqábád la comunità sciita che vi si era da poco stabilita, invidiosa del sorgente prestigio dei seguaci di Bahá’u’lláh che vivevano fra loro, istigò due malfattori ad assalire il settantenne Hájí Muhammad-Ridáy-i-Isfáhání, che essi accoltellarono in almeno trentadue punti, in pieno giorno e nel bel mezzo del bazar, mettendogli a nudo il fegato, squartandogli lo stomaco e squarciandogli il petto. Un tribunale militare inviato dallo Zar a ‘Ishqábád, dopo prolungate indagini, stabilì la colpevolezza degli sciiti condannandone a morte due ed esiliandone altri sei, una condanna che né Násiri’d-Dín Sháh, né gli ‘ulamá di Teheran, Mashhad e Tabríz, che erano stati chiamati in soccorso, riuscirono a mitigare. Furono i rappresentanti della comunità danneggiata che, con la loro magnanima intercessione che sorprese moltissimo le autorità russe, riuscirono a farla commutare in una pena più lieve.
12 Questi sono tipici esempi del trattamento riservato dai nemici della Fede all’appena risorta comunità dei suoi seguaci durante l’esilio acritano di Bahá’u’lláh, un trattamento che si può veramente dire abbia dimostrato alternativamente «un’insensibilità bestiale e una ingegnosità diabolica».
13 Le «inchieste e le spaventose torture» che erano seguiti all’attentato alla vita di Násiri’d-Dín Sháh avevano già, secondo le parole di un eminente osservatore quale Lord Curzon di Kedleston, dato alla Fede «una vitalità che nessun altro impulso avrebbe potuto assicurarle». Questa recrudescenza di persecuzioni, questo nuovo spargimento di sangue di martiri, servì a rafforzare ulteriormente le radici che quel sacro Arboscello aveva già profondamente affondate nella sua terra natia. Incuranti della politica di fuoco e sangue che mirava al loro annientamento, intrepidi sotto i tragici colpi vibrati a un Capo così lontano dalle loro fila, incontaminati dagli atti infami e sediziosi perpetrati dall’arciviolatore del Patto del Báb, i seguaci di Bahá’u’lláh si moltiplicavano e silenziosamente raccoglievano le forze necessarie che, in uno stadio successivo, avrebbero loro permesso d’alzare la testa in libertà e di erigere l’edificio delle loro istituzioni.
14 Poco dopo la sua visita in Persia nell’autunno del 1889, Lord Curzon di Kedleston, nel contesto di relazioni intese a dissipare la «gran confusione» e «l’errore» diffusi «fra gli europei e in modo particolare fra gli scrittori inglesi» riguardo alla Fede, scrisse: «si crede che i bahá’í comprendano ora i diciannove ventesimi della confessione Bábí». Il conte di Gobineau, già nell’anno 1865, scrive attestando quanto segue: «L’opinion générale est que les Bábís sont répandus dans toutes les classes de la population et parmi tous les religionnaires de la Perse, sauf les Nusayrís et les Chrétiens, mais ce sont surtout les classes éclairées, les hommes pratiquant les sciences du pays, qui sont donnés comme très suspects. On pense, et avec raison, ce semble, que beaucoup de mullás, et parmi eux des mujtahids considérables, des magistrats d’un rang élevé, des hommes qui occupent à la cour des fonctions importantes et qui approchent de prés la personne du Roi, sont des Bábís. D’après un calcul fait récemment, il y aurait a Teheran cinq milles de ces religionnaires sur une population de quatre-vingt mille âmes a peu près». Inoltre: «…le Bábisme a pris une action considérable sur l’intelligence de la nation persane, et, se rependant même au delà des limites du territoire, il a débordé dans le pachalik de Baghdad, et passé aussi dans l’Inde». E ancora: «…Un mouvement religieux tout particulier dont l’Asie Centrale, c’est-à-dire la Perse, quelques points de l’Inde et une partie de la Turquie d’Asie, aux environs de Baghdad, est aujourd’hui vivement préoccupée, mouvement remarquable et digne d’être étudié à tous les titres. Il permet d’assister à des développements de faits, à des manifestations, à catastrophes telles que l’ont n’est pas habitué à les imaginer ailleurs que dans le temps reculés où se sont produites les grandes religions».
15 «Ma questi mutamenti», ha scritto inoltre Lord Curzon riferendosi alla Dichiarazione di Bahá’u’lláh e alla ribellione di Mirza Yahyá, «non hanno in alcun modo danneggiato, anzi sembra che abbiano stimolato la sua propagazione, che si è verificata con una rapidità inspiegabile a coloro che vogliono vedervi solo una forma di fermento politico o metafisico. In base alle valutazioni meno generose si calcola che i Bábí oggi in Persia siano mezzo milione. In base a conversazioni con persone ben qualificate per giudicare, sono propenso a credere che il totale sia più vicino al milione». E aggiunge: «Si trovano tra ogni ceto, tanto tra ministri e nobili di corte, quanto tra spazzini e stallieri, mentre perfino il clero musulmano rappresenta un’area non piccola per le loro attività». Un’altra sua testimonianza dice: «Dal fatto che il Bábismo agli inizi si trovò in conflitto con le autorità civili e che i due Bábí compirono un attentato contro la vita dello Scià, è stato erroneamente dedotto che il movimento avesse origine politica e carattere nichilista… Oggigiorno i Bábí sono tanto leali quanto tutti gli altri sudditi della Corona. Né pare che siano più giuste le accuse di socialismo, comunismo e immoralità che sono state lanciate così liberamente contro la giovane setta… Il solo comunismo che Egli (il Báb) conobbe e raccomandò fu quello del Nuovo Testamento e dell’antica Chiesa cristiana, cioè la divisione dei beni in comune da parte dei membri della Fede e la pratica dell’elemosina e di una vasta carità. L’accusa d’immoralità sembra essere sorta in parte dalle maligne invenzioni degli oppositori, in parte dalla maggiore libertà propugnata dal Báb per le donne, che nella mente orientale non si può dissociare dalla sregolatezza dei costumi». E, per finire, il seguente pronostico: «Se il Bábismo continuerà a crescere col ritmo attuale, è probabile che verrà il momento in cui spodesterà il Maomettanesimo in Persia. Sarebbe stato improbabile, penso, che riuscisse a farlo, se fosse sceso in campo sotto le insegne di una fede ostile. Ma poiché attinge le sue reclute dalle schiere dei migliori soldati della guarnigione da esso assalita, a maggior ragione si può credere che alla fine prevarrà».
16 La carcerazione di Bahá’u’lláh nella fortezza di ‘Akká, le infinite tribolazioni che Egli sopportò, le prolungate ordalie alle quali la comunità dei Suoi seguaci fu sottoposta in Persia non fermarono, né riuscirono a intralciare sia pur minimamente, il possente flusso di Rivelazione divina che aveva continuato a fluire ininterrottamente dalla Sua Penna e dal quale direttamente dipendevano il futuro orientamento, l’integrità, l’espansione e il consolidamento della Sua Fede. In verità, negli anni del Suo confino nella Più Grande Prigione, i Suoi scritti superarono, per ampiezza e volume, le effusioni della Sua penna ad Adrianopoli e Baghdad. Più considerevole della radicale trasformazione delle circostanze della Sua vita in ‘Akká, più importante per le sue conseguenze spirituali della campagna di repressione così implacabilmente perseguita dai nemici della Fede nella Sua terra d’origine, questo ampliamento senza precedenti dell’assortimento dei Suoi scritti durante il Suo esilio in quella prigione deve essere considerato una delle fasi più vitalizzanti e fruttuose nell’evoluzione della Sua Fede,
17 I tempestosi venti che flagellarono la Fede all’inizio del Suo ministero e la gelida desolazione che segnò l’inizio della Sua carriera profetica subito dopo l’esilio da Teheran furono seguiti nell’ultimo periodo del Suo soggiorno a Baghdad da quelli che possono essere descritti come gli anni primaverili della Sua Missione, anni che videro esplodere in attività visibili le forze racchiuse nel Seme divino che era rimasto sopito dopo la tragica scomparsa del Suo Predecessore. Con il Suo arrivo ad Adrianopoli e la proclamazione della Sua Missione l’Astro della Sua Rivelazione ascese per così dire allo zenit e risplendette, com’è dimostrato dallo stile e dal tono dei Suoi scritti, nella pienezza della sua gloria estiva. Il periodo della carcerazione acritana portò con sé la pienezza di un lento processo di maturazione e fu un periodo durante il quale i migliori frutti di quella missione furono infine raccolti.
18 Gli scritti di Bahá’u’lláh di questo periodo, se esaminiamo il vasto campo che essi abbracciano, sembrano rientrare in tre categorie distinte. La prima comprende quelli che costituiscono il seguito della proclamazione della Sua Missione ad Adrianopoli. La seconda include le leggi e le ordinanze della Sua Dispensazione, che, per la maggior parte, sono state registrate nel Kitáb-i-Aqdas, il Suo Libro Più Santo. Alla terza vanno ascritte quelle Tavole che in parte enunciano e in parte riaffermano le principali dottrine e i principi fondamentali di quella Dispensazione.
19 Come si è già osservato, la Proclamazione della Sua Missione era stata rivolta particolarmente ai sovrani della terra, i quali, in virtù del potere e dell’autorità che esercitavano, erano investiti di una peculiare responsabilità cui non potevano sottrarsi quanto ai destini dei loro sudditi. A questi sovrani e ai capi religiosi del mondo, che avevano un’influenza non meno estesa sulla massa dei loro seguaci, il Prigioniero di ‘Akká rivolse appelli, avvertimenti ed esortazioni durante i primi anni della Sua carcerazione in quella città. «Al Nostro arrivo in questa prigione», afferma, «Ci proponemmo di trasmettere ai sovrani i messaggi del loro Signore, il Possente, il Più Lodato. Pur avendo già trasmesso loro, in numerose Tavole, ciò che Ci era comandato, pure lo facciamo ancora quale segno della grazia di Dio».
20 Ai re della terra, in Oriente e in Occidente, cristiani e musulmani, che erano già stati collettivamente ammoniti e avvertiti nella Súriy-i-Mulúk rivelata ad Adrianopoli e che erano stati richiamati con tanta veemenza dal Báb nel primo capitolo del Qayyúmu’l-Asmá’ la stessa notte della Dichiarazione della Sua Missione, Bahá’u’lláh, nelle ore più oscure del Suo confino acritano, indirizzò alcuni dei passi più nobili del Suo Libro Più Santo. In quei passi li invitò ad afferrarsi saldamente alla «Più Grande Legge», proclamò di essere il «Re dei Re» e «il Desiderio di tutte le Nazioni», dichiarò ch’essi erano Suoi «vassalli» ed «emblemi della Sua Sovranità», negò ogni intenzione di mettere le mani sui loro regni, li invitò ad abbandonare i loro palazzi e ad affrettarsi a ottenere accesso al Suo Regno, esaltò il re che si fosse levato ad assistere la Sua Causa come «occhio dell’umanità» e infine li biasimò per ciò che Gli era accaduto per mano loro.
21 Nella Tavola alla regina Vittoria, inoltre, invita i sovrani ad afferrarsi saldamente alla «Pace minore» dato che avevano rifiutato la «Più Grande Pace», li esorta a riconciliarsi fra loro, a unirsi e a ridurre gli armamenti, li invita ad evitare di imporre pesi eccessivi ai sudditi che, li informa, sono i loro «pupilli» e i loro «tesori», enuncia il principio che se uno di loro dovesse prendere le armi contro un altro, tutti dovrebbero levarsi contro di lui e li ammonisce di non agire con Lui come il «Re dell’Islam» e i suoi ministri avevano agito.
22 All’imperatore dei francesi, Napoleone III, il più illustre e influente monarca occidentale del tempo, da Lui chiamato «Capo dei sovrani» che, per citare le Sue parole, si era «gettato dietro le spalle» la Tavola per lui rivelata ad Adrianopoli, Egli, mentre era prigioniero nella caserma, indirizzò una seconda Tavola e la trasmise tramite l’agente francese ad ‘Akká. In essa annuncia la venuta di «Colui Che è l’Incondizionato» il Cui scopo è «vivificare il mondo» e unire i popoli, afferma inequivocabilmente che Gesù Cristo era l’Araldo della Sua Missione, proclama la caduta delle «stelle del cielo del sapere» che si erano allontanate da Lui, smaschera l’insincerità del monarca e chiaramente profetizza che il suo regno sarà «gettato nel disordine» e che «l’impero (gli) sfuggirà» dalle mani e che «sommosse sconvolgeranno il popolo tutto in quella terra» a meno che Egli non si levi ad aiutare la Causa di Dio e segua Colui Che ne è lo Spirito.
23 Ai «Governanti d’America e ai Presidenti delle sue Repubbliche», in memorabili passi del Kitáb-i-Aqdas loro indirizzati, comanda di «cingere le tempie del dominio con l’ornamento della giustizia e del timor di Dio e il suo capo con il diadema del ricordo» del loro Signore, dichiara che «il Promesso» è stato manifestato, li consiglia di approfittare del «Giorno di Dio» e ordina di ricongiungere «con le mani della giustizia… gli sbandati» e di «schiacciare l’oppressore» con «la verga dei comandamenti del loro Signore, l’Ordinatore, il Saggio».
24 Ad Alessandro II Nicolaevic, l’onnipotente zar di Russia, indirizzò, mentre era prigioniero nella caserma, un’Epistola in cui annuncia l’avvento del promesso Padre, Colui Che «la lingua di Isaia ha celebrato» e «del Cui nome la Torà e il Vangelo furono adornati», gli ordina di levarsi e di invitare «le nazioni a Dio», lo ammonisce di stare attento che la sua sovranità non lo distolga da «Colui Che è il Supremo Sovrano, riconosce l’aiuto offertoGli dal suo ambasciatore a Teheran e lo ammonisce di non rinunciare allo stadio che Dio gli ha destinato.
25 Alla regina Vittoria indirizzò nello stesso periodo un’Epistola nella quale la invita a tendere l’orecchio alla voce del suo Signore, il Signore di tutta l’umanità, le comanda di gettar «via tutto ciò che è sulla terra» e di volgere il cuore verso il suo Signore, l’Antico dei Giorni, afferma che «tutto ciò che è stato menzionato nel Vangelo si è adempiuto», le assicura che Dio la ricompenserà per aver «proibito la tratta degli schiavi», se seguirà ciò che Egli le ha inviato, l’encomia per aver «affidato le redini del consiglio nelle mani dei rappresentanti del popolo» ed esorta costoro a «considerar se stessi quali rappresentanti di tutti coloro che dimoran sulla terra» e a giudicare fra gli uomini con «pura giustizia».
26 In un celebre passo del Kitáb-i-Aqdas indirizzato a Guglielmo I re di Prussia, da poco acclamato imperatore della Germania unita, invita il sovrano ad ascoltare la Sua voce, la voce di Dio, lo avverte di stare attento che l’orgoglio non gli impedisca di riconoscere «l’Alba della Rivelazione Divina» e lo ammonisce di ricordare «colui (Napoleone III) il cui potere trascendeva» il suo e che «era caduto nella polvere in gran rovina». Nello stesso Libro, apostrofando le «rive del Reno», predice inoltre che le «spade del castigo» sarebbero state sguainate contro di loro e che si sarebbero levati «i lamenti di Berlino», sebbene in quel momento fosse «in cospicua gloria».
27 In un altro notevole brano dello stesso Libro, rivolgendoSi a Francesco Giuseppe, imperatore austriaco ed erede del Sacro Romano Impero, Bahá’u’lláh lo biasima per non aver indagato su di Lui durante un pellegrinaggio a Gerusalemme, chiama Dio a testimone che Egli l’ha trovato «aggrappato al Ramo e incurante del Ceppo», s’addolora nel constatare la sua caparbietà e gli ordina di aprire gli occhi e guardare «la Luce che risplende su questo Orizzonte luminoso».
28 Ad ‘Alí Páshá, gran visir del Sultano di Turchia, indirizzò poco dopo il Suo arrivo ad ‘Akká una seconda Tavola in cui lo rimprovera per la sua crudeltà «che ha fatto avvampare l’inferno e gemere lo Spirito», racconta i suoi atti di oppressione, lo condanna come uno di coloro che da tempo immemorabile hanno accusato i Profeti di mestatori, profetizza la sua caduta, descrive le Proprie sofferenze e quelle dei Suoi compagni d’esilio, esalta il loro coraggio e distacco, predice che «la sdegnata collera» di Dio s’abbatterà su di lui e sul suo governo, che «scoppierà la ribellione» fra loro e che i loro «domini saranno smembrati» e afferma che, se si risvegliasse, egli abbandonerebbe tutti i suoi possedimenti e «sceglierebbe d’abitare in una delle stanze devastate di questa Più Grande Prigione». Nella Lawh-i-Fu’ád, mentre accenna alla prematura morte del ministro degli esteri del Sultano, Fu’ád Páshá, così conferma la già citata predizione: «Presto destituiremo colui (‘Alí Páshá) ch’era simile a lui e c’impadroniremo del loro Capo (il sultano ‘Abdu’l- ‘Azíz) che governa il paese e Io, in verità, sono l’Onnipotente, l’Irresistibile».
29 Non meno chiari e vigorosi sono i messaggi, alcuni contenuti in specifiche Tavole, altri sparsi nei Suoi scritti, che Bahá’u’lláh indirizzò ai capi ecclesiastici di tutte le confessioni del mondo, messaggi nei quali palesa, chiaramente e francamente, i titoli della Sua Rivelazione, li invita a dare ascolto al Suo appello e, in alcuni specifici casi, ne denuncia la perversità, l’estrema arroganza e la tirannia.
30 In passi immortali del Kitáb-i-Aqdas e in altre Tavole, Egli invita l’intera schiera di questi capi ecclesiastici a «temere Dio», a «fermare» le loro penne, a gettar «via le vane fantasie e le immaginazioni» e a volgersi «verso l’orizzonte della Certezza», li ammonisce di non giudicare «il Libro di Dio (il Kitáb-i-Aqdas) con le misure e le scienze in uso» fra loro, indica lo stesso Libro come «infallibile Bilancia istituita fra gli uomini», lamenta la loro cecità e la loro ostinazione, afferma la Propria superiorità per visione, chiaroveggenza, detti e saggezza, proclama il Proprio sapere innato donatoGli da Dio, li ammonisce di non «sbarrare la via agli uomini con un altro velo ancora» dopo che Egli «ha lacerato i veli», li accusa d’esser stati la causa «del ripudio della Fede nei suoi primi giorni» e li scongiura di leggere attentamente «con equità e giustizia ciò che era stato mandato» e di non annullare «la Verità» con le cose che possedevano.
31 Al papa Pio IX, capo indiscusso della più potente Chiesa cristiana, detentore di potere temporale e spirituale, Egli, Prigioniero nella caserma della colonia penale di ‘Akká, indirizzò una ponderosa Epistola, in cui annuncia che «Colui Che è il Signore dei Signori è venuto in ombre di nubi» e che «il Verbo che il Figlio celò è ora fatto manifesto». Lo ammonisce inoltre di non disputare con Lui come i farisei d’un tempo fecero con Gesù Cristo, lo invita a lasciare i suoi palazzi a chi li desidera, a «vendere i ricchi ornamenti» in suo possesso e a «spenderli sul sentiero di Dio», ad abbandonare il suo regno ai re e «a levarsi… fra i popoli della terra» chiamandoli alla Sua Fede. Considerandolo uno dei soli del firmamento dei nomi di Dio, lo avverte di guardarsi dal pericolo che «l’oscurità stenda i suoi veli» su di lui, lo invita a «esortare i re» a «trattare equamente con gli uomini» e lo consiglia di camminare sulle orme del suo Signore e di seguire il Suo esempio.
32 Ai patriarchi della Chiesa cristiana indirizzò un appello specifico nel quale proclama la venuta del Promesso, li esorta a «temere Iddio» e a non seguire «le vane immaginazioni dei superstiziosi», li invita a mettere da parte ciò che possiedono e ad «afferrarsi saldamente alla Tavola di Dio col Suo sovrano potere». Agli arcivescovi della Chiesa ugualmente dichiara che «Colui Che è il Signore di tutti gli uomini è apparso», che essi «sono annoverati fra i morti» e che grande è la benedizione di colui che «è mosso dalla brezza di Dio e si è levato di fra i morti in questo limpido nome». In brani indirizzati ai vescovi proclama che «l’Eterno Padre chiama ad alta voce fra terra e cielo», dichiara ch’essi sono le stelle cadute dal cielo della Sua sapienza e afferma che il Suo corpo «anela alla croce» e il Suo capo «anela d’essere colpito dalla lancia sul sentiero del Misericordiosissimo». All’insieme dei preti cristiani comanda di «lasciare le campane» e uscire dalle chiese, li esorta «a proclamare a gran voce il Più Grande Nome fra le Nazioni», assicura loro che chiunque convocherà gli uomini in Suo Nome «farà cose che trascendono il potere di tutti quelli che sono in terra», li avverte che «il Giorno del Rendiconto è apparso» e li consiglia di volgere il cuore verso il loro «Signore, il Perdonatore, il Generoso». In numerosi passi indirizzati all’«accolta di monaci» comanda che non si rinchiudano in chiese e chiostri ma s’occupino di ciò che rechi profitto alla loro anima e a quelle degli uomini, prescrive loro di sposarsi e afferma che se sceglieranno di seguirLo, li farà eredi del Suo Regno e che se Gli disobbediranno, Egli, nella Sua magnanimità, lo sopporterà pazientemente.
33 E infine in numerosi passi indirizzati all’intero corpo dei seguaci di Gesù Cristo S’identifica con il «Padre» di Cui parla Isaia, con il «Consolatore» il Cui Patto Colui Che è lo Spirito (Gesù) aveva stabilito e con «lo Spirito di Verità» Che li guiderà «a tutta la verità», proclama che il Suo Giorno è il Giorno di Dio, annuncia il ricongiungimento del fiume Giordano col «Più Grande Oceano», attesta la loro negligenza e la Propria affermazione d’aver «aperto (loro) i cancelli del Regno», afferma che il «Tempio» promesso è stato costruito «dalle mani del potere» del loro Signore, il Possente, il Munifico, ordina loro di «strappare i veli» e di entrare nel Suo Regno nel Suo Nome, ricorda le parole di Gesù a Pietro e assicura che se vorranno seguirLo li farà «vivificatori dell’umanità».
34 All’intero corpo degli ecclesiastici musulmani Bahá’u’lláh dedicò innumerevoli passi specifici dei Suoi Libri e delle Sue Tavole, nei quali, con veemente linguaggio, ne denuncia la crudeltà, ne condanna l’orgoglio e l’arroganza, li invita a lasciare le cose che possiedono, a tacere e a dare ascolto alle parole che Egli ha proferito e afferma che, a causa delle loro azioni, «l’eccelso rango degli uomini fu degradato, lo stendardo dell’Islam rovesciato e abbattuto il suo trono possente». All’«accolta dei teologi persiani» indirizzò più particolarmente le Sue parole di condanna stigmatizzando le loro azioni e profetizzando che la loro «gloria sarà tramutata nella più miserabile umiliazione» e che vedranno la punizione che sarà loro inflitta «come è decretato da Dio, l’Ordinatore, il Più Saggio».
35 Al popolo ebreo annunciò inoltre che la Più Grande Legge era venuta, che «l’Antica Bellezza governa sul trono di Davide» il Quale grida a gran voce e invoca il Suo Nome, che «da Sion è apparso ciò che era celato» e «da Gerusalemme si è udita la voce di Dio, l’Unico, l’Incomparabile, l’Onnisciente».
36 Ai «sommi sacerdoti» della Fede zoroastriana proclamò che «l’incomparabile Amico» si è manifestato e «ha pronunciato ciò che porta in sé la salvezza«, che «la Mano dell’Onnipotenza è protesa da dietro le nuvole», che i pegni della Sua maestà e della Sua grandezza sono rivelati e dichiara che «nessun atto d’uomo sarà accettabile in questo giorno a meno che questi non rinunci all’umanità e a tutto ciò che gli uomini posseggono e non volga il viso verso l’Onnipotente».
37 Alcuni dei passi più importanti della Sua Epistola alla regina Vittoria sono indirizzati ai membri della Legislatura britannica, madre dei parlamenti, e ai rappresentanti del popolo eletti in altre terre. Vi sostiene che il Suo scopo è rigenerare il mondo e unire i suoi popoli, racconta come Lo hanno trattato i Suoi nemici, esorta i legislatori «a consultarsi» e a occuparsi solo di «ciò che giova all’umanità», afferma che «il sovrano rimedio» per «la guarigione del mondo è l’unione di tutti i suoi popoli in una Causa universale e in una Fede comune», che non può, «in nessun modo essere raggiunta se non per mezzo di un Medico abile, potentissimo e ispirato». Inoltre, nel Libro Più Santo, ha ingiunto la scelta di un’unica lingua e l’adozione di una scrittura comune da usare in tutta la terra, ingiunzione che, una volta eseguita, diverrebbe, come afferma in quel Libro, uno dei segni della «maturità del genere umano».
38 Non meno significative sono le parole da Lui separatamente indirizzate alle «genti del Bayán», ai saggi del mondo, ai poeti, ai letterati, ai mistici e anche ai commercianti, esortandoli ad ascoltare la Sua voce, a riconoscere il Suo Giorno e a seguire il Suo comando.
39 Sono questi, in sintesi, i caratteri salienti delle affermazioni conclusive di quella storica Proclamazione, le cui note iniziali erano risonate nell’ultima parte dell’esilio adrianopolitano di Bahá’u’lláh e che si concluse nei primi anni della Sua carcerazione nella fortezza-prigione acritana. Re e imperatori, separatamente e collettivamente, i primi magistrati delle repubbliche del continente americano, ministri e ambasciatori, il sovrano Pontefice, il Vicario del Profeta dell’Islam, il regale depositario del regno dell’Imám nascosto, i monarchi della Cristianità, i suoi patriarchi, arcivescovi, vescovi, preti e monaci, i capi riconosciuti degli ordini sacerdotali sunniti e sciiti, i grandi sacerdoti della religione zoroastriana, i filosofi, i capi ecclesiastici, i saggi e gli abitanti di Costantinopoli, orgogliosa sede del sultanato e del califfato, l’intera compagine dei seguaci professi delle fedi zoroastriana, ebraica, cristiana e musulmana, le genti del Bayán, i saggi, gli uomini di lettere, i poeti, i mistici, i commercianti, i rappresentanti eletti dei popoli del mondo, i Suoi stessi concittadini – tutti, o prima o poi, in libri, Epistole e Tavole, sono stati fatti direttamente rientrare nell’ambito delle esortazioni, degli ammonimenti, degli appelli, delle dichiarazioni e delle profezie che costituiscono il tema dei Suoi importanti moniti alle guide dell’umanità, moniti che non hanno pari negli annali delle religioni anteriori e ai quali soltanto i messaggi rivolti dal Profeta dell’Islam ad alcuni dei governanti Suoi contemporanei assomigliano vagamente.
40 «Mai, sin dall’inizio del mondo», afferma Bahá’u’lláh, «il Messaggio è stato proclamato così apertamente». «Ciascuna di esse», ha scritto riferendoSi specificamente alle Tavole da Lui indirizzate ai sovrani della terra, Tavole che ‘Abdu’l-Bahá chiama un «miracolo», «è stata designata con un nome speciale. La prima è stata chiamata “La Rumoreggiante”, la seconda “Il Colpo”, la terza “L’Inevitabile”, la quarta “Il Piano”, la quinta “La Catastrofe” e le altre “L’assordante Squillo di tromba”, “Il vicino Evento”, “Il gran Terrore”, “La Tromba”, “Il Corno” e simili, così che tutti i popoli del mondo sappiano con certezza e vedano con gli occhi esteriori e quelli interiori che Colui Che è il Signore dei nomi ha prevalso e continuerà a prevalere, in ogni condizione, su tutti gli uomini». La più importante di queste Tavole, assieme alla celebre Súriy-i-Haykal (Sura del Tempio), Egli inoltre ordinò che fosse scritta in forma di pentacolo che simboleggia il tempio umano e che Egli, rivolgendoSi ai seguaci del Vangelo in una Tavola, identificò col «Tempio» menzionato dal profeta Zaccaria, chiamato «il fulgido luogo dove albeggia il Più Pietoso», che «le mani del potere di Colui Che è la Causa delle Cause» avevano edificato.
41 Per quanto unica e stupenda, questa Proclamazione non fu che il preludio di un’ancor più potente rivelazione della forza creativa del suo Autore e di quello che può giustamente essere classificato come il più significativo atto del Suo ministero: la promulgazione del Kitáb-i-Aqdas. Menzionato nel Kitáb-i-Íqán, principale depositario di quella Legge che il profeta Isaia aveva anticipato e che l’autore dell’Apocalisse aveva descritto come «il nuovo cielo» e «la nuova terra», «il Tabernacolo di Dio», la «Città santa», la «Sposa», «la nuova Gerusalemme» discesa «da Dio», questo «Libro Più Santo», i cui provvedimenti dovranno rimanere inviolati per non meno di un millennio e il cui sistema abbraccerà l’intero pianeta, può essere considerato la più luminosa emanazione della mente di Bahá’u’lláh, il Libro primigenio della Sua Dispensazione e lo Statuto del Suo nuovo Ordine Mondiale.
42 Rivelato poco dopo che Bahá’u’lláh era stato trasferito nella casa di ‘Údí Khammár (1873 circa), in un periodo in cui Egli era ancora circondato dalle tribolazioni inflitteGli dalle azioni perpetrate da Suoi nemici e da seguaci dichiarati della Sua Fede, questo Libro, questo scrigno che contiene le inestimabili gemme della Sua Rivelazione, emerge unico e incomparabile fra gli Scritti sacri del mondo, in virtù dei principi che inculca, delle istituzioni amministrative che prescrive e della funzione della quale investe il Successore designato del suo Autore. Infatti, diversamente dal Vecchio Testamento e dai Libri sacri che lo hanno preceduto, nei quali non si trovano i veri e propri precetti enunciati dal Profeta Stesso, diversamente dal Vangelo nel quale i pochi detti attribuiti a Gesù Cristo non forniscono una chiara guida riguardo alla futura amministrazione degli affari della Sua Fede e diversamente persino dal Corano che, pur esplicito nelle leggi e nelle ordinanze formulate dall’Apostolo di Dio, tace sull’importantissimo argomento della successione, il Kitáb-i-Aqdas, rivelato dal principio alla fine dall’Autore Stesso della Dispensazione, non solo preserva per i posteri le leggi e le ordinanze fondamentali sulle quali poggerà la struttura del Suo futuro Ordine Mondiale, ma oltre a conferire al Suo Successore la funzione di interpretazione, stabilisce le necessarie istituzioni, le sole attraverso le quali l’integrità e l’unità della Sua Fede potranno essere salvaguardate.
43 In questo Statuto della futura civiltà mondiale il suo Autore, contemporaneamente Giudice, Legislatore, Unificatore e Redentore dell’umanità, annuncia ai re della terra la promulgazione della «Più Grande Legge», dichiara che essi sono Suoi vassalli, Si proclama «Re dei Re», nega ogni intenzione di impadronirSi dei loro regni, avoca a Se il diritto di «prendere e possedere i cuori degli uomini», ammonisce i capi ecclesiastici del mondo di non giudicare il «Libro di Dio» con le misure in uso fra loro e afferma che il Libro è «l’infallibile Bilancia» istituita fra gli uomini. In esso Egli ordina formalmente l’istituzione della «Casa di Giustizia», ne definisce le funzioni, ne fissa le entrate e chiama i suoi membri «Uomini di Giustizia», «Rappresentanti di Dio», «Fiduciari del Misericordiosissimo», accenna al futuro Centro del Suo Patto e Lo investe del diritto di interpretare i Suoi sacri Scritti, anticipa implicitamente l’istituzione del Custodiato, attesta l’effetto rivoluzionario del Suo Ordine Mondiale, enuncia la dottrina della «Più Grande Infallibilità» della Manifestazione di Dio, asserisce che questa infallibilità e inerente ed esclusivo diritto del Profeta ed esclude la possibilità che un’altra Manifestazione appaia prima che siano trascorsi almeno mille anni.
44 In questo Libro, inoltre, prescrive le preghiere obbligatorie, designa il periodo e la durata del digiuno, proibisce la preghiera in congregazione, fuorché per i defunti, fissa la Qiblih, istituisce l’Huqúqu’lláh (il Diritto di Dio), formula la legge dell’eredità, ordina l’istituzione del Mashriqu’l-Adhkár, istituisce la Festa del diciannovesimo giorno, le festività bahá’í e i Giorni intercalari, abolisce l’istituzione del sacerdozio, proibisce la schiavitù, l’ascetismo, la mendicità, la vita monastica, la confessione, l’uso di pulpiti e il baciamano, prescrive la monogamia, condanna la crudeltà verso gli animali, l’ozio e l’indolenza, la maldicenza e la calunnia, biasima il divorzio, interdice il gioco d’azzardo, l’uso dell’oppio, del vino e di altre bevande inebrianti, specifica le punizioni per l’omicidio, l’incendio doloso, l’adulterio e il furto, sottolinea l’importanza del matrimonio ed espone le sue condizioni essenziali, impone il dovere di dedicarsi a un commercio o a una professione, innalzando tale occupazione al rango di culto, evidenzia la necessità di provvedere i mezzi per l’educazione dei bambini e assegna a ogni persona l’obbligo di redigere un testamento e di una totale obbedienza al proprio governo.
45 Oltre a queste disposizioni, Bahá’u’lláh esorta i Suoi seguaci ad associarsi, con amicizia e concordia e senza discriminazioni, con i seguaci di tutte le religioni, li ammonisce a guardarsi dal fanatismo, dalla sedizione, dall’orgoglio, da dispute e conflitti, inculca in loro immacolata pulizia, assoluta veridicità, castità incontaminata, fidatezza, ospitalità, fedeltà, cortesia, indulgenza, giustizia ed equità, consiglia loro di essere «come le dita di una mano e le membra di un corpo», li esorta a levarsi a servire la Sua Causa e li assicura del Suo indubbio aiuto. Si sofferma inoltre sull’instabilità delle faccende umane, dichiara che la vera libertà consiste nella sottomissione dell’uomo ai Suoi comandamenti, li ammonisce a non essere accomodanti nell’applicazione dei Suoi decreti, prescrive i due inseparabili doveri di riconoscere «l’Alba della Rivelazione di Dio» e di osservare tutte le ordinanze da Lui rivelate, affermando che nessuno dei due e accettabile senza l’altro.
46 L’importante appello rivolto ai presidenti delle Repubbliche del continente americano, affinché colgano la loro opportunità nel Giorno di Dio e sostengano la causa della giustizia, l’ingiunzione ai membri dei parlamenti di tutto il mondo, che sollecita l’adozione di una scrittura e di una lingua universali, i Suoi moniti a Guglielmo I, il vincitore di Napoleone III, il rimprovero mosso a Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria, l’accenno ai «lamenti di Berlino» nella Sua apostrofe indirizzata alle «rive del Reno», la Sua condanna del «trono della tirannia» stabilito a Costantinopoli e la Sua predizione della fine del Suo «splendore esterno» e delle tribolazioni destinate a colpire i suoi abitanti, le parole di gioia e di conforto da Lui rivolte alla Sua città natale, con cui le assicura che Dio l’ha scelta quale «sorgente di gioia per l’umanità intera», la Sua profezia che «la voce degli eroi del Khurásán» si leverà in glorificazione del loro Signore, la Sua asserzione che a Kirmán saranno suscitati uomini «dotati di possente coraggio» che faranno menzione di Lui, e infine la Sua magnanima assicurazione a un perfido fratello che Gli aveva inflitto tanta angoscia, che un Dio «Colui Che sempre perdona, il Munificentissimo» gli avrebbe perdonate le sue iniquità purché si pentisse – tutto ciò arricchisce ulteriormente il contenuto di un Libro definito dal Suo Autore «sorgente della vera felicità», «infallibile Bilancia», «retto Sentiero» e «vivificatore dell’umanità».
47 Inoltre Bahá’u’lláh ha specificamente definito le leggi e le ordinanze che costituiscono il tema principale di questo Libro «alito della vita per tutte le cose create», «il più possente baluardo», «frutti» del Suo «Albero», «i mezzi più elevati per il mantenimento dell’ordine nel mondo e per la sicurezza dei popoli», «lampade della Sua saggezza e della Sua amorosa provvidenza», «profumo soave della Sua veste», «chiavi della Sua misericordia» per le Sue creature. «Questo Libro» testimonia Egli Stesso «è un firmamento che abbiamo adornato con le stelle dei Nostri comandamenti e delle Nostre proibizioni». «Benedetto l’uomo», ha inoltre dichiarato, «che lo leggerà e pondererà i versetti inviati in esso da Dio, il Signore della Forza, l’Onnipotente. Dite, o uomini! Afferratevi ad esso con la mano della rassegnazione… Per la Mia vita! Esso è stato inviato in un modo che stupisce le menti degli uomini. In verità è la Mia più ponderosa testimonianza per tutte le genti e la prova del Misericordiosissimo per tutti coloro che sono in cielo e sulla terra». E ancora: «Benedetto il palato che ne assapora la dolcezza, e l’occhio veggente che riconosce ciò che vi è custodito, e il cuore dotato di discernimento che ne comprende le allusioni e i misteri. Nel nome di Dio! Tale è la maestà di ciò che vi è stato rivelato e cosi straordinaria la rivelazione delle sue velate allusioni, che i lombi dell’eloquio tremano quando ne tentano la descrizione». E infine: «Il Kitáb-i-Aqdas è stato rivelato in tal guisa che attrae e comprende tutte le divine Dispensazioni. Benedetto chi lo legge! Benedetto chi lo intende! Benedetto chi medita su di esso! Benedetto chi riflette sul suo significato! Cosi vasta è la sua portata, che ha incluso tutti gli uomini prima ch’essi lo riconoscessero. Tra non molto il suo sovrano potere, la sua penetrante influenza e la grandezza della sua possanza saranno manifestati sulla terra».
48 Alla formulazione delle leggi fondamentali della Sua Dispensazione nel Kitáb-i-Aqdas, Bahá’u’lláh fece seguire, mentre la Sua Missione volgeva alla fine, l’enunciazione di certi precetti e principi che formano il nucleo della Sua Fede, la riaffermazione di verità che aveva precedentemente proclamato, la rielaborazione e la delucidazione di alcune leggi che aveva già enunciato, la rivelazione di ulteriori profezie e altri ammonimenti e l’istituzione di ordinamenti sussidiari destinati a integrare i provvedimenti del Suo Libro Più Santo. Tutto ciò fu registrato in numerosissime Tavole che Egli continuò a rivelare fino agli ultimi giorni della Sua vita terrena, come la Ishráqát (Splendori), la Bishárát (Liete novelle), la Tarázát (Ornamenti), la Tajallíyát (Fulgori), la Kalimát-i-Firdawsíyyih (Parole del paradiso), la Lawh-i-Aqdas (la Tavola Più Santa), la Lawh-i-Dunyá (la Tavola del mondo), la Lawh-i-Maqsúd (la Tavola di Maqsúd), che sono le più notevoli. Queste Tavole, ultime possenti effusioni della Sua infaticabile penna, devono essere considerate fra i frutti più scelti prodotti dalla Sua mente e segnano il coronamento del Suo ministero quarantennale.
49 Tra tutti i principi contenuti in queste Tavole il più vitale è quello dell’unicità e dell’integrità della razza umana che può essere considerato il contrassegno della Rivelazione di Bahá’u’lláh e il fulcro dei Suoi insegnamenti. Di tale cardinale importanza è questo principio dell’unità da essere espressamente citato nel Libro del Suo Patto e da essere da Lui incondizionatamente proclamato scopo centrale della Sua Fede. «In verità» dichiara «siamo venuti per unire e saldare tutto ciò che è sulla terra». «La luce dell’Unità è così potente» afferma inoltre «che può illuminare la terra intera». «Una volta» ha scritto riferendoSi a questo tema centrale della Sua Rivelazione «parlammo col linguaggio del legislatore, un’altra con quello del ricercatore della verità e del mistico, eppure Nostro supremo proposito e Nostro sommo desiderio è sempre stato quello di svelare la gloria e la sublimità di questo stadio». L’unità, afferma, è la mèta che «eccelle ogni mèta» e un’aspirazione che è «il monarca di tutte le aspirazioni». «La terra» proclama «è un solo paese e l’umanità i suoi cittadini». Inoltre afferma che l’unificazione del genere umano, l’ultimo stadio dell’evoluzione dell’umanità verso la maturità, è inevitabile, che «presto il presente ordine sarà rimosso e uno nuovo si diffonderà in sua vece», che «l’intera terra è ora gravida», che «si avvicina il giorno in cui darà i suoi più nobili frutti, in cui da essa germoglieranno gli alberi più alti, i più incantevoli fiori, le benedizioni più paradisiache». Deplora l’imperfezione dell’ordine prevalente, denuncia l’insufficienza del patriottismo come forza di direzione e di controllo della società umana e considera «l’amore per il genere umano» e il servizio al suo interesse i più degni e lodevoli obiettivi dell’impegno umano. Lamenta inoltre che «la vitalità della fede dell’uomo in Dio si stia spegnendo in ogni terra», che il «volto del mondo» sia rivolto verso «la perversità e la miscredenza», proclama che la religione è «una luce radiosa e una fortezza inespugnabile per la protezione e il benessere dei popoli del mondo» e «il principale strumento per lo stabilirsi dell’ordine nel mondo», afferma che il suo scopo fondamentale è la promozione dell’unione e della concordia fra gli uomini, ammonisce di non farne una «fonte di dissenso, di discordia e di odio», ordina che i suoi principi siano insegnati ai bambini nelle scuole del mondo in tal modo da non creare pregiudizi o fanatismo, attribuisce la «perversità dell’empio» al «declino della religione» e predice «agitazioni» di tale gravità da «far tremare le membra del genere umano».
50 Raccomanda incondizionatamente il principio della sicurezza collettiva e la riduzione degli armamenti nazionali e proclama necessaria e inevitabile la convocazione di un consesso mondiale in cui i re e i governanti del mondo deliberino per instaurare la pace tra le nazioni.
51 Esalta la giustizia quale «luce degli uomini» e loro «custode», «rivelatrice dei segreti del mondo dell’esistenza e alfiere dell’amore e della bontà», dichiara che la sua radiosità è incomparabile, afferma che da essa dipendono «l’organizzazione del mondo e la tranquillità del genere umano». Definisce i suoi «due pilastri», «ricompensa e punizione», «sorgenti di vita» per la razza umana, ammonisce i popoli della terra di agire in previsione del suo avvento e profetizza che, dopo un periodo di grande confusione e gravi ingiustizie, il suo astro brillerà nel pieno dello splendore e della gloria.
52 Inculca inoltre il principio della «moderazione in tutte le cose», dichiara che tutto ciò che «va al di là dei limiti della moderazione», sia essa «libertà, civiltà e simili», assolutamente «esercita un’influenza perniciosa sugli uomini», osserva che la civiltà occidentale ha gravemente turbato e allarmato i popoli del mondo e predice che si avvicina il giorno in cui la «fiamma» di una civiltà «portata all’eccesso» «divorerà le città».
53 Stabilisce che la consultazione sia uno dei principi fondamentali della Sua Fede, la descrive come «lampada di guida», «dispensatrice di discernimento», uno dei due «astri» del «cielo della divina sapienza». Il sapere, afferma, è «come un’ala per la vita umana e una scala per la sua ascesa», ne considera l’acquisizione «doverosa per tutti», reputa «arti, professioni e scienze» apportatori dell’esaltazione del mondo dell’esistenza, loda la ricchezza acquisita con le arti e le professioni, riconosce il debito dei popoli della terra verso scienziati e artigiani e scoraggia lo studio di quelle scienze che non rechino profitto all’uomo e che «iniziano con parole e finiscono con parole».
54 Dà ulteriore risalto all’ingiunzione di «associarsi con tutti gli uomini in spirito d’amicizia e fraternità» e riconosce che ciò conduce all’«unione e alla concordia» che, afferma, sono le fondamenta dell’ordine del mondo e le rigeneratrici delle nazioni. Insiste ripetutamente sulla necessità di adottare una lingua e una scrittura universali, deplora lo sciupio di tempo che lo studio di molte lingue comporta, afferma che con l’adozione di questa lingua e scrittura la terra sarà considerata come «una sola città e un solo paese» e sostiene di conoscerle entrambe e d’essere pronto a insegnarle a chiunque glieLo chieda.
55 Assegna ai fiduciari della Casa di Giustizia il dovere di legiferare su argomenti non espressamente previsti nei Suoi scritti e promette che Dio «li ispirerà con qualunque cosa voglia». Raccomanda come meritevole conquista l’instaurazione di una forma di governo costituzionale in cui si combinino gli ideali della repubblica e la maestà della monarchia che definisce «uno dei segni di Dio», sollecita un particolare riguardo per gli interessi dell’agricoltura, fa specifici riferimenti ai «giornali che rapidamente appaiono» e li descrive come «gli specchi del mondo» e «un meraviglioso e potente fenomeno», prescrivendo a tutti coloro che sono responsabili della loro produzione il dovere d’essere scevri da malizia, passione e pregiudizio, d’essere giusti e imparziali, scrupolosi nelle inchieste e di accertare tutti i fatti in ogni situazione.
56 Elabora ulteriormente la dottrina della Più Grande Infallibilità, riafferma l’obbligo imposto ai Suoi seguaci di «agire con lealtà, onestà e veridicità verso il governo del paese nel quale risiedono», ribadisce il bando imposto alla guerra santa e alla distruzione dei libri e tributa uno speciale elogio agli uomini di sapere e di saggezza, che esalta come gli «occhi» del corpo dell’umanità e i «massimi doni» conferiti al mondo.
57 In un elenco dei principali aspetti degli scritti di Bahá’u’lláh nell’ultimo periodo del Suo esilio acritano non può mancare un riferimento alla Lawh-i-Hikmat (Tavola della saggezza) nella quale Egli definisce i fondamenti della vera filosofia, o alla Tavola della visitazione rivelata in onore dell’Imám Husayn di cui tesse le lodi con fervido linguaggio, o a «Domande e Risposte» che spiega le leggi e le ordinanze del Kitáb-i-Aqdas, o alla Lawh-i-Burhán (Tavola della prova) nella quale sono severamente condannati gli atti perpetrati da Shaykh Muhammad-Báqir soprannominato «Dhi’b» (Lupo) e da Mír Muhammad-Husayn, l’Imám- Jum‘ih di Isfáhán soprannominato «Raqshá» (la serpe), o alla Lawh-i-Karmil (Tavola del Carmelo) in cui l’Autore significativamente menziona la «Città di Dio che è scesa dal cielo» e profetizza che «ben presto Dio farà navigare la Sua Arca» su quella montagna e «manifesterà la gente di Bahá». Infine dev’essere citata la Sua Epistola a Shaykh Muhammad-Taqí, soprannominato «Ibn-i-Dhi’b» (Figlio del lupo), l’ultima importante Tavola rivelata dalla penna di Bahá’u’lláh, nella quale Egli invita quel rapace prete a pentirsi delle sue azioni, cita alcuni dei più caratteristici e celebri passi dei Propri scritti e adduce prove che dimostrano la validità della Sua Causa.
58 Con questo libro rivelato circa un anno prima della Sua ascensione, può dirsi praticamente concluso il prodigioso compito dell’Autore d’un centinaio di volumi, depositari delle preziosissime perle della Sua Rivelazione, volumi ricolmi di innumerevoli esortazioni, principi rivoluzionari, leggi e ordinanze per l’ordinamento del mondo, terribili ammonimenti e portentose profezie, preghiere e meditazioni per l’elevazione dell’anima, commentari e interpretazioni illuminanti, discorsi e omelie appassionate, tutti disseminati di arringhe o riferimenti a re, imperatori, ministri d’Oriente e d’Occidente, a ecclesiastici di diverse confessioni e ai capi delle sfere intellettuali, politiche, letterarie, mistiche, commerciali e umanitarie dell’umana attività.
59 «In verità», scrive Bahá’u’lláh esaminando, al tramonto della vita dalla Sua Più Grande Prigione, l’intera gamma di questa vasta e importante Rivelazione, «non abbiamo mancato al Nostro dovere di esortare gli uomini e consegnar loro ciò di cui fui incaricato da Dio, l’Onnipotente, il Più Lodato». «Vi sono scuse per qualcuno in questa Rivelazione?», ha affermato inoltre, «No, in nome di Dio, il Signore del Possente Trono! I Miei segni hanno circondato la terra e la Mia potenza ha avvolto tutto il genere umano».
CAPITOLO XIII1 Quasi mezzo secolo era trascorso dall’inizio della Fede. Cresciuta nelle avversità, privata nell’infanzia del suo Araldo e Guida, essa si era risollevata dalla polvere in cui un ostile despota l’aveva gettata grazie al suo secondo e più grande Astro, il Quale, malgrado i consecutivi esili, in meno di mezzo secolo, era riuscito a riabilitarne le sorti, a proclamarne il Messaggio, a promulgarne le leggi e le ordinanze, a formularne i principi e a decretarne le istituzioni e aveva appena incominciato a godere le gioie di una prosperità mai prima conseguita, quando la Mano del destino repentinamente la privò del suo Autore, gettando nel dolore e nella costernazione i suoi seguaci, mentre i suoi negatori vedevano risorgere le loro languenti speranze e i suoi avversari politici ed ecclesiastici incominciavano a riprendere coraggio.
2 Già nove mesi prima della Sua ascensione, Bahá’u’lláh, come afferma ‘Abdu’l-Bahá, aveva espresso il desiderio di lasciare questo mondo. Da quel momento in poi, dal tono delle Sue osservazioni a coloro che giungevano alla Sua presenza, divenne sempre più evidente che, sebbene Egli Si astenesse dal dirlo apertamente, la fine della Sua vita terrena si stava avvicinando. La notte precedente l’11 shavvál 1309 dell’Egira (8 maggio 1892), Bahá’u’lláh contrasse una lieve febbre che, sebbene salisse il giorno seguente, subito dopo cessò. Egli continuò a concedere colloqui ad amici e pellegrini, ma ben presto fu evidente che non stava bene. La febbre ritornò in forma più acuta, le condizioni generali peggiorarono, sopravvennero alcune complicanze che alla fine culminarono nella Sua ascensione il 2 dhi’l-qa‘dih 1309 dell’Egira (29 maggio 1892) all’alba, otto ore dopo il tramonto, nel Suo settantacinquesimo anno di vita. Il Suo spirito, finalmente liberato dalle fatiche di una vita costellata di tribolazioni, aveva spiccato il volo verso i Suoi «altri domini», domini «sui quali gli occhi della gente dei nomi non si sono mai posati» e verso i quali la «luminosa Damigella» «di bianco vestita» L’aveva invitato ad affrettarSi, come Egli Stesso scrive nella Lawh-i-Ru’yá (Tavola della visione) rivelata diciannove anni prima in occasione dell’anniversario della nascita del Suo Precursore.
3 Sei giorni prima di morire, mentre giaceva a letto appoggiato a uno dei Suoi figli, convocò alla Sua presenza l’intera compagnia dei credenti e numerosi pellegrini che si erano raccolti nella Magione per quella che doveva rivelarsi la loro ultima udienza con Lui. «Sono molto soddisfatto di tutti voi», disse affettuosamente e gentilmente alla folla piangente che Gli si raccoglieva intorno. «Avete reso numerosi servigi e siete stati molto solleciti nei vostri lavori. Siete venuti qui ogni mattina e ogni sera. Possa Dio assistervi a rimanere uniti. Possa aiutarvi a esaltare la Causa del Signore dell’essere». Alle donne raccolte attorno al Suo capezzale, comprese quelle che facevano parte della Sua famiglia, rivolse analoghe parole d’incoraggiamento, assicurando con certezza che in un documento da Lui affidato al Più Grande Ramo le aveva raccomandate tutte alla Sua cura.
4 La notizia della Sua ascensione fu immediatamente comunicata al sultano ‘Abdu’l-Hamíd con un telegramma che incominciava con le parole: «Il sole di Bahá è tramontato» e che informava il monarca dell’intenzione di seppellire le sacre spoglie nei pressi della Magione, sistemazione alla quale egli prontamente acconsentì. Bahá’u’lláh fu, dunque, sepolto nella camera più a nord della casa che serviva da residenza per Suo genero, la più settentrionale delle tre case adiacenti la Magione a occidente. La Sua tumulazione ebbe luogo poco dopo il tramonto dello stesso giorno della Sua ascensione.
5 L’inconsolabile Nabíl, che durante i giorni della Sua malattia aveva avuto il privilegio di un’udienza privata con Lui, che ‘Abdu’l-Bahá aveva incaricato di scegliere i brani che costituiscono il testo della Tavola della Visitazione ora recitata nella Più Santa Tomba e che nel suo incontrollabile dolore si gettò in mare poco dopo il trapasso del suo Diletto, così descrive l’agonia di quei giorni: «Pareva che il turbamento spirituale suscitato nel mondo della polvere avesse fatto tremare tutti i mondi di Dio… La mia lingua interiore ed esteriore non è in grado di descrivere la condizione in cui eravamo… Nella confusione generale si vide una moltitudine di abitanti di ‘Akká e dei villaggi vicini, che gremiva i campi attorno alla Magione, piangere, battersi il capo e gridare a gran voce il proprio cordoglio».
6 Per un’intera settimana un gran numero di persone in lutto, ricchi e poveri, si fermò a rammaricarsi con la famiglia del defunto, profittando giorno e notte del cibo prodigalmente offerto dai suoi membri. Notabili, tra i quali figuravano sciiti, sunniti, cristiani, ebrei e drusi, poeti, ‘ulamá e funzionari del governo, s’unirono tutti nel piangere la perdita di Bahá’u’lláh e nel magnificarNe le virtù e la grandezza. Molti di costoro Gli dedicarono orazioni funebri scritte in versi e in prosa, in arabo e in turco. Analoghi riconoscimenti giunsero da città lontane come Damasco, Aleppo, Beirut e il Cairo. Tutte queste calorose testimonianze furono presentate ad ‘Abdu’l-Bahá, Che ora rappresentava la Causa dello scomparso Capo e le Cui lodi erano spesso frammiste in questi elogi agli omaggi tributati a Suo padre.
7 E tuttavia queste affettuose manifestazioni di cordoglio, queste spontanee espressioni di lode e di ammirazione che l’ascensione di Bahá’u’lláh aveva evocato fra i non credenti in Terra Santa e nei paesi confinanti non furono che una goccia in confronto all’oceano di dolore e agli innumerevoli segni d’illimitata devozione che, nell’ora del tramonto del Sole della Verità, sgorgarono dai cuori delle migliaia di persone che avevano abbracciato la Sua Causa, decise a tenere alto il suo vessillo in Persia, India, Russia, Iraq, Turchia, Palestina, Egitto e Siria.
8 Con l’ascensione di Bahá’u’lláh si conclude un periodo che, per molti versi, non ha paragoni nella storia religiosa del mondo. Il primo secolo dell’Era bahá’í era ormai per metà trascorso. Era finita un’epoca che nessuna precedente Dispensazione aveva superato per sublimità, fecondità e durata, un’epoca caratterizzata da mezzo secolo di Rivelazione continua e progressiva fuorché per un breve intervallo di tre anni. Il Messaggio proclamato dal Báb aveva prodotto il suo aureo frutto. La più importante, anche se non la più spettacolare, fase dell’Età eroica era finita. Il Sole della Verità, il massimo Luminare del mondo, era sorto nel Síyáh-Chál di Teheran, si era aperto un varco fra le nuvole che lo avvolgevano a Baghdad, aveva subìto una momentanea eclisse mentre saliva verso lo zenit in Adrianopoli ed era infine tramontato in ‘Akká, per non riapparire prima che fosse trascorso un intero millennio. La neonata Fede di Dio, stella polare di tutte le Dispensazioni passate, era stata pienamente e incondizionatamente proclamata. Le profezie che ne annunciavano l’avvento si erano straordinariamente realizzate. Le sue leggi fondamentali e i suoi principi cardinali, trama e ordito del suo futuro Ordine Mondiale, erano stati chiaramente enunciati. La sua essenziale relazione con i sistemi religiosi che l’avevano preceduta e la sua posizione nei loro confronti erano state inequivocabilmente definite. Le principali istituzioni all’interno delle quali il suo Ordine Mondiale, ancora embrionale, era destinato a maturare erano state inoppugnabilmente fondate. Il Patto designato a salvaguardare l’unità e l’integrità del suo sistema mondiale era stato irrevocabilmente trasmesso alla posterità. La promessa dell’unificazione dell’intera razza umana, dell’instaurazione della Più Grande Pace, dello sviluppo di una civiltà mondiale era stata incontestabilmente proferita. I pressanti moniti, che annunciavano catastrofi destinate ad abbattere sovrani, ecclesiastici, governi e popoli, quale preludio di quel glorioso coronamento, erano stati ripetutamente pronunciati. Il significativo invito ai Primi Magistrati del Nuovo Mondo, anticipatore della Missione della quale il continente nordamericano doveva essere successivamente investito, era stato presentato. Il contatto iniziale con la nazione, una discendente della cui casa reale avrebbe sposato la sua Causa prima della fine del primo secolo bahá’í, era stato stabilito. L’impulso originario che, nel corso dei decenni successivi, ha conferito e, negli anni avvenire, continuerà a conferire inestimabili benefici spirituali e istituzionali alla sacra Montagna di Dio, prospiciente la Più Grande Prigione, era stato impartito. E infine i primi vessilli di una conquista spirituale che, prima del termine di quel secolo, si sarebbe estesa a oltre sessanta paesi degli emisferi orientale e occidentale erano stati trionfalmente piantati.
9 Con la vastità e la diversità delle sue sacre Scritture, il numero dei suoi martiri, il valore dei suoi campioni, l’esempio dato dai suoi seguaci, l’adeguata punizione subita dai suoi avversari, la vastità della sua influenza, l’incomparabile eroismo del suo Araldo, l’abbagliante grandezza del suo Autore, la misteriosa azione del suo irresistibile spirito, la Fede di Bahá’u’lláh, che ora si affacciava alle soglie del sesto decennio della sua esistenza, si era ampiamente dimostrata capace di farsi strada, indivisibile e incorruttibile, lungo il percorso per essa tracciato dal suo Fondatore e di esibire, sotto gli occhi di successive generazioni, i segni e le prove di quella celestiale potenza della quale Egli Stesso l’aveva così riccamente dotata.
10 Penso che a questo punto si debbano esaminare con particolare attenzione le sventure di quei re, ministri ed ecclesiastici in Oriente e in Occidente che, in diversi stadi del Ministero di Bahá’u’lláh, hanno deliberatamente perseguitato la Sua Causa, o trascurato d’ascoltare i Suoi ammonimenti, o mancato al preciso dovere di rispondere ai Suoi appelli o d’accordare a Lui e al Suo Messaggio l’attenzione che meritavano. Bahá’u’lláh, riferendoSi a coloro che erano insorti per distruggere o danneggiare la Sua Fede, aveva dichiarato che «Dio non ha mai chiuso né mai chiuderà gli occhi alla tirannia dell’oppressore. In questa Rivelazione Egli ha specialmente colpito con la Sua vendetta tutti i tiranni». Grande e terribile è, in verità, lo spettacolo su cui si posano i nostri occhi se esaminiamo il campo sul quale i venti della punizione divina hanno furiosamente imperversato fin dall’inizio del ministero di Bahá’u’lláh, detronizzando monarchi, estinguendo dinastie, sradicando gerarchie ecclesiastiche, scatenando guerre e rivoluzioni, spodestando principi e ministri, scacciando usurpatori, abbattendo tiranni e castigando malvagi e ribelli.
11 Il sultano ‘Abdu’l-‘Azíz, artefice con Násiri’d-Dín Sháh delle disgrazie riversatesi su Bahá’u’lláh, responsabile di tre decreti di esilio contro il Profeta, stigmatizzato nel Kitáb-i-Aqdas come colui che occupava «il trono della tirannia», la cui caduta era stata profetizzata nella Lawh-i-Fu’ád, fu deposto in seguito a una rivolta di palazzo, condannato da una fatvá (sentenza) del Muftì della sua stessa capitale, assassinato dopo quattro giorni (1876) e sostituito da un nipote dichiarato imbecille. La guerra del 1877-78 liberò dal giogo turco undici milioni di persone. Adrianopoli fu occupata dalle forze russe; l’impero si dissolse in seguito alla guerra del 1914-18; il sultanato fu abolito; fu proclamata la repubblica e una sovranità durata oltre sei secoli ebbe fine.
12 Il vanesio e dispotico Násiri’d-Dín Sháh, chiamato da Bahá’u’lláh «Principe degli oppressori», del quale Egli aveva scritto che ben presto sarebbe divenuto un «esempio pratico per il mondo», il cui regno era stato macchiato dall’esecuzione del Báb e dall’imprigionamento di Bahá’u’lláh, che aveva persistentemente istigato i Suoi successivi esili a Costantinopoli, Adrianopoli e ‘Akká, che in collusione con un depravato ordine sacerdotale aveva giurato di soffocare la Fede nella sua culla, fu assassinato in drammatiche circostanze nel santuario di Sháh ‘Abdu’l-‘Azím, alla vigilia del suo giubileo che, quasi alba di una nuova èra, avrebbe dovuto essere celebrato con la più elaborata magnificenza e passare alla storia come il più grande giorno negli annali della nazione persiana. Da quel momento in poi le fortune della sua dinastia continuarono a decadere e infine gli scandalosi illeciti del dissoluto e irresponsabile Ahmad Sháh portarono al declino e alla scomparsa della dinastia Qájár.
13 Napoleone III, il più importante monarca occidentale dei suoi tempi, smisuratamente ambizioso, smodatamente orgoglioso, infido e superficiale, che, si dice, avesse sprezzantemente gettato a terra la Tavola inviatagli da Bahá’u’lláh, che Bahá’u’lláh mise alla prova e trovò in difetto, la cui caduta fu esplicitamente predetta in una Tavola successiva, fu ignominiosamente sconfitto nella battaglia di Sedan (1870) che segna la più grande capitolazione militare registrata nella storia moderna, perse il regno e trascorse in esilio gli ultimi anni di vita. Tutte le sue speranze naufragarono, il suo unico figlio, il Principe imperiale, fu ucciso nella Guerra zulù, il suo tanto vantato impero crollò, scoppiò una guerra civile più feroce della guerra franco-tedesca e Guglielmo I, il re prussiano, fu acclamato imperatore della Germania unificata nel palazzo di Versailles.
14 Guglielmo I, il recentemente acclamato vincitore di Napoleone III, accecato dall’orgoglio, ammonito nel Kitáb-i-Aqdas e invitato a meditare sul destino che aveva colpito «colui il cui potere trascendeva» il suo, avvertito nello stesso Libro che si sarebbero levati i «lamenti di Berlino» e che le rive del Reno sarebbero state «coperte di sangue», subì due attentati e fu sostituito da un figlio che morì per una malattia fatale tre mesi dopo essere salito al trono, lasciando la corona all’arrogante, caparbio e politicamente miope Guglielmo II. L’orgoglio fece precipitare la caduta del nuovo sovrano. Rapida e improvvisa nella capitale scoppiò la rivoluzione, il comunismo fece capolino in parecchie città, i principi degli stati tedeschi abdicarono ed egli, fuggendo ignominiosamente in Olanda, fu costretto a rinunciare ai suoi diritti al trono. La costituzione di Weimar suggellò il destino dell’impero la cui nascita era stata così enfaticamente proclamata da suo nonno e i termini di un durissimo trattato provocarono «i lamenti» funestamente profetizzati mezzo secolo prima.
15 Il dispotico e inflessibile Francesco Giuseppe, imperatore d’Austria e re d’Ungheria, che nel Kitáb-i-Aqdas era stato rimproverato per aver trascurato il suo preciso dovere di indagare su Bahá’u’lláh durante il suo pellegrinaggio in Terra Santa, fu così sommerso da disgrazie e tragedie che si giunse a considerare il suo regno insuperato da ogni altro per le sventure che portò alla nazione. Suo fratello Massimiliano fu messo a morte in Messico, il principe ereditario Rodolfo morì in vergognose circostanze, l’Imperatrice fu assassinata, l’arciduca Francesco Ferdinando e la moglie furono uccisi a Sarajevo, l’«impero sgangherato» si dissolse, fu suddiviso e sulle rovine dello svanito Sacro Romano Impero fu fondata una striminzita repubblica, una repubblica che fu cancellata dalla carta politica d’Europa dopo una breve e precaria esistenza.
16 Alessandro II Nicolaevic, onnipotente zar di Russia, che in una Tavola a lui personalmente indirizzata Bahá’u’lláh aveva ammonito per tre volte, aveva invitato a «convocare le nazioni a Dio» e messo in guardia affinché non permettesse che la sua sovranità gli impedisse di riconoscere «il Supremo Sovrano», subì parecchi attentati e alla fine morì per mano di un assassino. Una dura politica di repressione da lui iniziata e proseguita dal suo successore Alessandro III preparò la strada a una rivoluzione che, durante il regno di Nicola II, travolse in un’ondata di sangue l’impero degli zar, lasciò uno strascico di guerre, malattie e carestie e consolidò un proletariato militante che massacrò la nobiltà, perseguitò il clero, cacciò via gli intellettuali, tolse il potere alla religione di stato, giustiziò lo Zar, con la moglie e la famiglia ed estinse la dinastia dei Romanov.
17 Il papa Pio IX, capo indiscusso della più potente Chiesa della Cristianità, al quale Bahá’u’lláh aveva ordinato in un’Epistola di lasciare i suoi «palazzi… a coloro che li desiderano», di vendere «tutti i ricchi ornamenti» in suo possesso e di spenderli «sul sentiero di Dio» e di affrettarsi verso il «Regno», fu costretto ad arrendersi, in dolorose circostanze, alle forze di re Vittorio Emanuele che lo assediavano e a rassegnarsi a essere espropriato dello Stato Pontificio e della stessa Roma. La perdita della «Città eterna» sulla quale il vessillo papale aveva sventolato per mille anni e l’umiliazione degli ordini religiosi sotto la sua giurisdizione aggiunsero una sofferenza mentale alle infermità fisiche e amareggiarono gli ultimi anni della sua vita. Il formale riconoscimento del Regno d’Italia, successivamente strappato a uno dei suoi successori in Vaticano, confermò la virtuale estinzione del potere temporale del Papa.
18 Ma il rapido disfacimento degli imperi ottomano, napoleonico, germanico, austriaco e russo, la fine della dinastia Qájár e la virtuale estinzione del potere temporale del Romano Pontefice non esauriscono la storia delle catastrofi che colpirono le monarchie del mondo in seguito all’indifferenza ai moniti proferiti da Bahá’u’lláh all’inizio della Súriy-i-Mulúk. La trasformazione in repubblica delle monarchie portoghese e spagnola e dell’impero cinese, lo strano destino che ha più recentemente perseguitato i sovrani d’Olanda, Norvegia, Grecia, Jugoslavia e Albania che ora vivono in esilio, la virtuale abdicazione all’autorità da parte dei re di Danimarca, Belgio, Bulgaria, Romania e Italia, la preoccupazione con la quale gli altri sovrani stanno probabilmente guardando ai travagli che hanno scosso tanti troni, la vergogna e gli atti di violenza che talvolta hanno oscurato gli annali dei regni di certi monarchi d’Oriente e d’Occidente e, ancor più recentemente, l’improvvisa caduta del Fondatore della dinastia recentemente insediatasi in Persia, questi sono ulteriori esempi del «Castigo» inflitto da «Dio» e presagito in quell’immortale Sura, che mostrano la divina realtà dell’accusa da Lui mossa contro i governanti della terra nel Suo Libro Più Santo.
19 Non meno singolare è stata l’estinzione della diffusa influenza esercitata dai capi ecclesiastici musulmani sunniti e sciiti nei due paesi in cui le più potenti istituzioni dell’Islam erano state erette e che sono state direttamente responsabili delle tribolazioni riversatesi sul Báb e su Bahá’u’lláh.
20 Il Califfo, sedicente vicario del Profeta dell’Islam, noto anche come «Comandante dei fedeli», protettore delle sante città della Mecca e di Medina, la cui giurisdizione spirituale si estendeva su oltre duecento milioni di maomettani, in seguito all’abolizione del Sultanato turco fu spogliato del potere temporale che fino ad allora era stato considerato inseparabile dal suo alto ufficio. Dopo aver occupato per un breve periodo una posizione anomala e precaria, egli si rifugiò in Europa, il Califfato, la più augusta e potente istituzione dell’Islam, fu sbrigativamente abolito senza alcuna consultazione con le comunità del mondo sunnita; fu così spezzata l’unità del più potente ramo della Fede islamica; fu proclamata la formale, completa e permanente separazione dello stato turco dalla Fede sunnita; la legge canonica sharí’ah fu abrogata; le istituzioni ecclesiastiche furono private delle loro dotazioni; fu promulgato un codice civile; gli ordini religiosi furono soppressi; la gerarchia sunnita fu disciolta; l’arabo, la lingua del Profeta dell’Islam, cadde in disuso e la sua grafia fu sostituita dall’alfabeto latino; il Corano fu tradotto in turco; Costantinopoli, la «Cupola dell’Islam» fu declassata a città di provincia e il suo incomparabile gioiello, la moschea di Santa Sofia, fu trasformata in museo, una serie di decadimenti che ricordano il destino che, nel primo secolo dell’èra cristiana, colpì il popolo ebreo, la città di Gerusalemme, il Tempio di Salomone, il Santo dei Santi, e una gerarchia ecclesiastica i cui membri furono i persecutori dichiarati della religione di Gesù Cristo.
21 Un analogo sconvolgimento scosse le fondamenta dell’intero ordine sacerdotale persiano, sebbene la sua formale separazione dallo stato non sia ancora stata proclamata. Lo «stato-chiesa», ch’era stato saldamente radicato nella vita della nazione e aveva proteso le sue ramificazioni in ogni sfera della vita del paese, fu virtualmente disgregato. L’ordine sacerdotale, baluardo dell’Islam sciita in quella terra, fu paralizzato e screditato; i mujtahid, ministri favoriti dell’Imám nascosto, furono ridotti a un numero insignificante; tutti i suoi funzionari inturbantati, tranne un piccolo numero, furono spietatamente costretti a cambiare i tradizionali copricapi e vesti con abiti europei che essi avevano anatematizzato; la pompa e il fasto che contrassegnava i loro cerimoniali scomparvero; le loro fatvá (sentenze) furono annullate; i loro beni passarono nelle mani dell’amministrazione civile; moschee e seminari furono disertati; il diritto d’asilo accordato ai santuari cessò d’essere riconosciuto; le rappresentazioni religiose furono proibite; le takyih vennero chiuse e perfino i pellegrinaggi a Najaf e Karbilá furono scoraggiati e abbreviati. L’abbandono del velo, il riconoscimento dell’uguaglianza dei sessi, l’instaurazione di tribunali civili, l’abolizione del concubinato, la svalutazione dell’uso dell’arabo, la lingua dell’Islam e del Corano, e gli sforzi compiuti per separarlo dal persiano, tutto questo attesta ulteriormente la degradazione e presagisce l’estinzione finale di quella infame ciurma i cui capi avevano osato definirsi «servi del Signore della santità» (l’Imám ‘Ali), che tanto spesso avevano ricevuto l’omaggio dei devoti sovrani della dinastia safavide, i cui anatemi, fin dalla nascita della Fede del Báb, erano stati i maggiori responsabili dei torrenti di sangue versati e le cui azioni avevano oscurato gli annali della religione e della nazione.
22 Una crisi, in verità non così grave come quella che scosse gli ordini sacerdotali islamici, inveterati avversari della Fede, ha colpito anche le istituzioni ecclesiastiche cristiane, la cui influenza è visibilmente scaduta dal momento in cui Bahá’u’lláh aveva lanciato i Suoi appelli e dato voce ai Suoi avvertimenti, il cui prestigio è stato gravemente danneggiato, la cui autorità è costantemente diminuita e il cui potere, i cui diritti, le cui prerogative sono sempre più ridotti. La già menzionata virtuale estinzione del potere temporale del Romano Pontefice, l’ondata di anticlericalismo che portò alla separazione della Chiesa cattolica dalla repubblica francese, l’assalto organizzato sferrato da un trionfante stato comunista contro la Chiesa greco-ortodossa in Russia e lo spodestamento, la spoliazione e la persecuzione della religione di stato che ne sono conseguiti, lo smembramento della monarchia austro-ungarica fedele alla Chiesa di Roma e potente sostenitrice delle sue istituzioni, l’ordalia alla quale quella stessa Chiesa è stata sottoposta in Spagna e in Messico, l’ondata di secolarizzazione che sta ora sopraffacendo le Missioni cattoliche, anglicane e presbiteriane nei territori non cristiani, le forze di un aggressivo paganesimo che stanno assalendo le antiche roccaforti delle chiese cattolica, greco-ortodossa e luterana dell’Europa occidentale, centrale ed orientale, nei Balcani, negli Stati baltici e scandinavi, queste sono le più cospicue manifestazioni del declino delle fortune dei capi ecclesiastici cristiani, i quali, sordi alla voce di Bahá’u’lláh, si sono interposti fra il Cristo ritornato nella gloria del Padre e le rispettive congregazioni.
23 Né possiamo fare a meno di notare la progressiva diminuzione dell’autorità esercitata dai capi ecclesiastici delle Fedi ebraica e zoroastriana, fin dal tempo in cui la voce di Bahá’u’lláh s’era levata per annunciare, a chiare lettere, che «la Più Grande Legge è venuta», che l’Antica Bellezza «governa sul trono di Davide» e che «qualsiasi cosa sia stata annunciata nei Libri (sacre scritture zoroastriane) è ora rivelata e resa chiara». I segni di una crescente rivolta contro l’autorità clericale, l’irriverenza e l’indifferenza mostrate verso regole, rituali e cerimonie venerate da secoli, le ripetute intrusioni di un nazionalismo aggressivo e spesso ostile negli ambiti della giurisdizione clericale e la generale apatia con cui, specialmente nel caso degli aderenti professi alla Fede zoroastriana, questi sconfinamenti sono considerati, tutto ciò dà, senz’ombra di dubbio, una più ampia giustificazione dei moniti e delle predizioni proferiti da Bahá’u’lláh nei Suoi storici appelli ai capi ecclesiastici del mondo.
24 Sono queste, in sintesi, le terribili prove della giustizia punitiva di Dio che hanno colpito re ed ecclesiastici in Oriente e in Occidente, diretta conseguenza o della loro attiva opposizione alla Fede di Bahá’u’lláh, o del loro deplorevole rifiuto di rispondere al Suo richiamo, d’informarsi del Suo Messaggio, di impedire le sofferenze che patì, o di dare importanza ai segni e ai prodigi meravigliosi che, per cento anni, hanno accompagnato la nascita e l’ascesa della Sua Rivelazione.
25 «A due categorie di uomini», è la Sua concisa, profetica affermazione, «è stato tolto il potere: re ed ecclesiastici». «Se non prenderete in considerazione i consigli», così ammoniva i re della terra, «che… abbiamo rivelati in questa Tavola, il castigo divino vi assalirà da ogni parte… Quel giorno… riconoscerete la vostra impotenza». E ancora: «Benché foste a conoscenza della maggior parte delle Nostre pene, pure siete stati incapaci di fermare la mano dell’oppressore». E inoltre questa accusa: «Pazienteremo come abbiamo pazientato in ciò che Ci è accaduto per mano vostra, o accolta di re!»
26 Condannando specificamente i capi ecclesiastici del mondo ha scritto: «I teologi sono stati la fonte e l’origine della tirannide… Dio, in verità, non ha nulla in comune con loro, e Noi pure non abbiamo nulla a che fare con loro». «Quando Noi osservammo attentamente», afferma apertamente, «scoprimmo che i nostri nemici sono, per la maggior parte, i teologi». «O accolta di teologi!», così Si rivolge loro, «D’ora innanzi non dovete più ritenervi depositari di alcun potere, poiché Noi quel potere ve l’abbiamo tolto…». «Se voi aveste creduto in Dio quando Egli Si rivelò», spiega, «gli uomini non si sarebbero allontanati da Lui, né Ci sarebbero accadute le cose di cui siete testimoni oggi». «Essi», afferma riferendoSi più specificamente agli ecclesiastici musulmani, «insorsero contro di Noi con tale crudeltà da distruggere le forze dell’Islam…». I «… teologi di Persia… hanno perpetrato ciò che gli Ebrei non hanno perpetrato durante la Rivelazione di Colui Che è lo Spirito (Gesù)». E infine queste portentose profezie: «A causa vostra il popolo fu umiliato, la bandiera dell’Islam ammainata e il suo possente trono rovesciato». «Fra non molto tutto ciò che possedete perirà, e la vostra gloria sarà tramutata nella più miserabile umiliazione e voi contemplerete la punizione per quello che avete operato…». E il Báb ancor più chiaramente profetizza: «In verità, tra non molto tormenteremo coloro che mossero guerra contro Husayn (l’Imám Husayn)… col tormento più cocente…». «Tra non molto, al tempo del Nostro ritorno, Dio compirà su di loro la Sua vendetta, e, in verità, Egli ha in serbo per loro, nel mondo avvenire, un tremendo castigo».
27 In un’analisi di questo genere non si possono omettere le notizie riguardanti quei principi, ministri ed ecclesiastici che sono stati personalmente responsabili delle terribili prove subite da Bahá’u’lláh e dai Suoi seguaci. Fu’ád Páshá, il ministro turco degli affari esteri, da Lui denunciato per essere stato «istigatore» del Suo esilio nella Più Grande Prigione, che con il collega ‘Alí Páshá s’era assiduamente adoperato per suscitare i timori e i sospetti di un despota già incline ad avversare la Fede e il suo Capo, circa un anno dopo essere riuscito nel suo intento, fu abbattuto dalla sferza vendicatrice di Dio, mentre viaggiava verso Parigi, e morì a Nizza (1869). ‘Alí Páshá, il Sadr-i-A‘zam (primo ministro), denunciato con parole così vigorose nella Lawh-i-Ra‘ís, la cui caduta la Lawh-i-Fu’ád aveva incontrovertibilmente predetto, pochi anni dopo l’esilio di Bahá’u’lláh ad ‘Akká, fu sollevato dall’incarico, spogliato di ogni potere e completamente dimenticato. Il tirannico principe Mas‘úd Mirza, lo Zillú’s-Sultán, figlio maggiore di Násiri’d-Dín Sháh, governatore di oltre i due quinti del regno, stigmatizzato da Bahá’u’lláh come «l’Albero infernale», cadde in disgrazia, fu privato di tutti i suoi governatorati tranne quello di Isfáhán e perse ogni opportunità di futura celebrità o promozione. L’avido principe Jalálu’d-Dawlih, marchiato dalla Penna Suprema come «il tiranno di Yazd», circa un anno dopo le iniquità commesse fu destituito, richiamato a Teheran e costretto a restituire una parte delle proprietà che aveva rubato alle sue vittime.
28 Lo scaltro, ambizioso e dissoluto Mirza Buzurg Khán, console generale persiano a Baghdad, fu infine allontanato dall’incarico, «sopraffatto dalla sventura, pieno di rimorso e gettato nella confusione». Il famigerato mujtahid Siyyid Sádiq-i-Tabátabá’í che Bahá’u’lláh chiamò «il Mentitore di Teheran», autore del mostruoso decreto che condannava a morte tutti i membri maschi della comunità bahá’í in Persia, giovani o vecchi, ricchi o poveri, e alla deportazione tutte le sue donne, improvvisamente s’ammalò, cadde in preda a una malattia che gli devastò il cuore, il cervello e le membra e infine ne causò la morte. Il prepotente Subhí Páshá, che aveva perentoriamente convocato Bahá’u’lláh nel palazzo del governo ad ‘Akká, perse la posizione che occupava e fu richiamato in circostanze alquanto pregiudizievoli per la sua reputazione. La stessa sorte toccò anche agli altri governatori della città che avevano iniquamente trattato l’eccelso Prigioniero affidato alla loro custodia e i Suoi compagni d’esilio. «Tutti i Páshá» testimonia Nabíl nella sua narrazione «la cui condotta ad ‘Akká era stata degna di lode godettero a lungo del proprio incarico e furono generosamente favoriti da Dio, mentre tutti i mutisarrif (governatori) ostili furono rapidamente deposti dalla Mano del divino Potere, come ‘Abdu’r-Rahmán Páshá e Muhammad-Yúsuf Páshá che l’indomani della notte in cui avevano deciso di mettere le mani sugli amati di Bahá’u’lláh, furono avvertiti telegraficamente della loro destituzione. Tale fu il loro destino che non ebbero mai più un incarico ufficiale».
29 Shaykh Muhammad-Báqir, soprannominato il «Lupo», che Bahá’u’lláh nella Lawh-i-Burhán apostrofa con parole di dura condanna e paragona a «l’ultimo sprazzo di sole in cima ai monti», vide il costante declino del proprio prestigio e morì triste, in un miserevole stato di profondo rimorso. Il suo complice, Mír Muhammad-Husayn, soprannominato «la serpe», che Bahá’u’lláh descrisse come «infinitamente più malvagio dell’oppressore di Karbilá», all’incirca nello stesso periodo, fu espulso da Isfáhán, vagò di villaggio in villaggio, contrasse una malattia che produceva un odore tanto disgustoso che neanche la moglie e la figlia potevano sopportare di stargli vicino e morì tanto in disgrazia presso le autorità locali che nessuno osò assistere ai suoi funerali e il suo corpo fu ignominiosamente sotterrato da pochi necrofori.
30 Si deve ricordare inoltre la disastrosa carestia che, circa un anno dopo che l’illustre Badí‘ era stato torturato a morte, devastò la Persia e ridusse la popolazione a tali estremi che persino i ricchi soffrirono la fame e centinaia di madri divorarono mostruosamente i propri figli.
31 L’argomento non può essere abbandonato senza un particolare cenno all’arciviolatore del Patto del Báb, Mirza Yahyá, che visse abbastanza a lungo per assistere, mentre a Cipro, che i Turchi chiamavano «Isola di Satana», conduceva un’esistenza miserevole, al crollo di tutte le sue speranze concepite con tanta cattiveria. Pensionato prima del governo turco e poi di quello britannico, ebbe l’ulteriore umiliazione di vedersi respinta la domanda per ottenere la cittadinanza britannica. Undici dei diciotto «Testimoni» da lui nominati lo abbandonarono e ritornarono pentiti da Bahá’u’lláh. Fu coinvolto in uno scandalo che infamò la sua reputazione e quella del figlio maggiore, privò quel figlio e i suoi discendenti della successione di cui l’aveva precedentemente investito e, in sua vece, designò il perfido Mirza Hádíy-i-Dawlat-Abádí, noto azalí che, in occasione del martirio del già citato Mirza Ashraf, ebbe tanta paura che per quattro giorni consecutivi proclamò dal pulpito con le parole più ingiuriose il suo totale ripudio della Fede Bábí e di Mirza Yahyá, il suo benefattore, che aveva riposto in lui tanta incondizionata fiducia. Per uno strano destino, alcuni anni dopo, quello stesso figlio maggiore cercò, con i nipoti, la presenza di ‘Abdu’l-Bahá, designato Successore di Bahá’u’lláh e Centro del Suo Patto, manifestò il proprio pentimento, pregò d’essere perdonato, fu benevolmente accolto e rimase, fino all’ora della morte, un fedele seguace della Fede che suo padre si era così follemente, vergognosamente e pietosamente sforzato d’annientare.
TERZO PERIODO1 Nei precedenti capitoli ho tentato di tratteggiare la nascita e lo sviluppo della Fede del Báb e di Bahá’u’lláh nei primi cinquant’anni della sua esistenza. Se mi sono soffermato troppo a lungo sugli eventi relativi alla vita e alla missione dei due Luminari della Rivelazione bahá’í, se talvolta ho ecceduto in un racconto troppo circostanziato di certi episodi dei Loro ministeri, è solo perché quegli avvenimenti proclamano la nascita e distinguono l’instaurazione di un’epoca che i futuri storici acclameranno come la più eroica e la più tragica, come il periodo più importante dell’Età apostolica della Dispensazione bahá’í. Infatti la storia che i successivi decenni del secolo in esame dischiudono dinanzi ai nostri occhi non è altro che la registrazione delle numerose prove dell’irresistibile azione delle forze creatrici che erano state sprigionate dal trascorso cinquantennio di pressoché ininterrotta Rivelazione.
2 Un processo dinamico, mosso da Dio, dotato di potenzialità inaspettate, di dimensioni tali da abbracciare tutto il pianeta, capace di trasformare il mondo con i suoi risultati finali, era stato messo in moto quella memorabile notte in cui il Báb comunicò lo scopo della Sua missione a Mullá Husayn in un oscuro angolo di Shíráz. Questo processo acquistò uno straordinario impeto con i primi annunci dell’albeggiante Rivelazione di Bahá’u’lláh nelle tenebre del Síyáh-Chál di Teheran. Fu ulteriormente accelerato dalla Dichiarazione della Sua missione la vigilia del Suo bando da Baghdad. Mosse verso il culmine con la proclamazione di quella stessa missione nei tempestosi anni del Suo esilio adrianopolitano. Il suo pieno significato fu svelato quando l’Autore di quella Missione diramò i Suoi storici inviti, appelli e moniti ai sovrani della terra e ai capi ecclesiastici del mondo. Fu infine completato dalle leggi e dalle ordinanze che Egli formulò, dai principi che enunciò e dalle istituzioni che prescrisse negli ultimi anni del Suo ministero nella città prigione di ‘Akká.
3 Per dirigere e incanalare queste forze sprigionatesi da questo processo inviato dal cielo e per assicurarne l’armonioso e continuo funzionamento dopo la Sua ascensione, era chiaramente indispensabile uno strumento divinamente ordinato, investito di autorità indiscutibile, strutturalmente legato all’Autore della Rivelazione. Tale strumento Bahá’u’lláh ha espressamente fornito con l’istituzione del Patto, un’istituzione che Egli aveva solidamente fondato prima della Sua ascensione. L’aveva anticipata nel Kitáb-i-Aqdas, vi aveva alluso quando aveva rivolto il Suo estremo commiato ai membri della famiglia convocati al Suo capezzale nei giorni immediatamente precedenti la Sua ascensione e l’aveva inclusa in uno speciale documento che chiamò «Il Libro del Mio Patto» e che, durante la Sua ultima malattia, affidò al figlio maggiore ‘Abdu’l-Bahá.
4 Interamente scritto di Suo pugno, aperto nove giorni dopo la Sua ascensione alla presenza di nove testimoni scelti fra i compagni e i membri della famiglia, successivamente letto, nel pomeriggio dello stesso giorno, davanti a un folto gruppo riunito nella Sua Santissima Tomba che comprendeva i Suoi figli, alcuni congiunti del Báb, pellegrini e credenti locali, questo incomparabile, storico Documento, definito da Bahá’u’lláh la Sua «Più Grande Tavola» e nell’Epistola al Figlio del Lupo allusivamente chiamato «Libro Cremisi», non ha paralleli nelle Scritture delle precedenti Dispensazioni compresa quella del Báb. Infatti in nessuno dei libri dei vari sistemi religiosi del mondo, neppure fra gli scritti dell’Autore della Rivelazione Bábí, si trova un solo documento che stabilisca un Patto dotato d’una autorità paragonabile a quello che Bahá’u’lláh ha istituito.
5 «…un Patto così saldo e così possente», ha affermato Colui Che ne fu designato Centro, «che, dal principio del tempo fino ad oggi, nessuna Dispensazione religiosa ne ha prodotto uno simile». «È indubbiamente chiaro», ha affermato inoltre, «che il perno dell’unità del genere umano non è altro che il potere del Patto». «Sappi», ha scritto, «che la “sicura impugnatura” menzionata fin dalla fondazione del mondo nei Libri, nelle Tavole e nelle Scritture dell’antichità non è altro che il Patto e il Testamento». E ancora: «La lampada del Patto è la luce del mondo e le parole vergate dalla Penna dell’Altissimo, uno sconfinato oceano». «Il Signore, il Glorificato», ha poi dichiarato, «ha fatto, all’ombra dell’albero di Anísá (Albero di Vita), un nuovo Patto e istituito un gran Testamento… È mai stato stipulato un Patto simile in una Dispensazione, età, periodo, o secolo precedenti? Si è mai visto un Testamento simile, scritto dalla Penna dell’Altissimo? No, in nome di Dio!» E infine: «Il potere del Patto è come il calore del sole che stimola e favorisce lo sviluppo di tutte le cose create sulla terra. Nello stesso modo la luce del Patto è l’educatrice della mente, dello spirito, del cuore e dell’anima degli uomini». A questo Patto Egli accennò nei Suoi scritti come «conclusiva Testimonianza», «Bilancia universale», «Magnete della grazia di Dio», «Stendardo innalzato», «Testamento inconfutabile», «il potentissimo Patto di cui le Dispensazioni del passato non hanno mai visto l’eguale» e «una delle caratteristiche distintive di questo potentissimo ciclo».
6 Esaltato dall’autore dell’Apocalisse come «l’Arca del Suo (di Dio) Patto», associato alla riunione all’ombra dell’«Albero di Anísá (Albero della vita)» menzionata da Bahá’u’lláh nelle Parole Celate, glorificato in altri passi dei Suoi scritti come «Arca di salvezza» e «Corda tesa tra la terra e il Regno di Abhá», questo Patto è stato trasmesso alla posterità in un Testamento che costituisce, assieme al Kitáb-i-Aqdas e a numerose Tavole in cui il rango e lo stadio di ‘Abdu’l-Bahá sono inequivocabilmente svelati, il principale baluardo designato dal Signore del Patto a difendere e sostenere, dopo la Sua ascensione, il Centro nominato della Sua Fede, il Delineatore delle sue future istituzioni.
7 In questo importante e incomparabile Documento l’Autore rivela il carattere di quell’«eccellente e inestimabile retaggio» da Lui lasciato ai Suoi «eredi», proclama nuovamente lo scopo fondamentale della Sua Rivelazione, ingiunge «ai popoli del mondo» di attenersi strettamente a ciò che «innalzerà» il loro «stadio», annuncia loro che «Dio ha perdonato quel che è passato», evidenzia la sublimità dello stadio dell’uomo, rivela lo scopo primario della Fede di Dio, invita i fedeli a pregare per la prosperità dei re della terra, «manifestazioni del potere e albe della potenza e della ricchezza di Dio», li investe del governo della terra, sceglie il cuore dell’uomo come Suo speciale dominio, proibisce categoricamente dispute e contese, ordina ai Suoi seguaci di aiutare quei governanti che sono «adorni dell’ornamento dell’equità e della giustizia» e comanda, in particolare, agli Aghsán (i Suoi figli) di ponderare sulla «forza possente, un potere perfetto che è celato nel mondo dell’essere». Inoltre ingiunge loro e agli Afnán (parenti del Báb) e ai Propri congiunti di «volgere il viso verso il Più Possente Ramo (‘Abdu’l-Bahá)», Lo identifica con il «Colui Che Dio ha designato», «Che è germogliato da questo antico Ceppo», cui si allude nel Kitáb-i-Aqdas, stabilisce che lo stadio del «Ramo Maggiore» (Mirza Muhammad-‘Alí) sia inferiore a quello del «Ramo Massimo» (‘Abdu’l-Bahá), esorta i credenti a trattare gli Aghsán con considerazione e affetto, raccomanda loro di rispettare la Sua famiglia e i Suoi parenti, così come i parenti del Báb, nega ai Suoi figli «alcun diritto sulle altrui proprietà», ingiunge loro, ai Suoi parenti e a quelli del Báb di «temere Iddio… e fare ciò che è decente e decoroso» e perseguire quelle cose che «esalteranno» il loro stadio, ammonisce tutti gli uomini di non permettere che «gli strumenti dell’ordine siano fatti causa di confusione e il mezzo dell’unione divenga occasione di discordia» e conclude con un’esortazione, che invita i fedeli a «servire tutte le nazioni» e a lottare per il «miglioramento del mondo».
8 Che ad ‘Abdu’l-Bahá fosse stato conferito uno stadio così incomparabile e sublime non poteva sorprendere, e non sorprese, quei compagni d’esilio che per tanto tempo avevano avuto il privilegio d’osservare la Sua vita e la Sua condotta, né i pellegrini che avevano avuto un sia pur fugace contatto personale con Lui, e neppure la vasta schiera dei fedeli che in paesi lontani avevano imparato a riverire il Suo nome e ad apprezzare la Sua opera, né, infine, l’ampia cerchia di amici e conoscenti che in Terra Santa e nei paesi vicini già sapevano quale posizione Egli avesse occupato mentre Suo Padre era in vita.
9 La Sua fausta nascita aveva avuto luogo nell’indimenticabile notte in cui il Báb aveva svelato al Suo primo discepolo, Mullá Husayn, il carattere soprannaturale della Sua Missione. Non era che un bambino quando, seduto in grembo a Táhirih, Si era reso conto della sensazionale importanza dell’entusiasmante sfida che l’indomita eroina aveva lanciato al suo condiscepolo, l’erudito e famosissimo Vahíd. La Sua anima sensibile era stata segnata a fuoco dall’incancellabile visione del Padre, smagrito, scarmigliato, gravato dalle catene, in occasione di una visita che, fanciullo di nove anni, aveva fatto al Síyáh-Chál di Teheran. Contro di Lui, nella Sua prima infanzia, mentre il Padre languiva prigioniero in quella segreta, si era rivolta la cattiveria di una banda di monelli di strada, che L’avevano preso a sassate, insultato e beffeggiato. Gli era toccato di condividere col Padre, subito dopo la Sua liberazione dalla prigione, i rigori e le miserie di un crudele bando dal Paese natale e le tribolazioni culminate nel Suo forzato ritiro sulle montagne del Kurdistán. Nel Suo inconsolabile dolore per la separazione dal Padre adorato, aveva confidato a Nabíl, come questi racconta nella sua Narrazione, che sentiva d’essere diventato vecchio mentre ancora era una bambino in tenera età. Aveva avuto l’ineguagliabile privilegio di riconoscere, ancor bambino, la piena gloria dello stadio non ancora rivelato del Padre, un riconoscimento che L’aveva spinto a gettarSi ai Suoi piedi e a implorare istintivamente il privilegio d’offrire la vita per Lui. Dalla Sua penna, ancora adolescente a Baghdad, era uscito quel superbo commento su una notissima tradizione maomettana, scritto per suggerimento di Bahá’u’lláh, in risposta a un quesito di ‘Alí-Shawkat Páshá, così illuminante da suscitare la sconfinata ammirazione del destinatario. I Suoi dibattiti e i Suoi discorsi con i dotti di Baghdad coi quali era venuto a contatto avevano destato, per primi, quella generale ammirazione per Lui e per il Suo sapere che in seguito, ampliandosi la cerchia dei Suoi conoscenti, andò aumentando prima ad Adrianopoli e poi ad ‘Akká. Il raffinato Khurshíd Páshá, governatore di Adrianopoli, Gli aveva tributato un pubblico e caloroso elogio quando, in presenza di numerosi distinti teologi della città, il giovane Ospite aveva risolto, in modo conciso e sorprendente, le difficoltà di un problema che aveva confuso la mente della compagnia riunita, un’impresa che ebbe un effetto così profondo sul Páshá che da quel momento in poi non poté rassegnarsi all’assenza del Giovane da quelle riunioni.
10 Ampliandosi l’ambito e l’influenza della Sua Missione, Bahá’u’lláh Gli aveva concesso sempre più ampia fiducia, nominandoLo, in numerose occasioni, Proprio rappresentante, dandoGli l’opportunità di perorare in pubblico la Sua Causa, assegnandoGli il compito di trascrivere le Sue Tavole, permettendoGli di assumerSi la responsabilità di difenderLo dai nemici e dandoGli l’incarico di vegliare sui compagni d’esilio e sugli amici e di proteggere i loro interessi. Era stato incaricato di assumerSi, appena le circostanze lo avessero permesso, il delicato e importante compito d’acquistare il terreno che sarebbe servito quale perpetua estrema dimora del Báb, di assicurare il trasferimento delle Sue spoglie in Terra Santa e di erigerGli un degno sepolcro sul monte Carmelo. Aveva avuto la parte principale nel procurare i mezzi necessari per la liberazione di Bahá’u’lláh dal Suo novennale confino dentro le mura cittadine di ‘Akká e nel permetterGli di godere, negli ultimi anni di vita, un po’ di quella pace e di quella sicurezza di cui era stato per tanto tempo privato. Grazie ai Suoi incessanti sforzi all’illustre Badí‘ erano stati concessi i memorabili colloqui con Bahá’u’lláh, l’ostilità manifestata da numerosi governatori di ‘Akká contro la comunità degli esuli si era trasformata in stima e ammirazione, era stato effettuato l’acquisto delle proprietà adiacenti al lago di Tiberiade e al fiume Giordano ed è stata trasmessa alla posterità la più competente e valida presentazione della storia degli inizi della Fede e delle sue dottrine. Grazie all’accoglienza straordinariamente calorosa accordataGli durante la Sua visita a Beirut, al Suo contatto con Midhat Páshá, ex gran visir di Turchia, alla Sua amicizia con ‘Azíz Páshá, che aveva precedentemente conosciuto ad Adrianopoli e che in seguito era stato promosso al grado di valí, e grazie alle Sue costanti relazioni con ufficiali, notabili e capi religiosi, i quali in numero crescente Ne cercavano l’amicizia durante gli ultimi anni del ministero di Suo Padre, era riuscito a sollevare a un livello mai raggiunto prima il prestigio della Causa che aveva difeso.
11 Soltanto a Lui era stato accordato il privilegio d’essere chiamato «Maestro», un onore da cui Suo Padre aveva rigorosamente escluso tutti gli altri figli. A Lui quel Padre amoroso e infallibile aveva voluto conferire il titolo incomparabile di «Sirru’lláh» (Mistero di Dio), un nome così appropriato per Colui Che, pur essendo essenzialmente umano e occupando uno stadio radicalmente e fondamentalmente diverso da quello di Bahá’u’lláh e del Suo Precursore, tuttavia poteva affermare d’essere il perfetto Esempio della Sua Fede, d’essere dotato di un sapere sovrumano e d’essere considerato lo specchio immacolato che rifletteva la Sua luce. Mentre era ad Adrianopoli, il Padre Lo aveva chiamato nella Súriy-i-Ghusn (Tavola del Ramo) «questo Essere sacro e glorioso, questo Ramo di Santità», «il Braccio della legge di Dio», il Suo «più grande favore» agli uomini, la Sua «più perfetta munificenza» elargita loro, Colui grazie al Quale «ogni osso putrescente è vivificato», dichiarando che «chiunque si volga a Lui, si volge a Dio» e che «coloro che si privano dell’ombra del Ramo sono smarriti nel deserto dell’errore». A Lui, mentre Si trovava ancora in quella città, aveva alluso (in una Tavola indirizzata a Hájí Muhammad Ibráhím-i-Khalíl) come all’unico dei Suoi figli «dalla cui bocca Dio farà scaturire i segni del Suo potere» e l’unico Che «Dio ha specialmente prescelto per la Sua Causa». A Lui l’Autore del Kitáb-i-Aqdas, in un celebre passo spiegato poi nel «Libro del Mio Patto», aveva conferito, in un periodo successivo, il compito d’interpretare i Suoi Sacri Scritti, proclamandoLo, nello stesso tempo, Colui «Che Dio ha designato, Colui Che è germogliato da questa antica Radice». In una Tavola rivelata nello stesso periodo e indirizzata a Mirza Muhammad Qulíy-i-Sabzivárí, Lo aveva chiamato «il Golfo che si è proteso da quest’Oceano che ha abbracciato tutte le cose create» e aveva ordinato ai Suoi seguaci di volgere il viso verso di Lui. A Lui, in occasione della Sua visita a Beirut, Suo Padre, in una lettera dettata al Suo amanuense, aveva inoltre tributato un caloroso elogio glorificandoLo come Colui «intorno al Quale gravitano tutti i nomi», «il Più Possente Ramo di Dio», «il Suo Mistero antico e immutabile». E in numerose Tavole che aveva scritto di Suo pugno Bahá’u’lláh Si era rivolto a Lui chiamandoLo «Pupilla dei Miei occhi», «scudo per tutti coloro che sono in cielo e sulla terra», «rifugio per tutto il genere umano» e «fortezza per chiunque abbia creduto in Dio». E per Lui, in una preghiera rivelata in Suo onore, Suo Padre ha supplicato Dio di renderLo «vittorioso» e di disporre «per Lui e per coloro che Lo amano» le cose che l’Onnipotente ha destinato ai Suoi «Messaggeri» e ai «Fiduciari» della Sua Rivelazione. E infine in un’altra Tavola sono registrate queste importanti parole: «La gloria di Dio scenda su di Te e su chiunque Ti serva e Ti graviti attorno. Male, grande male si abbatta su chi Ti contrasta e Ti nuoce. Felice colui che Ti giura fedeltà, il fuoco dell’inferno tormenti colui che Ti è nemico».
12 E ora, a coronare gli onori, i privilegi e i benefici inestimabili riversati su di Lui in sempre maggiore abbondanza durante i quarant’anni del ministero di Suo Padre a Baghdad, Adrianopoli e ‘Akká, Egli era stato innalzato all’alto ufficio di Centro del Patto di Bahá’u’lláh e fatto successore della stessa Manifestazione di Dio, una posizione che doveva darGli la possibilità di conferire uno straordinario impulso all’espansione internazionale della Fede di Suo Padre, di ampliarne la dottrina, di abbattere ogni barriera che ne avrebbe impedito il progresso, di creare il suo Ordine Amministrativo e di delinearne le caratteristiche, Figlio del Patto e Araldo di quell’Ordine Mondiale la cui instaurazione segnerà l’avvento dell’Età dell’oro della Dispensazione bahá’í.
CAPITOLO XV1 L’ascensione di Bahá’u’lláh ebbe, com’è stato già osservato, l’immediato effetto di riempire di dolore e smarrimento i Suoi seguaci e compagni e d’ispirare ai vigili e irriducibili avversari nuova speranza e rinnovata determinazione. Nel momento in cui la Fede tanto diffamata era trionfalmente emersa dalle due più gravi crisi che avesse mai attraversato, l’una opera dei nemici esterni e l’altra di quelli interni, mentre il suo prestigio raggiungeva un’altezza mai raggiunta in altro periodo dei suoi cinquant’anni di esistenza, la Mano infallibile che aveva plasmato il suo destino fin dall’inizio fu repentinamente ritratta, lasciando un vuoto che amici e nemici credettero non si potesse più colmare.
2 Eppure, come il designato Centro del Patto di Bahá’u’lláh e l’Interprete autorizzato dei Suoi insegnamenti spiegò in seguito, la dissoluzione del tabernacolo nel quale l’anima della Manifestazione di Dio aveva scelto di dimorare temporaneamente segnò la sua liberazione dalle restrizioni che la vita terrena le aveva necessariamente imposte. La sua influenza non più circoscritta da limitazioni materiali, il suo splendore non più oscurato dal tempio umano, quell’anima poté, da quel momento in poi, infondere energie nel mondo intero in misura ineguagliata in altre fasi della sua esistenza su questo pianeta.
3 Inoltre, al momento della morte di Bahá’u’lláh, il Suo prodigioso compito sulla terra era stato portato a totale compimento. La Sua missione, lungi dall’essere in qualche modo inconcludente, era stata portata a compimento. Il Messaggio affidatoGli era stato svelato agli occhi di tutta l’umanità. Gli appelli che aveva avuto l’incarico di promulgare ai capi e ai governanti erano stati intrepidamente proferiti. Le fondamenta della dottrina destinata a ricrearne la vita, risanarne i mali e redimerla dalla schiavitù e dalla degradazione erano state fissate su basi inespugnabili. L’ondata di calamità che doveva purificare e corroborare le forze della Sua Fede aveva imperversato con furia incontrastata. Il sangue che doveva fecondare il suolo da cui erano destinate a nascere le istituzioni del Suo Ordine Mondiale era stato sparso a profusione. Ma soprattutto il Patto che doveva perpetuare l’influenza della Fede, assicurarne l’integrità, salvaguardarla dallo scisma e stimolarne l’espansione nel mondo intero era stato fissato su basi inviolabili.
4 La Sua Causa, preziosa al di là dei sogni e delle speranze umane, conchiglia che racchiudeva nelle sue valve quella preziosissima perla che il mondo aveva ansiosamente atteso sin dalla sua creazione, alle prese con colossali compiti di complessità e urgenza inimmaginabili era senz’ombra di dubbio in buone mani. Il Suo amato Figliolo, la pupilla dei Suoi occhi, il Suo rappresentante sulla terra, Amministratore della Sua autorità, Perno del Suo Patto, Pastore del Suo gregge, Esempio della Sua Fede, Immagine delle Sue perfezioni, Mistero della Sua Rivelazione, Interprete del Suo pensiero, Architetto del Suo Ordine Mondiale, Insegna della Sua Più Grande Pace, Punto focale della Sua infallibile guida – in una parola, il titolare di una funzione senza pari o eguali nell’intero campo della storia religiosa – vegliava su di essa, vigile, intrepido e determinato ad allargarne i confini, a diffonderne dappertutto la fama, a difenderne gli interessi e a portarne a compimento gli scopi.
5 Il commovente proclama indirizzato ai seguaci di Suo Padre che ‘Abdu’l-Bahá aveva scritto l’indomani della Sua ascensione e le profezie che aveva espresso nelle Sue Tavole ispirarono una determinazione e una fiducia che i frutti raccolti e i trionfi conseguiti nel corso di un ministero trentennale hanno ampiamente giustificato.
6 La nube di sconforto ch’era momentaneamente calata sugli sconsolati amanti della Causa di Bahá’u’lláh era svanita. La continuità di quell’infallibile guida che le era stata accordata fin dalla nascita era ora assicurata. Il significato della solenne affermazione che questo è «il Giorno che non sarà seguito dalla notte» veniva ora chiaramente compreso. Nell’ora del disperato bisogno la comunità orfana aveva riconosciuto in ‘Abdu’l-Bahá la Consolazione, la Guida, il Rifugio e il Difensore. La Luce che aveva brillato con tanto abbagliante splendore nel cuore dell’Asia e che durante la vita di Bahá’u’lláh si era diffusa nel Vicino Oriente e aveva illuminato i margini dei continenti europeo e africano stava per giungere, grazie alla stimolante influenza del Patto appena proclamato e quasi immediatamente dopo la morte del Suo Autore, a occidente fino al continente nordamericano, da dove si sarebbe diffusa nei paesi europei per poi riversare il suo fulgore sull’Estremo Oriente e sull’Australia.
7 Ma prima che la Fede potesse piantare il suo vessillo nel cuore del continente nordamericano e di là piazzare i suoi avamposti in una così vasta parte del mondo occidentale, il recentemente istituito Patto di Bahá’u’lláh, come era accaduto alla Fede da cui esso traeva origine, doveva essere battezzato da un fuoco che ne avrebbe dimostrato la solidità e proclamato l’indistruttibilità a un mondo incredulo. Una crisi quasi altrettanto grave quanto quella che aveva colpito la Fede nella sua prima infanzia a Baghdad doveva scuotere il Patto dalle fondamenta proprio al suo inizio e sottoporre la Causa di cui esso era stato il più nobile frutto a una delle più gravi prove subite nel corso di un intero secolo.
8 La crisi erroneamente considerata uno scisma, salutata da avversari politici ed ecclesiastici e dai sempre meno numerosi seguaci di Mirza Yahyá come il segno dell’immediata distruzione e della definitiva dissoluzione del sistema fondato da Bahá’u’lláh, si scatenò proprio nel cuore e nel centro della Fede. Fu provocata, nientemeno, da un membro della famiglia, fratellastro di ‘Abdu’l-Bahá, specificamente menzionato nel Libro del Patto e detentore di un rango inferiore soltanto a quello di Colui Che era stato nominato Centro di quel Patto. Per più di quattro anni quella critica situazione agitò con violenza la mente e il cuore di gran parte dei fedeli in tutto l’Oriente, oscurò, per un certo tempo, l’Astro del Patto, creò una breccia irreparabile nei ranghi dei familiari di Bahá’u’lláh, segnò definitivamente il destino della maggior parte dei membri della Sua famiglia, danneggiò gravemente il prestigio della Fede, ma non riuscì mai a produrre una spaccatura permanente nella sua struttura. Il vero motivo della crisi era la bruciante, incontrollabile gelosia che avvelenava l’anima non solo di Mirza Muhammad-‘Alí, l’arciviolatore del Patto, ma anche dei suoi parenti più stretti, per la riconosciuta preminenza di ‘Abdu’l-Bahá in rango, potere, abilità, sapienza e virtù su tutti gli altri membri della famiglia del Padre. Un’invidia cieca come quella che si era impossessata dell’anima di Mirza Yahyá, fatale come quella che la superiorità di Giuseppe aveva accesa nel cuore dei fratelli, radicata come quella che era divampata nel petto di Caino spingendolo ad assassinare il fratello Abele, aveva covato nei recessi del cuore di Mirza Muhammad-‘Alí per diversi anni prima dell’ascensione di Bahá’u’lláh ed era stata segretamente alimentata dagli innumerevoli segni di distinzione, ammirazione e favore accordati ad ‘Abdu’l-Bahá non solo da Bahá’u’lláh, dai Suoi compagni e dai Suoi seguaci, ma anche dai numerosi non credenti che erano giunti a riconoscere l’innata grandezza che Egli aveva manifestato fin dall’infanzia.
9 Invece d’essere mitigato dalle clausole di un Testamento che lo elevava al secondo posto nella schiera dei fedeli, il fuoco dell’inestinguibile ostilità che ardeva nel petto di Mirza Muhammad-‘Alí divampò con maggior furore, non appena egli si rese conto del pieno significato del Documento. Tutto quello che ‘Abdu’l-Bahá poté fare, nel corso di quattro penosi anni – incessanti esortazioni, fervide implorazioni, favori e gentilezze nei suoi confronti, moniti e avvertimenti, persino il Suo volontario ritiro nella speranza di allontanare la minacciosa tempesta – fu vano. Gradatamente e con ostinata persistenza, con menzogne, mezze verità, calunnie e madornali esagerazioni, questo «primo Motore della discordia», riuscì a portare dalla sua parte quasi tutta la famiglia di Bahá’u’lláh e un considerevole numero di coloro che avevano formato la sua cerchia immediata. Due mogli sopravvissute a Bahá’u’lláh, due figli, l’incostante Mirza Díyá’u’lláh e l’infido Mirza Badí‘u’lláh con la sorella, una sorellastra e i rispettivi mariti, l’infame Siyyid ‘Alí, un parente del Báb, e l’astuto Mirza Majdi’d-Dín con la sorella e i fratellastri, figli del nobile, fedele e ormai defunto Aqáy-i-Kalím – tutti uniti in un determinato sforzo per sovvertire le fondamenta del Patto che il Testamento appena annunciato aveva posto. Persino Mirza Áqá Ján, che per quarant’anni aveva lavorato come amanuense di Bahá’u’lláh e Muhammad-Javád-i-Qazvíní, che fin dai tempi di Adrianopoli aveva lavorato alla trascrizione delle innumerevoli Tavole rivelate dalla Penna Suprema, e la sua famiglia si allearono con i violatori del Patto lasciandosi irretire dalle loro macchinazioni.
10 Abbandonato, tradito, assalito da quasi tutti i Suoi parenti riuniti ora nella Magione e nelle case assiepate attorno alla Più Sacra Tomba, ‘Abdu’l-Bahá, già privato della madre e dei figli e senz’altro appoggio fuorché quello di una sorella nubile, di quattro figlie anch’esse nubili, della moglie e dello zio (un fratellastro di Bahá’u’lláh), fu lasciato solo a sostenere di fronte a una schiera di nemici interni ed esterni coalizzati contro di Lui tutto il peso delle responsabilità che il Suo alto ufficio Gli aveva imposto.
11 Profondamente uniti da un desiderio e uno scopo comuni, infaticabili negli sforzi, certi dell’appoggio del potente e perfido Jamál-i-Burújirdí e dei suoi accoliti, Hájí Husayn-i-Káshí, Khalíl-i-Khu’í e Jalíl-i-Tabrízí che avevano abbracciato la loro causa, collegati da un vasto sistema di corrispondenza con ogni centro e individuo che potessero raggiungere, assecondati da emissari che avevano inviati in Persia, in Iraq, in India e in Egitto, incoraggiati nei loro disegni dall’atteggiamento di funzionari che avevano corrotti o sedotti, i violatori di quel Patto divinamente stabilito insorsero come un sol uomo e aprirono una campagna di ingiurie e diffamazioni paragonabili per asprezza alle infami accuse che Mirza Yahyá e Siyyid Muhammad avevano congiuntamente mosso contro Bahá’u’lláh. Ad amici ed estranei, credenti e non credenti, funzionari d’alto e basso rango, apertamente o con insinuazioni, verbalmente o per iscritto, descrivevano ‘Abdu’l-Bahá come un usurpatore ambizioso, ostinato, privo di scrupoli ed empio, Che aveva deliberatamente trasgredito alle istruzioni testamentarie del Padre, Che con linguaggio intenzionalmente velato e ambiguo aveva assunto un rango uguale a quello della Manifestazione, Che, nelle comunicazioni all’Occidente, aveva cominciato ad affermare d’essere il ritorno di Gesù Cristo, il figlio di Dio venuto «nella Gloria del Padre», Che, nella corrispondenza coi credenti indiani, Si proclamava il promesso Sháh Bahrám e Si attribuiva il diritto d’interpretare gli scritti del Padre, d’inaugurare una nuova Dispensazione e di condividere con Lui la Più Grande Infallibilità, prerogativa esclusiva dei detentori della funzione profetica. Affermavano che Egli avesse, per mire personali, fomentato discordie, incoraggiato inimicizie e brandito l’arma della scomunica, che avesse pervertito le intenzioni di un Testamento che, essi dichiaravano, riguardava innanzi tutto gli interessi privati della famiglia di Bahá’u’lláh, acclamandolo come un Patto d’importanza mondiale, preesistente, incomparabile e unico nella storia di tutte le religioni, che avesse privato i fratelli e le sorelle dei loro legittimi beni spendendoli per funzionari che facessero il Suo interesse, che avesse declinato tutti i ripetuti inviti fattiGli per discutere le divergenze ch’erano sorte e comporre le differenze che persistevano, che avesse realmente alterato il Sacro Testo interpolandovi passi scritti da Lui Stesso e avesse modificato l’intenzione e il significato di alcune delle più importanti Tavole rivelate dalla penna del Padre e infine che, per questa condotta, i credenti orientali avessero issata la bandiera della rivolta e la comunità dei fedeli si fosse divisa, stesse rapidamente decadendo e fosse destinata a estinguersi.
12 Eppure, proprio quel Mirza Muhammad-‘Alí, che si considerava campione di fedeltà, alfiere degli «Unitari», «Dito che indica il Maestro», paladino della sacra Famiglia, portavoce degli Aghsán, sostenitore degli Scritti sacri, aveva avanzato, durante la vita di Bahá’u’lláh, con una chiara e sfacciata dichiarazione scritta, firmata e suggellata, la stessa pretesa che ora ingiustamente attribuiva ad ‘Abdu’l-Bahá, tanto che il Padre l’aveva punito di Propria mano. Proprio lui, inviato in missione in India, aveva alterato il testo dei sacri scritti affidatigli per la pubblicazione. Aveva avuto l’impudenza e la temerarietà di dire in faccia ad ‘Abdu’l-Bahá che, come ‘Umar era riuscito a usurpare la successione del profeta Muhammad, anche lui si sentiva in grado di fare altrettanto. Ossessionato dal timore di non sopravvivere ad ‘Abdu’l-Bahá, quando Egli gli aveva assicurato che col tempo avrebbe ottenuto tutti gli onori che bramava, aveva immediatamente ribattuto che non aveva alcuna garanzia di sopravviverGli. Come Mirza Badí‘u’lláh attesta in una confessione scritta e pubblicata in occasione del suo pentimento e della sua breve riconciliazione con ‘Abdu’l-Bahá, aveva trafugato con uno stratagemma, mentre il corpo di Bahá’u’lláh era ancora in attesa di sepoltura, le due borse contenenti i più preziosi documenti del Padre, che Egli aveva affidati, prima della Sua ascensione, ad ‘Abdu’l-Bahá. Con l’abilissima e semplice contraffazione di una parola ricorrente in alcuni passi di denuncia indirizzati dalla Penna Suprema a Mirza Yahyá e con altri espedienti come tagli e interpolazioni, era riuscito a renderli applicabili direttamente al Fratello Che odiava con tale bruciante passione. E infine proprio lui, Mirza Muhammad-‘Alí, come testimonia ‘Abdu’l-Bahá nel Suo Testamento, aveva cospirato con circospezione e astuzia per attentare alla Sua vita, un’intenzione indicata dalle allusioni fatte in una lettera scritta da Shu‘á‘u’lláh, figlio di Mirza Muhammad-‘Alí, il cui originale ‘Abdu’l-Bahá incluse in quel Documento.
13 Il Patto di Bahá’u’lláh era stato chiaramente violato da atti simili a questi, troppo numerosi per essere raccontati. Un altro colpo, stordente nei suoi effetti iniziali, era stato inferto alla Fede e ne aveva fatto momentaneamente tremare la struttura. La bufera predetta dall’autore dell’Apocalisse era scoppiata. Le «folgori», i «tuoni», il «terremoto» che dovevano necessariamente accompagnare la rivelazione dell’«Arca dell’alleanza», si erano tutti verificati.
14 Il dolore di ‘Abdu’l-Bahá a causa di un così tragico evento, occorso così repentinamente dopo l’ascensione di Suo Padre, fu tale che, malgrado i trionfi che Egli vide negli anni del Suo ministero, lasciò in Lui una traccia fino alla fine dei Suoi giorni. L’intensità delle emozioni che questo fosco episodio suscitò in Lui ricordano gli effetti prodotti su Bahá’u’lláh dai terribili avvenimenti scatenati dalla ribellione di Mirza Yahyá. «Giuro per la Tua Antica Bellezza!», scrisse in una delle Sue Tavole. «Il mio dolore e il mio rammarico sono così grandi che la penna è paralizzata fra le Mie dita». «Mi vedi», lamenta in una preghiera scritta nel Testamento, «immerso in un oceano di calamità che opprimono l’anima, di afflizioni che gravano il cuore… Sono circondato da duri cimenti e attorniato da molti pericoli. Mi vedi immerso in un mare di inaudite tribolazioni, caduto in un insondabile abisso, afflitto dai nemici e devastato dal fuoco del loro odio attizzato dai miei familiari coi quali Tu hai stretto il Tuo solido Patto e il Tuo saldo Testamento…» E ancora sempre nel Testamento: «Signore! Vedi tutte le cose compiangermi e i miei congiunti gioire dei miei guai. Per la Tua Gloria, o mio Dio! Perfino fra i miei nemici, alcuni hanno compatito le mie tribolazioni e i miei travagli, e fra gli invidiosi altri hanno versato lacrime a causa dei miei assilli, del mio esilio e delle mie afflizioni». In una delle Sue ultime Tavole levò questo grido: «O Gloria delle Glorie! Ho rinunziato al mondo e alla sua gente e ho il cuore spezzato e sono molto afflitto a causa degli infedeli. Nella gabbia di questo mondo volo come un uccello impaurito e ogni giorno agogno di volare fino al Tuo Regno».
15 Lo Stesso Bahá’u’lláh in una Sua Tavola, una Tavola che diffonde una luce illuminante sull’intero episodio, aveva significativamente rivelato: «In nome di Dio, o genti! I miei occhi piangono e piangono gli occhi di ‘Alí (il Báb) fra le Schiere Celesti, il Mio cuore geme e geme il cuore di Muhammad nel Più Glorioso Tabernacolo, la Mia anima grida e gridano le anime dei Profeti dinanzi a coloro che sono dotati di comprensione… Il Mio dolore non è per Me, ma per Colui Che verrà dopo di Me, all’ombra della Mia Causa, con manifesta e indubbia sovranità, poiché non gradiranno la Sua apparizione, ripudieranno i Suoi segni, contesteranno la Sua sovranità, contenderanno con Lui e tradiranno la Sua Causa… » «È possibile», ha osservato in una Tavola non meno significativa, «che dopo che l’astro radioso del Tuo Testamento è sorto sull’orizzonte della Tua Più Grande Tavola, il piede di qualcuno scivoli dal Tuo Retto Sentiero? Al che rispondemmo: “O mia eccelsa Penna! Conviene che Ti occupi di ciò che Ti è stato ordinato da Dio, l’Eccelso, il Grande. Non domandare ciò che consumerà il Tuo cuore e il cuore degli abitatori del Paradiso che hanno inceduto attorno alla Mia meravigliosa Causa. Conviene che Tu non sappia quello che Ti abbiamo nascosto. Il Tuo Signore è, in verità, l’Occultatore, l’Onnisciente!”» Più specificamente Bahá’u’lláh, riferendoSi a Mirza Muhammad-‘Alí, aveva affermato con linguaggio chiaro e inequivocabile: «Egli, in verità, è solo uno dei Miei servi… Se, per un momento, s’allontanasse dall’ombra della Causa, sarebbe ridotto in nulla». E ancora sempre riferendoSi a Mirza Muhammad-‘Alí con parole non meno veementi, ha affermato: «In Nome di Dio, l’Unico Vero! Se per un solo istante distogliessimo da lui le effusioni della Nostra Causa, appassirebbe e cadrebbe nella polvere». Inoltre, ‘Abdu’l-Bahá ha attestato: «Non v’è dubbio che in migliaia di passi dei sacri scritti di Bahá’u’lláh, i violatori del Patto sono stati maledetti». Prima della Sua dipartita da questo mondo Egli Stesso fece una compilazione di quei passi e li inserì in una delle Sue ultime Tavole, monito e protezione contro coloro che durante il Suo ministero avevano manifestato tanto implacabile odio contro di Lui ed erano quasi riusciti a sovvertire le fondamenta di un Patto da cui dipendeva non solo la Sua autorità, ma l’integrità della stessa Fede.
CAPITOLO XVI1 Sebbene la ribellione di Mirza Muhammad-‘Alí avesse provocato molti avvenimenti tristi e penosi e le sue terribili conseguenze abbiano per molti anni continuato a oscurare la luce del Patto, a minacciare la vita di Colui Che ne era stato designato Centro, a distrarre i pensieri dei suoi sostenitori in Oriente e in Occidente e a ritardare il progresso delle loro attività, tuttavia l’intero episodio, visto nella giusta prospettiva, fu né più né meno una di quelle periodiche crisi che, fin dall’inizio della Fede di Bahá’u’lláh e per un intero secolo, erano valse a estirparne gli elementi nocivi, a rafforzarne le fondamenta, a dimostrarne la capacità di recupero e a sprigionare un’ulteriore misura dei suoi latenti poteri.
2 Ora che le disposizioni del Patto divinamente stabilito erano state inequivocabilmente proclamate, ora che ne era stato chiaramente compreso lo scopo e che i suoi principi essenziali si erano saldamente insediati nel cuore della stragrande maggioranza dei seguaci della Fede, ora che i primi assalti lanciati da chi voleva sovvertirla erano stati felicemente respinti, la Causa per la quale quel Patto era stato stabilito poté procedere a tutta velocità lungo il percorso per essa tracciato dal dito del suo Autore. Splendide gesta e indimenticabili vittorie avevano già segnato la nascita di quella Causa e accompagnato la sua ascesa in molti paesi del continente asiatico e sopra tutto nella terra natale del suo Fondatore. La missione del nuovo Capo appena nominato, dispensiere della sua gloria e diffusore della sua luce, era, secondo la Sua concezione, d’arricchire l’incorruttibile patrimonio che Gli era stato affidato e d’allargarne i confini, diffondendo la luce della Fede di Suo Padre in Occidente, spiegandone i precetti fondamentali e i principi basilari, consolidando le attività già iniziate per la promozione dei suoi interessi e, infine, introducendo con le disposizioni del Suo Testamento l’Età formativa della sua evoluzione.
3 Un anno dopo l’ascensione di Bahá’u’lláh, ‘Abdu’l-Bahá già prevedeva in un versetto da Lui rivelato, che suscitò le beffe dei violatori del Patto, un fausto evento che la posterità avrebbe considerato uno dei più grandi trionfi del Suo ministero, che alla fine avrebbe conferito un’inestimabile benedizione al mondo occidentale e che, quanto prima, avrebbe dissipato le pene e le apprensioni che avevano assillato la comunità dei Suoi compagni d’esilio ad ‘Akká. La grande Repubblica dell’Occidente era stata prescelta, fra tutti gli altri paesi occidentali, per essere il primo ricettacolo dell’inestimabile benedizione di Dio e diventare il principale vettore per trasmetterla a tante nazioni consorelle nei cinque continenti della terra.
4 L’importanza di uno sviluppo così rilevante nell’evoluzione della Fede di Bahá’u’lláh, l’insediamento della Causa di Bahá’u’lláh nel continente nordamericano, in un momento in cui ‘Abdu’l-Bahá aveva appena iniziato la Sua missione e Si trovava ancora alle prese con la più grave crisi che avesse mai incontrato, non potrà mai essere sopravvalutata. Già nell’anno che aveva visto nascere la Fede a Shíráz, il Báb nel Qayyúmu’l-Asmá’, dopo aver ammonito in un memorabile passo le genti dell’Oriente e dell’Occidente, Si era rivolto direttamente ai «popoli d’Occidente» e aveva significativamente ordinato loro di «uscire» dalle loro «città» per aiutare Dio e di «affratellarsi» nella Sua «unica, indivisibile religione». Lo Stesso Bahá’u’lláh, anticipando questo evento, aveva scritto: «In Oriente è sorta la luce della Sua rivelazione, in Occidente sono apparsi i segni della Sua potenza». «Dovessero tentare di celare la sua luce sulla terra», ha inoltre predetto, «essa leverebbe sicuramente il capo nel cuore dell’oceano e, innalzando la voce, proclamerebbe: “Sono io che do la luce al mondo”». «Se questa Causa fosse stata rivelata in Occidente», Nabíl riferisce nella sua narrazione che Egli abbia detto poco prima della Sua ascensione, «se i Nostri versetti fossero stati inviati dall’Occidente alla Persia e in altri paesi orientali, sarebbe stato evidente come i popoli occidentali avrebbero abbracciato la Nostra Causa. Ma i persiani non l’hanno apprezzata». «Dall’inizio dei tempi fino al giorno presente», testimonia ‘Abdu’l-Bahá, «la luce della Rivelazione Divina, sorta in Oriente, ha diffuso il suo splendore in Occidente e tale luce ha qui acquisito uno straordinario fulgore. Considera la Fede proclamata da Gesù; per quanto apparisse in Oriente, pure finché la sua luce non si diffuse in Occidente non si manifestò la piena misura delle sue potenzialità». «È vicino il giorno», ha affermato, «in cui sarete testimoni come, mercé lo splendore della Fede di Bahá’u’lláh, l’Occidente sostituirà l’Oriente nell’irraggiare la luce della Guida divina». E ancora: «L’Occidente ha ricevuto l’illuminazione dall’Oriente, ma per alcuni versi, è in Occidente che il riflesso di quella luce è stato più intenso». E inoltre: «L’Oriente è stato invero illuminato dalla luce del Regno. Tra breve questa medesima luce irradierà un fulgore ancor maggiore sull’Occidente».
5 Più specificatamente l’Autore della Rivelazione bahá’í ha deciso di conferire ai governanti del continente americano l’impareggiabile onore di rivolgerSi loro collettivamente nel Kitáb-i-Aqdas, il Suo Libro Più Santo, esortandoli significativamente a cingere «le tempie del dominio con l’ornamento della giustizia e del timor di Dio e il suo capo con il diadema del ricordo» del loro Signore e invitandoli a ricongiungere «con le mani della giustizia gli sbandati» e a schiacciare «l’oppressore» con la «verga dei comandamenti» del loro «Signore, l’Ordinatore, il Saggio». «Agli occhi dell’unico vero Dio», scrisse ‘Abdu’l-Bahá, «il continente americano è la terra dove saranno rivelati gli splendori della Sua luce e saranno palesati i misteri della Sua Fede, dove dimoreranno i giusti e si raccoglieranno i liberi». «Il continente americano», ha inoltre predetto, «dà segni e prove di grandissimo progresso. Il suo futuro è ancora più promettente, poiché la sua influenza e la sua luminosità arrivano lontano. Esso guiderà spiritualmente tutte le nazioni».
6 «Il popolo americano», ha rivelato ancor più chiaramente ‘Abdu’l-Bahá scegliendo per il Suo speciale favore la grande Repubblica dell’Occidente, «è invero degno d’essere il primo a edificare il Tabernacolo della Più Grande Pace e a proclamare l’unità del genere umano». E ancora: «Questa nazione americana è ben dotata e capace di compiere ciò che ornerà le pagine della storia, divenendo oggetto d’invidia del mondo e di benedizione sia in Oriente sia in Occidente per i trionfi della sua gente». E inoltre: «Possa questa Democrazia Americana gettare, prima fra le nazioni, le basi dell’accordo internazionale. Possa essa, prima fra le nazioni, proclamare l’unità del genere umano. Possa essere la prima a spiegare il vessillo della Più Grande Pace». «Possano gli abitanti di questo paese», ha ancora scritto, «… distaccarsi dalle presenti conquiste materiali per assurgere a tali altezze che una luce celeste fluisca da questo centro su tutti i popoli del mondo».
7 «O apostoli di Bahá’u’lláh!», così ‘Abdu’l-Bahá Si è rivolto ai credenti del continente nordamericano, «… riflettete quanto elevato e nobile è il rango a voi destinato… La misura del vostro successo non è ancora tutta palese e il suo significato non è ancora compreso». E ancora: «La vostra missione è indicibilmente gloriosa. Se la vostra impresa avrà successo, l’America diverrà sicuramente un luogo da cui emaneranno onde di energia spirituale e il trono del Regno di Dio sarà fermamente insediato nella pienezza della sua maestà e della sua gloria». E per finire questa affermazione esaltante: «Nel momento in cui i credenti americani porteranno questo Messaggio Divino oltre le sponde dell’America e lo propagheranno nei continenti di Europa, Asia, Africa e Australasia, fino alle isole del Pacifico, questa comunità si troverà solidamente insediata sul trono di un dominio imperituro… Allora il mondo intero risonerà delle lodi della sua maestà e grandezza».
8 Non fa meraviglia che, nei cinquant’anni della sua esistenza, una comunità appartenente a una nazione tanto benedetta, una nazione che occupava un posto così importante in un continente così riccamente dotato, sia stata in grado di aggiungere agli annali della Fede di Bahá’u’lláh tante pagine ricche di vittorie. Questa comunità, è opportuno ricordarlo, fin da quando venne portata all’esistenza grazie alle energie creatrici sprigionate dalla proclamazione del Patto di Bahá’u’lláh, fu nutrita nel grembo dell’inesauribile sollecitudine di ‘Abdu’l-Bahá e da Lui addestrata a svolgere la propria incomparabile missione con la rivelazione di innumerevoli Tavole, con le istruzioni da Lui impartite a pellegrini di ritorno in patria, con l’invio di messaggeri speciali, con i Suoi successivi viaggi nel continente nordamericano, con il risalto da Lui dato all’istituzione del Patto e infine con il Suo mandato incorporato nelle Tavole del Piano Divino. Questa comunità ha incessantemente lavorato, dalla primissima infanzia fino ad oggi, per piantare la bandiera di Bahá’u’lláh nella maggior parte dei sessanta paesi che, in Oriente e in Occidente, possono ora vantare l’onore d’essere inclusi nell’ambito della Sua Fede, ed è riuscita a farlo con i suoi soli sforzi. A questa comunità va il merito d’aver sviluppato il modello delle istituzioni amministrative che precorrono l’avvento dell’Ordine Mondiale di Bahá’u’lláh e d’essere stata la prima a erigerne la struttura. Grazie agli sforzi dei suoi membri nel cuore del continente nordamericano è stato eretto il Tempio madre dell’Occidente, Precursore di quell’Ordine, una delle più nobili istituzioni ordinate nel Kitáb-i-Aqdas, il più maestoso edificio eretto nell’intero mondo bahá’í. Grazie all’assiduo impegno dei suoi pionieri, dei suoi insegnanti e dei suoi amministratori la letteratura della Fede è stata enormemente diffusa, i suoi scopi e propositi sono stati intrepidamente difesi e le sue nascenti istituzioni sono state solidamente stabilite. Grazie agli instancabili sforzi compiuti senza alcun aiuto dalla sua più illustre insegnante viaggiante la spontanea obbedienza di un monarca alla Fede di Bahá’u’lláh è stata assicurata e inequivocabilmente proclamata in numerose attestazioni trasmesse ai posteri dalla penna della regale convertita. E infine, ai membri di questa comunità, discendenti spirituali degli araldi dell’aurora dell’Età eroica della Dispensazione bahá’í, va ascritto l’eterno onore d’essersi, in numerose occasioni, dedicati con alacrità, zelo e determinazione a difendere la causa degli oppressi, a soccorrere i bisognosi e a tutelare gli interessi degli edifici e delle istituzioni erette dai loro confratelli in terre come la Persia, la Russia, l’Egitto, l’Iraq e la Germania, paesi dove gli aderenti alla Fede hanno dovuto, in varia misura, sopportare i rigori delle persecuzioni razziali e religiose.
9 Strano davvero che in un paese investito di una funzione così straordinaria tra le nazioni occidentali sue consorelle, il primo riferimento pubblico all’Autore di una Fede così gloriosa sia stato fatto per bocca di un membro di quello stesso ordine ecclesiastico con il quale la Fede aveva dovuto scontrarsi così a lungo e dal quale sovente aveva sofferto. Ancor più strano che colui che per primo l’aveva introdotta a Chicago, cinquant’anni dopo la dichiarazione della Missione del Báb a Shíráz, dovesse, pochi anni più tardi, abbandonare il vessillo che aveva piantato tutto solo in quella città.
10 Il 23 settembre 1893, poco più di un anno dopo l’ascensione di Bahá’u’lláh, in un documento scritto dal reverendo Henry H. Jessup, dottore in teologia, direttore dell’Opera missionaria presbiteriana della Siria settentrionale, e letto dal reverendo George A. Ford della Siria al Parlamento mondiale delle religioni tenutosi a Chicago in concomitanza con l’Esposizione colombiana che commemorava il quarto centenario della scoperta dell’America, fu annunciato che era recentemente deceduto ad ‘Akká «un famoso saggio persiano», «il Santo Bábí» e che due anni prima della Sua ascensione Gli aveva fatto visita «uno studioso di Cambridge», al quale Egli aveva espresso «sentimenti così nobili, così simili a quelli di Cristo» che l’autore del documento voleva condividerli con gli ascoltatori nelle sue «parole conclusive». Meno di un anno dopo, nel febbraio 1894, un medico siriano di nome Ibráhím Khayru’lláh, che mentre risiedeva al Cairo era stato convertito alla Fede da Hájí ‘Abdu’l-Karím-i-Tihrání, che aveva ricevuto una Tavola da Bahá’u’lláh, che era stato in corrispondenza con ‘Abdu’l-Bahá e che era arrivato a New York nel dicembre del 1892, prese residenza a Chicago e incominciò a insegnare attivamente e sistematicamente la Causa che aveva abbracciato. In due anni aveva già comunicato le sue impressioni ad ‘Abdu’l-Bahá e Lo aveva informato del notevole successo che aveva coronato i suoi sforzi. Nel 1895 gli fu offerta un’opportunità a Kenosha, che egli continuò a visitare una volta la settimana durante le sue attività d’insegnamento. L’anno successivo i credenti delle due città, fu riferito, erano centinaia. Nel 1897 pubblicò un libro, intitolato Bábu’d-Dín, e visitò Kansas City, New York, Ithaca e Filadelfia, dove riuscì a conquistare alla Fede un considerevole numero di sostenitori. Fra coloro che in quei primi anni si ridestarono all’appello del Nuovo Giorno e consacrarono la vita al servizio del Patto recentemente proclamato, primeggiano l’intrepido Thornton Chase, soprannominato Thábit (Saldo) da ‘Abdu’l-Bahá Che lo indicò come «il primo credente americano», convertito alla Fede nel 1894, l’immortale Luisa A. Moore, proto-insegnante dello Occidente, che ‘Abdu’l-Bahá soprannominò Livá (Vessillo), il dottor Edward Getsinger, col quale ella poi si sposò, Howard McNutt, Arthur P. Dodge, Isabella D. Brittingham, Lilian F. Kappes, Paul K. Dealy, Chester I. Thatcher ed Helen S. Goodal, nomi che resteranno per sempre associati ai primi passi della Fede di Bahá’u’lláh nel continente nordamericano.
11 Nel 1898 la signora Phoebe Hearst, nota filantropa (moglie del senatore George F. Hearst) che la signora Getsinger aveva attratta alla Fede durante una visita in California, aveva espresso l’intenzione di visitare ‘Abdu’l-Bahá in Terra Santa, aveva invitato alcuni credenti, fra cui il dottore e la signora Getsinger, il dottor Khayru’lláh e la moglie, e aveva espletato i preparativi necessari per lo storico pellegrinaggio ad ‘Akká. A Parigi alcuni americani ivi residenti, fra i quali May Ellis Bolles convertita alla Fede dalla signora Getsinger, la signorina Pearson e Ann Apperson, entrambe nipoti della signora Hearst, la signora Thornburgh e la figlia, s’aggiunsero al gruppo che crebbe ulteriormente in Egitto per l’aggiunta delle figlie del dottor Khayru’lláh e della loro nonna da lui recentemente convertita.
12 L’arrivo di quindici pellegrini, in tre gruppi successivi, il primo dei quali col dottore e la signora Getsinger giunse nella città prigione di ‘Akká il 10 dicembre 1898, l’intimo rapporto personale che si instaurò fra il Centro del Patto di Bahá’u’lláh e i nuovi araldi della Sua Rivelazione in Occidente, le commoventi circostanze della loro visita alla Sua Tomba e il grande onore che fu loro concesso d’essere accompagnati nella stanza più interna da ‘Abdu’l-Bahá in persona, lo spirito che, con il precetto e con l’esempio, l’amorevole e generoso Ospite riuscì a infondere possentemente in loro malgrado la brevità della visita, l’appassionato zelo e l’incrollabile determinazione che le Sue ispirate esortazioni, le Sue illuminanti istruzioni e le molteplici prove del Suo divino amore accesero nei loro cuori, tutto ciò segnò l’inizio di una nuova epoca nello sviluppo della Fede in Occidente, un’epoca la cui importanza gli atti successivamente compiuti da questi stessi pellegrini e dai loro condiscepoli hanno ampiamente dimostrato.
13 «Di quel primo incontro», ha scritto una pellegrina trascrivendo le sue impressioni, «non riesco a ricordare né sensazioni di gioia né di dolore, nulla cui possa dare un nome. Mi sentivo d’un tratto innalzata ad una grande altezza; la mia anima era venuta in contatto con lo Spirito Divino ed era sopraffatta da questa forza, così pura, santa e possente… Non riuscivamo più a discostare gli occhi dal Suo viso glorioso; udimmo ciò che disse, su Suo invito bevemmo il tè con Lui, ma l’esistenza pareva interrotta, e quando Egli Si alzò e d’un tratto ci lasciò tornammo d’un balzo alla vita – ma mai più, oh grazie a Dio!, mai più alla stessa vita su questa terra». «Nella potenza e nella maestosità della Sua presenza», ha attestato la medesima pellegrina ricordando l’ultimo colloquio concesso al gruppo di cui faceva parte, «i nostri timori si trasformavano in fede perfetta, la nostra debolezza in forza, il nostro dolore in speranza e noi eravamo immersi nel nostro amore per Lui. Quando ci sedemmo davanti a Lui in attesa di udire le Sue parole, alcuni credenti cominciarono a piangere. Egli chiese loro di non piangere, ma per un po’ non ci riuscirono. Di nuovo, chiese loro di non piangere per amor Suo, poiché non ci avrebbe parlato né insegnato nulla fino a che ogni lacrima non si fosse asciugata…».
14 …«Quei tre giorni furono i più memorabili della mia vita…», ha scritto la signora Hearst in una lettera. «Non tenterò di descrive il Maestro: voglio solo dire che credo con tutto il cuore che Egli è il Maestro e che la più grande benedizione che ho ricevuto in questo mondo è l’aver avuto il privilegio d’essere alla Sua presenza e di guardare il Suo santo viso… Senza dubbio ‘Abbás Effendi è il Messia di questo giorno e di questa generazione e non dobbiamo cercarne altri». «Devo dire», ha scritto in un’altra lettera, «che Egli è l’Essere più meraviglioso ch’io abbia mai incontrato o mi aspetti di incontrare in questo mondo… L’atmosfera spirituale che Lo circonda e che influenza potentemente tutti coloro che hanno la benedizione di starGli vicino è indescrivibile… Credo in Lui con tutto il cuore e con tutta l’anima e spero che tutti coloro che si proclamano credenti Gli riconoscano tutta la grandezza, tutta la gloria e tutta la lode, perché sicuramente Egli è il Figlio di Dio e lo Spirito del Padre dimora in Lui».
15 Anche il maggiordomo della signora Hearst, il negro Robert Turner, il primo esponente della sua razza che abbia abbracciato la Causa di Bahá’u’lláh in Occidente, era stato rapito dall’influenza esercitata da ‘Abdu’l-Bahá durante quello storico pellegrinaggio. Tale fu la tenacia della sua fede che neanche il successivo allontanamento della sua cara padrona dalla Causa da lei spontaneamente abbracciata riuscì a oscurarne la radiosità o a ridurre l’intensità delle emozioni che l’amorevole benevolenza di cui ‘Abdu’l-Bahá l’aveva circondato aveva suscitato nel suo petto.
16 Il ritorno di questi pellegrini ebbri di Dio, alcuni in Francia, altri negli Stati Uniti, segnò un’esplosione di attività sistematiche e prolungate che, acquistando impeto e ramificandosi in Europa occidentale e negli stati e nelle province del continente nordamericano, assurse a tali proporzioni che ‘Abdu’l-Bahá decise che, appena fosse stato liberato dal Suo prolungato confino acritano, avrebbe compiuto una missione personale in Occidente. Persistente nel suo cammino malgrado la devastante crisi scatenata dall’ambizione del dottor Khayru’lláh ritornato dalla Terra Santa (dicembre 1899), indifferente all’agitazione da lui provocata agendo in collaborazione con l’arciviolatore del Patto e i suoi emissari, incurante degli attacchi sferrati da lui e dai suoi compagni dissidenti, nonché da ecclesiastici cristiani sempre più gelosi del sorgente potere e della crescente influenza della Fede, nutrita da un continuo flusso di pellegrini che trasmettevano i messaggi verbali e le istruzioni speciali di un vigile Maestro, rinvigorita dalle effusioni della Sua penna registrate in innumerevoli Tavole, istruita dai messaggeri e dagli insegnanti inviati l’uno dopo l’altro per Suo ordine a guidarla, edificarla e consolidarla, la comunità dei credenti americani si lanciò in una serie di imprese che, benedette e stimolate dieci anni dopo dallo Stesso ‘Abdu’l-Bahá, dovevano essere solo il preludio degli incomparabili servizi che i suoi membri erano destinati a svolgere nell’Età formativa della Dispensazione di Suo Padre.
17 Appena ritornata a Parigi, uno di questi pellegrini, la già menzionata May Bolles, attenendosi alle precise istruzioni di ‘Abdu’l-Bahá, riuscì ad aprire nella città il primo centro bahá’í del continente europeo. Poco dopo il suo arrivo, questo centro fu rafforzato dalla conversione dell’illuminato Thomas Breakwell, il primo credente inglese, immortalato dal fervente elogio che ‘Abdu’l-Bahá rivelò in sua memoria, di Hippolyte Dreyfus, il primo francese ad abbracciare la fede, il quale con scritti, traduzioni, viaggi e altri servigi pionieristici, col passar degli anni, riuscì a consolidare il lavoro iniziato nel suo paese, e di Laura Barney, che rese l’imperituro servizio di raccogliere e trasmettere ai posteri, in un libro intitolato «Le Lezioni di San Giovanni d’Acri», le preziose spiegazioni di una grande varietà di argomenti che ‘Abdu’l-Bahá le aveva dato durante un suo prolungato pellegrinaggio in Terra Santa. Tre anni dopo, nel 1902, May Bolles, ora sposata a un canadese, si trasferì a Montreal e riuscì a porre le fondamenta della Causa in quel dominion.
18 A Londra la signora Thornburgh-Cropper, per effetto delle influenze creative sprigionate da quell’indimenticabile pellegrinaggio, poté iniziare attività che, stimolate e ampliate grazie agli sforzi dei primi credenti inglesi e particolarmente di Ethel J. Rosenberg convertitasi nel 1899, li misero in grado di erigere negli anni successivi la struttura delle istituzioni amministrative nelle Isole britanniche. Nel continente nordamericano, la defezione e le pubblicazioni accusatorie del dottor di Khayru’lláh (incoraggiato da Mirza Muhammad-‘Alí e dal figlio Shu‘á‘u’lláh che quest’ultimo aveva spedito in America) sottoposero la lealtà della neonata comunità a una gravosissima prova; ma i messaggeri inviati l’uno dopo l’altro da ‘Abdu’l-Bahá (come Hájí ‘Abdu’l-Karím-i-Tihrání, Hají Mirza Hasan-i-Khurásání, Mirza Asadu’lláh e Mirza Abu’l-Fadl) riuscirono rapidamente a dissipare i dubbi, ad approfondire la comprensione dei credenti, a tenere insieme la comunità e a formare il nucleo di quelle istituzioni amministrative che, due decenni dopo, sarebbero state formalmente inaugurate grazie alle esplicite disposizioni del Testamento di ‘Abdu’l-Bahá. Già nel 1899, fu istituito nella città di Kenosha un consiglio di sette membri, precursore di una serie di Assemblee che, entro la fine del primo secolo bahá’í, dovevano coprire il continente nordamericano da costa a costa. Nel 1902 fu fondata a Chicago una Società editrice bahá’í, incaricata di propagare la letteratura della comunità in graduale espansione. A New York fu inaugurato un Bollettino bahá’í allo scopo di diffondere gli insegnamenti della Fede. Successivamente comparve a Chicago un altro periodico, il «Bahá’í News» che ben presto si sviluppò in una rivista dal titolo «Star of the West [Stella dell’Occidente]». Fu risolutamente intrapresa la traduzione di alcuni dei più importanti scritti di Bahá’u’lláh, come «Le Parole Celate», il «Libro della Certezza», le «Tavole ai Re» e «Le Sette Valli», assieme alle Tavole di ‘Abdu’l-Bahá e numerosi trattati e opuscoli scritti da Mirza Abu’l-Fadl e altri. Fu avviata una nutrita corrispondenza con vari centri in Oriente che crebbe costantemente di dimensioni e importanza. Furono anche pubblicati e ampiamente diffusi brevi storie della Fede, libri e opuscoli scritti in sua difesa, articoli per la stampa, resoconti di viaggi e pellegrinaggi, elogi e poemi.
19 Nello stesso tempo, viaggiatori e insegnanti, uscendo trionfalmente dalle tempeste di prove e tribolazioni che avevano minacciato di inghiottire la loro amata Causa, si dedicarono di loro iniziativa a rafforzare e moltiplicare le piazzeforti della Fede già fondate. Furono aperti centri nelle città di Washington, Boston, San Francisco, Los Angeles, Cleveland, Baltimora, Minneapolis, Buffalo, Rochester, Pittsburg, Seattle, St. Paul e altre. Audaci pionieri, visitatori o residenti, impazienti di diffondere il nuovo Vangelo oltre i confini della loro terra natale, intrapresero viaggi e si lanciarono in imprese che portarono la sua luce nel cuore dell’Europa, in Estremo Oriente e perfino nelle isole del Pacifico. Mason Remey si recò in Russia e in Persia e poi, con Howard Struven, fece per la prima volta nella storia bahá’í il giro del mondo visitando le isole Hawaii, il Giappone, la Cina, l’India e la Birmania. Hooper Harris e Harlan Ober fecero un viaggio di sette mesi in India e nella Birmania visitando Bombay, Poona, Lahore, Calcutta, Rangoon e Mandalay. Alma Knobloch, seguendo le orme del dottor K. E. Fisher, levò lo stendardo della Fede in Germania e portò la sua luce in Austria. La dottoressa Susan I. Moody, Sydney Sprague, Lilian F. Kappes, la dottoressa Sarah Clock ed Elisabeth Stewart si trasferirono a Teheran per sostenere i moltissimi interessi della Fede in collaborazione con i bahá’í della città. Sarah Farmer che già nel 1894 a Green Acre nel Maine aveva incominciato a tenere convegni estivi e vi aveva stabilito un centro per la promozione dell’unità e della fratellanza fra le razze e le religioni, dopo il suo pellegrinaggio ad ‘Akká nel 1900, mise a disposizione dei seguaci della Fede che aveva recentemente abbracciato le agevolazioni che questi convegni fornivano.
20 E ultima cosa, ma non meno importante, i bahá’í di Chicago, ispirati dall’esempio dei loro correligionari di ‘Ishqábád che avevano già incominciato a costruire il primo Mashriqu’l-Adhkár del mondo bahá’í e infiammati dal desiderio di dimostrare tangibilmente e degnamente la loro fede e la loro devozione, dopo aver chiesto ad ‘Abdu’l-Bahá il permesso d’erigere un Tempio e aver ottenuto la Sua pronta ed entusiastica approvazione in una Tavola rivelata nel giugno del 1903, si lanciarono, malgrado l’esiguità del numero e delle risorse, in un’impresa che dev’essere considerata la più grande offerta singola che i bahá’í d’America e, in verità di tutto l’Occidente, abbiano finora offerto alla Causa di Bahá’u’lláh. L’ulteriore incoraggiamento di ‘Abdu’l-Bahá e i contributi raccolti da altre Assemblee indussero i membri di questa Assemblea a invitare i rappresentanti dei loro correligionari di varie parti del paese a incontrarsi a Chicago per l’inizio della colossale impresa che avevano concepito. Il 26 novembre 1907 i rappresentanti riuniti appositamente convenuti nominarono un comitato di nove persone per scegliere un luogo adatto per il progettato Tempio. Il 9 aprile 1908 era già stata pagata la somma di duemila dollari per l’acquisto di due lotti di terreno situati sulle rive del lago Michigan. Nel Mirza 1909, in base alle istruzioni ricevute da ‘Abdu’l-Bahá, fu convocata una convenzione in rappresentanza di vari centri bahá’í. I trentanove delegati, rappresentanti trentasei città, riunitisi a Chicago lo stesso giorno in cui ‘Abdu’l-Bahá tumulava le spoglie del Báb nel Mausoleo appositamente eretto sul monte Carmelo, fondarono un organismo nazionale permanente conosciuto come Unità del Tempio bahá’í, che fu legalmente riconosciuto come corporazione religiosa, funzionante sotto le leggi dello Stato dell’Illinois, investita della piena autorità di essere intestataria della proprietà del Tempio e di provvedere a modi e mezzi per la sua costruzione. Durante quella convenzione fu elaborata una costituzione, fu eletto un Esecutivo dell’Unità del Tempio bahá’í che i delegati autorizzarono a perfezionare l’acquisto del terreno raccomandato dalla Convenzione precedente. I contributi per questa storica impresa, pervenuti dall’India, dalla Persia, dalla Turchia, dalla Siria, dalla Palestina, dalla Russia, dall’Egitto, dalla Germania, dalla Francia, dall’Inghilterra, dal Canada, dal Messico, dalle isole Hawaii e perfino dalle isole Mauritius e da almeno sessanta città americane, ammontavano nel 1910, due anni prima dell’arrivo di ‘Abdu’l-Bahá in America, a oltre ventimila dollari, straordinaria testimonianza della solidarietà dei seguaci di Bahá’u’lláh in Oriente e in Occidente, dei sacrifici personali compiuti dai credenti americani i quali, man mano che il lavoro progrediva, s’assunsero una parte preponderante nel provvedere alla somma di oltre un milione di dollari necessaria per l’erezione delle strutture del Tempio e per le decorazioni esterne.
CAPITOLO XVII1 Gli straordinari successi della coraggiosa, duramente provata comunità, i primi frutti nel mondo occidentale del Patto di Bahá’u’lláh recentemente stabilito, avevano posto fondamenta abbastanza imponenti da invitare la presenza del Centro di quel Patto, Colui Che aveva chiamato all’esistenza quella Comunità e Che ne aveva seguito con infinita cura e preveggenza lo sbocciante destino. Ma finché non fu uscito dalla grave crisi con cui era alla prese da parecchi anni, ‘Abdu’l-Bahá non poté intraprendere il memorabile viaggio verso le sponde del continente nel quale l’ascesa e l’insediamento della Fede di Suo Padre erano stati contraddistinti da tanti magnifici e durevoli successi.
2 Questa seconda importante crisi del Suo ministero, di natura esterna e quasi altrettanto grave quanto quella ch’era stata provocata dalla ribellione di Mirza Muhammad-‘Alí, mise in grave pericolo la Sua vita, per qualche anno Lo privò della relativa libertà di cui aveva goduto, gettò nell’angoscia la Sua famiglia e i seguaci della Fede in Oriente e in Occidente e, come mai prima, smascherò la degradazione e l’infamia dei Suoi implacabili avversari. Ebbe inizio due anni dopo la partenza dei primi pellegrini americani dalla Terra Santa. Durò con alterne fasi di intensità per oltre sette anni e fu dovuta direttamente agli incessanti intrighi e alle mostruose menzogne dell’arciviolatore del Patto di Bahá’u’lláh e dei suoi sostenitori.
3 Inasprito dal miserevole fallimento dei suoi tentativi di creare uno scisma nel quale aveva scioccamente riposte le sue speranze, pungolato dai cospicui successi che gli alfieri del Patto, malgrado le sue macchinazioni, avevano ottenuto nel continente nordamericano, incoraggiato dall’esistenza di un regime che prosperava in un’atmosfera di intrigo e di sospetto e presieduto da un sovrano astuto e crudele, determinato a sfruttare pienamente le opportunità di manovra offertegli dall’arrivo di pellegrini occidentali nella fortezza di ‘Akká e dall’inizio della costruzione del sepolcro del Báb sul monte Carmelo, Mirza Muhammad-‘Alí, assecondato dal fratello Mirza Badí‘u’lláh e aiutato dal cognato Mirza Majdi’d-Dín, riuscì con grandi e insistenti sforzi a suscitare i sospetti del governo turco e dei suoi funzionari e a indurli a reimporre ad ‘Abdu’l-Bahá la segregazione della quale, nei giorni di Bahá’u’lláh, Egli aveva così deplorevolmente sofferto.
4 Questo medesimo fratello, il principale complice di Mirza Muhammad-‘Alí, in una sua confessione scritta, firmata, sigillata e pubblicata in occasione della sua riconciliazione con ‘Abdu’l-Bahá, ha testimoniato dei malvagi complotti che erano stati tramati. «Quello che ho sentito da altri», scrisse Mirza Badí‘u’lláh, «lo ignorerò. Racconterò soltanto ciò che ho visto con i miei occhi e udito dalle sue (di Mirza Muhammad-‘Alí) labbra». «Egli (Mirza Muhammad-‘Alí) aveva predisposto», continua poi a raccontare, «d’inviare Mirza Majdi’d-Dín con un dono e una lettera scritta in persiano a Nazim Pashá, válí (governatore) di Damasco, per chiedergli aiuto… Come egli stesso (Mirza Majdi’d-Dín) mi disse ad Haifa, fece tutto il possibile per informarlo (il governatore) dei lavori di costruzione sul monte Carmelo, del viavai dei credenti americani e delle riunioni che si tenevano ad `Akká. Il Páshá, che desiderava conoscere tutti i fatti, fu estremamente gentile con lui e gli promise il suo aiuto. Pochi giorni dopo il ritorno di Mirza Majdi’d-Dín, giunse dalla Sublime Porta un telegramma cifrato in cui si trasmetteva l’ordine del Sultano di incarcerare ‘Abdu’l-Bahá, me e gli altri». «In quei giorni», scrive inoltre nello stesso documento, «un tale che venne ad ‘Akká da Damasco dichiarò a estranei che la causa della carcerazione di ‘Abbás Effendi era stato Nazim Páshá. La cosa più strana è che, dopo essere stato imprigionato, Mirza Muhammád-‘Alí scrisse a Nazim Páshá una lettera per ottenere di essere liberato… Ma il Páshá non inviò neanche una parola di risposta né alla prima né alla seconda lettera».
5 Nel 1901, il quinto giorno del mese di jamádíyu’l-avval 1319 dell’Egira (20 agosto), ‘Abdu’l-Bahá, di ritorno da Bahjí dove aveva partecipato alla celebrazione dell’anniversario della Dichiarazione del Báb, fu informato, nel corso di un incontro col governatore di ‘Akká, delle istruzioni del sultano ‘Abdu’l-Hamíd che ordinava che le restrizioni che erano andate gradualmente allentandosi fossero reintegrate e Lui e i Suoi fratelli fossero tenuti rigorosamente confinati entro le mura della città. In principio l’editto del Sultano fu applicato rigidamente, la libertà della comunità esiliata fu drasticamente decurtata e ‘Abdu’l-Bahá, solo e senza aiuto, dovette sottostare al prolungato interrogatorio di giudici e funzionari che, per procedere nelle indagini, richiesero la Sua presenza per parecchi giorni consecutivi al quartier generale del governo. Fra le prime cose che fece, Egli intercedette a favore dei Suoi fratelli, perentoriamente convocati e informati dal governatore degli ordini del Sovrano, un gesto che non mitigò la loro ostilità né ridusse le loro malevole attività. In seguito, con un Suo intervento presso le autorità civili e militari, ‘Abdu’l-Bahá riuscì a ottenere la libertà dei Suoi seguaci residenti ad ‘Akká e a metterli in grado di continuare a guadagnarsi da vivere senza intromissioni.
6 I violatori del Patto non furono soddisfatti delle misure prese dalle autorità contro Colui Che con tanta magnanimità era intervenuto in loro favore. Aiutati dal famigerato Yahyá Bey, capo della polizia, e da altri funzionari civili e militari che per effetto delle loro rimostranze avevano sostituito coloro che erano stati amici di ‘Abdu’l-Bahá e da agenti segreti che facevano la spola fra ‘Akká e Costantinopoli e tenevano sotto controllo persino ciò che avveniva nella Sua casa, essi si adoperarono per ottenere la Sua rovina. Elargirono ai funzionari doni che comprendevano proprietà sacre alla memoria di Bahá’u’lláh e offrirono spudoratamente a personaggi di basso o di alto rango regalie ottenute talvolta con la vendita di proprietà associate alla Sua memoria o donate ad alcuni di loro da ‘Abdu’l-Bahá. Senza recedere d’un passo nei loro sforzi proseguirono implacabili nelle loro nefande attività, decisi a non lasciare nulla d’intentato fino a che non fossero riusciti a farLo condannare a morte o deportare in un luogo tanto lontano da permettere loro di strapparGli la Causa dalle mani. Il Válí di Damasco, il Muftì di Beirut, membri delle missioni protestanti in Siria e ad ‘Akká, perfino l’influente Shaykhh Abu’l-Hudá di Costantinopoli che il Sultano stimava tanto profondamente quanto Muhammad Sháh aveva stimato il suo gran visir, Hájí Mirza Áqásí, furono, in varie occasioni, avvicinati, supplicati e sollecitati ad assicurare il loro aiuto per la prosecuzione di quegli odiosi disegni.
7 Con messaggi verbali, formali comunicazioni e colloqui personali i violatori del Patto convinsero questi notabili che si imponeva un’azione immediata, adattando astutamente le argomentazioni ai particolari interessi e pregiudizi di coloro di cui sollecitavano l’aiuto. Ad alcuni presentarono ‘Abdu’l-Bahá come un insensibile usurpatore Che aveva calpestato i loro diritti, li aveva derubati dell’eredità, ridotti in miseria, Che aveva tramutato in nemici i loro amici in Persia, accumulato una grossa fortuna e acquistato oltre i due terzi dei terreni di Haifa. Ad altri dichiararono che ‘Abdu’l-Bahá pensava di fare di ‘Akká e Haifa una nuova Mecca e Medina. Con altri ancora affermarono che Bahá’u’lláh non era altri che un solitario derviscio che professava e promuoveva la Fede dell’Islam, ma il figlio, ‘Abbas Effendi, per vanteria, Lo aveva esaltato al rango di divinità, proclamando Se Stesso Figlio di Dio e ritorno di Gesù Cristo. Lo accusarono inoltre di avere segreti progetti dannosi agli interessi dello Stato, di meditare una ribellione contro il Sultano, di aver già innalzato la bandiera di Yá Bahá’u’l-Abhá, insegna della rivolta, in remoti villaggi della Palestina e della Siria, di aver nascostamente raccolto un esercito di trentamila uomini, di esserSi impegnato nella costruzione di una fortezza e di un grosso deposito di munizioni sul monte Carmelo, di essersi assicurato l’appoggio morale e materiale d’una schiera d’amici inglesi e americani, fra i quali vi erano ufficiali di potenze straniere che venivano in gran numero e in incognito a porgerGli omaggio e di aver, con loro, già preparato i piani per soggiogare le province vicine, espellerne le autorità di governo e infine impadronirSi anche del potere del Sultano. Mistificando e corrompendo riuscirono a indurre certe persone a sottoscrivere quali testimoni i documenti che avevano preparato e che spedirono, tramite i loro agenti, alla Sublime Porta.
8 Accuse così gravi, contenute in numerosi rapporti, non potevano non sconvolgere profondamente la mente di un despota già ossessionato dal timore di un’imminente ribellione fra i suoi sudditi. Fu pertanto nominata una commissione che indagasse sulla questione e riferisse i risultati delle indagini. ‘Abdu’l-Bahá, convocato in tribunale, in parecchie occasioni, confutò circostanziatamente e coraggiosamente ciascuna delle accuse che Gli erano state mosse. Evidenziò l’assurdità delle accuse, per sostenere i Suoi argomenti mise i membri della Commissione al corrente delle clausole del Testamento di Bahá’u’lláh, dichiarò la Propria disponibilità a sottometterSi a qualunque sentenza la corte decidesse d’imporGli e affermò con eloquenza che, anche se L’avessero incatenato, trascinato per le strade, esecrato e beffeggiato, se pur l’avessero colpito con pietre e sputi, appeso nella pubblica piazza e crivellato di pallottole, Egli avrebbe considerato tutto questo un grande onore, perché in quel modo avrebbe seguito le orme e condiviso le sofferenze del Suo amato Capo, il Báb.
9 La gravità della situazione nella quale ‘Abdu’l-Bahá Si trovava, le dicerie che venivano messe in giro dalla popolazione che prevedeva i più gravi sviluppi, gli accenni e le allusioni ai pericoli che Lo minacciavano contenuti nei giornali pubblicati in Egitto e Siria, l’atteggiamento aggressivo che i Suoi nemici andavano sempre più assumendo, il comportamento provocatorio di alcuni degli abitanti di ‘Akká e Haifa, imbaldanziti dalle predizioni e dalle invenzioni di quei nemici sul destino che attendeva la comunità sospettata e il suo Capo indussero ‘Abdu’l-Bahá a ridurre il numero dei pellegrini fino a sospendere, per qualche tempo, le loro visite, a dare speciali istruzioni perché la posta fosse gestita attraverso un agente in Egitto invece che ad Haifa e per un certo tempo dispose che vi fosse trattenuta in attesa di ulteriori istruzioni. Ordinò inoltre ai credenti e ai segretari di raccogliere e portare al sicuro tutti gli scritti bahá’í in loro possesso e, sollecitandoli a trasferirsi in Egitto, giunse perfino a proibire che si riunissero, com’erano soliti fare, nella Sua casa. Nei giorni più burrascosi di questo periodo perfino i Suoi numerosi amici e ammiratori evitarono di farGli visita temendo d’essere implicati o d’incorrere nei sospetti delle autorità. Certi giorni e certe notti, quando le previsioni erano più oscure, la casa in cui viveva e che per molti anni era stata un centro di attività restò completamente deserta. Le spie appostate attorno ad essa la tenevano segretamente e apertamente sotto sorveglianza, osservando ogni Sua mossa e limitando la libertà della Sua famiglia.
10 Ma Egli Si rifiutò di sospendere o d’interrompere, sia pur per breve tempo, la costruzione del sepolcro del Báb, la cui prima pietra aveva posto nel luogo benedetto e scelto da Bahá’u’lláh. E non permise che nessun ostacolo, per quanto grande, interferisse con il giornaliero flusso di Tavole che con prodigiosa rapidità e in crescente volume fluivano dalla Sua infaticabile penna in risposta al gran numero di lettere, rapporti, richieste, preghiere, professioni di fede, apologie ed elogi che riceveva da innumerevoli seguaci e ammiratori in Oriente e in Occidente. Testimoni oculari hanno dichiarato di sapere che in quell’agitato e pericoloso periodo della Sua vita Egli aveva scritto di Suo pugno oltre novanta Tavole in un solo giorno e che aveva trascorso molte notti, dall’imbrunire all’alba, da solo nella Sua stanza da letto impegnato in una corrispondenza che l’urgenza delle molteplici responsabilità Gli aveva impedito di sbrigare durante il giorno.
11 Fu in quei tempi travagliati, il periodo più drammatico del Suo ministero, che Egli, nel fiore della vita e nel pieno delle forze, con inesauribile energia, meravigliosa serenità e incrollabile fiducia incominciò e irresistibilmente proseguì le varie imprese associate al Suo ministero. Fu in quei momenti che concepì il progetto del primo Mashriqu’l-Adhkár del mondo bahá’í e che i Suoi seguaci della città di ‘Ishqábád nel Turchestan ne intrapresero la costruzione. Fu in quei momenti che, malgrado i disordini che agitavano il Suo paese natale, Egli dette istruzioni per il restauro della santa e storica Casa del Báb a Shíráz. Fu in quei momenti che, soprattutto grazie al Suo costante incoraggiamento, furono intraprese le misure iniziali che prepararono la via alla posa della prima pietra del Tempio madre dell’Occidente sulle sponde del lago Michigan, cosa che dopo qualche anno Egli fece con le Sue stesse mani durante una visita sul luogo. Fu in questa congiuntura che venne allestita la famosa compilazione di conversazioni alla Sua mensa, pubblicata col titolo «Le lezioni di San Giovanni d’Acri», conversazioni che si svolsero durante il breve intervallo di tempo ch’era in grado di risparmiare, nel corso delle quali furono illustrati alcuni aspetti fondamentali della Fede di Suo Padre, furono addotte prove tradizionali e razionali della sua validità e fu autorevolmente spiegata una grande varietà di argomenti riguardanti la Dispensazione cristiana, i Profeti di Dio, le profezie bibliche, l’origine e la condizione dell’uomo e altri temi similari.
12 Fu durante le ore più nere di quel periodo, che, in una comunicazione indirizzata al cugino del Báb, il venerabile Hájí Mirza Muhammad-Táqi, il principale artefice del Tempio di ‘Ishqábád, ‘Abdu’l-Bahá proclamò in termini entusiasmanti l’incommensurabile grandezza della Rivelazione di Bahá’u’lláh, proferì gli ammonimenti che presagivano lo scompiglio che i suoi nemici, vicini e lontani, avrebbero suscitato nel mondo e, con linguaggio commovente, profetizzò l’influenza che i tedofori del Patto avrebbero alla fine conseguito su di loro. Fu in un’ora di grande incertezza nello stesso periodo, che scrisse le Sue Ultime Volontà e Testamento, l’immortale Documento in cui delineò le caratteristiche dell’Ordine Amministrativo che sarebbe sorto dopo il Suo trapasso e avrebbe preceduto l’instaurazione di quell’Ordine Mondiale di cui il Báb aveva annunciato l’avvento e Bahá’u’lláh aveva già formulato le leggi e i principi. E fu nel corso di questi tumultuosi anni che, con l’aiuto degli araldi e dei campioni del Patto fermamente istituito, costruì le istituzioni amministrative, spirituali ed educative embrionali di quella Fede in continua espansione in Persia, culla di quella Fede, nella grande Repubblica dell’Occidente, culla dell’Ordine Amministrativo, nel dominion del Canada, in Francia, Inghilterra, Germania, Egitto, Iraq, Russia, India Birmania, Giappone e persino nelle remote isole del Pacifico. Fu durante questi tumultuosi tempi che dette un enorme impulso alla traduzione, alla pubblicazione e alla diffusione della letteratura bahá’í, la cui gamma includeva ora una grande varietà di libri e trattati, scritti in persiano, arabo, inglese, turco, francese, tedesco, russo e birmano. In quei giorni alla Sua mensa, se c’era una tregua nella tempesta che infuriava attorno a Lui, si riunivano pellegrini, amici e ricercatori provenienti dai paesi anzidetti, rappresentanti delle fedi cristiana, musulmana, ebraica, zoroastriana, indù e buddhista. Ai bisognosi che assediavano le Sue porte e gremivano il cortile della Sua casa ogni venerdì mattina, malgrado i pericoli che Lo circondavano, distribuiva l’elemosina con le Sue stesse mani, con una regolarità e generosità che Gli valsero il titolo di «Padre dei poveri». Nulla in quei tempestosi giorni riuscì a scuotere la Sua fiducia, a niente fu permesso d’interferire con le Sue donazioni ai miseri, agli orfani, agli ammalati e agli oppressi, niente poté impedirGli d’andare personalmente a visitare gli inabili o coloro che si vergognavano di sollecitare il Suo aiuto. Adamantino nella determinazione di seguire l’esempio del Báb e di Bahá’u’lláh, nulla Lo indusse a fuggire davanti ai nemici, o a sottrarSi alla prigione, né i consigli dei più importanti membri della comunità esiliata ad ‘Akká, né le insistenti implorazioni del console spagnolo, parente dell’agente di una compagnia di navigazione italiana, che nel suo amore per ‘Abdu’l-Bahá e nell’ansia di allontanare il pericolo che Lo minacciava era giunto al punto di metterGli a disposizione una nave da carico italiana, pronta a portarLo in salvo in qualunque porto straniero Egli volesse.
13 ‘Abdu’l-Bahá era così imperturbabile nella Sua equanimità che, mentre correva voce che sarebbe stato gettato in mare, o esiliato nel Fezzan in Tripolitania, o appeso alla forca, con stupore degli amici e divertimento dei nemici, piantava nel giardino della Sua casa alberi e viti, i cui frutti, trascorsa quella bufera, avrebbe ordinato al fedele giardiniere, Ismá‘íl Áqá, di raccogliere e donare a quegli stessi amici e nemici in occasione di una loro visita.
14 All’inizio dell’inverno del 1907 un’altra Commissione di quattro funzionari, guidata da ‘Árif Bey e investita di pieni poteri, fu improvvisamente mandata ad ‘Akká per ordine del Sultano. Pochi giorni prima del suo arrivo ‘Abdu’l-Bahá fece un sogno, che raccontò ai credenti: aveva visto una nave gettare l’ancora al largo di ‘Akká, dalla quale avevano preso il volo alcuni uccelli che sembravano candelotti di dinamite, i quali, girando attorno alla Sua testa, mentre Si trovava in mezzo a una moltitudine di spaventati abitanti della città, ritornarono sulla nave senza esplodere.
15 Appena sbarcati, i membri della Commissione presero il diretto ed esclusivo controllo del telegrafo e del servizio postale di ‘Akká; licenziarono arbitrariamente funzionari sospetti d’aver simpatia per ‘Abdu’l-Bahá, compreso il Governatore della città, stabilirono contatti diretti e segreti col governo di Costantinopoli, presero residenza nelle abitazioni dei vicini di casa e degli amici intimi dei violatori del Patto, fecero piantonare la casa di ‘Abdu’l-Bahá per impedire a chiunque di vederLo e incominciarono lo strano procedimento di convocare a testimoniare le stesse persone, cristiani e musulmani, orientali e occidentali, che avevano precedentemente firmato i documenti inoltrati a Costantinopoli e che essi avevano portato con sé per le indagini.
16 In questo momento di estrema crisi, le attività dei violatori del Patto, e in modo particolare di Mirza Muhammad-‘Alí, ora giubilante e speranzoso, toccarono il culmine. Ora che la vittoria sembrava a portata di mano, le visite, i colloqui e gli intrattenimenti si moltiplicarono in un’atmosfera di fervida attesa. Non pochi fra i più umili elementi della popolazione furono indotti a credere che presto avrebbero potuto impadronirsi delle proprietà che i deportati esuli avrebbero abbandonato. Insulti e calunnie aumentarono sensibilmente. Persino alcuni dei poveri, così a lungo e munificamente soccorsi da ‘Abdu’l-Bahá, L’abbandonarono per timore di rappresaglie.
17 Mentre i membri della Commissione svolgevano la loro cosiddetta inchiesta e per tutto il tempo della loro permanenza di circa un mese ad ‘Akká, ‘Abdu’l-Bahá, malgrado le velate minacce e gli avvertimenti che essi Gli fecero pervenire attraverso un messaggero, Si rifiutò invariabilmente d’incontrarli o d’aver a che fare con chiunque di loro, un atteggiamento che li sorprese molto e valse a rinfocolarne l’ostilità e a rafforzarne la determinazione d’eseguire i loro malvagi disegni. Sebbene i pericoli e i dolori che L’avevano assediato fossero ora giunti al massimo, sebbene la nave sulla quale si supponeva dovesse imbarcarSi con i membri della Commissione fosse pronta e in attesa ora ad ‘Akká ora a Haifa, e si diffondessero le più assurde dicerie sul Suo conto, la serenità che aveva invariabilmente manifestato fin da quando Gli era stata reimposta la prigionia non fu offuscata né fu scossa la Sua fiducia. «Il significato del sogno che ho fatto», disse in quei giorni ai credenti che ancora si trovavano ad ‘Akká, «è ora chiaro ed evidente. Piaccia a Dio che questa dinamite non esploda».
18 Nel frattempo un venerdì i membri della Commissione erano andati ad Haifa per ispezionare il Sepolcro del Báb, la cui costruzione sul monte Carmelo stava proseguendo senza interruzioni. Colpiti dalla sua solidità e dalle sue dimensioni avevano chiesto a uno degli assistenti quale fosse il numero delle cripte che erano state costruite sotto la massiccia struttura.
19 Poco dopo quell’ispezione, un giorno al tramonto si vide a un tratto che la nave, alla fonda al largo di Haifa, aveva levato le ancore e si dirigeva verso ‘Akká. Fra l’eccitata popolazione si sparse rapidamente la notizia che i membri della Commissione vi si erano imbarcati. Ci si aspettava che si sarebbe fermata ad ‘Akká il tempo necessario per far salire ‘Abdu’l-Bahá a bordo e poi proseguire per la sua destinazione. Quando vennero informati che la nave si stava avvicinando, i membri della Sua famiglia furono colti da costernazione e angoscia. I pochi credenti rimasti piansero di dolore per l’imminente separazione dal Maestro. In quel tragico momento si vide ‘Abdu’l-Bahá passeggiare, tutto solo e in silenzio, nel cortile della Sua casa.
20 Ma all’imbrunire si notò improvvisamente che le luci della nave avevano virato e che l’imbarcazione aveva cambiato rotta. Era evidente ora che navigava alla volta di Costantinopoli. La notizia fu immediatamente comunicata ad ‘Abdu’l-Bahá Che nella crescente oscurità passeggiava ancora nel cortile. Alcuni credenti che si erano appostati in punti diversi per osservare le mosse della nave, si affrettarono a confermare la gioiosa notizia. Uno dei più gravi pericoli che avessero mai minacciato la preziosa vita di ‘Abdu’l-Bahá fu, in quello storico giorno, improvvisamente, provvidenzialmente e definitivamente allontanato.
21 Poco dopo la precipitosa e del tutto inattesa partenza della nave giunse la notizia che una bomba era esplosa sulla strada del Sultano mentre ritornava a palazzo dalla moschea dove aveva recitato le preghiere del venerdì.
22 Pochi giorni dopo questo attentato alla sua vita la Commissione gli presentò il rapporto, ma egli e il governo erano troppo preoccupati per prendere in considerazione la cosa. Il caso fu accantonato e quando, alcuni mesi più tardi, fu messo di nuovo in discussione venne improvvisamente e definitivamente chiuso da un avvenimento che, una volta per tutte, poneva il prigioniero di ‘Akká al di sopra del potere del Suo regale nemico. La rivoluzione dei «Giovani turchi», che scoppiò rapida e decisiva nel 1908, costrinse il riluttante despota a promulgare la costituzione che aveva sospeso e a liberare tutti i prigionieri, religiosi e politici, del vecchio regime. Ma anche allora si dovette spedire a Costantinopoli un telegramma per chiedere specificamente se ‘Abdu’l-Bahá era incluso nella categoria di quei prigionieri, al che si ricevette immediatamente una risposta affermativa.
23 In pochi mesi, nel 1909, i Giovani turchi ottennero dallo Shaykhu’l-Islam la condanna del Sultano che, in seguito a ulteriori tentativi di rovesciare la costituzione, fu infine ignominiosamente deposto, deportato e fatto prigioniero di stato. Nello stesso anno, in un solo giorno, furono giustiziati almeno trentun importanti ministri, pascià e funzionari, fra i quali figuravano noti nemici della Fede. La Tripolitania, luogo del previsto esilio di ‘Abdu’l-Bahá, fu poi strappata ai Turchi dall’Italia. Così finì il regno del «Grande assassino», «il più miserabile, astuto, sleale e crudele intrigante della lunga dinastia di ‘Uthmán», un regno «certamente più disastroso, per le immediate perdite di territorio subite e per la certezza di altre che sarebbero seguite, e più cospicuo, per il deterioramento delle condizioni dei suoi sudditi, di quanto non sia stato nessun altro dei suoi ventitré degenerati predecessori, dopo la morte di Solimano il Magnifico».
CAPITOLO XVIIILa tumulazione delle spoglie del Báb sul monte Carmelo
1 L’inattesa e drammatica liberazione di ‘Abdu’l-Bahá dal Suo quarantennale confino inferse alle ambizioni dei violatori del Patto un colpo simile a quello che dieci anni prima aveva fatto sfumare le loro speranze di scalzare la Sua autorità e di privarLo della posizione conferitaGli da Dio. Ora l’indomani della Sua trionfale liberazione, un terzo colpo s’abbatté su di loro, rovinoso come quelli che l’avevano preceduto e quasi altrettanto spettacolare. Pochi mesi dopo la promulgazione dello storico decreto che Gli aveva restituito la libertà e nello stesso anno in cui cadde il sultano ‘Abdu’l-Hamíd, lo stesso potere celeste che aveva permesso ad ‘Abdu’l-Bahá di preservare inviolati i diritti divinamente conferitiGli, di introdurre la Fede di Suo Padre nel continente nordamericano e di trionfare sul Suo regale oppressore, Gli permise di compiere una delle azioni più significative del Suo ministero: la traslazione delle spoglie del Báb dal luogo in cui erano nascoste a Teheran al monte Carmelo. Più di una volta Egli affermò che mettere in salvo quelle spoglie, costruire un mausoleo degno di riceverle e infine tumularle, con le Sue stesse mani, nella loro perpetua estrema dimora costituivano uno dei tre principali obiettivi che, fin dall’inizio della Sua missione, aveva considerato Suo sommo dovere conseguire. In verità questo atto merita d’essere considerato uno degli eventi più rilevanti del primo secolo bahá’í.
2 Come si è raccontato in un capitolo precedente, i corpi straziati del Báb e del Suo compagno di martirio, Mirza Muhammad-‘Alí, furono rimossi nel cuore della seconda notte dopo l’esecuzione, grazie al pio intervento di Hájí Sulaymán Khán, dal ciglio del fossato dove erano stati gettati e trasportati al setificio di un credente di Milán, dove l’indomani furono deposti in una bara di legno e trasferiti in un luogo sicuro. In seguito, secondo le istruzioni di Bahá’u’lláh, furono traslati a Teheran e posti nella tomba dell’Imám-Zádih Hasan. Furono poi portati nella residenza di Hájí Sulaymán Khán nel quartiere Sar-Chashmih della città e quindi nella tomba dell’Imám-Zádih Ma‘súm dove rimasero nascosti fino al 1284 dell’Egira (1867-1868), anno in cui una Tavola rivelata da Bahá’u’lláh ad Adrianopoli ordinò a Mullá ‘Alí-Akbar-i-ShahMirzadí e a Jamál-i-Burújirdí di trasferirli immediatamente altrove, istruzioni che si dimostrarono provvidenziali, data la successiva ricostruzione di quella tomba.
3 Non riuscendo a trovare un luogo adatto nei dintorni di Sháh ‘Abdu’l-‘Azím, Mullá ‘Alí-Akbar e il suo compagno proseguirono le ricerche finché, sulla strada che conduce a Chashmih-‘Alí, non s’imbatterono nel Masjid-i-Mashá’u’lláh abbandonato e fatiscente, e lì, dopo il tramonto, depositarono in una delle sue pareti il prezioso fardello, dopo aver riavvolto le spoglie in un sudario di seta che avevano appositamente portato. L’indomani accortisi con costernazione che il nascondiglio era stato scoperto, portarono clandestinamente la bara attraverso la porta della capitale direttamente in casa di Mirza Hasan-i-Vazír, un credente che era genero di Hájí Mirza Siyyid ‘Alíy-i-Tafríshí, il Majdu’l-Ashráf, dove rimase per quattordici mesi. Il segreto sull’ubicazione delle spoglie tanto a lungo mantenuto si sparse fra i credenti, che incominciarono a far visita a quella casa in tal numero che Mullá ‘Alí-Akbar ne dovette informare Bahá’u’lláh, pregandoLo di consigliarlo sul da farsi. Pertanto Hájí Sháh Muhammad-i-Manshádí, soprannominato Amínu’l-Bayán, fu incaricato di ricevere da lui quel Pegno e di mantenere il massimo segreto sulla sua collocazione.
4 Assistito da un altro credente, Hájí Sháh Muhammad seppellì la bara sotto il pavimento del sancta sanctorum della tomba dell’Imám-Zádih Zayd, dove rimase inosservata finché Mirza Asadu’lláh-i-Isfáhání non fu informato della sua esatta ubicazione da una cartina inviatagli da Bahá’u’lláh. Avendo ricevuto da Bahá’u’lláh istruzioni di nascondere le spoglie altrove, egli dapprima se le portò a casa a Teheran, dopo di che esse furono trasferite in vari altri luoghi, come la casa di Husayn ‘Alíy-i-Isfáhání e quella di Muhammad-Karím-i-‘Attár, dove rimasero nascoste fino al 1316 dell’Egira (1899), quando, in base alle disposizioni impartite da ‘Abdu’l-Bahá, il medesimo Mirza Asadu’lláh, assieme ad altri credenti, le trasportò, via Isfáhán, Kirmánsháh, Baghdad e Damasco fino a Beirut e da qui, per mare, ad ‘Akká dove giunsero il 19 del mese di Ramadan del 1316 dell’Egira (31 gennaio 1899), cinquant’anni lunari dopo la fucilazione del Báb a Tabríz.
5 Nello stesso anno in cui questo prezioso Pegno giungeva sulle sponde della Terra Santa e veniva consegnato nelle Sue mani, ‘Abdu’l-Bahá, accompagnato dal dottor Ibráhím Khayru’lláh, che aveva già onorato coi titoli di «Pietro bahá’í», «secondo Colombo» e «Conquistatore dell’America», Si recò sul luogo del monte Carmelo che era stato benedetto e scelto da Bahá’u’lláh e che Egli aveva recentemente acquistato e, con le sue stesse mani, pose la prima pietra dell’edificio, alla cui costruzione avrebbe dato inizio dopo alcuni mesi. Circa nello stesso periodo, era stato completato e spedito a Haifa per suggerimento di ‘Abdu’l-Bahá il sarcofago di marmo che doveva accogliere il corpo del Báb, dono d’amore dei bahá’í di Rangoon.
6 Non occorre soffermarsi sui molteplici problemi e preoccupazioni che per quasi un decennio continuarono ad assillare ‘Abdu’l-Bahá fino al vittorioso momento in cui poté portare definitivamente a termine lo storico compito affidatoGli dal Padre. I rischi e i pericoli che prima Bahá’u’lláh e poi Suo Figlio dovettero affrontare nello sforzo di garantire, per mezzo secolo, la protezione di quelle spoglie non furono che il preludio dei gravi pericoli che il Centro del Patto dovette affrontare in un periodo successivo durante la costruzione dell’edificio che doveva accoglierle e, in effetti, fino al momento della Sua definitiva liberazione dalla carcerazione.
7 Le prolungate trattative con l’astuto e circospetto proprietario del terreno in cui doveva sorgere il sacro Edificio, il quale sotto l’influenza dei violatori del Patto per lungo tempo si rifiutò di vendere, il prezzo esorbitante inizialmente richiesto per l’apertura di una strada che portasse sul luogo indispensabile per le opere di costruzione, le interminabili obiezioni sollevate da funzionari d’alto e basso rango i cui sospetti facilmente suscitati dovevano essere fugati da ripetute spiegazioni e rassicurazioni di ‘Abdu’l-Bahá, la pericolosa situazione creatasi in seguito alle mostruose accuse mosse da Mirza Muhammad-‘Alí e dai suoi complici quanto al carattere e allo scopo dell'Edificio, i ritardi e le complicazioni dovuti alla protratta e forzata assenza di ‘Abdu’l-Bahá da Haifa e alla conseguente Sua impossibilità di sovrintendere di persona alla vasta impresa cui aveva dato inizio – questi furono fra i maggiori ostacoli che, in un periodo così critico del Suo ministero, ‘Abdu’l-Bahá dovette affrontare e superare prima di poter portare a compimento il Piano le cui linee generali Bahá’u’lláh Gli aveva comunicato in occasione di una delle Sue visite al monte Carmelo.
8 «Ogni pietra di quell’edificio, ogni pietra della strada che conduce ad esso», fu udito molte volte osservare, «ho sollevato e messo a posto con infinite lacrime e a un terribile prezzo». «Una notte», osservò una volta secondo un diretto testimone, «ero così oppresso dall'ansia che non potei far altro che recitare e ripetere, ripetere, ripetere, una preghiera del Báb che possedevo, che mi calmò moltissimo. Il mattino seguente Mi venne a trovare il proprietario del terreno, che si scusò e Mi pregò d'acquistare la sua proprietà».
9 Alla fine lo stesso anno in cui il Suo regale avversario perse il trono e nello stesso momento in cui si aprì la prima Convenzione bahá’í americana, convocata a Chicago con l'intento di creare un organismo nazionale permanente per la costruzione del Mashriqu’l-Adhkár, ‘Abdu’l-Bahá portò a felice compimento la Sua impresa malgrado le incessanti macchinazioni di nemici interni ed esterni. Il 28 del mese di safar del 1327 dell’Egira, il giorno del primo Naw-Rúz (1909) da Lui celebrato dopo la liberazione dal confino, ‘Abdu’l-Bahá fece trasportare con grande fatica il sarcofago di marmo nella cripta predisposta per accoglierlo e la sera vi depose con le Sue Stesse mani, alla luce d’una sola lampada, in presenza di credenti orientali e occidentali, con una cerimonia ad un tempo solenne e commovente, la bara di legno contenente le sacre spoglie del Báb e del Suo compagno.
10 Quando tutto fu finito e i resti terreni del Profeta Martire di Shíráz furono finalmente deposti al sicuro a riposare in eterno nelle viscere della santa montagna di Dio, ‘Abdu’l-Bahá, Che Si era tolto il turbante, le scarpe e il mantello, Si chinò sul sarcofago ancora aperto, gli argentei capelli ondeggianti attorno al capo, il volto trasfigurato e luminoso, poggiò la fronte sul bordo della bara di legno e, singhiozzando, proruppe in un tal pianto che tutti i presenti piansero con Lui. Quella notte non riuscì a dormire così sopraffatto era dall’emozione.
11 «La più gioiosa notizia è questa», scrisse poi in una Tavola che annunciava ai Suoi seguaci questa gloriosa vittoria, «che il santo, luminoso corpo del Báb… dopo essere stato per sessant’anni trasferito da un posto all’altro, a causa dell’ascendente del nemico e per timore dei malvagi, senza aver avuto né riposo né tranquillità, ora, grazie alla misericordia della Bellezza di Abhá, è stato solennemente deposto, il giorno di Naw-Rúz, entro il sacro cofano, nell’eccelso Mausoleo sul monte Carmelo… Per una strana coincidenza, quello stesso giorno di Naw-Rúz giunse da Chicago un cablogramma con l’annuncio che i credenti di ciascuno dei centri americani avevano eletto un delegato e lo avevano mandato in quella città… e avevano deciso definitivamente il luogo e la costruzione del Mashriqu’l-Adhkár».
12 Col trasferimento sul monte Carmelo delle spoglie del Báb, il Cui avvento segna il ritorno del profeta Elia, e la loro tumulazione in quel sacro monte, non lontano dalla grotta dello stesso Profeta, il Piano così gloriosamente concepito da Bahá’u’lláh al tramonto della vita, era stato finalmente portato a termine e l’ardua opera legata ai primi tumultuosi anni del ministero del Centro designato del Suo Patto era stata coronata da immortale successo. Un centro focale di illuminazione e poteri divini, la cui polvere, ‘Abdu’l-Bahá dichiarò, Lo aveva ispirato, che non era inferiore per sacralità ad alcun santuario del mondo bahá’í, ad eccezione del Sepolcro dell’Autore della Rivelazione bahá’í, era stato permanentemente stabilito su quel monte considerato sacro da tempo immemorabile. Struttura forte, semplice e imponente ad un tempo, annidata nel cuore del Carmelo, la «Vigna di Dio», al suo fianco la Grotta di Elia a occidente e le alture della Galilea a oriente, alle sue spalle la piana di Sharon e di fronte ad essa l’argentea città di ‘Akká e, al di là di questa, la Tomba Più Santa, Cuore e Qiblih del mondo bahá’í, sovrastante la colonia dei Templari tedeschi che, in attesa della «venuta del Signore», avevano abbandonato le loro case e si erano riuniti ai piedi del monte lo stesso anno della Dichiarazione di Bahá’u’lláh a Baghdad (1863), il mausoleo del Báb era ora stato innalzato con eroico sforzo e incrollabile fermezza come «il Sito attorno al quale gravitano adoranti le Schiere superne». Gli avvenimenti hanno già dimostrato, con l’ampliamento dell’Edificio, l’abbellimento dei suoi dintorni, l’acquisto di estese aree nelle sue adiacenze, la sua vicinanza alle tombe della moglie, del figlio e della figlia di Bahá’u’lláh, che esso era destinato ad acquistare, col passar degli anni, fama e gloria adeguate all’alto proposito che ne aveva determinato la fondazione. E, con l’andar degli anni e il graduale insediamento delle istituzioni che gravitano attorno al Centro amministrativo mondiale del futuro Commonwealth bahá’í, non cesserà di manifestare le latenti potenzialità di cui quello stesso, immutabile proposito lo aveva dotato. Questa divina istituzione fiorirà e si espanderà inevitabilmente, per quanto spietata possa essere l’ostilità dei suoi nemici futuri, fino a che la piena misura del suo splendore non sarà rivelata agli occhi di tutta l’umanità.
13 «Affrettati, o Carmelo!», ha scritto Bahá’u’lláh rivolgendoSi significativamente a quel sacro monte, «poiché, ecco, la luce del Sembiante di Dio… si è levata su di te… Esulta, poiché Dio, in questo Giorno, ha posto il Suo trono su di te, ti ha fatto oriente dei Suoi segni e alba della Sua Rivelazione. Beato colui che gravita intorno a te, che proclama la rivelazione della tua gloria e narra di quello che la generosità del Signore tuo Dio ti ha elargito». «Chiama Sion, o Carmelo!», ha ancora rivelato nella stessa Tavola, «e annunzia la lieta novella: Colui Che era celato agli occhi mortali è venuto! La Sua sovranità che tutto conquista è manifesta; il Suo splendore che tutto pervade è rivelato. Bada di non esitare o fermarti. Affrettati e ruota intorno alla Città di Dio discesa dal cielo, la Kaaba celeste attorno alla quale hanno gravitato adoranti i favoriti di Dio, i puri di cuore e l’accolta degli angeli più eccelsi».
CAPITOLO XIX1 L’introduzione della Fede di Bahá’u’lláh nell’emisfero occidentale, la più straordinaria impresa che resterà per sempre associata al ministero di ‘Abdu’l-Bahá, come si è già detto nelle pagine precedenti, aveva messo in moto forze così potenti e aveva dato risultati di così vasta portata, da giustificare la personale attiva partecipazione del Centro del Patto a quelle storiche attività che i discepoli occidentali, grazie al potere propulsore del Patto, avevano coraggiosamente incominciato e stavano energicamente proseguendo.
2 La crisi che la cecità e la perversità dei violatori del Patto avevano provocato e che per molti anni aveva così tragicamente interferito con l’esecuzione dei piani di ‘Abdu’l-Bahá si era ora provvidenzialmente risolta. Un ostacolo insormontabile era stato improvvisamente rimosso dalla Sua strada, le catene erano stati infrante e l’ira vendicatrice di Dio Gli aveva tolto i ferri dal collo e li aveva posti attorno a quello di ‘Abdu’l-Hamíd, Suo regale avversario che era stato abbindolato dal Suo più implacabile nemico. Le sacre spoglie del Báb, affidate alle Sue mani dal defunto Padre, erano state traslate con immensa difficoltà dal loro nascondiglio nella lontana Teheran fino alla Terra Santa e da Lui solennemente e reverentemente deposte nelle viscere del monte Carmelo.
3 La salute di ‘Abdu’l-Bahá era ormai malferma. Egli soffriva di parecchie infermità dovute al logorio e alle tensioni di una vita tragica trascorsa quasi tutta in esilio e in prigione. Era sulla soglia della settantina. Eppure, appena fu libero dal quel confino durato quarant’anni, appena ebbe posto la salma del Báb in un luogo di riposo sicuro e permanente, appena ebbe la mente libera dalle gravi preoccupazioni associate all’esecuzione di quel preziosissimo Mandato, Si levò con coraggio, fiducia e risolutezza sublimi per consacrare quel poco di forze che Gli restavano, al tramonto della vita, a un servizio di così eroiche proporzioni, che non gli si può trovare l’eguale negli annali del primo secolo bahá’í.
4 In verità quei tre anni di viaggi, prima in Egitto, poi in Europa e più tardi in America, se vogliamo attribuire un giusto valore alla loro importanza, segnano una svolta di grandissimo significato nella storia del secolo. Per la prima volta dall’inizio della Fede sessantasei anni prima, il suo Capo e Rappresentante supremo spezzava le catene che, durante tutto il ministero del Báb e di Bahá’u’lláh, ne avevano così deplorevolmente decurtato la libertà. Anche se nella sua terra d’origine le attività della grande maggioranza dei suoi aderenti erano limitate da misure repressive, al suo Capo riconosciuto veniva ora concessa una libertà d’azione di cui, fuorché per un breve intervallo durante la guerra del 1914-1918, avrebbe continuato a godere fino alla fine della Sua vita e che, da allora, non fu mai più negata alle istituzioni del suo centro mondiale.
5 Questo cambiamento così importante nelle sorti della Fede fu motivo di una tale esplosione di attività da parte Sua da fare ammutolire d’ammirazione e meraviglia i Suoi seguaci in Oriente e in Occidente e da esercitare un’influenza imperitura sul corso della storia futura. Egli Che, secondo le Sue parole, era entrato in prigione da giovane e ne era uscito da vecchio, Che nella Sua vita non aveva mai affrontato un pubblico, non aveva frequentato scuole, non Si era mai trovato in ambienti occidentali e non aveva dimestichezza né con le lingue né con le abitudini dell’Occidente, Si era levato non solo a proclamare da pulpiti e palchi, in alcune delle principali capitali europee e nelle più importanti città del continente nordamericano, le peculiari verità racchiuse nella Fede di Suo Padre, ma anche a dimostrare l’origine divina dei Profeti venuti prima di Lui e a rivelare la natura del legame che Li unisce a questa Fede.
6 Fermamente deciso ad affrontare questo difficile viaggio, qualunque prezzo dovesse costarGli in energia e anche a rischio della vita, sommessamente e senza alcun preavviso, un pomeriggio di settembre del 1910, l’anno successivo alla caduta del sultano ‘Abdu’l-Hamíd e alla tumulazione ufficiale delle spoglie del Báb sul monte Carmelo, salpò per l’Egitto, soggiornò per circa un mese a Porto Said e quindi S’imbarcò con l’intenzione di recarSi in Europa, solo per renderSi conto che le Sue condizioni di salute Gli imponevano di sbarcare ad Alessandria e di rimandare il viaggio. Presa residenza a Ramleh, sobborgo di Alessandria, e dopo aver successivamente visitato Zaytún e il Cairo, l’11 agosto dell’anno seguente salpò sul piroscafo «Corsica» assieme ad altre quattro persone alla volta di Marsiglia e, dopo una breve sosta a Thonon-les-Bains, proseguì per Londra dove giunse il 4 settembre 1911. Dopo una permanenza di quasi un mese, andò a Parigi dove rimase per nove settimane e tornò in Egitto nel dicembre del 1911. SistematoSi di nuovo a Ramleh dove trascorse l’inverno, il 15 Mirza 1912 S’imbarcò per un secondo viaggio in Occidente sul vapore «Cedric» diretto via Napoli a New York, dove arrivò l’11 aprile. Dopo un lungo giro che durò otto mesi e Lo portò da costa a costa, nel corso del quale visitò Washington, Chicago, Cleveland, Pittsburgh, Montclair, Boston, Worcester, Brooklyn, Fanwood, Milford, Filadelfia, West Englewood, Jersey City, Cambridge, Medford, Morristown, Dublin, Green Acre, Montreal, Malden, Buffalo, Kenosha, Minneapolis, St. Paul, San Francisco, Oakland, Palo Alto, Berkeley, Pasadena, Los Angeles, Sacramento, Cincinnati e Baltimora, il 5 dicembre, salpò sul «Celtic» da New York per Liverpool dove sbarcò, proseguendo in treno per Londra. Visitò poi Oxford, Edimburgo e Bristol e, ritornato a Londra, partì per Parigi il 21 gennaio 1913. Il 30 Mirza andò a Stoccarda da dove, il 9 aprile, Si recò a Budapest, nove giorni dopo visitò Vienna, ritornò a Stoccarda il 25 aprile e il 1° maggio giunse a Parigi, dove rimase fino al 12 giugno. L’indomani s’imbarcò a Marsiglia sulla nave «Himalaya» diretta in Egitto, arrivando quattro giorni più tardi a Porto Said da dove, dopo brevi visite a Ismailia e Abúqír e un prolungato soggiorno a Ramleh, fece ritorno ad Haifa, concludendo i Suoi storici viaggi il 5 dicembre 1913.
7 Durante questi memorabili viaggi e davanti a uditori folti e rappresentativi, che a volte superavano le mille persone, ‘Abdu’l-Bahá espose, con brillante semplicità, persuasione e forza, per la prima volta nel Suo ministero, i principi basilari che contraddistinguono la Fede di Suo Padre e che, assieme alle leggi e alle ordinanze rivelate nel Kitáb-i-Aqdas, costituiscono le fondamenta della più recente Rivelazione di Dio all’umanità. La ricerca indipendente della verità, libera da impedimenti di superstizioni o tradizioni, l’unicità dell’intera razza umana, principio basilare e dottrina fondamentale della Fede, l’essenziale unità di tutte le religioni, la riprovazione di ogni forma di pregiudizio religioso, razziale, sociale o nazionale, l’armonia che deve esistere fra religione e scienza, la parità di uomini e donne, le due ali con cui l’umanità, come un uccello, può volare, l’introduzione dell’educazione obbligatoria, l’adozione di una lingua ausiliaria universale, l’abolizione degli estremi di ricchezza e povertà, l’istituzione di un tribunale mondiale per comporre le controversie fra le nazioni, l’esaltazione del lavoro elevato al rango di culto, se compiuto in spirito di servizio, la glorificazione della giustizia come principio dominante nella società umana e della religione come baluardo per la protezione di tutti i popoli e le nazioni, l’instaurazione di una pace permanente e universale come scopo supremo di tutta l’umanità – questi sono gli elementi essenziali di quella politica divina che Egli, nel corso dei Suoi viaggi d’apostolato, proclamò ai leader dell’opinione pubblica e alle masse. All’esposizione di queste vivificanti verità della Fede di Bahá’u’lláh, che Egli chiamò «spirito di quest’èra», aggiunse solenni e ripetuti accenni a un’imminente conflagrazione che, se gli statisti del mondo non l’avessero evitata, avrebbe messo a ferro e fuoco l’intero continente europeo. Inoltre, nel corso di quei viaggi, predisse i radicali cambiamenti che si sarebbero verificati in quel continente, presagì che si sarebbe inevitabilmente messo in moto un processo di decentramento del potere politico, accennò alle traversie che avrebbero colpito la Turchia, previde la persecuzione degli ebrei nel continente europeo e affermò categoricamente che «la bandiera dell’unità dell’umanità sarebbe stata spiegata, il tabernacolo della pace universale alzato e il mondo sarebbe divenuto un altro mondo».
8 Durante questi viaggi ‘Abdu’l-Bahá mostrò una vitalità, un coraggio, una dedizione, una consacrazione al compito che Si era imposto di raggiungere, da suscitare la meraviglia e l’ammirazione di coloro che ebbero il privilegio d’osservare da vicino le Sue azioni quotidiane. Indifferente ai luoghi e alle curiosità che abitualmente attirano l’attenzione dei viaggiatori e che spesso i membri del Suo seguito desideravano visitasse, incurante delle comodità e della salute, giorno dopo giorno spendeva ogni grammo d’energia dall’alba fino a tarda notte, respingendo fermamente regali o contributi alle spese di viaggio, sempre sollecito verso gli ammalati, i sofferenti e gli oppressi, inflessibile nel difendere le razze e le classi meno privilegiate, generoso come la pioggia nelle elargizioni ai poveri, sprezzante degli attacchi sferrati da vigili e fanatici esponenti dell’ortodossia e del settarismo, meraviglioso nella Sua franchezza mentre da palchi e pulpiti dimostrava agli ebrei la missione profetica di Gesù Cristo, nelle chiese e nelle sinagoghe l’origine divina dell’Islam o, ai materialisti, agli atei e agli agnostici, la verità della Rivelazione divina e la necessità della religione, inequivocabile nella costante glorificazione di Bahá’u’lláh nei santuari delle diverse sètte e denominazioni, in molte occasioni adamantino nel rifiutare di ingraziarsi titolati e ricchi, in Inghilterra e negli Stati Uniti e infine, ma non per questo meno importante, incomparabile nella spontaneità, nella genuinità e nel calore della simpatia e dell’amorevole comprensione verso amici ed estranei, credenti e non credenti, ricchi e poveri, grandi e umili, li avesse incontrati intimamente o casualmente, a bordo di una nave o camminando per le strade, in giardini o piazze pubbliche, a un ricevimento o ad un banchetto, in una catapecchia o in un palazzo, in una riunione di Suoi seguaci o in un’assemblea di dotti. Egli, incarnazione di ogni virtù bahá’í e personificazione di ogni ideale bahá’í, per tre intensi anni, continuò a divulgare, in un mondo affondato nel materialismo e già sotto la minaccia della guerra, le salutari divine verità, racchiuse nella Rivelazione di Suo Padre.
9 Nel corso delle Sue ripetute visite in Egitto ebbe più di un colloquio con il chedivè, ‘Abbás Hilmí Páshá II, fu presentato a Lord Kitchener, incontrò il muftí, Shaykh Muhammad Bakhít, e l’imám del Chedivè, Shaykh Muhammad Ráshid ed ebbe contatti con parecchi ‘ulamá, páshá, notabili persiani, membri del Parlamento turco, editori d’importanti giornali cairoti e alessandrini e altri alti funzionari e rappresentanti di note istituzioni religiose e secolari.
10 Durante il Suo soggiorno in Inghilterra, la casa messa a Sua disposizione in Cadogan Gardens divenne una mèta di pellegrinaggio per persone di ogni sorta e condizione, che facevano ressa per visitare il Prigioniero acritano il Quale aveva scelto la loro grande città come prima tappa della Sua opera in Occidente. «Oh! quei pellegrini, quegli ospiti, quei visitatori!», così testimonia la devota signora che Lo ospitò nel periodo che trascorse a Londra. «Ricordando quei giorni, nelle orecchie risonano i loro passi, mentre arrivavano da tutti i paesi del mondo. Ogni giorno, per tutto il giorno, un continuo afflusso, una processione interminabile! Pastori e missionari, orientalisti e studiosi di scienze occulte, uomini d’affari e mistici, anglicani, cattolici e dissidenti, teosofi e indù, scientisti cristiani e medici, musulmani, buddhisti e zoroastriani. Vennero anche politici, soldati dell’Esercito della salvezza e altri che lavorano per il bene dell’umanità, suffragette, giornalisti, scrittori, poeti e guaritori, sartine e gran dame, artisti e artigiani, poveri disoccupati e facoltosi commercianti, esponenti del mondo del teatro e della musica, vennero tutti e nessuno di loro era troppo umile o troppo grande per non ricevere l’affettuosa considerazione di questo santo Messaggero Che dava la vita per il bene degli altri».
11 È abbastanza significativo che la prima apparizione di ‘Abdu’l-Bahá davanti a un pubblico occidentale abbia avuto luogo in una chiesa cristiana quando, il 10 settembre 1911, Egli parlò a una folla straripante dal pulpito del City Temple. Presentato dal pastore, il reverendo R. J. Campbell, Egli, con parole semplici e commoventi e con voce vibrante, proclamò l’unità di Dio, affermò la fondamentale unicità delle religioni e annunciò che era giunta l’ora dell’unità dei figli degli uomini di tutte le razze, le religioni e le classi. In un’altra occasione, il 17 settembre, invitato dal venerabile arcidiacono Wilberforce parlò, dopo il servizio serale, alla congregazione di San Giovanni Presbitero a Westminster, scegliendo il tema della trascendente grandezza della Divinità, come è affermata e spiegata da Bahá’u’lláh nel Kitáb-i-Íqán. «L’Arcidiacono», scrisse un testimone dell’evento, «aveva fatto sistemare per l’Ospite la sedia episcopale nel presbiterio e, in piedi accanto a Lui, lesse di persona la traduzione del discorso di ‘Abdu’l-Bahá. I fedeli ne furono profondamente commossi e, seguendo l’esempio dell’Arcidiacono, s’inginocchiarono per ricevere la benedizione del Servo di Dio, Che stava in piedi con le braccia aperte, mentre la Sua meravigliosa voce si alzava e si abbassava nel silenzio seguendo la forza della Sua invocazione».
12 Fu invitato dal Sindaco di Londra a fare colazione alla Mansion House, tenne un discorso nella sede della Società teosofica per espressa richiesta del suo presidente e parlò anche durante una riunione del centro londinese di Pensiero superiore, fu invitato da una delegazione della Società brahmo samaj a tenere una conferenza sotto i loro auspici, visitò la moschea di Woking e vi pronunciò un discorso sull’unità mondiale per invito della Comunità musulmana della Gran Bretagna e fu intrattenuto da principi, nobili, ex ministri persiani e membri della Legazione persiana a Londra. Fu ospite in casa del dottor T. K. Cheyne a Oxford e fece una conferenza a «un folto e interessatissimo uditorio» di eminenti accademici riuniti al Manchester College presieduto dal dottor Estlin Carpenter. Parlò anche dal pulpito della Chiesa congregazionalista nell’East End londinese, invitato dal Pastore, e a gruppi riuniti a Caxton Hall e, sotto la presidenza di Sir Thomas Berkeley, a Westminster Hall e assistette alla rappresentazione di «Eager Heart», nella Church House di Westminster – questo mistero natalizio, la prima opera di teatro che Egli avesse mai visto, con la sua vivida rappresentazione della vita e delle sofferenze di Gesù Cristo, Lo commosse fino alle lacrime. Nella sala dello stabilimento Passmore Edward, a Tavistock Place, parlò a una rappresentanza di circa quattrocentosessanta persone presieduta dal professor Michael Sadler, fece visita ad alcune operaie dello Stabilimento ch’erano in vacanza presso Vanners, a Byfleet, a circa venti miglia da Londra, vi fece una seconda visita, incontrandoSi in quell’occasione con persone di ogni ceto appositamente riunite per vederLo – «preti di molte denominazioni, il direttore di una scuola pubblica maschile, un membro del Parlamento, un dottore, un famoso scrittore politico, il vicerettore di un’università, numerosi giornalisti, un noto poeta e un magistrato londinese». «‘Abdu’l-Bahá sarà a lungo ricordato», scrisse un cronista della Sua visita in Inghilterra, raccontando di quell’occasione, «seduto nel bovindo, nel sole del pomeriggio, un braccio sulle spalle di un ragazzino lacero e felice venuto a chiederGli una monetina per il salvadanaio e per la madre inferma, e attorno a Lui riuniti nella stanza uomini e donne a discutere di educazione, di socialismo, del primo disegno di legge di riforma elettorale e della relazione fra i sottomarini e il telegrafo senza fili e la nuova èra nella quale l’uomo sta entrando».
13 Fra coloro che Gli fecero visita nei memorabili giorni che trascorse in Inghilterra e in Scozia, vi furono il reverendo arcidiacono Wilberforce, il reverendo R. J. Campbell, il reverendo Rhonddha Williams, il reverendo Roland Corbet, Lord Lamington, Sir Richard e Lady Stapley, Sir Michael Sadler, il Jalálu’d-Dawlih, figlio dello Zillu’s-Sultán, Sir Ameer ‘Alí, già maharaja di Jalawar che Gli fece numerose visite e offrì in Suo onore un elaborato pranzo e un ricevimento, il Maharaja di Rajputana, la Ranee di Sarawak, la principessa Karadja, la baronessa Barnekov, Lady Wemyss e sua sorella, Lady Glencomer, Lady Agnew, la signorina Constance Maud, il professor E. G. Browne, il professor Patrick Geddes, il signor Albert Dawson, editore del Christian Commonwealth, il signor David Graham Pole, la signora Annie Besant, la signora Pankhurst e il signor Stead che ebbero con Lui lunghe e importanti conversazioni. La Sua ospite, descrivendo l’impressione prodotta su coloro cui Egli accordava il privilegio di un’udienza privata, scrive: «Molti erano gli aspiranti a questa esperienza così rara, e quanto rara fosse lo sapevano solo loro, mentre erano in presenza del Maestro, e noi potevamo in parte indovinarlo, nel vedere l’espressione dei loro volti quando ne uscivano, un’espressione mista di rispetto, stupore e di una certa tranquilla gioia. Talvolta li vedevamo riluttanti a ritornare nel mondo esterno, come se avessero voluto aggrapparsi alla loro beatitudine nel timore che il ritorno alle cose terrene gliela strappasse via». «Nella mente e nel ricordo di uomini e donne di ogni ceto è rimasta una profonda impressione… », ha scritto il cronista cui si è già accennato riassumendo i risultati di quella memorabile visita. «La permanenza di ‘Abdu’l-Bahá è stata molto apprezzata a Londra e la Sua partenza ha suscitato grande rimpianto. Ha lasciato molti, molti amici. Il Suo amore aveva richiamato amore. Il Suo cuore si era aperto all’Occidente e il cuore dell’Occidente si era stretto attorno a questa patriarcale presenza orientale. Nelle Sue parole c’era qualcosa che affascinava non soltanto i diretti ascoltatori, ma la totalità degli uomini e delle donne».
14 Le Sue visite a Parigi, dove occupò per qualche tempo un appartamento in Via de Camoens, furono caratterizzate da un’accoglienza altrettanto affettuosa quanto quella tributataGli da amici e seguaci a Londra. «Durante la visita a Parigi», ha testimoniato la stessa devota ospite inglese, Lady Blomfield, che L’aveva seguito in quella città, «com’era accaduto a Londra, gli avvenimenti quotidiani assunsero il significato di eventi spirituali… Ogni mattina, come Sua abitudine, il Maestro spiegava i principi degli insegnamenti di Bahá’u’lláh a coloro che, colti e incolti, Gli si riunivano attorno, impazienti e rispettosi. Erano di tutte le nazionalità e i credi, orientali e occidentali, teosofi, agnostici, materialisti, spiritualisti, scientisti cristiani, riformatori sociali, indù, sufi, musulmani, buddhisti, zoroastriani e molti altri». E poi: «Gli incontri si susseguivano agli incontri. Vennero dignitari del clero dei vari rami del ceppo cristiano, alcuni sinceramente desiderosi di scoprire nuovi aspetti della Verità… Altri si chiusero le orecchie per non udire e non capire».
15 Principi, nobili ed ex ministri persiani, fra cui lo Zillu’s-Sultán, il ministro persiano, l’ambasciatore turco a Parigi Rashíd Páshá, un ex válí di Beirut, páshá ed ex ministri turchi, il visconte Arawaka, ambasciatore giapponese alla Corte di Spagna, furono fra coloro che ebbero il privilegio di giungere alla Sua presenza. Tenne conferenze a gruppi di esperantisti, teosofi, studenti della Facoltà di teologia e folti auditori alla Lega spiritualista, nella sala di una missione di un quartiere molto povero della città, parlò per invito del Pastore a una congregazione, mentre in numerose riunioni di Suoi seguaci, coloro che già conoscevano i Suoi insegnamenti ebbero il privilegio di ascoltare dalle Sue labbra dettagliate e frequenti esposizioni di alcuni aspetti della Fede di Suo Padre.
16 A Stoccarda, dove fece una breve ma indimenticabile sosta, e dove Si era recato malgrado la cattiva salute per metterSi personalmente in contatto con i membri della comunità degli entusiasti e amatissimi amici tedeschi, oltre a partecipare alle riunioni dei Suoi devoti seguaci, profuse abbondanti benedizioni sui membri del gruppo giovanile riunito a Esslingen e, per invito del professor Christale, presidente degli esperantisti europei, parlò nel loro circolo a un gran numero di associati. Inoltre visitò Bad Mergentheim nel Württemberg, dove pochi anni dopo (nel 1915), un grato discepolo fece erigere un monumento in ricordo della Sua visita. «L’umiltà, l’amore e la devozione dei credenti tedeschi», scrisse un testimone oculare, «rallegrarono il cuore di ‘Abdu’l-Bahá ed essi ricevettero le Sue benedizioni, le Sue parole e i Suoi incoraggianti consigli in completa sottomissione… Da vicino e da lontano, vennero amici a vedere il Maestro. All’Hotel Marquart l’afflusso dei visitatori era continuo. ‘Abdu’l-Bahá li accoglieva con tale amore e gentilezza che essi erano raggianti di gioia e felicità».
17 A Vienna dove Si trattenne pochi giorni, parlò a un gruppo di teosofi della città, mentre a Budapest accordò un colloquio al rettore dell’Università, S’incontrò in varie occasioni con il famoso orientalista professor Arminius Vambery, pronunciò un discorso alla Società teosofica e ricevette visite dal presidente della Società turanica e da rappresentanti della Società turca, da ufficiali dell’esercito, da parecchi membri del Parlamento e da una delegazione di Giovani turchi guidata dal professor Julius Germanus, che Gli diede un affettuoso benvenuto in città. «Durante quel periodo», dice la testimonianza scritta del dottor Rusztem Vambery, «la Sua stanza (di ‘Abdu’l-Bahá) all’Hotel Dunapalota divenne un vero e proprio luogo di pellegrinaggio per coloro che il misticismo orientale e la saggezza del Maestro avevano attratto nella Sua magica cerchia. Fra i Suoi visitatori, il conte Albert Apponyi, il presule Alexander Giesswein, il professor Ignatius Goldziher, orientalista di fama mondiale, e il professor Robert A. Nadler, famoso pittore di Budapest e capo della Società teosofica ungherese».
18 Ma toccò al continente nordamericano d’essere testimone della più sorprendente manifestazione della sconfinata vitalità di cui ‘Abdu’l-Bahá diede prova nel corso di questi viaggi. I notevoli progressi compiuti dalla comunità organizzata dei Suoi seguaci negli Stati Uniti e in Canada, la notevole recettività del pubblico americano al Suo Messaggio e la consapevolezza dell’alto destino che attendeva il popolo di quel continente giustificarono pienamente l’impiego di tempo e di energia che Egli riservò a questa importantissima fase dei Suoi viaggi. Quella visita, che comportò un viaggio di oltre cinquecento miglia, che durò dall’aprile al dicembre, che Lo portò dalle coste dell’Atlantico a quelle del Pacifico e viceversa e Lo impegnò in un tal numero di discorsi da riempire tre volumi doveva segnare l’apice di quei viaggi e fu pienamente giustificata dai risultati di vasta portata che Egli sapeva queste Sue fatiche avrebbero prodotto. «Questo lungo viaggio», disse a i Suoi seguaci riuniti in occasione del loro primo incontro a New York, «dimostrerà quanto è grande il Mio amore per voi. Vi sono state molte pene e vicissitudini, ma al pensiero d’incontrarvi, tutto ciò è svanito ed è stato dimenticato».
19 La natura delle azioni che compì dimostrò pienamente l’importanza che Egli attribuiva a questa visita. La posa con le Sue mani della prima pietra del Mashriqu’l-Adhkár nel terreno recentemente acquistato sulle rive del lago Michigan vicino a Chicago alla presenza di una rappresentanza di bahá’í orientali e occidentali, l’energica affermazione delle implicazioni del Patto istituito da Bahá’u’lláh dopo la lettura della recentemente tradotta Tavola del Ramo a un’assemblea generale dei Suoi seguaci a New York, da quel momento in poi chiamata «Città del Patto», la commovente cerimonia a Inglewood in California che caratterizzò il Suo speciale pellegrinaggio alla tomba di Thornton Chase il «primo credente americano» e in verità il primo ad abbracciare la Fede di Bahá’u’lláh nel mondo occidentale, la simbolica Festa che offrì a un folto gruppo di discepoli riuniti all’aria aperta nel verde paesaggio di West Englewood nel New Jersey in un giorno di giugno, la benedizione che impartì all’Open Forum di Green Acre nel Maine sulle rive del Piscataqua dove molti seguaci si erano riuniti, che si sarebbe trasformato in una delle prime Scuole estive bahá’í dell’emisfero occidentale e sarebbe stato riconosciuto come una delle prime dotazioni stabilite nel continente americano, il discorso che rivolse a un pubblico di parecchie centinaia di persone presenti all’ultima sessione dell’Unità del Tempio bahá’í di recente fondazione tenutasi a Chicago e infine, ma non meno importante, l’esempio che diede unendo in matrimonio due Suoi seguaci di nazionalità diverse, uno di razza bianca e l’altro di razza nera – queste possono essere considerate tra le mansioni più eccezionali associate alla Sua visita alla comunità dei credenti americani, mansioni destinate ad aprire la via alla costruzione della loro Casa di culto centrale, a rafforzarli contro le prove che ben presto avrebbero dovuto sostenere, a cementare la loro unità e a benedire i primi passi dell’Ordine Amministrativo che avrebbero presto avviato e difeso.
20 Non meno notevoli furono le attività pubbliche di ‘Abdu’l-Bahá nei Suoi rapporti con la moltitudine di persone con cui venne a contatto nel Suo giro attraverso il continente. Un resoconto completo delle diverse attività che affollarono, per otto mesi, tutte le Sue giornate, esula dai limiti di questo studio. Basti dire che nella sola città di New York tenne conferenze pubbliche e fece formali visite in oltre cinquantacinque luoghi diversi. Associazioni per la pace, congregazioni cristiane ed ebraiche, collegi e università, organizzazioni di beneficenza e opere pie, membri di culti etici, centri del Nuovo pensiero, gruppi metafisici, circoli femminili, associazioni scientifiche, gruppi di esperantisti, teosofi, mormoni e agnostici, istituzioni per il progresso della gente di colore, rappresentanti delle comunità siriana, armena, greca, cinese e giapponese, vennero tutti a contatto con Lui ed ebbero il privilegio d’ascoltare dalle Sue labbra il Messaggio di Suo Padre. La stampa non tardò ad apprezzare, negli editoriali e nella pubblicazione di resoconti delle Sue conferenze, l’ampio respiro delle Sue vedute e la natura dei Suoi appelli.
21 Il discorso alle Conferenze per la pace a Lake Mohonk, i discorsi a folti gruppi nella Columbia University, nella Howard University e nell’Università di New York, la partecipazione alla quarta conferenza annuale dell’Associazione nazionale per il progresso della gente di colore, l’intrepida asserzione della verità della missione profetica di Gesù Cristo e di Muhammad nel Tempio Emmanu-El, una sinagoga ebraica di San Francisco, dov’erano riunite più di duemila persone, l’illuminato discorso davanti a milleottocento studenti e centosettanta insegnanti e professori alla Leland Standford University, la memorabile visita alla Missione Bowery nei bassifondi di New York, il brillante ricevimento offerto in Suo onore a Washington durante il quale Gli furono presentate molte eminenti personalità della vita sociale della capitale – questi i momenti culminanti dell’indimenticabile Missione che Egli svolse al servizio della Causa di Suo Padre. Giunsero alla Sua presenza segretari di stato, ambasciatori, deputati del Congresso, importanti rabbini, uomini di chiesa e altre eminenti personalità, fra le quali personaggi come il dottor D. S. Jordan, presidente della Leland Stanford University, il professor Jackson della Columbia University, il professor Jack della Oxford University, il rabbino Stephen Wise di New York, il dottor Martin A. Meyer, il rabbino Joseph L. Levy, il rabbino Abram Simon, Alexander Graham Bell, Rabindranath Tagore, l’onorevole Franklin K. Lane, la signora William Jennings Bryan, Andrew Carnegie, l’onorevole Franklin Mac Veagh, segretario del Tesoro degli Stati Uniti, Lee McClug, il signor Roosevelt, l’ammiraglio Wain Wright, l’ammiraglio Peary, i ministri plenipotenziari britannico, olandese e svizzero a Washington, Yúsuf Díyá Páshá, ambasciatore turco in quella città, Thomas Seaton, l’onorevole William Sulzer e il principe Muhammad-‘Alí d’Egitto, fratello del Chedivè.
22 «Nella Sua prima visita al paese nel 1912», scrisse un commentatore dei Suoi viaggi in America, «‘Abdu’l-Bahá trovò un folto e partecipe uditorio in attesa di salutarLo personalmente e di ricevere dalle Sue labbra il Suo amorevole messaggio spirituale… Al di là delle parole, nella Sua personalità c’era qualcosa d’indescrivibile che colpiva profondamente tutti coloro che giungevano alla Sua presenza. La testa poderosa dall’ampia fronte, la barba patriarcale, gli occhi che parevano essersi spinti al di là dei limiti del tempo e dei sensi, la voce dolce ma penetrante, la trasparente umiltà, l’inesauribile amore, ma soprattutto la sensazione di forza mista a gentilezza che circondava la Sua persona di una rara maestà di sublimità spirituale che Lo rendeva diverso, eppure Lo avvicinava all’anima più umile – tutto questo, ed altro ancora che non si potrà mai descrivere, ha lasciato nei Suoi numerosi… amici ricordi incancellabili e indicibilmente preziosi».
23 Uno studio sia pur inadeguato delle varie e immense attività di ‘Abdu’l-Bahá durante il Suo viaggio in Europa e in America non può ignorare alcuni degli episodi inconsueti che spesso accompagnarono i contatti personali con Lui. La coraggiosa determinazione di un indomito giovane il quale, temendo che ‘Abdu’l-Bahá non avrebbe visitato gli Stati occidentali e non potendosi pagare il viaggio in treno fino al New England, aveva viaggiato per tutto il tratto da Minneapolis al Maine sdraiato sulle sbarre tra le ruote di un treno, la trasformazione che subì la vita del figlio di un pastore di campagna inglese il quale, sentendosi misero e povero, aveva deciso mentre camminava sulle rive del Tamigi di mettere fine alla propria esistenza ma, vedendo la fotografia di ‘Abdu’l-Bahá esposta in una vetrina, aveva chiesto di Lui, si era precipitato a casa Sua ed era stato tanto rianimato dalle Sue parole di incoraggiamento e di conforto da abbandonare ogni pensiero di suicidio, la straordinaria esperienza di una donna, la cui figlioletta, in seguito a un sogno che aveva fatto, insisteva che Gesù Cristo era in questo mondo e, vedendo una fotografia di ‘Abdu’l-Bahá esposta nella vetrina di una libreria, vi aveva riconosciuto il Gesù del suo sogno, cosa che spinse la madre, dopo aver letto che ‘Abdu’l-Bahá Si trovava a Parigi, a prendere il primo piroscafo per l’Europa e ad accorrere alla Sua presenza, la decisione dell’editore di un giornale stampato in Giappone di interrompere a Costantinopoli il suo viaggio per Tokyo e di recarsi a Londra per avere «la gioia di trascorrere una serata alla Sua presenza», la commovente scena quando, ricevuti dalle mani di un amico persiano appena arrivato a Londra da ‘Ishqábád, un pezzo di pane nero e duro e una mela avvizzita avvolti in un fazzoletto di cotone – l’offerta di un povero operaio bahá’í di quella città – ‘Abdu’l-Bahá l’aprì in presenza degli ospiti e, senza neppur toccare la colazione, spezzò il pane e lo condivise con i presenti – questi sono alcuni fra i numerosi episodi accaduti, che gettano una luce rivelatrice su alcuni aspetti privati dei Suoi memorabili viaggi.
24 Né si potranno mai cancellare dalla memoria alcuni episodi che si ripeterono attorno a quella maestosa e patriarcale Figura mentre viaggiava per le città europee e americane. Lo straordinario colloquio durante il quale, tenendo affettuosamente una mano sul capo dell’arcidiacono Wilberforce, ‘Abdu’l-Bahá rispose a molte delle sue domande, mentre il distinto uomo di chiesa sedeva su una bassa seggiola accanto a Lui, l’episodio ancor più straordinario, nella chiesa di San Giovanni Presbitero, quando lo stesso Arcidiacono, dopo essersi inginocchiato con tutti i fedeli per ricevere la Sua benedizione, attraversò tutta la navata fino alla sacrestia mano nella mano col suo Ospite, mentre tutti i fedeli, in piedi, cantavano un inno, lo spettacolo di Jalálu’d-Dawlih, che, prostrato ai Suoi piedi, si profondeva in scuse e implorava il Suo perdono per le iniquità commesse nel passato, l’entusiastica accoglienza che ricevette alla Leland Stanford University, quando di fronte a quasi duemila professori e studenti parlò di alcune delle più nobili verità fondamentali del Suo messaggio all’Occidente, la commovente scena alla Missione Bowery quando quattrocento poveri di New York sfilarono davanti a Lui, ricevendo dalle Sue mani benedette una moneta d’argento ciascuno, l’acclamazione di una donna siriana a Boston che, facendosi strada fra la folla accalcata attorno a Lui, si gettò ai Suoi piedi esclamando: «Dichiaro che in Te ho riconosciuto lo Spirito di Dio e Gesù Cristo in Persona», il non meno fervido omaggio tributatoGli da due arabi pieni d’ammirazione i quali, mentre era in procinto di lasciare la città per Dublino nel New Hampshire, si gettarono ai Suoi piedi, affermando fra i singhiozzi che Egli era il Messaggero di Dio per l’umanità, la vasta congregazione di duemila ebrei riuniti in una sinagoga di San Francisco, intenti ad ascoltarLo mentre dimostrava la validità delle affermazioni di Gesù Cristo e di Muhammad, il gruppo riunito una sera a Montreal, al quale parlò con tanto trasporto del tema che stava trattando che il turbante Gli cadde dalla testa, la rumorosa folla di un poverissimo quartiere parigino, che, soggiogata dalla Sua presenza, Gli fece ala, reverente e silenziosa, mentre Egli passava in mezzo a loro ritornando dalla sala di una Missione in cui aveva parlato ai fedeli, il tipico gesto di un medico zoroastriano il quale, giunto trafelato per salutare ‘Abdu’l-Bahá la mattina della Sua partenza da Londra, prima Gli unse la testa e il petto con un’essenza profumata e poi, toccando le mani di tutti i presenti, Gli cinse il collo e le spalle con una ghirlanda di boccioli di rosa e gigli, la folla di visitatori che arrivava subito dopo l’alba e aspettava pazientemente sui gradini dell’ingresso della Sua casa a Cadogan Gardens finché, aperta la porta, non li facevano entrare, la Sua figura maestosa che camminava con passo vigoroso su un podio o stava in piedi con le mani alzate per pronunciare la benedizione in chiese e sinagoghe davanti a folti uditori di reverenti ascoltatori, il segno di rispetto non richiesto che le signore della buona società londinese, introdotte alla Sua presenza, Gli tributavano spontaneamente facendoGli la riverenza, il commovente spettacolo quando Si chinò sulla tomba del diletto discepolo Thornton Chase, nel cimitero di Inglewood, e baciò la pietra tombale, esempio che tutti i presenti s’affrettarono a seguire, la famosa riunione durante la quale cristiani, ebrei e musulmani, uomini e donne, rappresentanti dell’Oriente e dell’Occidente, ascoltarono il Suo discorso sull’unità mondiale nella moschea di Woking – episodi come questi conservano ancora molto della solennità e della forza originaria perfino nel freddo resoconto di una pagina stampata.
25 Chissà quali sensazioni inondavano il cuore di ‘Abdu’l-Bahá mentre Si trovava al centro di scene memorabili come queste! Chissà quali pensieri dominavano la Sua mente mentre sedeva a colazione accanto al Sindaco di Londra, o veniva deferentemente ricevuto a palazzo dal Chedivè, o udiva le grida di «Alláh-u-Abhá» e gli inni di ringraziamento e di lode che annunciavano il Suo arrivo alle numerose e brillanti riunioni di seguaci e amici entusiasti, organizzate in tante città americane! E chissà quali memorie si agitavano in Lui mentre sostava davanti alle tonanti cascate del Niagara e respirava l’aria libera di una terra remota, o guardava, durante un breve e necessario riposo, i verdi boschi e la campagna di Glenwood Springs, o camminava, con un seguito di credenti orientali, per i viali dei giardini del Trocadero a Parigi, o passeggiava da solo la sera sulle rive del maestoso Hudson nel Riverside Drive a New York, o quando camminava sulla terrazza dell’Hotel del Parco a Thonon-les-Bains sul lago di Ginevra, o quando guardava dal Serpentine Bridge di Londra la collana di luci perlate che si allungava a perdita d’occhio sotto gli alberi! Ricordi dei dolori, della povertà e dell’incombente rovina dell’infanzia, ricordi della madre che aveva venduto i suoi bottoni d’oro per sfamare Lui, Suo fratello e Sua sorella e che, nelle ore più buie, era stata costretta a metterGli in mano un pugno di farina per placarGli la fame, o della fanciullezza, quand’era stato inseguito e deriso da una banda di canaglie nelle strade di Teheran, o della cupa e umida stanza, che era stata un obitorio, da Lui occupata nella caserma di ‘Akká e della Sua carcerazione nella prigione sotterranea della città – ricordi come questi devono sicuramente aver affollato la Sua mente. E deve aver anche pensato alla prigionia del Báb nelle fortezze montane dell’Azerbaigian, quando di notte Gli veniva negato persino un lume e alla Sua crudele e tragica esecuzione quando centinaia di proiettili avevano crivellato il Suo giovane petto. Ma soprattutto i Suoi pensieri devono essersi soffermati su Bahá’u’lláh Che Egli amava tanto appassionatamente e le Cui prove aveva visto e condiviso fin dalla fanciullezza. Il Síyáh-Chál di Teheran infestato dai parassiti, la fustigazione inflittaGli ad Ámul, il misero cibo che riempiva il Suo kashkúl nei due anni vissuti da derviscio nelle montagne del Kurdistán, i giorni di Baghdad quando non possedeva neanche un cambio di biancheria e i Suoi seguaci campavano con un pugno di datteri, il Suo confino dentro le mura della prigione di ‘Akká quando per nove anni Gli fu negato persino di vedere un po’ di verde, l’umiliazione che Gli era stata pubblicamente inflitta nel quartier generale del governo della città – immagini del tragico passato simili a queste devono averLo ripetutamente sopraffatto in un sentimento misto di gratitudine e dolore, mentre vedeva i numerosi segni di rispetto, stima e onore ora prodigati a Lui e alla Fede che rappresentava. «O Bahá’u’lláh! Che cos’hai fatto?», si dice abbia esclamato, come racconta il cronista dei Suoi viaggi, una sera in cui Lo accompagnavano su una veloce automobile al Suo terzo appuntamento della giornata a Washington. «O Bahá’u’lláh! Possa la mia vita esserTi sacrificata! O Bahá’u’lláh! Possa la mia anima essere offerta per amor Tuo! Com’erano pieni di prove e tribolazioni i Tuoi giorni! Com’erano dure le ordalie che sopportasti! Come sono solide le fondamenta che infine ponesti e com’è gloriosa la bandiera che hai dispiegato!» «Un giorno mentre passeggiava», racconta il medesimo cronista, «ricordò i giorni della Bellezza Benedetta, descrivendo con tristezza il Suo soggiorno a Sulaymáníyyih, la Sua solitudine e i torti che Gli erano stati inflitti. Pur avendo raccontato spesso quell’episodio, quel giorno fu così sopraffatto dall’emozione che singhiozzò forte dal dolore… Nell’udire il racconto delle dure prove che l’Antica Bellezza aveva sopportato e nel vedere la tenerezza di cuore manifestata da Suo Figlio, tutti i presenti piansero con Lui e precipitarono nel dolore».
26 Una scena molto significativa di un dramma durato un secolo era stata rappresentata. Un glorioso capitolo della storia del primo secolo bahá’í era stato scritto. Semi di inattese potenzialità erano stati sparsi dal Centro del Patto in alcuni dei fertili campi del mondo occidentale. Mai, nell’intero panorama della storia religiosa, una Figura di pari statura si era levata a compiere un lavoro di tali dimensioni, di tale imperituro valore. Da quei fatidici viaggi si sono sprigionate forze tali che ancora oggi, a distanza di quasi trentacinque anni, non siamo in grado di misurarle o comprenderle. Ispirata dagli autorevoli argomenti addotti da ‘Abdu’l-Bahá nei Suoi discorsi sulla Divinità di Muhammad, già una regina ha proclamato la sua fede e reso pubblica testimonianza all’origine divina del Profeta dell’Islam. Già un presidente degli Stati Uniti, assimilando alcuni dei principi da Lui così chiaramente enunciati nei Suoi discorsi, li ha incorporati in un Programma di pace che è la più ardita e nobile proposta sinora fatta per il benessere e la sicurezza dell’umanità. E già, purtroppo, il mondo, sordo ai Suoi ammonimenti e incurante dei Suoi appelli, è precipitato in due guerre mondiali di inaudita violenza, le cui ripercussioni nessuno ancora può sia pur pallidamente immaginare.
CAPITOLO XXCrescita ed espansione della Fede in Oriente e in Occidente
1 Si può dire che gli storici viaggi di ‘Abdu’l-Bahá in Occidente, e in particolare il Suo giro di otto mesi negli Stati Uniti d’America, abbiano segnato l’apogeo del Suo ministero, un ministero le cui incalcolabili benedizioni e i cui meravigliosi successi solo le future generazioni potranno valutare adeguatamente. Come l’astro della Rivelazione di Bahá’u’lláh aveva brillato nel suo splendore meridiano nell’ora della proclamazione del Suo Messaggio ai governanti della terra nella città di Adrianopoli, così l’Orbe del Suo Patto toccò lo zenit e irradiò i suoi più fulgidi raggi quando Colui Che ne era il Centro designato Si levò a proclamare la gloria e la grandezza della Fede di Suo Padre fra i popoli dell’Occidente.
2 Già poco dopo il suo inizio, quel Patto divinamente istituito aveva inconfutabilmente dimostrato la sua forza invincibile con un decisivo trionfo sulle forze oscure che il suo arciviolatore aveva con tanta determinazione schierato contro di esso. Il suo potere energetico era stato subito dopo proclamato dalle cospicue vittorie che i suoi tedofori avevano così rapidamente e coraggiosamente riportato nelle remote città dell’Europa Occidentale e degli Stati Uniti d’America. I suoi alti titoli erano inoltre stati pienamente comprovati dalla sua capacità di salvaguardare l’unità e l’integrità della Fede in Oriente e in Occidente. Aveva poi dato ulteriore prova della sua forza indomabile con la memorabile vittoria che registrò con la caduta del sultano ‘Abdu’l-Hamíd e la conseguente liberazione del suo Centro designato da una prigionia quarantennale. A chi fosse ancora incline a dubitare della sua origine divina aveva dato un’ulteriore indiscutibile testimonianza della propria solidità permettendo ad ‘Abdu’l-Bahá di completare, malgrado gli enormi ostacoli, il trasferimento e la definitiva tumulazione delle spoglie del Báb in un Mausoleo sul monte Carmelo. Aveva inoltre manifestato le sue vaste potenzialità davanti a tutta l’umanità, con forza e in misura fino ad allora ineguagliate, allorché aveva dato a Colui Che ne custodiva gli scopi e lo spirito il potere d’intraprendere nel mondo occidentale una missione triennale, una missione così importante da meritare di essere considerata la più grande impresa associata al Suo ministero.
3 E tuttavia questi, pur preminenti, non sono gli unici frutti prodotti dagli infaticabili sforzi così eroicamente compiuti dal Centro del Patto. Il progresso e la diffusione della Fede di Suo Padre in Oriente, l’avvio di attività e imprese che si può dire segnino gli inizi del futuro Ordine Amministrativo, l’erezione del primo Mashriqu’l-Adhkár del mondo bahá’í nella città di ‘Ishqábád nel Turchestan russo, l’espansione della letteratura bahá’í, la rivelazione delle Tavole del Piano Divino e l’introduzione della Fede nel continente australiano, questi possono essere considerati i principali successi che hanno adornato le brillanti cronache dell’impareggiabile ministero di ‘Abdu’l-Bahá.
4 In Persia, culla della Fede, malgrado le persecuzioni che negli anni di quel ministero proseguirono con immutata violenza, si poté chiaramente vedere un notevole cambiamento che segnò la graduale emersione della comunità proscritta da un’esistenza fino ad allora clandestina. Quattro anni dopo l’ascensione di Bahá’u’lláh, Násiri’d-Dín Sháh aveva trovato la morte alla vigilia del suo giubileo designato a segnare una svolta nella storia del paese, per mano di un assassino di nome Mirza Ridá, seguace del famigerato Siyyid Jamálu’d-Dín-i-Afghání, nemico della Fede, uno dei padri di quel movimento costituzionale che, guadagnando importanza durante il regno di Muzaffari’d-Dín, figlio e successore dello Scià, avrebbe trascinato in ulteriori difficoltà la comunità già braccata e perseguitata. Persino l’assassinio dello Scià era stato inizialmente imputato alla comunità, com’è dimostrato dalla crudele morte inferta, immediatamente dopo l’uccisione del sovrano, al rinomato insegnante e poeta Mirza ‘Alí-Muhammad, che Bahá’u’lláh soprannominò «Varqá» (Colomba), spietatamente ucciso con il figlio dodicenne, Rúhu’lláh, nella prigione di Teheran dal brutale Hájibu’d-Dawlih, il quale, dopo aver affondato il pugnale nel ventre del padre e averlo fatto a pezzi sotto gli occhi del figlio, ordinò al ragazzo di abiurare e, avendone ricevuto un reciso rifiuto, lo strangolò con una corda.
5 Tre anni prima, a Yazd un giovane chiamato Muhammad-Ridáy-i-Yazdí fu ucciso a colpi di fucile la notte delle sue nozze mentre dal bagno pubblico andava a casa, il primo a subire il martirio durante il ministero di ‘Abdu’l-Bahá. A Turbat-i-Haydaríyyih, in seguito all’assassinio dello Scià, furono messe a morte cinque persone conosciute come gli Shuhadáy-i-Khamsih (Cinque Martiri). A Mashhad un notissimo commerciante, Hájí Muhammad-i-Tabrízí, fu assassinato e il suo cadavere dato alle fiamme. Il nuovo sovrano e il suo gran visir, Mirza ‘Alí-Asghar Khán, l’Atábik-i-A‘zam, uomo privo di scrupoli e reazionario, concessero un colloquio a due rappresentanti della Fede a Parigi nel 1902, ma non ne sortì alcun risultato concreto. Anzi, pochi anni dopo si ebbe nel paese un nuovo scoppio di persecuzioni, che s’inasprirono ulteriormente via via che il movimento costituzionale andò sviluppandosi nel paese, perché i reazionari adducevano contro i bahá’í accuse infondate e li denunciavano pubblicamente di essere sostenitori e ispiratori della causa nazionalista.
6 A Isfáhán un certo Muhammad-Javád fu denudato e ferocemente picchiato con una frusta di fili metallici intrecciati, mentre a Káshán, per istigazione del clero musulmano e dei dottori ebrei, gli aderenti alla Fede di estrazione ebraica furono multati, percossi e incatenati. Ma fu a Yazd e dintorni che vennero commessi i più sanguinosi oltraggi che siano stati perpetrati durante il ministero di ‘Abdu’l-Bahá. In quella città Hájí Mirzay-i-Halabí-Sáz fu così crudelmente frustato che la moglie si gettò sul suo corpo e fu a sua volta duramente colpita, dopo di che gli spaccarono il cranio con una mannaia da macellaio. Il figlio undicenne fu spietatamente picchiato, trafitto con temperini e torturato a morte. Nello spazio di mezza giornata trovarono la morte nove persone. Una folla di circa seimila persone di ambo i sessi sfogarono la loro furia su vittime indifese, delle quali alcuni giunsero persino a bere il sangue. Talvolta, come nel caso di un uomo chiamato Mirza Asadu’lláh-i-Sabbágh, la folla ne saccheggiò le proprietà disputandosene il possesso. Tale fu la crudeltà che alcuni funzionari del governo, al vedere le strazianti scene nelle quali le donne della città ebbero un ruolo cospicuamente vergognoso, scoppiarono in lacrime.
7 A Taft molti vennero messi a morte, certuni furono uccisi a colpi di fucile e i loro corpi furono trascinati per le strade. Un neofita diciottenne di nome Husayn fu denunciato dal padre e fatto a pezzi sotto gli occhi della madre, mentre Muhammad-Kamál fu straziato con coltelli, vanghe e picconi. A Manshád dove le persecuzioni durarono diciannove giorni, vennero perpetrate analoghe atrocità. Un giovane diciottenne, che si chiamava Siyyid Mirza, fu ucciso sul colpo nel sonno da due enormi pietre che gli furono gettate addosso, un certo Mirza Sádiq che aveva chiesto dell’acqua ricevette una coltellata in pieno petto e il suo carnefice leccò il sangue dalla lama, mentre un’altra vittima, Shátir-Hasan, fu visto, prima di morire, distribuire ai carnefici un po’ di dolci che aveva con sé e dividere fra loro i suoi vestiti. Una donna di sessantacinque anni, Khadíjih-Sultán, fu scaraventata giù dal tetto di una casa, un credente di nome Mirza-Muhammad fu legato a un albero, bersagliato con centinaia di pallottole e il suo corpo fu bruciato, mentre un altro, Ustád Ridáy-i-Saffár fu visto baciare la mano del suo uccisore, dopo di che fu fucilato e il suo cadavere fu oltraggiato.
8 Crimini della stessa natura vennero commessi a Banáduk, Dih-Bálá, Faráshád, ‘Abbás-Ábád, Hanzá, Ardikán, Dawlat-Ábád e a Hamadán. Clamoroso fu il caso di una donna molto rispettata e coraggiosa, di nome Fátimih-Bagum, alla quale, dopo averla ignominiosamente trascinata fuori di casa, fu strappato il velo dal capo, squarciata la gola e squartato il ventre, colpita dalla folla selvaggia con tutte le armi che erano a portata di mano, alla fine fu appesa a un albero e data alle fiamme.
9 A Sárí, nei giorni in cui l’agitazione per la costituzione stava giungendo al culmine, furono uccisi cinque credenti di indiscusso rango, poi conosciuti come Shuhadáy-i-Khamsih (Cinque martiri), mentre a Nayríz fu sferrato dal nemico un feroce assalto che ricorda quello di Yazd, nel corso del quale persero la vita diciannove persone fra cui il sessantacinquenne Mullá ‘Abdu’l-Hamíd, cieco, ucciso a colpi di fucile, il cui cadavere fu oscenamente oltraggiato, moltissime proprietà furono saccheggiate, e numerose donne e bambini dovettero fuggire per aver salva la vita, o rifugiarsi in una moschea, o vivere nelle rovine delle loro case, o rimanere senza tetto per la strada.
10 A Sírján, Dúgh-Ábád, Tabríz, Ávih, Qum, Najaf-Ábád, Sangsar, ShahMirzad, Isfáhán e Jahrum, irriducibili e inesorabili nemici religiosi e politici, anche dopo che lo Scià ebbe firmata la Costituzione nel 1906 e durante il regno dei suoi successori, Muhammad-‘Alí Sháh e Ahmad Sháh, continuarono, con vari pretesti, a trucidare, torturare, saccheggiare e oltraggiare i membri della comunità che si rifiutavano risolutamente di abiurare o di deviare, sia pure di un capello, dalla strada prescritta dai loro Capi. Anche durante i Suoi viaggi in Occidente e dopo il Suo ritorno in Terra Santa, in verità fino alla fine della Sua vita, ‘Abdu’l-Bahá continuò a ricevere desolanti notizie di martiri di Suoi seguaci e di oltraggi perpetrati contro di loro da un insaziabile nemico. A Dawlat-Ábád, un principe di sangue reale chiamato Habíbu’lláh Mirza, che convertitosi alla Fede aveva consacrato la vita al suo servizio, fu ucciso con un’ascia e il cadavere venne dato alle fiamme. A Mashhad il dotto e pio Shaykh ‘Alí Akbar-i-Qúcháni fu ucciso a colpi d’arma da fuoco. A Sultán-Ábád, Mirza ‘Alí-Akbar e sette membri della sua famiglia, compreso un bambino di quaranta giorni, furono barbaramente massacrati. Persecuzioni di varia gravità scoppiarono a Ná’ín, ShahMirzad, Bandar-i-Jaz e a Qamsar. A Kirmánsháh il martire Mirza Ya‘qúb-i-Muttahidih, l’ardente ebreo venticinquenne convertito alla Fede, fu l’ultimo a sacrificare la vita durante il ministero di ‘Abdu’l-Bahá e la madre, seguendo le sue istruzioni, celebrò il suo martirio a Hamadán con forza d’animo esemplare. In tutte le occasioni, il comportamento dei credenti testimoniò lo spirito indomabile e l’incrollabile tenacia che continuò a contraddistinguere la vita e i servigi dei seguaci persiani della Fede di Bahá’u’lláh.
11 Malgrado queste intermittenti dure persecuzioni, la Fede, che aveva ispirato nei suoi eroi un così raro spirito di sacrificio, continuò a crescere costantemente e silenziosamente. Sommersa per qualche tempo e quasi estinta nei cupi giorni che seguirono il martirio del Báb, costretta alla clandestinità per l’intera durata del ministero di Bahá’u’lláh, dopo la Sua ascensione incominciò, sotto l’infallibile guida e per l’inesauribile sollecitudine di un saggio, vigile e amorevole Maestro, a raccogliere le forze e a erigere gradualmente quelle istituzioni embrionali che dovevano preparare la via alla successiva instaurazione dell’Ordine Amministrativo. In questo periodo il numero dei suoi aderenti si moltiplicò rapidamente, il suo campo d’azione, che comprendeva ora tutte le province del regno, s’allargò costantemente e furono istituite le forme rudimentali delle future Assemblee. In questo periodo, mentre nel paese quasi non esistevano scuole o università statali e l’istruzione impartita nelle istituzioni religiose operanti era deplorevolmente imperfetta, furono fondate le prime scuole bahá’í, a cominciare dalle Tarbíyat di Teheran per ragazzi e ragazze, cui seguirono le Ta’yíd e Mawhibat ad Hamadán, la Vahdat-i-Bashar a Káshan e altri istituti educativi simili a Bárfurúsh e Qazvín. In questi anni, la comunità bahá’í del paese ricevette le prime forme di assistenza spirituale e materiale attraverso insegnanti viaggianti provenienti dall’America e dall’Europa, governanti, istruttori e medici, operatori che costituirono l’avanguardia di quella legione di aiutanti che ‘Abdu’l-Bahá promise sarebbe sorta col tempo per difendere gli interessi della Fede e del paese in cui essa era nata. In questi anni il termine Bábí, appellativo che nel paese indicava i seguaci di Bahá’u’lláh, fu universalmente abbandonato dalle masse in favore della parola bahá’í e, da allora in poi, il termine Bábí fu usato esclusivamente per indicare i sempre meno numerosi seguaci di Mirza Yahyá. In questo periodo, si fecero inoltre i primi tentativi sistematici per organizzare e stimolare il lavoro di insegnamento intrapreso dai credenti persiani, tentativi che oltre che a rafforzare le fondamenta della comunità valsero ad attrarre alla sua causa parecchie figure preminenti della vita pubblica del paese, fra i quali insigni membri dell’ordine sacerdotale sciita e persino discendenti di alcuni dei peggiori persecutori della Fede. Durante gli anni di quel ministero la casa del Báb a Shíráz, che Bahá’u’lláh aveva decretato essere centro di pellegrinaggio per i Suoi seguaci e che come tale veniva ora riconosciuta, fu restaurata per ordine di ‘Abdu’l-Bahá e con la Sua assistenza e divenne sempre più un centro focale di vita e attività bahá’í per coloro ai quali le circostanze impedivano di visitare la Più Grande Casa a Baghdad o la Più Santa Tomba ad ‘Akká.
12 Ma ben più importante di tutte queste imprese fu l’erezione del primo Mashriqu’l-Adhkár del mondo bahá’í nella città di ‘Ishqábád, un centro fondato ai tempi di Bahá’u’lláh, dove i primi provvedimenti preliminari in vista della sua costruzione erano già stati presi durante la Sua vita. Incominciata verso la fine del primo decennio del ministero di ‘Abdu’l-Bahá (1902), da Lui promossa in ciascuno degli stadi del suo sviluppo, personalmente sovrintesa dal venerabile Hájí Mirza Muhammad-Taqí, il Vakílu’d-Dawlih, cugino del Báb, che dedicò alla costruzione tutte le sue risorse e le cui ceneri riposano ora ai piedi del monte Carmelo all’ombra della tomba del suo diletto Congiunto, portata avanti secondo le direttive impartite dal Centro del Patto, durevole testimonianza del fervore e della abnegazione dei credenti orientali ben decisi a seguire l’ingiunzione di Bahá’u’lláh rivelata nel Kitáb-i-Aqdas, questa impresa non deve essere considerata soltanto la prima grande iniziativa intrapresa dagli sforzi congiunti dei Suoi seguaci nell’Età eroica della Fede, ma anche uno dei successi più brillanti e duraturi del primo secolo bahá’í.
13 L’edificio, la cui prima pietra fu posta alla presenza del generale Krupatkin, governatore generale del Turchestan, delegato dallo Zar a rappresentarlo alla cerimonia, è stato minuziosamente descritto da un visitatore bahá’í occidentale. «Il Mashriqu’l-Adhkár sorge nel cuore della città e la sua alta cupola che sovrasta gli alberi e i tetti delle case è visibile per miglia e miglia dai viaggiatori che si avvicinano alla città. Sorge al centro di un giardino delimitato da quattro strade. Ai quattro angoli della recinzione vi sono quattro edifici: uno è la scuola bahá’í, un altro la foresteria dove alloggiano pellegrini e viaggiatori, l’altro ancora è per i custodi, mentre il quarto sarà usato come ospedale. Conducono al Tempio nove strade radiali che si dipartono da punti diversi del terreno e una, l’accesso più importante alla costruzione, porta direttamente dal cancello principale del giardino al portale del Tempio». «In pianta», prosegue, «il fabbricato è composto da tre sezioni, la rotonda centrale, la navata o ambulacro che la circonda e il loggiato che abbraccia l’intero edificio. Ha la forma di un poligono regolare a nove lati. Un lato è occupato dal monumentale ingresso principale fiancheggiato da minareti, un alto portico ad arco a due piani, che nella struttura architettonica ricorda il famoso Taj Mahal di Agra in India, delizia dei viaggiatori, molti dei quali lo definiscono il più bel tempio del mondo. Così la porta principale guarda verso la Terra Santa. L’intera costruzione è circondata da due serie di balconate, una superiore e una inferiore, che si aprono sul giardino, creando un bellissimo effetto architettonico in armonia con la lussureggiante vegetazione semitropicale che lo riempie… Le pareti interne della rotonda sono suddivise in cinque piani. Al primo, una serie di nove arcate e pilastri divide la rotonda dall’ambulacro. Al secondo, una struttura simile con balaustre che separano il triforio (situato sopra l’ambulacro e raggiungibile attraverso due scalinate nelle balconate ai lati della porta principale) dal pozzo della rotonda. Al terzo, una serie di nove archi decorati a traforo inframmezzati da stemmi col Più Grande Nome. Al quarto, una fila di nove ampie finestre ad arco. Al quinto, una serie di diciotto finestre a occhio di bue. Sopra, appoggiata su una cornice sovrastante l’ultimo piano, s’innalza la parte più interna, emisferica della cupola. L’interno è decorato con elaborati stucchi in rilievo… L’intera struttura colpisce per la massa e la forza».
14 E non si può far a meno di citare le due scuole maschile e femminile fondate nella città, la casa dei pellegrini istituita nelle immediate vicinanze del Tempio, l’Assemblea Spirituale e i suoi corpi ausiliari formati per amministrare gli affari dell’emergente comunità e i nuovi centri di attività inaugurati in varie città e cittadine nella provincia del Turchestan, tutte testimonianze della vitalità dimostrata dalla Fede nel paese fin dall’inizio.
15 Sviluppi simili, anche se meno spettacolari, si ebbero nel Caucaso. Dopo l’apertura del primo centro e la formazione di un’Assemblea a Bákú, una città invariabilmente visitata dai pellegrini bahá’í che sempre più numerosi dalla Persia andavano in Terra Santa attraversando la Turchia, incominciarono a organizzarsi nuovi gruppi che, evolvendosi col tempo in comunità ben sviluppate, sempre più cooperarono con i confratelli del Turchestan e della Persia.
16 In Egitto, al costante aumento di numero degli aderenti alla Fede s’accompagnò un’espansione generale delle attività. L’apertura di nuovi centri, il consolidamento del centro principale installato al Cairo, la conversione di alcuni dei migliori studenti e docenti dell’università di Azhar soprattutto grazie agli infaticabili sforzi del dotto Mirza Abu’l-Fadl, segni premonitori dell’avvento del giorno in cui, secondo ‘Abdu’l-Bahá, il vessillo e l’emblema della Fede sarebbero stati issati nel cuore di quel venerando centro di studi islamico, la traduzione in arabo e la diffusione di alcuni dei più importanti scritti di Bahá’u’lláh rivelati in persiano assieme ad altra letteratura bahá’í, la pubblicazione di libri, trattati e opuscoli di autori e studiosi bahá’í, la pubblicazione sulla stampa di articoli scritti per difendere la Fede e far conoscere il suo messaggio, la formazione di rudimentali istituzioni amministrative nella capitale e nei centri vicini, l’arricchimento della vita comunitaria grazie all’aggiunta di convertiti di origine curda, copta e armena, questi possono considerarsi i primi frutti raccolti in una terra che, benedetta dalle orme dei passi di ‘Abdu’l-Bahá, in anni successivi avrebbe svolto una parte storica nell’emancipazione della Fede e, in virtù della sua posizione impareggiabile quale centro intellettuale del mondo islamico e arabo, avrebbe inevitabilmente assunto una parte notevole e decisiva di responsabilità nell’insediamento finale della Fede in Oriente.
17 Ancor più notevole fu l’espansione delle attività bahá’í in India e in Birmania, le cui comunità in continuo aumento, che ora comprendevano fra i loro membri rappresentanti delle Fedi zoroastriana, islamica, indù, buddhista e sikh, riuscirono a piazzare i loro avamposti sino a Mandalay e nel villaggio di Daidanaw Kalazoo nel distretto birmano di Hanthawaddy, dove risiedevano oltre ottocento bahá’í, con una scuola, un tribunale, un ospedale di loro proprietà e terra da coltivare, i cui profitti venivano devoluti alla promozione degli interessi della Fede.
18 In Iraq dove la Casa occupata da Bahá’u’lláh fu interamente restaurata e rinnovata e la piccola ma intrepida comunità lottò contro una costante opposizione per dirigere e amministrare i propri affari, a Costantinopoli dove fu aperto un centro bahá’í, a Tunisi dove furono poste solide fondamenta della comunità locale, in Giappone, in Cina e a Honolulu dove arrivarono, si stabilirono e insegnarono insegnanti viaggianti, in tutti questi luoghi si videro chiaramente i molteplici segni della mano maestra di ‘Abdu’l-Bahá e i tangibili effetti della Sua insonne vigilanza e della Sua indefettibile cura.
19 Le nascenti comunità fondate in Francia, in Inghilterra, in Germania e negli Stati Uniti dopo le Sue memorabili visite in quei paesi, continuarono a ricevere ulteriori segni del Suo speciale interesse e della Sua sollecitudine per il loro benessere e il loro progresso spirituale. Grazie alle Sue direttive, all’incessante flusso delle Sue Tavole indirizzate ai membri di queste comunità e al Suo costante incoraggiamento per gli sforzi che essi compivano, i centri bahá’í si moltiplicarono costantemente, si organizzarono riunioni pubbliche, si pubblicarono nuovi periodici, furono date alle stampe e divulgate traduzioni in inglese, francese e tedesco di alcune delle più note opere di Bahá’u’lláh e delle Tavole di ‘Abdu’l-Bahá e s’intrapresero i primi tentativi per organizzare gli affari e consolidare le fondamenta di queste nuove comunità.
20 Nel continente nordamericano, in particolare, i membri della fiorente comunità, ispirati dalle benedizioni elargite da ‘Abdu’l-Bahá, dal Suo esempio e dalle azioni da Lui compiute nel corso della Sua lunga visita al loro paese, dettero un saggio della magnifica impresa che avrebbero compiuto negli anni successivi. Comprarono i dodici restanti lotti facenti parte del terreno scelto per costruirvi il Tempio, durante le sessioni della Convenzione del 1920 scelsero il progetto dell’architetto bahá’í franco-canadese, Louis Bourgeois, stipularono il contratto per gli scavi e la posa delle fondamenta e, poco dopo, riuscirono a completare i necessari accordi per la costruzione del basamento, misure che precorsero i meravigliosi sforzi che, dopo l’ascensione di ‘Abdu’l-Bahá, culminarono nell’erezione della sovrastruttura e nel completamento della decorazione esterna.
21 La guerra del ’14-18, ripetutamente predetta da ‘Abdu’l-Bahá nei tristi avvertimenti che pronunciò durante i Suoi viaggi in Occidente, che scoppiò otto mesi dopo il Suo ritorno in Terra Santa, gettò ancora una volta sulla Sua vita l’ombra del pericolo, l’ultima ombra che oscurò gli anni del Suo tumultuoso ma glorioso ministero.
22 La tardiva partecipazione degli Stati Uniti d’America a quel conflitto che sconvolse il mondo, la neutralità della Persia, la lontananza dell’India e dell’Estremo Oriente dal centro delle operazioni assicurarono la protezione della stragrande maggioranza dei Suoi seguaci che, sebbene perlopiù completamente tagliati fuori per qualche anno dal centro spirituale della Fede, riuscirono tuttavia a condurre i loro affari e a salvaguardare i frutti dei recenti successi in relativa sicurezza e libertà.
23 Ma in Terra Santa, anche se quella tremenda guerra doveva concludersi nella definitiva liberazione del Cuore e del Centro della Fede dal giogo turco, un giogo che tanto a lungo aveva imposto al suo Fondatore e ai Suoi successori restrizioni così oppressive e umilianti, tuttavia durante la maggior parte del conflitto dure privazioni e gravi pericoli continuarono a pesare sui suoi abitanti e, per qualche tempo, rinnovarono i rischi che avevano minacciato ‘Abdu’l-Bahá negli anni della Sua carcerazione acritana. Le privazioni inflitte agli abitanti dalla grossolana incompetenza, dalla vergognosa negligenza, dalla crudeltà e dall’incallita indifferenza delle autorità civili e militari, pur molto alleviate dalla munifica generosità, dalla previdenza e dalla tenera cura di ‘Abdu’l-Bahá, furono aggravate dai rigori di un durissimo blocco. La minaccia di un bombardamento di Haifa da parte degli alleati era costante, e una volta fu così reale che impose il temporaneo spostamento di ‘Abdu’l-Bahá, della Sua famiglia e dei membri della comunità nel villaggio di Abú-Sinán ai piedi delle alture a oriente di ‘Akká. Il comandante in capo turco, il brutale, onnipotente e spregiudicato Jamál Páshá, inveterato nemico della Fede, spinto da sospetti infondati e dall’istigazione dei nemici della Fede, aveva già duramente infierito contro ‘Abdu’l-Bahá, manifestando persino l’intenzione di crocefiggerLo e di radere al suolo la Tomba di Bahá’u’lláh. ‘Abdu’l-Bahá era ancora sofferente a causa degli acciacchi e della spossatezza prodotti dalle fatiche di tre anni di viaggi. Risentiva pesantemente della virtuale interruzione di tutte le comunicazioni con la maggior parte dei centri bahá’í del mondo. Il Suo animo si riempiva di dolore allo spettacolo della carneficina che si era scatenata perché l’umanità non aveva risposto ai Suoi appelli né dato ascolto ai Suoi avvertimenti. Altri affanni s’aggiunsero sicuramente al peso delle prove e delle vicissitudini che, fin dall’infanzia, aveva così eroicamente sopportato per amore della Causa di Suo Padre e al suo servizio.
24 E tuttavia, in quei foschi giorni la cui oscurità ricordava le tribolazioni patite nel periodo più pericoloso della Sua carcerazione nella fortezza di ‘Akká, ‘Abdu’l-Bahá, Si trovasse nei recinti del Mausoleo del Padre, o nella casa di Lui ad ‘Akká, o all’ombra del Sepolcro del Báb sul monte Carmelo, Si sentì spinto a concedere ancora una volta, l’ultima nella vita, un cospicuo segno del Suo speciale favore alla comunità dei Suoi seguaci americani, investendoli alla vigilia della fine del Suo ministero terreno, con la rivelazione delle Tavole del Piano Divino, di una missione planetaria, le cui piene implicazioni ancora oggi, trascorso un quarto di secolo, restano nascoste, i cui attuali sviluppi, pur agli stadi iniziali, hanno già tanto arricchito gli annali spirituali e amministrativi del primo secolo bahá’í.
25 La fine del terribile conflitto, il primo stadio del titanico sconvolgimento predetto molto tempo prima da Bahá’u’lláh, non solo segnò la fine del dominio turco in Terra Santa, non solo decise la sorte del despota militare che aveva giurato di distruggere ‘Abdu’l-Bahá, ma infranse definitivamente le ultime speranze dei superstiti violatori del Patto i quali, malgrado il duro castigo che li aveva già colpiti, aspiravano ancora a vedere l’estinzione della luce del Patto di Bahá’u’lláh. La guerra produsse, inoltre, quei rivoluzionari cambiamenti che, per un verso, realizzarono le funeste predizioni fatte da Bahá’u’lláh nel Kitáb-i-Aqdas e, secondo le profezie delle Scritture, permisero che gran parte degli «scacciati di Israele», «il rimanente» del «gregge», «si adunassero» in Terra Santa e fossero ricondotti «ai loro pascoli» ed «entro i loro confini» all’ombra dell’«incomparabile Rampollo» cui ‘Abdu’l-Bahá accenna nelle «Lezioni di San Giovanni d’Acri» e, per un altro verso, diedero vita all’istituzione della Società delle nazioni, precursore di quel Tribunale mondiale che, come ha profetizzato lo stesso «incomparabile Rampollo», i popoli e le nazioni della terra dovranno fondare di comune accordo.
26 Non è necessario soffermarsi sulle energiche misure che i credenti inglesi adottarono, non appena si resero conto del grave pericolo che la Sua vita correva, per garantire la sicurezza di ‘Abdu’l-Bahá, su quelle che furono prese indipendentemente per cui Lord Curzon e gli altri membri del Gabinetto inglese furono informati della critica situazione ad Haifa, sul pronto intervento di Lord Lamington che scrisse immediatamente al Ministero degli esteri per «illustrare l’importanza della posizione di ‘Abdu’l-Bahá», sul dispaccio che il Segretario degli esteri, Lord Balfour, mandò al generale Allenby lo stesso giorno in cui ricevette la notizia, ordinandogli di «assicurare ogni protezione e considerazione ad ‘Abdu’l-Bahá, alla Sua famiglia e ai Suoi amici», sul cablogramma successivamente inviato dal Generale a Londra, dopo la caduta di Haifa, perché le autorità «notificassero al mondo che ‘Abdu’l-Bahá è salvo», sugli ordini impartiti dallo stesso Generale al Comandante in capo delle operazioni ad Haifa per garantire la Sua sicurezza vanificando così le intenzioni che il Comandante in capo turco aveva espresso (secondo informazioni pervenute all’Intelligence Service) di «crocefiggere ‘Abdu’l-Bahá e la Sua famiglia sul monte Carmelo» nell’eventualità che l’esercito turco fosse stato costretto a evacuare Haifa e a ritirarsi a nord.
27 I tre anni intercorsi fra la liberazione della Palestina per mano delle forze britanniche e il trapasso di ‘Abdu’l-Bahá furono segnati da un ulteriore aumento del prestigio che la Fede, malgrado le persecuzioni subite, aveva acquistato nel centro mondiale e da un ulteriore ampliamento dell’ambito delle sue attività d’insegnamento in varie parti del mondo. Il pericolo che per sessantacinque anni aveva minacciato la vita dei Fondatori della Fede e del Centro del Patto era ormai stato completamente e definitivamente scongiurato dalla guerra. Da allora in poi, grazie alla sostituzione della corrotta amministrazione del passato con un nuovo regime liberale, il Capo della Fede e le sue sacre Tombe gemelle nella piana di ‘Akká e sulle falde del monte Carmelo avrebbero goduto, per la prima volta, di una completa libertà da restrizioni, che sarebbe poi sfociata in un più chiaro riconoscimento delle istituzioni della Causa. Le autorità inglesi non tardarono a esprimere ad ‘Abdu’l-Bahá il loro apprezzamento per il ruolo che aveva svolto nell’alleviare il peso delle sofferenze che avevano gravato sugli abitanti della Terra Santa negli oscuri giorni di quel doloroso conflitto. Il cavalierato, che Gli fu conferito durante una cerimonia espressamente celebrata ad Haifa nella residenza del Governatore britannico dove i notabili di diverse comunità si erano riuniti, la visita del generale e di Lady Allenby, che furono Suoi ospiti a colazione a Bahjí e che Egli accompagnò alla Tomba di Bahá’u’lláh, il Suo incontro nella residenza di Haifa con re Feisal, che poco dopo divenne sovrano dell’Iraq, le numerose visite di Sir Herbert Samuel (più tardi visconte Samuel del Carmelo), prima e dopo la sua nomina ad Alto commissario per la Palestina, l’incontro con Lord Lamington, che Lo andò a trovare ad Haifa con l’allora Governatore di Gerusalemme Sir Ronald Storrs, i segni sempre più numerosi del riconoscimento della Sua alta e incomparabile posizione da parte di tutte le comunità religiose, musulmane, cristiane o ebree, l’afflusso di pellegrini che da Oriente e Occidente venivano in Terra Santa e ad Haifa in relativa sicurezza e comodità per visitare le Sante Tombe di ‘Akká e Haifa, per porgerGli il loro omaggio, per celebrare la particolare protezione che la Provvidenza aveva garantita alla Fede e ai suoi seguaci e per rendere grazie per la definitiva liberazione del suo Capo e del suo Centro mondiale dal giogo turco, tutti questi fatti contribuirono, ciascuno a proprio modo, ad accrescere il prestigio che la Fede di Bahá’u’lláh era andata costantemente e gradualmente acquistando sotto l’ispirata guida di ‘Abdu’l-Bahá.
28 Mentre il ministero di ‘Abdu’l-Bahá volgeva al termine, i segni dell’irresistibile e multiforme sviluppo della Fede in Oriente e in Occidente si moltiplicavano con la formazione e il consolidamento delle sue istituzioni e con l’ampliamento dell’ambito delle sue attività e della sua influenza. Nella città di ‘Ishqádád fu felicemente ultimata la costruzione del Mashriqu’l-Adhkár che Egli aveva incominciata. A Wilmette furono completati gli scavi per il Tempio madre dell’Occidente e fu stipulato il contratto per la posa del suo basamento. A Baghdad, secondo le Sue specifiche istruzioni, furono fatti i primi passi per consolidare le fondamenta e restaurare la Più Grande Casa associata alla memoria di Suo Padre. In Terra Santa, un’estesa proprietà a oriente del Sepolcro del Báb fu acquistata per iniziativa della santa Madre e con l’assistenza dei contributi di bahá’í orientali e occidentali, da utilizzare come terreno per la futura erezione della prima scuola bahá’í nel Centro amministrativo mondiale della Fede. Nelle vicinanze della residenza di ‘Abdu’l-Bahá fu inoltre acquistato un terreno per un Ostello per i pellegrini occidentali il cui edificio fu costruito da credenti americani poco dopo il Suo trapasso. All’Ostello dei pellegrini orientali, che era stato eretto sul monte Carmelo da un credente di ‘Ishqábád poco dopo la tumulazione dei resti del Báb per l’uso dei pellegrini in visita, fu concessa dalle autorità civili l’esenzione dalle tasse (e fu questa la prima volta che un simile privilegio veniva concesso da quando la Fede s’era insediata in Terra Santa). Il famoso scienziato ed entomologo Auguste Forel fu convertito alla Fede per l’influenza di una Tavola a lui indirizzata da ‘Abdu’l-Bahá, una delle più ponderose fra le Tavole scritte dal Maestro. Un’altra Tavola di grande importanza fu la Sua risposta a una comunicazione a Lui indirizzata dal Comitato esecutivo dell’«Organizzazione centrale per una pace duratura», che Egli inviò all’Aia per mano di una speciale delegazione. Un nuovo continente fu aperto alla Causa quando, rispondendo alle Tavole del Piano Divino divulgate alla prima Convenzione del dopoguerra, il magnanimo ed eroico Hyde Dunn, alla tarda età di sessantadue anni, abbandonò senza indugi la sua casa in California e, assecondato e accompagnato dalla moglie, si stabilì in Australia come pioniere, portando il messaggio in più di settecento città della Confederazione. Un altro episodio ebbe inizio quando, in sollecita risposta a quelle stesse Tavole e alle loro intimazioni, la luminosa ancella di Bahá’u’lláh, l’indomita e immortale Martha Root, chiamata dal suo Maestro «Araldo del Regno» e «messaggera del Patto», partì per il primo dei suoi storici viaggi che si sarebbero protratti per un periodo di vent’anni, l’avrebbero portata a fare più volte il giro del mondo, per concludersi solo con la sua morte, lontano da casa e in attivo servizio della Causa che aveva tanto amato. Questi avvenimenti segnano lo stadio conclusivo di un ministero che suggellò il trionfo dell’Età eroica della Dispensazione bahá’í e che passerà alla storia come uno dei più gloriosi e fruttuosi periodi del primo secolo bahá’í.
CAPITOLO XXI1 La grande opera di ‘Abdu’l-Bahá era finita. La storica Missione di cui Suo Padre L’aveva investito ventinove anni prima era stata gloriosamente completata. Un memorabile capitolo della storia del primo secolo bahá’í era stato scritto. L’Età eroica della Dispensazione bahá’í, alla quale Egli aveva partecipato fin dall’inizio sostenendovi un ruolo così eccezionale, si era chiusa. Egli aveva sofferto come non aveva sofferto nessuno dei discepoli della Fede che avevano vuotato la coppa del martirio, aveva lavorato come non aveva lavorato nessuno dei suoi più grandi eroi. Aveva visto trionfi che né l’Araldo della Fede, né il suo Autore avevano mai visto.
2 Alla fine dei Suoi ardui viaggi occidentali, che avevano spremuto l’ultimo grammo delle Sue forze declinanti, aveva scritto: «Amici, si avvicina il giorno in cui non sarò più tra voi. Ho fatto tutto ciò che si poteva fare. Ho servito la Causa di Bahá’u’lláh all’estremo delle Mie capacità. Ho lavorato notte e giorno per tutti gli anni della mia vita. Oh, come desidero vedere i credenti assumersi le responsabilità della Causa!… I Miei giorni sono contati e oltre a questo non v’è per Me altra gioia». Diversi anni prima aveva alluso alla Sua morte in questi termini: «O Miei fedeli amati! In qualunque momento si verificassero in Terra Santa tristi eventi, non affliggetevi e non agitatevi. Non temete e non accoratevi. Perché, qualunque cosa accada farà sì che venga esaltata la Parola di Dio e la Sua divina fragranza diffusa». E ancora: «Ricordatevi che, tanto se sarò sulla terra quanto se non vi sarò, sarò presente fra voi, sempre». «Non guardate alla persona di ‘Abdu’l-Bahá» consigliò ai Suoi amici in una delle Sue ultime Tavole «perché, alla fine, Egli si congederà da tutti voi, ma fissate lo sguardo sulla Parola di Dio… Gli amati di Dio devono levarsi con tale determinazione che, se mai centinaia di anime simili ad ‘Abdu’l-Bahá fossero bersagliate dai dardi della sventura, nulla influenzi o riduca il loro… servizio alla Causa di Dio».
3 In una Tavola indirizzata ai credenti americani pochi giorni prima di morire, così espresse il Suo represso desiderio di lasciare questo mondo: «Ho rinunciato al mondo e alla sua gente… Nella gabbia di questo mondo sbatto le ali come un uccello spaventato e anelo ogni giorno di prendere il volo verso il Tuo regno. Yá Bahá’u’l-Abha! Fammi bere la coppa del sacrificio e lasciami libero». Meno di sei mesi prima di morire rivelò una preghiera in onore d’un parente del Báb e vi scrisse: «“O Signore! Le Mie ossa sono indebolite e sul Mio capo brillano canuti i Miei capelli… e ho raggiunto, ora, un’età avanzata e Mi mancano le forze”… Non mi è rimasta forza per levarmi a servire i Tuoi amati… O Signore, mio Signore! Affretta la Mia ascensione alla Tua sublime Soglia… e il Mio arrivo alla Porta della Tua grazia, all’ombra della Tua suprema misericordia… ».
4 Dai sogni che faceva, dalle conversazioni che teneva, dalle Tavole che rivelava fu sempre più evidente che la Sua fine si stava rapidamente avvicinando. Due mesi prima del trapasso raccontò alla famiglia un sogno che aveva fatto. «Mi sembrava», disse, «di trovarMi in una grande moschea, nel sancta sanctorum, di fronte alla Qiblih, nel posto dell’Imám. Vidi una gran folla affluire alla moschea. Più e più persone vi si affollarono e presero posto allineandosi dietro di Me, finché vi fu una grande moltitudine. In piedi cantai l’invito alla preghiera. D’un tratto mi venne l’idea di uscire dalla moschea. Quando fui fuori, dissi fra Me e Me: “Per quale ragione sono uscito senza guidare la preghiera? Ma non importa: ora che ne ho pronunciato l’Invito, la vasta moltitudine la canterà da sola”». Poche settimane dopo, mentre Si trovava in una stanza isolata nel giardino della casa, narrò un altro sogno a coloro ch’erano con Lui: «Ho fatto un sogno», disse, «ed ecco la Bellezza Benedetta (Bahá’u’lláh) venirMi a dire: “Distruggi questa stanza”». Nessuno dei presenti comprese il significato del sogno finché poco tempo dopo Egli non trapassò, allora apparve chiaramente a tutti che la «stanza» stava a significare il tempio del Suo corpo.
5 Un mese prima della Sua morte (che ebbe luogo nel suo settantottesimo anno d’età, nelle prime ore del 28 novembre 1921) Egli vi fece espresso riferimento, nelle parole di incoraggiamento e di conforto che rivolse a un credente che piangeva la perdita del fratello. E circa due settimane prima di trapassare aveva parlato al fedele giardiniere in un modo che chiaramente indicava che Egli sapeva che la Sua fine era imminente. «Sono tanto stanco», gli disse, «è venuta l’ora di lasciare tutto e volar via. Sono troppo debole per camminare». E soggiunse: «Durante gli ultimi giorni della Bellezza Benedetta, mentre ero occupato a raccogliere le Sue carte sparse sul sofà del Suo studio a Bahjí, Egli Si voltò verso di me e disse: “Non c’è ragione di raccoglierle, devo lasciarle e volar via.” Anch’Io ho finito il Mio lavoro. Non posso far più nulla. Perciò devo lasciarlo e partire».
6 Fino all’ultimo giorno della Sua vita terrena ‘Abdu’l-Bahá continuò a prodigare lo stesso amore ai potenti e agli umili, a porgere la stessa assistenza ai poveri e agli oppressi e a svolgere le stesse incombenze al servizio della Fede di Suo Padre, così come aveva sempre fatto fin dai giorni dell’infanzia. Il venerdì precedente il Suo trapasso, nonostante la grande stanchezza, partecipò alla preghiera del mezzogiorno nella moschea e poi distribuì l’elemosina ai poveri com’era solito fare. Dettò poi alcune Tavole, le ultime che rivelò; benedisse le nozze di un fedele servitore che Egli aveva voluto avessero luogo quel giorno e partecipò al consueto incontro degli amici nella Sua casa. Il giorno seguente Si sentì febbricitante e la domenica, non essendo in grado di uscire di casa, mandò tutti i credenti alla Tomba del Báb, perché partecipassero alla festa offerta da un pellegrino parsi in occasione dell’anniversario della Dichiarazione del Patto. Il pomeriggio, malgrado la crescente debolezza, ricevette con la solita gentilezza e cortesia il Muftí di Haifa, il Sindaco e il Capo della Polizia e la sera, l’ultima della Sua vita, prima di ritirarSi, S’informò della salute di ogni membro della famiglia, dei pellegrini e degli amici a Haifa.
7 All’una e un quarto del mattino Si alzò e andò fino a un tavolo nella Sua stanza, bevve un sorso d’acqua e tornò a letto. Poco dopo chiese a una delle due figlie che erano rimaste sveglie per assisterLo di tirar su le tende di rete, lamentandoSi d’aver difficoltà di respiro. Gli fu portata un po’ d’acqua di rose che bevve, poi Si distese nuovamente e quando Gli offrirono da mangiare, osservò distintamente: «Volete che prenda del cibo mentre me ne vado?». Un minuto dopo il Suo spirito era volato nella Sua eterna dimora, per essere finalmente unito alla gloria del Suo diletto Padre e gustare la gioia del perpetuo ricongiungimento con Lui.
8 La notizia del Suo trapasso, così improvviso, così inatteso, si sparse in un lampo per la città e sfrecciò istantaneamente sui fili del telegrafo fino a lontani luoghi del globo, frastornando nel dolore le comunità dei seguaci di Bahá’u’lláh in Oriente e in Occidente. Da vicino e da lontano, da potenti e umili, giunsero messaggi che, per cablogramma o per lettera, trasmettevano espressioni di lode, devozione, angoscia e condoglianza ai membri della famiglia affranta e sconsolata.
9 Il Segretario di stato britannico per le Colonie, Winston Churchill, telegrafò immediatamente all’Alto commissario per la Palestina, Sir Herbert Samuel, incaricandolo di «trasmettere alla Comunità bahá’í, a nome del Governo di Sua Maestà, la sua simpatia e le sue condoglianze». Il visconte Allenby, Alto commissario per l’Egitto, telegrafò all’Alto commissario per la Palestina, chiedendogli di «porgere ai familiari del defunto Sir ‘Abdu’l-Bahá ‘Abbás Effendi e alla Comunità bahá’í» le sue «sincere condoglianze per la perdita del loro riverito capo». Il Consiglio dei ministri di Baghdad incaricò il Primo ministro Siyyid ‘Abdu’r-Rahmán di estendere le loro «condoglianze alla famiglia di Sua Santità ‘Abdu’l-Bahá per il loro lutto». Il Comandante in capo del corpo di spedizione egiziano, generale Congreve, inviò all’Alto commissario per la Palestina un messaggio chiedendogli di «trasmettere le sue più sentite condoglianze alla famiglia del defunto Sir ‘Abbás Bahá’í». Il generale Sir Arthur Money, ex Amministratore capo della Palestina, scrisse per esprimere tristezza, profondo rispetto e ammirazione per Lui e le sue condoglianze per il lutto che aveva colpito la famiglia. Una delle figure più illustri della vita accademica dell’Università di Oxford, famoso professore e studioso, scrisse a nome proprio e della moglie: «Il trapasso di là dal velo a una vita più completa dev’essere particolarmente meraviglioso e benedetto per Chi ha sempre rivolto in alto il pensiero lottando per condurre quaggiù una vita eccelsa».
10 Molti e diversi giornali come il «Times» di Londra, il «Morning Post», il «Daily Mail», il «New York World», «Les Temps», il «Times of India» e altri, in varie lingue e in svariati paesi, espressero il loro omaggio a Colui Che aveva reso così cospicui e imperituri servigi alla causa della fratellanza umana e della pace.
11 L’Alto commissario, Sir Herbert Samuel, inviò immediatamente un messaggio manifestando il desiderio di partecipare personalmente ai funerali, per poter «esprimere» come scrisse più tardi «il mio rispetto per il Suo credo e il mio omaggio alla Sua persona». Al funerale che si svolse il martedì mattina, un funerale come la Palestina non aveva mai visto, parteciparono oltre diecimila persone in rappresentanza di ogni classe, religione e razza del paese. «Si era radunata una gran folla», riferì più tardi l’Alto commissario, «per piangere la Sua morte, ma anche per gioire della Sua vita». Anche Sir Ronald Storrs, a quel tempo Governatore di Gerusalemme, scrisse descrivendo il funerale: «Non ho mai visto una più unanime espressione di rimpianto e di rispetto di quella evocata dall’assoluta semplicità della cerimonia».
12 La bara contenente le spoglie di ‘Abdu’l-Bahá fu trasportata all’ultima dimora a spalla dai Suoi amati. Il corteo che la precedeva era aperto dalle Forze di polizia della città a guardia d’onore, seguite dai Boy scout delle comunità musulmana e cristiana con i loro gagliardetti, da una compagnia di coristi musulmani che cantavano versetti del Corano, dai capi delle comunità musulmane guidati dal Muftì e da numerosi preti cristiani, latini, greci e anglicani. Dietro la bara venivano i membri della famiglia, l’Alto commissario britannico, Sir Herbert Samuel, il governatore di Gerusalemme, Sir Ronald Storrs, il governatore della Fenicia, Sir Stewart Symes, funzionari del governo, consoli di vari paesi residenti ad Haifa, notabili della Palestina, uomini, donne e bambini musulmani, ebrei, cristiani, drusi, egiziani, turchi, arabi, curdi, europei e americani. La lunga processione dei mesti accompagnatori, tra i singhiozzi e i pianti di molti cuori spezzati, salì lentamente le pendici del monte Carmelo fino al Mausoleo del Báb.
13 Nei pressi dell’ingresso orientale della Tomba, la sacra bara fu deposta su un nudo tavolo e, alla presenza dell’enorme folla, nove oratori che rappresentavano le Fedi musulmana, ebrea e cristiana, fra i quali il Muftì di Haifa, pronunciarono le orazioni funebri. Concluse queste, l’Alto commissario si avvicinò alla bara e, a capo chino di fronte al Mausoleo, rese l’estremo omaggio di commiato ad ‘Abdu’l-Bahá e gli altri funzionari del Governo seguirono il suo esempio. Poi la bara fu trasportata in una delle stanze del Mausoleo e mestamente e reverentemente deposta nella sua ultima dimora in una cripta attigua a quella in cui erano state deposte le spoglie del Báb.
14 Nella settimana successiva al Suo trapasso furono nutriti nella Sua casa tutti i giorni da cinquanta a cento poveri di Haifa e il settimo giorno fu distribuito frumento in Sua memoria fra circa mille mendicanti, senza tener conto del credo o della razza. Dopo quaranta giorni si tenne una solenne commemorazione, alla quale furono invitate oltre seicento persone da Haifa, ‘Akká e dalle zone adiacenti della Siria e della Palestina, fra cui funzionari e notabili di varie razze e religioni. Anche quel giorno furono sfamati più di cento poveri.
15 Uno degli ospiti convenuti, il Governatore della Fenicia, rese l’estremo omaggio alla memoria di ‘Abdu’l-Bahá con queste parole: «Molti di noi qui, credo, hanno una chiara immagine di Sir ‘Abdu’l-Bahá ‘Abbás, della Sua dignitosa figura che cammina assorta per le strade, delle Sue maniere cortesi e condiscendenti, della Sua gentilezza, del Suo amore per i bambini e per i fiori, della Sua generosità e della Sua premura verso i poveri e i sofferenti. Era così garbato e semplice che, in Sua presenza, quasi si dimenticava che Egli era anche un grande maestro e che i Suoi scritti e le Sue conversazioni sono stati di conforto e ispirazione a centinaia e migliaia di persone in Oriente e in Occidente».
16 Così giunse a termine il ministero di Colui Che era stato, in virtù del rango assegnatoGli dal Padre, l’incarnazione di un’istituzione che non ha eguali nell’intero campo della storia religiosa, un ministero che segna lo stadio finale dell’Età apostolica ed eroica, la più gloriosa della Dispensazione di Bahá’u’lláh.
17 Per Suo mezzo il Patto, quell’«eccelso e preziosissimo retaggio» che era stato lasciato per testamento dall’Autore della Rivelazione bahá’í, fu proclamato, difeso e convalidato. Grazie al potere che quel divino Strumento Gli aveva conferito la luce della giovane Fede di Dio era penetrata in Occidente, si era diffusa fino alle isole del Pacifico e aveva illuminato le coste del continente australiano. Grazie al Suo personale intervento il Messaggio, il cui Portatore aveva assaporato l’amarezza di una cattività che era durata tutta la vita, era stato divulgato e le sue caratteristiche e i suoi scopi erano stati svelati, per la prima volta nella sua storia, davanti a un pubblico entusiasta e rappresentativo nelle principali città d’Europa e del continente nordamericano. Grazie alla Sua instancabile vigilanza le sacre spoglie del Báb, finalmente portate in luce dopo cinquant’anni di clandestinità, erano state trasportate intatte in Terra Santa e permanentemente e degnamente tumulate nel preciso luogo che Bahá’u’lláh aveva scelto e benedetto con la Sua presenza. Grazie alla Sua coraggiosa iniziativa il primo Mashriqu’l-Adhkár del mondo bahá’í era stato innalzato nel Turchestan russo in Asia centrale e grazie al Suo continuo incoraggiamento un’uguale iniziativa di ancor più vaste proporzioni era stata intrapresa nel cuore del continente nordamericano ed Egli Stesso ne aveva consacrato il terreno. In virtù della grazia sostenitrice che Lo protesse fin dall’inizio della Sua missione il Suo regale avversario era stato gettato nella polvere, l’arciviolatore del Patto di Suo Padre era stato completamente sbaragliato e il pericolo che aveva minacciato il cuore della Fede fin da quando Bahá’u’lláh era stato esiliato sul suolo turco era stato definitivamente eliminato. Secondo le Sue istruzioni e conformemente ai principi enunciati e alle leggi emanate da Suo Padre, le rudimentali istituzioni che preannunciavano la formale inaugurazione dell’Ordine Amministrativo che sarebbe stato fondato dopo il Suo trapasso avevano preso forma ed erano state fondate. Grazie al Suo incessante lavoro, come dimostrano i trattati che scrisse, le migliaia di Tavole che rivelò, i discorsi che pronunciò, le preghiere, le poesie e i commentari che lasciò ai posteri, la maggior parte in persiano, alcuni in arabo e pochi altri in turco, le leggi e i principi che costituiscono l’ossatura della Rivelazione di Suo Padre erano stati delucidati, i suoi concetti fondamentali erano stati riaffermati e interpretati, le sue dottrine avevano avuto dettagliata applicazione e la validità e l’indispensabilità delle sue verità erano state pubblicamente e ampiamente dimostrate. Grazie ai moniti da Lui proferiti l’umanità, disattenta, imbevuta di materialismo e dimentica del suo Dio, era stata informata dei pericoli che minacciavano di distruggere la sua vita ordinata e, in conseguenza della sua persistente caparbietà, aveva subito i primi colpi di quello sconvolgimento mondiale che, ancora oggi, continua a scuotere le fondamenta della società umana. E infine, grazie al mandato da Lui affidato a un’intrepida comunità, le conquiste concertate dei cui membri avevano dato tanto lustro agli annali del Suo ministero, Egli aveva messo in moto un Piano, che poco dopo la sua inaugurazione formale portò all’apertura del continente australiano, che in un periodo successivo valse a guadagnare alla Causa di Suo Padre il cuore di una regale convertita e che oggi, grazie all’irresistibile dispiegarsi delle sue potenzialità, sta così meravigliosamente risvegliando la vita spirituale delle repubbliche dell’America Latina, da costituire una degna conclusione degli annali di un intero secolo.
18 Uno studio delle caratteristiche salienti di un ministero così benedetto e fruttuoso non può omettere un accenno alle profezie scritte dall’infallibile penna del Centro designato del Patto di Bahá’u’lláh. Esse predicono la violenza dell’attacco che l’irresistibile progresso della Fede dovrà provocare in Occidente, in India e nell’Estremo Oriente, scontrandosi con i venerabili ordini sacerdotali delle religioni cristiana, buddhista e indù. Predicono il tumulto che la sua liberazione dalle catene dell’ortodossia religiosa produrrà nei continenti americano, europeo, asiatico e africano. Predicono il raduno dei figli di Israele nella loro antica patria, l’innalzamento del vessillo di Bahá’u’lláh nella roccaforte egiziana dell’Islam sunnita, la fine della potente influenza esercitata in Persia dal clero sciita, il fardello di miseria che dovrà necessariamente pesare sui miserevoli superstiti dei violatori del Patto di Bahá’u’lláh nel centro mondiale della Sua Fede, lo splendore delle istituzioni che questa trionfante Fede dovrà erigere sulle pendici di un monte destinato a essere collegato con la città di ‘Akká fino a formare una sola grande metropoli che racchiuderà le sedi spirituale e amministrativa della futura Confederazione bahá’í, il cospicuo onore di cui dovranno godere nel lontano futuro gli abitanti della terra natale di Bahá’u’lláh in generale e il suo governo in particolare, la posizione incomparabile e invidiabile che la comunità del Più Grande Nome del continente nordamericano dovrà occupare in seguito al completamento della missione mondiale di cui Egli l’aveva investita, infine, esse predicono, a conclusione e culmine di tutto questo, l’«innalzarsi dello stendardo di Dio su tutte le nazioni» e l’unificazione dell’intera razza umana, quando «tutti gli uomini aderiranno a una sola religione… si fonderanno in una sola razza e diverranno un solo popolo».
19 Né possono passare inosservati i rivoluzionari cambiamenti che quel ministero ha visto verificarsi nel vasto mondo, scaturiti per la maggior parte direttamente dagli ammonimenti espressi dal Báb nel primo capitolo del Qayyumu’l-Asmá’ la stessa notte della Dichiarazione della Sua Missione a Shíráz, successivamente ribaditi nei pregnanti passi che Bahá’u’lláh indirizzò ai re della terra e ai capi religiosi del mondo nella Súriy-i-Mulúk e nel Kitáb-i-Aqdas. La trasformazione in repubblica della monarchia portoghese e dell’impero cinese, il crollo degli imperi russo, tedesco e austriaco e l’ignominioso destino che toccò ai loro governanti, l’assassinio di Násiri’d-Dín Sháh, la caduta del sultano ‘Abdu’l-Hamíd, sono tutti fatti che si può dire abbiano segnato ulteriori stadi nello svolgimento di quel catastrofico processo che aveva avuto inizio durante la vita di Bahá’u’lláh con l’assassinio del sultano ‘Abdu’l-‘Azíz, la drammatica caduta di Napoleone III e la fine del Terzo impero, la volontaria prigionia e la virtuale estinzione del potere temporale del Papa. In seguito, dopo la morte di ‘Abdu’l-Bahá, quel processo sarebbe stato accelerato dalla deposizione della dinastia Qájár in Persia, dal rovesciamento della monarchia spagnola, dal crollo del sultanato e del califfato in Turchia, dal rapido declino delle fortune dell’Islam sciita e delle missioni cristiane in Oriente e dal crudele fato che sta ora colpendo tante teste coronate d’Europa.
20 Non si può chiudere l’argomento senza uno specifico cenno ai nomi di quegli uomini di prestigio e di cultura che sentirono, in vari momenti del ministero di ‘Abdu’l-Bahá, il bisogno di rendere omaggio non solo a Lui, ma anche alla Fede di Bahá’u’lláh. Nomi come quelli del conte Leone Tolstoi, del professor Arminius Vambery, del professor Auguste Forel, del dottor David Starr Jordan, del venerabile arcidiacono Wilberforce, del professor Jowett di Balliol, del dottor T. K. Cheyne, del dottor Estlin Carpenter dell’Università di Oxford, del visconte Samuel del Carmelo, di Lord Lamington, di Sir Valentine Chirol, del rabbino Stephen Wise, del principe Muhammad-‘Alí d’Egitto, di Shaykh Muhammad ‘Abdu, di Midhat Páshá e di Khurshíd Páshá attestano, in virtù dei loro omaggi, il grande progresso fatto dalla Fede di Bahá’u’lláh sotto la brillante guida del Suo illustre Figlio, omaggi la cui importanza, negli anni successivi, sarebbe stata accresciuta dalle storiche, ripetute attestazioni scritte che una famosa regina, nipote della regina Vittoria, sentì il dovere di lasciare ai posteri a testimonianza del suo riconoscimento della missione profetica di Bahá’u’lláh.
21 Quanto ai nemici che avevano assiduamente cercato di spegnere la luce del Patto di Bahá’u’lláh, l’adeguata punizione che dovettero subire fu non meno evidente della sorte che, in anni precedenti, aveva colpito coloro che con tanta bassezza s’erano sforzati di far crollare le speranze della Fede nascente e di distruggere le sue fondamenta.
22 Dell’assassinio del tirannico Násiri’d-Dín Sháh e della conseguente estinzione della dinastia Qájár si è già parlato. Il sultano ‘Abdu’l-Hamíd, dopo essere stato deposto, fu fatto prigioniero di stato e condannato a una vita di completa oscurità e umiliazione, disprezzato dai colleghi e vilipeso dai sudditi. Il sanguinario Jamál Páshá, che aveva deciso di crocefiggere ‘Abdu’l-Bahá e di radere al suolo la santa Tomba di Bahá’u’lláh, dovette fuggire per aver salva la vita e, rifugiatosi nel Caucaso, fu ucciso per mano di un armeno i cui compatrioti egli aveva così spietatamente perseguitato. L’astuto Jamálu’d-Dín Afghání, la cui implacabile ostilità e la cui potente influenza erano state così gravemente nocive al progresso della Fede nei paesi del Vicino Oriente, dopo una movimentata carriera piena di vicissitudini, s’ammalò di cancro e perì in miseria, dopo l’asportazione di gran parte della lingua in un intervento chirurgico non riuscito. I quattro membri della sventurata Commissione d’inchiesta inviata da Costantinopoli per decidere il destino di ‘Abdu’l-Bahá subirono, uno dopo l’altro, umiliazioni non meno dure di quelle che avevano progettato per Lui. ‘Árif Bey, il capo della Commissione, mentre a mezzanotte cercava furtivamente di sfuggire alle ire dei Giovani turchi, fu colpito a morte da una sentinella. Adham Bey riuscì a fuggire in Egitto, ma lungo la strada fu derubato dei suoi beni dal suo servo e alla fine fu costretto a chiedere aiuto finanziario ai bahá’í del Cairo, una richiesta che non fu respinta. In seguito chiese aiuto ad ‘Abdu’l-Bahá Che immediatamente ordinò ai credenti di donargli una somma a Suo nome, direttive che fu impossibile eseguire per la sua improvvisa sparizione. Degli altri due membri, uno fu esiliato in un posto remoto, l’altro morì poco dopo in una degradante miseria. Il famigerato Yahyá Bey, capo della polizia acritana, compiacente e potente strumento nelle mani dell’arciviolatore del Patto di Bahá’u’lláh, Mirza Muhammad-‘Alí, vide andare in fumo tutte le speranze che aveva accarezzato, perse il posto e dovette alla fine chiedere assistenza finanziaria ad ‘Abdu’l-Bahá. A Costantinopoli, nell’anno della caduta di ‘Abdu’l-Hamíd, trentun dignitari di stato, ministri e alti funzionari del Governo, fra i quali molti temibili nemici della Fede, furono arrestati e condannati al patibolo in un sol giorno, spettacolare castigo per la parte che avevano svolto nel sostenere un regime tirannico e nel tentare d’estirpare la Fede e le sue istituzioni.
23 In Persia, oltre al Sovrano che, nel pieno fiore delle speranze e all’apice del potere, era stato tolto di mezzo in modo così impressionante, numerosi principi, ministri e mujtahid che avevano attivamente partecipato alla soppressione della comunità perseguitata, fra i quali Kámrán Mirza, il Ná’ibu’s-Saltanih, il Jalálu’d-Dawlih e Mirza ‘Alí-Asghar Khán, l’Atábik-i-A‘zam e Shaykh Muhammad-Taqíy-i-Najafí, il «Figlio del Lupo», persero l’uno dopo l’altro prestigio e autorità, affondarono nell’oscurità, abbandonarono ogni speranza di realizzare i loro malvagi propositi e alcuni di loro vissero abbastanza per vedere i primi segni dell’ascendente della Causa che avevano tanto temuto e così violentemente odiato.
24 Quando osserviamo che in Terra Santa, in Persia e negli Stati Uniti d’America esponenti del clero cristiano come Vatralsky, Wilson, Richardson o Easton, notando e talvolta temendo gli energici passi avanti fatti dalla Fede di Bahá’u’lláh in terre cristiane, insorsero per impedirne il progresso e quando vediamo la recente e costante decadenza della loro influenza, il declino del loro potere, la confusione nelle loro file e il disfacimento di alcune delle loro missioni e istituzioni di vecchia data in Europa, in Medio Oriente e in Asia Orientale, non potremmo attribuire questo indebolimento all’opposizione che i membri di vari ordini sacerdotali cristiani incominciarono a manifestare, durante il ministero di ‘Abdu’l-Bahá, contro i seguaci e le istituzioni di una Fede che dichiara d’essere niente meno che il compimento della promessa di Gesù Cristo e l’instauratrice del Regno per il quale Egli aveva pregato e che aveva predetto?
25 E infine, colui che dal momento della nascita del Patto divino fino alla fine della propria vita mostrò un odio più implacabile di quello che accendeva i già citati avversari di ‘Abdu’l-Bahá, che cospirò contro di Lui con maggiore energia di tutti loro e arrecò alla Fede di suo Padre un’onta più grave di quelle arrecatele dai suoi nemici esterni, quest’uomo, assieme all’infame ciurma dei violatori del Patto da lui ingannata e istigata, fu condannato, così com’era accaduto a Mirza Yahyá e ai suoi accoliti, a vedere in modo sempre più chiaro la frustrazione dei suoi malvagi disegni, la dissoluzione di tutte le sue speranze, lo smascheramento delle sue vere intenzioni, la completa distruzione del suo onore e della sua gloria. Suo fratello, Mirza Díyá’u’lláh, morì prematuramente. Mirza Aqá Ján, il suo burattino, tre anni dopo seguì quel fratello nella tomba. Mirza Badí‘u’lláh, il suo principale complice, tradì la sua causa, firmò e pubblicò una denuncia delle sue malvagie azioni, ma poi si rimise con lui, solo per allontanarsene nuovamente a causa dello scandaloso comportamento della propria figlia. La sorellastra di Mirza Muhammad-‘Alí, Furúghíyyih, perì di cancro, mentre il marito, Siyyid ‘Alí, morì per un attacco di cuore prima che i suoi figli potessero raggiungerlo, il maggiore dei quali fu poi stroncato nel fiore degli anni dallo stesso male. Muhammad Javád-i-Qazvíní, noto violatore del Patto, perì miseramente. Shu‘á’u’lláh che, come testimonia ‘Abdu’l-Bahá nel Suo Testamento, aveva contato sull’assassinio del Centro del Patto e che era stato spedito dal padre negli Stati Uniti per dare man forte a Ibráhím Khayru’lláh, tornò dalla sua ingloriosa missione mortificato e a mani vuote. Jamál-i-Burújirdí, il più abile luogotenente di Mirza Muhammad-‘Alí in Persia, cadde preda d’un morbo fatale e ripugnante. Siyyid Mihdíy-i-Dahají che, tradendo ‘Abdu’l-Bahá s’era unito ai violatori del Patto, morì oscuro e povero, seguito dalla moglie e dai due figli. Mirza Husayn-‘Alíy-i-Jahrumí, Mirza Husayn-i-Shírázíy-i-Khurtúmí e Hájí Muhammad Husayn-i-Káshání, che rappresentavano l’arciviolatore del Patto in Persia, in India e in Egitto, fallirono completamente la loro missione, mentre l’avido e presuntuoso Ibráhím-i-Khayru’lláh, che per più di vent’anni aveva voluto issare la bandiera della ribellione in America e aveva avuto la temerarietà di denunciare per iscritto ‘Abdu’l-Bahá, i Suoi «falsi insegnamenti, la Sua distorta presentazione del Bahá'ísmo e la Sua ipocrisia» e di stigmatizzare la Sua visita in America come «un colpo mortale» alla «Causa di Dio», trovò la morte poco dopo aver mosso queste accuse, completamente abbandonato e disprezzato dall’intero corpo dei membri di una comunità i cui fondatori egli stesso aveva convertito alla Fede e nella terra che portava la testimonianza dei sempre più numerosi segni dell’affermato ascendente di ‘Abdu’l-Bahá, la Cui autorità, negli ultimi anni, egli aveva fatto voto di sradicare.
26 Di coloro che avevano apertamente abbracciato la causa dell’arciviolatore del Patto di Bahá’u’lláh e che avevano segretamente simpatizzato con lui, anche se apparentemente sostenevano ‘Abdu’l-Bahá, alcuni alla fine si pentirono e furono perdonati, altri, delusi, persero completamente la fede, alcuni la ripudiarono, mentre tutti gli altri si dispersero, lasciandolo alla fine solo e senza aiuto, ad eccezione di un esiguo gruppo di parenti. Sopravvissuto ad ‘Abdu’l-Bahá di quasi vent’anni, egli, che tanto audacemente Gli aveva detto in faccia che non aveva nessuna certezza di sopravviverGli, campò abbastanza a lungo per vedere il completo fallimento della sua causa, mentre intanto conduceva un’esistenza miserabile fra le mura di una Magione che un tempo aveva ospitato una folla di suoi sostenitori. in seguito alla crisi che aveva stoltamente provocato dopo il trapasso di ‘Abdu’l-Bahá, si vide negata dalle autorità civili la custodia ufficiale della Tomba di suo Padre. Pochi anni dopo fu costretto a sgomberare quella Magione che era caduta in rovina a causa della sua scandalosa negligenza. Fu poi colpito da una paralisi che gli immobilizzò metà del corpo e, prima di morire, languì per mesi nel dolore inchiodato a letto. Fu sepolto secondo il rito islamico nelle immediate vicinanze di un santuario musulmano locale e la sua tomba resta tuttora priva persino di una lapide, misero ricordo della falsità dei diritti che accampava, degli abissi d’infamia nei quali era precipitato e della durezza del castigo che le sue azioni avevano così abbondantemente meritato.
QUARTO PERIODO1 Con il trapasso di ‘Abdu’l-Bahá il primo secolo dell’era bahá’í, il cui inizio era coinciso con la Sua nascita, aveva completato oltre i tre quarti del suo corso. Settantasette anni prima la luce della Fede proclamata dal Báb era sorta sull’orizzonte della Persia ed era sfolgorata attraverso il firmamento della Persia fugando le antiche tenebre che avevano avvolto il suo popolo. Un bagno di sangue d’inusitata ferocia, al quale avevano preso congiuntamente parte governo, clero e popolo, sordi al significato di quella luce e ciechi al suo splendore, non era riuscito a spegnere il fulgore della sua gloria nella sua terra natale. Bahá’u’lláh, nell’ora più tenebrosa delle vicende della Fede, prigioniero a Teheran, era stato chiamato a rinvigorirne la vita e delegato a realizzarne lo scopo finale. A Baghdad, alla fine del decennio di dilazione che intercorse fra la prima intimazione di quella Missione e la sua Dichiarazione, Egli aveva rivelato il Mistero racchiuso nella Fede embrionale del Báb e svelato il frutto che essa aveva prodotto. Ad Adrianopoli, il Messaggio di Bahá’u’lláh, la promessa della Dispensazione del Báb e di tutte quelle precedenti, era stato proclamato all’umanità e la sua sfida lanciata ai governanti del mondo in Oriente e in Occidente. Fra le mura della fortezza di ‘Akká, il Portatore della neonata Rivelazione di Dio aveva decretato le leggi e formulato i principi che sarebbero stati l’intelaiatura del Suo Ordine Mondiale. Prima della Sua ascensione, aveva inoltre istituito il Patto che sarebbe stato di guida e di aiuto nella posa delle sue fondamenta e avrebbe salvaguardato l’unità dei suoi costruttori. Armato di questo potente e impareggiabile Strumento, ‘Abdu’l-Bahá, Suo Figlio maggiore e Centro del Suo Patto, aveva issato il vessillo della Fede del Padre nel continente nordamericano e installato una base inespugnabile per le sue istituzioni nell’Europa Occidentale, in Estremo Oriente e in Australia. Con le Sue opere, le Sue Tavole e i Suoi messaggi, ne aveva chiarito i principi, interpretato le leggi, ampliato le dottrine e aveva eretto le istituzioni rudimentali del suo futuro Ordine Amministrativo. In Russia aveva eretto la prima Casa di culto e sulle falde del monte Carmelo aveva costruito al suo Araldo un degno mausoleo dove aveva deposto le Sue spoglie con le Sue Stesse mani. Con le Sue visite a numerose città in Europa e nel continente nordamericano aveva diffuso il Messaggio di Bahá’u’lláh fra i popoli dell’Occidente e innalzato il prestigio della Causa di Dio a un livello mai raggiunto prima. E infine, al tramonto della vita, con la rivelazione delle Tavole del Piano Divino, aveva emesso il Suo mandato alla comunità che Egli Stesso aveva suscitata, addestrata e nutrita, un Piano che negli anni avvenire dovrà permettere ai membri di quella comunità di diffondere la luce e di erigere la struttura amministrativa della Fede nei cinque continenti del globo.
2 Ora, era arrivato il momento in cui quell’immortale Spirito che dà vita al mondo, quello Spirito ch’era nato a Shíráz, era stato riacceso a Teheran, era stato fatto divampare a Baghdad e ad Adrianopoli, era stato portato in Occidente e ora illuminava i margini di cinque continenti, s’incarnasse in istituzioni destinate a incanalarne le erompenti energie e a stimolarne la crescita. L’Età che aveva visto la nascita e l’ascesa della Fede si era conclusa. L’Età eroica e apostolica della Dispensazione di Bahá’u’lláh, quel primo periodo originario durante il quale i suoi Fondatori erano vissuti, la sua vita era stata generata, i suoi più grandi eroi avevano combattuto e vuotato la coppa del martirio e le sue prime fondamenta erano state poste, un periodo i cui splendori nessuna vittoria di questa o di qualsiasi età futura potrà emulare, era ora terminato con il trapasso di Colui la Cui missione può essere considerata l’anello di congiunzione tra l’Età in cui il seme del nuovo Messaggio aveva preso forma e le Età destinate a vederne la fioritura e la fruizione finale.
3 Aveva ora inizio il Periodo formativo, l’Età del ferro della Dispensazione, l’Età nella quale le istituzioni locali, nazionali e internazionali della Fede di Bahá’u’lláh avrebbero preso forma, si sarebbero sviluppate e pienamente consolidate, in previsione della terza Età, l’ultima, l’Età dell’oro, destinata a vedere la nascita di un Ordine mondiale che racchiude il frutto finale della più recente Rivelazione di Dio all’umanità, un frutto la cui maturità segnerà l’instaurazione di una civiltà mondiale e la formale inaugurazione del Regno del Padre sulla terra, secondo la promessa di Gesù Cristo.
4 A quest’Ordine Mondiale il Báb, prigioniero nelle fortezze dell’Azerbaigian, Si era esplicitamente riferito nel Bayán persiano, il Libro madre della Dispensazione Bábí, annunciandone l’avvento e associandolo al nome di Bahá’u’lláh la Cui missione Egli aveva annunziato. «Benedetto colui», è la Sua importante affermazione nel sedicesimo capitolo del terzo Váhid, «che fissa lo sguardo sull’Ordine di Bahá’u’lláh e rende grazie al suo Signore. Egli sarà infatti sicuramente manifestato…». Allo stesso Ordine Bahá’u’lláh, Che in un periodo successivo rivelò le leggi e i principi che ne dovevano governare il funzionamento, Si riferì nel Kitáb-i-Aqdas, il Libro Madre della Sua Dispensazione: «L’equilibrio del mondo è stato sconvolto dalla vibrante influenza di questo grandioso, di questo nuovo Ordine mondiale. La vita ordinata dell’umanità è stata rivoluzionata dall’azione di questo Sistema unico e meraviglioso, di cui occhio mortale non ha mai visto l’eguale». Le sue caratteristiche sono state delineate dal suo grande Architetto, ‘Abdu’l-Bahá, nelle Sue Ultime Volontà e Testamento, mentre le fondamenta delle sue istituzioni embrionali vengono poste ora, dopo di Lui, dai Suoi seguaci in Oriente e in Occidente in quest’Età formativa della Dispensazione bahá’í.
5 Gli ultimi ventitré anni del primo secolo bahá’í possono, quindi, essere considerati lo stadio iniziale del Periodo formativo della Fede, un’Età di transizione, da identificarsi con la nascita e l’instaurazione dell’Ordine Amministrativo, sul quale le istituzioni della futura Confederazione bahá’í saranno infine erette nell’Età dell’oro che vedrà il coronamento della Dispensazione bahá’í. Il Documento che diede vita a quest’Ordine Amministrativo, tratteggiandone le caratteristiche e mettendone in moto i processi, non è altro che le Ultime Volontà e Testamento di ‘Abdu’l-Bahá, il Suo massimo legato alla posterità, la più luminosa emanazione della Sua mente, il più potente strumento forgiato per garantire la continuità delle tre ère che costituiscono le parti componenti della Dispensazione di Suo Padre.
6 Il Patto di Bahá’u’lláh era stato unicamente e direttamente istituito per opera del Suo Volere e del Suo scopo. Le Ultime Volontà e Testamento di ‘Abdu’l-Bahá, invece, possono essere considerate il prodotto scaturito dal mistico rapporto intercorso tra Colui Che aveva generato le forze di una Fede data da Dio e Colui Che era stato fatto suo unico Interprete e Che era riconosciuto quale suo perfetto Esempio. Le energie creatrici sprigionate dall’Originatore della Legge di Dio in quest’epoca diedero vita, con il loro impatto sulla mente di Colui Ch’era stato scelto quale suo infallibile interprete, a quello Strumento le cui vaste implicazioni la presente generazione non è ancora in grado d’afferrare appieno, neppure ora che sono trascorsi ventitré anni. Se lo valutiamo correttamente, questo Strumento non può essere separato né da Colui Che impartì l’impulso motivante della sua creazione, né da Colui Che lo concepì direttamente. Lo scopo dell’Autore della Rivelazione bahá’í, come abbiamo già osservato, era stato così pienamente trasfuso nella mente di ‘Abdu’l-Bahá, il Suo Spirito aveva così profondamente impregnato il Suo essere e i loro fini e motivi si erano così completamente fusi che dissociare la dottrina redatta dal Primo dall’atto supremo associato alla missione del Secondo equivarrebbe a ripudiare una delle più fondamentali verità della Fede.
7 L’Ordine Amministrativo che questo storico Documento aveva istituito, in virtù della sua origine e del suo carattere, è, va notato, unico negli annali dei sistemi religiosi del mondo. Nessun Profeta prima di Bahá’u’lláh, lo si può affermare con sicurezza, neanche Muhammad il Cui Libro prescrive chiaramente le leggi e le ordinanze della Dispensazione islamica, ha stabilito autorevolmente e per iscritto alcunché di paragonabile all’Ordine Amministrativo che l’Interprete autorizzato degli insegnamenti di Bahá’u’lláh ha istituito, un Ordine che, in virtù dei principi amministrativi che il suo Autore ha formulato, delle istituzioni che ha fondato e del diritto d’interpretazione di cui ha investito il suo Custode, dovrà e potrà proteggere dallo scisma la Fede da cui è nato, in una maniera che non ha eguali in alcuna delle religioni precedenti. Neppure il principio che regola il suo funzionamento rassomiglia a quelli su cui si fondano altri sistemi, teocratici o altro, che menti umane hanno escogitato per governare istituzioni umane. Né in teoria, né in pratica l’Ordine Amministrativo della Fede di Bahá’u’lláh può dirsi conforme a qualsiasi altro tipo di governo democratico, ad altro sistema autocratico o altro ordine puramente aristocratico, o a una qualunque delle varie teocrazie, ebraica, cristiana o islamica che l’umanità ha conosciuto in passato. Esso incorpora nella propria struttura elementi che si ritrovano in ciascuna delle tre forme riconosciute di governo secolare, ma è libero dai difetti inerenti a ciascuna di esse e amalgama le salutari verità che indubbiamente ciascuna di esse contiene senza invalidare in alcun modo l’integrità delle verità divine sulle quali è essenzialmente fondato. L’autorità ereditaria che il Custode dell’Ordine Amministrativo è chiamato a esercitare e il diritto di interpretazione della sacra Scrittura conferito a Lui solo, i poteri e le prerogative della Casa Universale di Giustizia che detiene il diritto esclusivo di legiferare in materie non esplicitamente rivelate nel Libro Santissimo, l’ordinanza che esime i suoi membri da qualsiasi responsabilità nei riguardi di coloro che essi rappresentano e da qualunque obbligo di conformarsi alle loro vedute, convinzioni o sentimenti, le specifiche disposizioni che prescrivono la libera e democratica elezione del Corpo che costituisce l’unico organo legislativo della comunità mondiale bahá’í da parte della massa dei credenti, queste sono fra le caratteristiche che pongono l’Ordine che s’identifica con la Rivelazione di Bahá’u’lláh in una posizione diversa da qualunque altro sistema di governo umano.
8 E gli avversari interni ed esterni che, all’inizio di quest’Ordine Amministrativo e nel corso dei suoi ventitré anni di esistenza, in Oriente e in Occidente, hanno deliberatamente travisato il suo carattere, lo hanno deriso e svilito, hanno lottato per arrestare il suo progresso, hanno macchinato per creare una breccia nelle file dei suoi sostenitori, non sono riusciti a realizzare il loro malvagio intento. Gli strenui sforzi di un ambizioso armeno che, nei primi anni del suo insediamento in Egitto, tentò di soppiantarlo con la «Società scientifica» che nella sua miopia aveva concepita e sostenuta fallirono completamente. Né alcun effetto produssero il turbamento provocato da un’illusa che lottò zelantemente negli Stati Uniti e in Inghilterra per dimostrare la falsità del Documento responsabile della sua creazione e che cercò perfino d’indurre le autorità civili della Palestina a intraprendere sulla materia un’azione legale, una richiesta che con sua grande mortificazione fu seccamente respinta, e la defezione di uno dei primi pionieri e fondatori della Fede in Germania, che quella stessa donna aveva così tragicamente sviato. Si dimostrarono ugualmente infruttuosi i volumi che uno sfrontato apostata scrisse e diffuse nello stesso periodo in Persia, nell’impudente sforzo non solo di distruggere quell’Ordine ma di insidiare la stessa Fede che l’aveva concepito. Anche i complotti tramati dai violatori del Patto rimasti, i quali, non appena furono notificati i fini e gli scopi delle Ultime Volontà di ‘Abdu’l-Bahá, si levarono, guidati da Mirza Badí‘u’lláh, per strappare il più sacro santuario del mondo bahá’í al suo Custode designato, si ridussero a niente e, anzi, li screditarono ulteriormente. I successivi attacchi lanciati da esponenti dell’ortodossia cristiana, in terre cristiane e non, nell’intento di sovvertire le fondamenta e distorcere le caratteristiche di questo Ordine non riuscirono a fiaccare la lealtà dei suoi sostenitori né a farli deflettere dal loro nobile proposito. Neppure le infami e insidiose macchinazioni di un ex segretario di ‘Abdu’l-Bahá, il quale incurante del castigo che aveva colpito l’amanuense di Bahá’u’lláh e del destino che aveva colto in Oriente e in Occidente molti altri segretari e interpreti del Maestro ha cercato, e ancora cerca, di pervertire lo scopo e vanificare i provvedimenti essenziali dell’immortale Documento da cui quell’Ordine trae la sua autorità, sono riuscite a fermare, sia pur momentaneamente, il progresso delle sue istituzioni nel corso impartitogli dal suo Autore, o a creare qualcosa che potesse, sia pur remotamente, assomigliare a una breccia nei ranghi dei suoi saldi, vigili e coraggiosi sostenitori.
9 Il Documento che istituisce quell’Ordine, lo Statuto della futura civiltà mondiale, sotto certi aspetti può essere considerato un’integrazione di quell’importante Libro che è il Kitáb-i-Aqdas, porta la firma e il sigillo di ‘Abdu’l-Bahá, è interamente scritto di Suo pugno, la sua prima parte fu stilata durante uno dei periodi più oscuri della Sua prigionia nella fortezza di ‘Akká, proclama categoricamente e inequivocabilmente il fondamentale credo dei seguaci della Fede di Bahá’u’lláh, rivela, con linguaggio inequivocabile, il duplice aspetto della Missione del Báb, svela appieno lo stadio dell’Autore della Rivelazione bahá’í, afferma che «tutti gli altri sono Suoi servi e operano per Suo comando», sottolinea l’importanza del Kitáb-i-Aqdas, stabilisce l’istituzione del Custodiato come carica ereditaria e ne delinea le funzioni essenziali, dispone le misure per l’elezione della Casa Internazionale di Giustizia, ne definisce lo scopo e ne mostra la relazione con quell’Istituzione, prescrive gli obblighi e sottolinea le responsabilità delle Mani della Causa di Dio ed esalta le virtù dell’indistruttibile Patto stabilito da Bahá’u’lláh. Il Documento, inoltre, loda il coraggio e la costanza dei sostenitori di quel Patto, descrive diffusamente le sofferenze patite dal suo Centro designato, ricorda l’infame condotta di Mirza Yahyá e il suo rifiuto di dare ascolto agli avvertimenti del Báb, evidenzia in una serie di accuse la perfidia e la ribellione di Mirza Muhammad-‘Alí e la complicità del figlio Shu‘á‘u’lláh e del fratello Mirza Badí‘u’lláh, ribadisce la loro scomunica e predice la frustrazione di tutte le loro speranze, invita gli Afnán (i familiari del Báb), le Mani della Causa e l’intera compagnia dei seguaci di Bahá’u’lláh a levarsi uniti per propagare la Sua Fede, ad andare dappertutto, a lavorare instancabilmente e a seguire l’eroico esempio degli Apostoli di Gesù Cristo, li mette in guardia contro i pericoli dell’essere associati ai violatori del Patto e ordina loro di proteggere la Causa dagli assalti degli insinceri e degli ipocriti, li consiglia di dimostrare nel comportamento l’universalità della Fede che hanno abbracciato e di rivendicarne gli alti principi. Nello stesso Documento rivela il significato e lo scopo dell’Huqúqu’lláh (Diritto di Dio) già istituito nel Kitáb-i-Aqdas, ingiunge sottomissione e fedeltà a tutti i re giusti, esprime il desiderio d’essere martirizzato e prega per il pentimento e il perdono dei Suoi nemici.
10 Obbedienti all’invito rivolto loro dall’Autore di un Documento tanto importante, consapevoli del loro nobile compito, spinti all’azione dal colpo ricevuto per l’inattesa e repentina scomparsa di ‘Abdu’l-Bahá, guidati dal Piano che Egli, l’Architetto dell’Ordine Amministrativo, aveva consegnato alle loro mani, impavidi di fronte agli attacchi sferrati da traditori e nemici gelosi della sua forza unificatrice e ciechi alla sua incomparabile importanza, i membri delle comunità bahá’í sparse in Oriente e in Occidente si accinsero con visione chiara e inflessibile determinazione a inaugurare il Periodo formativo della Fede, ponendo le basi del sistema amministrativo mondiale destinato a evolversi in un Ordine Mondiale che la posterità acclamerà come la promessa e la gloria coronatrice di tutte le Dispensazioni del passato. Non paghi dell’erezione e del consolidamento dell’apparato amministrativo concepito per consentire la preservazione dell’unità della comunità in continua espansione e per l’efficiente conduzione dei suoi affari, i seguaci della Fede di Bahá’u’lláh decisero, nei due decenni che seguirono il trapasso di ‘Abdu’l-Bahá, di affermare e dimostrare coi loro atti l’indipendenza della Fede, di allargarne ulteriormente i limiti e di accrescere il numero dei suoi sostenitori dichiarati.
11 In questo triplice sforzo compiuto in tutto il mondo, si deve notare, il ruolo svolto dalla comunità bahá’í americana dal trapasso di ‘Abdu’l-Bahá fino alla fine del primo secolo bahá’í è stato tale da impartire un impulso eccezionale allo sviluppo della Fede in tutto mondo, da convalidare la fiducia che ‘Abdu’l-Bahá aveva riposta nei suoi membri e giustificare le grandi lodi che aveva profuso su di loro e le grandi speranze che aveva nutrito per il loro futuro. L’influenza dei suoi membri è stata, in effetti, così preponderante nell’avvio e nel consolidamento delle istituzioni amministrative bahá’í, che il loro paese merita di essere considerato la culla dell’Ordine Amministrativo che Bahá’u’lláh aveva concepito e che le Ultime Volontà del Centro del Suo Patto avevano portato all’esistenza.
12 A questo proposito bisogna tener presente che i provvedimenti preliminari intesi a rivelare l’ambito e il funzionamento dell’Ordine Amministrativo, che doveva ora essere formalmente stabilito dopo il trapasso di ‘Abdu’l-Bahá, erano già stati presi da Lui e anche da Bahá’u’lláh negli anni precedenti la Sua ascensione. La designazione di alcuni eminenti credenti persiani quali «Mani della Causa» compiuta da Bahá’u’lláh, l’inizio della formazione di Assemblee locali e di comitati di consultazione in importanti centri bahá’í in Oriente e in Occidente per opera di ‘Abdu’l-Bahá, la costituzione dell’Unità del Tempio bahá’í negli Stati Uniti d’America, l’istituzione di fondi locali per la promozione delle attività bahá’í, l’acquisto di proprietà destinate alla Fede e alle sue future istituzioni, la fondazione di case editrici per la diffusione della letteratura bahá’í, l’erezione del primo Mashriqu’l-Adhkár del mondo bahá’í, la costruzione del Mausoleo del Báb sul monte Carmelo, l’istituzione di ostelli per ospitare insegnanti viaggianti e pellegrini, questi possono essere considerati i precursori delle istituzioni che, subito dopo la fine dell’Età eroica della Fede, sarebbero state sistematicamente e permanentemente stabilite in tutto il mondo.
13 Non appena i provvedimenti di quello Statuto divino che descriveva a grandi linee le caratteristiche dell’Ordine Amministrativo della Fede di Bahá’u’lláh furono rivelati ai Suoi seguaci, essi incominciarono a innalzare sulle fondamenta poste dalla vita degli eroi, dei santi e dei martiri della Fede il primo stadio della struttura delle sue istituzioni amministrative. Consci della necessità di costruire, per prima cosa, un’ampia e solida base su cui potessero essere poi eretti i pilastri di quella possente struttura, pienamente consapevoli che, una volta solidamente piantati i pilastri, su di essi avrebbe poi dovuto poggiare la cupola, coronamento finale dell’intero edificio, senza farsi distogliere dalla loro strada dalla crisi che i violatori del Patto avevano scatenato in Terra Santa, o dalle agitazioni che i mestatori avevano provocato in Egitto, o dai disordini causati dalla confisca della Casa di Bahá’u’lláh a Baghdad da parte della comunità sciita, o dai crescenti pericoli che la Fede correva in Russia, o dal dileggio e dallo scherno con cui certi ambienti che avevano del tutto frainteso i loro intenti avevano accolto le prime attività della comunità americana bahá’í, i pionieri di quell’Ordine divinamente concepito, in perfetto unisono e malgrado le enormi diversità di vedute, abitudini e linguaggio, avevano intrapreso il duplice compito di istituire e consolidare i loro consigli locali eletti dalla massa dei credenti e destinati a guidare, coordinare ed estendere le attività dei seguaci di quella Fede assai diffusa. Questi consigli, che costituivano la base del sorgente Ordine di una Fede tanto a lungo perseguitata, furono a poco a poco installati in Persia, negli Stati Uniti d’America, nel dominion del Canada, nelle Isole Britanniche, in Francia, Germania, Austria, India, Birmania, Egitto, Iraq, Turchestan russo, Caucaso, Australia, Nuova Zelanda, Sud Africa, Turchia, Siria, Palestina, Bulgaria, Messico, nelle isole Filippine, in Giamaica, Costa Rica, Guatemala, Honduras, San Salvador, Argentina, Uruguay, Cile, Brasile, Ecuador, Colombia, Paraguay, Perù, Alaska, Cuba, Haiti, Giappone, nelle isole Hawaii, in Tunisia, Portorico, Belucistan, Russia, Transgiordania, Libano e Abissinia. Chiamate «Assemblee Spirituali», un nome che nel corso del tempo sarà sostituito dal loro titolo permanente e più rappresentativo di «Case di Giustizia» imposto loro dall’Autore della Rivelazione bahá’í, istituite, senza alcuna eccezione, in tutte le città, i paesi o i villaggi nei quali risiedano nove o più credenti adulti, direttamente e annualmente elette il primo giorno della massima Festività bahá’í da tutti i credenti adulti uomini e donne, investite di un’autorità che le rende indipendenti negli atti e nelle decisioni da coloro che le eleggono, solennemente impegnate a seguire in ogni circostanza i dettami della «Più Grande Giustizia», la sola che possa instaurare il regno della «Più Grande Pace» che Bahá’u’lláh ha proclamato e, alla fine, instaurerà, investite del compito di promuovere in ogni momento i migliori interessi delle comunità sotto la loro giurisdizione, di informarle dei loro piani e attività e di invitarle a offrire qualunque suggerimento desiderino fare, consapevoli del compito non meno vitale di dimostrare, associandosi con tutti i movimenti liberali e umanitari, l’universalità e la comprensività della loro Fede, completamente estranee a qualsiasi organizzazione settaria, religiosa o secolare, assistite da comitati annualmente nominati da loro e verso di loro direttamente responsabili, a ciascuno dei quali è assegnata, con compiti di studio e di azione, una particolare branca delle attività bahá’í, sostenute da fondi locali ai quali contribuiscono volontariamente tutti i credenti, queste Assemblee, rappresentanti e custodi della Fede di Bahá’u’lláh, che oggi ammontano a diverse centinaia e i cui membri appartengono alle diverse razze, credi e classi sociali che compongono la comunità mondiale bahá’í, hanno abbondantemente dimostrato, nel corso degli ultimi due decenni e in virtù dei loro successi, il loro diritto d’essere considerate il principale puntello della società bahá’í nonché il massimo fondamento della sua struttura amministrativa.
14 «Il Signore ha ordinato», è l’ingiunzione di Bahá’u’lláh nel Kitáb-i-Aqdas, «che in ogni città sia istituita una Casa di Giustizia in cui si riunisca un numero di consiglieri pari a quello di Bahá (9) e se eccedesse questo numero non ha importanza. Fa d’uopo che siano i fiduciari del Misericordioso fra gli uomini e si considerino i custodi nominati da Dio per tutto ciò che dimora sulla terra. Incombe loro di tener consiglio, di curarsi degli interessi dei servi di Dio, per amor Suo, come se fossero propri e di scegliere ciò che è adatto e conveniente». «Queste Assemblee Spirituali», testimonia ‘Abdu’l-Bahá in una Tavola indirizzata a un credente americano, «lo Spirito di Dio le aiuta, ‘Abdu’l-Bahá le difende e stende le Sue ali su di esse. V’è forse grazia maggiore di questa?» E nella stessa Tavola ha dichiarato: «Queste Assemblee Spirituali sono fulgide lampade e celestiali giardini, donde le fragranze della santità aleggiano su tutte le regioni, e le luci del sapere s’irradiano su tutte le cose create, e lo spirito della vita scorre in tutte le direzioni. In verità, esse sono le possenti fonti del progresso umano, in ogni momento e in qualunque circostanza». Stabilendo inconfutabilmente l’origine divina della loro autorità ha scritto: «Fa d’uopo che nessuno faccia alcun passo senza consultare l’Assemblea Spirituale: tutti devono obbedire incondizionatamente alle sue risoluzioni e ad esse sottomettersi, affinché ogni cosa sia in perfetto ordine e ben organizzata». Ha scritto inoltre: «Se dopo la discussione si prenderà una decisione all’unanimità, tanto meglio, ma se, Dio non voglia, sorgessero divergenze di opinione, dovrà prevalere la voce della maggioranza».
15 Stabilita la struttura delle Assemblee locali, la base dell’edificio che l’Architetto dell’Ordine Amministrativo della Fede di Bahá’u’lláh aveva ordinato che erigessero, i Suoi discepoli in Oriente e in Occidente s’accinsero risolutamente ad affrontare il successivo e più complesso stadio della loro nobile impresa. Nei paesi nei quali le dimensioni e l’influenza delle comunità bahá’í erano sufficientemente sviluppate si presero le necessarie misure per la formazione delle Assemblee Nazionali, i perni attorno ai quali devono ruotare tutte le iniziative nazionali. Chiamate da ‘Abdu’l-Bahá nel Suo Testamento «Case Secondarie di Giustizia», esse costituiscono i corpi elettorali per la formazione della Casa Internazionale di Giustizia e sono investite del potere di dirigere, unificare, coordinare e stimolare le attività degli individui e delle Assemblee Locali delle rispettive giurisdizioni. Fondate su un’ampia base di comunità locali organizzate, esse stesse colonne portanti dell’istituzione che dev’essere considerata il vertice dell’Ordine Amministrativo bahá’í, queste Assemblee sono elette secondo il principio della rappresentanza proporzionale da delegati che rappresentano le comunità locali bahá’í riuniti in Convenzione durante il periodo della Festa del Ridvan, hanno l’autorità necessaria per assicurare l’armonioso ed efficace sviluppo delle attività entro le rispettive sfere, sono libere, nelle loro azioni e decisioni, da qualunque responsabilità diretta verso l’elettorato, sono investite del sacro dovere di consultarsi sulle opinioni dei delegati, di sollecitarne le raccomandazioni, di ottenerne la fiducia e la collaborazione e di informarli dei loro piani, dei loro problemi e delle loro azioni, sono finanziate dalle risorse dei fondi nazionali ai quali tutti i credenti sono sollecitati a contribuire. Istituite negli Stati Uniti d’America (1925) (l’Assemblea Nazionale che in quel paese sostituì l’istituzione dell’Unità del Tempio bahá’í formata durante il ministero di ‘Abdu’l-Bahá), nelle Isole Britanniche (1923), in Germania (1923), in Egitto (1924), in Iraq (1931), in India (1923), in Persia (1934) e in Australia (1934), rielette di anno in anno da delegati il cui numero è stato fissato, in base a esigenze nazionali, a 9, 19, 95 o 171 (9 volte 19), queste istituzioni nazionali hanno segnato con la loro nascita l’inizio di una nuova epoca dell’Età formativa della Fede e hanno caratterizzato un successivo stadio nell’evoluzione, nell’unificazione e nel consolidamento di una comunità in continua espansione. Assistite da comitati nazionali responsabili verso di loro, da loro scelti indiscriminatamente nell’ambito dell’intero corpo dei credenti sotto la loro giurisdizione, incaricati ciascuno di una particolare sfera del servizio bahá’í, queste Assemblee Nazionali bahá’í, espandendosi la sfera delle loro attività, si sono dimostrate capaci, grazie allo spirito di disciplina che hanno inculcato e all’inflessibile adesione a principi che hanno permesso loro di sollevarsi al di sopra di qualsiasi pregiudizio di razza, nazione, classe e colore, di amministrare, in modo straordinario, le crescenti attività della Fede da poco consolidata.
16 Altrettanto energici e devoti nel disbrigo delle rispettive funzioni sono stati i comitati nazionali. Nella difesa dei vitali interessi della Fede, nell’esposizione della sua dottrina, nella diffusione della sua letteratura, nel consolidamento delle sue finanze, nell’organizzazione delle sue forze d’insegnamento, nella promozione della solidarietà delle sue parti componenti, nell’acquisizione dei luoghi della sua storia, nella preservazione dei suoi sacri documenti, tesori e reliquie, nei contatti con le varie istituzioni della società di cui essa fa parte, nell’educazione dei suoi giovani e dei suoi bambini, nella valorizzazione della condizione femminile fra le aderenti alla Fede in Oriente i membri di queste agenzie diversificate, che operano sotto l’egida dei rappresentanti nazionali eletti della comunità bahá’í, si sono ampiamente dimostrati capaci di promuovere concretamente i suoi vitali e molteplici interessi. Un semplice elenco dei comitati nazionali che, nati per lo più in Occidente e funzionanti con esemplare efficienza negli Stati Uniti e in Canada, svolgono ora le loro attività con un vigore e un’unità d’intenti nettamente contrastante con le logore istituzioni di una civiltà moribonda, basterà a rivelare l’ampiezza di queste istituzioni ausiliarie che un evolvente Ordine Amministrativo, ancora nello stadio secondario del proprio sviluppo, ha messo in moto: il Comitato d’insegnamento, i Comitati regionali di insegnamento, il Comitato interamericano, il Comitato pubblicazioni, il Comitato per l’unità delle razze, il Comitato della gioventù, il Comitato delle revisioni, il Comitato della manutenzione del Tempio, il Comitato del programma del Tempio, il Comitato delle guide del Tempio, il Comitato biblioteca e vendite nel Tempio, i Comitati per il servizio dei ragazzi e delle ragazze, il Comitato per l’educazione dei bambini, i Comitati per il progresso, l’insegnamento e i programmi delle donne, il Comitato legale, il Comitato archivi e storia, il Comitato per il censimento, il Comitato mostre bahá’í, il Comitato del Notiziario bahá’í, il Comitato del servizio informazioni, il Comitato trascrizioni Braille, il Comitato simpatizzanti, il Comitato servizi, il Comitato editoriale, il Comitato per la catalogazione, il Comitato della biblioteca, il Comitato per la radio, il Comitato per la contabilità, il Comitato per gli anniversari, il Comitato editoriale di Bahá’í World, il Comitato per le guide allo studio, il Comitato per la lingua ausiliaria internazionale, il Comitato per l’Istituto di educazione bahá’í, il Comitato della rivista World Order, il Comitato pubbliche relazioni, il Comitato delle scuole bahá’í, il Comitato delle scuole estive, il Comitato della scuola internazionale, il Comitato per gli opuscoli, il Comitato per il cimitero, il Comitato per la Hazíratu’l-Quds, il Comitato per il Mashriqu’l-Adhkár, il Comitato per lo sviluppo delle Assemblee, il Comitato per la storia nazionale, il Comitato per la miscellanea, il Comitato per le pubblicazioni gratuite, il Comitato traduzioni, il Comitato per la catalogazione delle Tavole, il Comitato editoriale per le Tavole, il Comitato proprietà, il Comitato per gli accordi, il Comitato per la pubblicità, il Comitato per l’Oriente e l’Occidente, il Comitato di assistenza, il Comitato per la trascrizione delle Tavole, il Comitato insegnanti viaggianti, il Comitato per l’educazione bahá’í, il Comitato per i Luoghi santi, il Comitato bancario per i risparmi dei fanciulli.
17 L’istituzione di Assemblee locali e nazionali e la conseguente formazione di comitati locali e nazionali, operanti come necessari complementi dei rappresentanti eletti delle comunità bahá’í in Oriente e in Occidente, per quanto importanti di per sé, non furono che il preludio di una serie di attività svolte dalle nuove Assemblee Nazionali che hanno notevolmente contribuito all’unificazione della comunità mondiale bahá’í e al consolidamento del suo Ordine Amministrativo. Il primo passo in quella direzione fu la stesura e l’adozione di una costituzione nazionale bahá’í, redatta e promulgata per la prima volta dai rappresentanti eletti della comunità americana nel 1927, il cui testo, con lievi varianti confacenti a necessità nazionali, è stato poi tradotto in arabo, tedesco e persiano e, attualmente, costituisce lo statuto delle Assemblee Spirituali Nazionali dei Bahá’í degli Stati Uniti d’America e del Canada, delle Isole Britanniche, della Germania, della Persia, dell’Iraq, dell’India e della Birmania, dell’Egitto e del Sudan, dell’Australia e della Nuova Zelanda. Precorritrice della formulazione della costituzione della futura Comunità mondiale bahá’í, sottoposta all’esame di tutte le Assemblee locali e ratificata dall’intero corpo dei credenti riconosciuti in tutti i paesi dove esista un’Assemblea Nazionale, questa costituzione nazionale è stata integrata da un documento simile, contenente il regolamento delle Assemblee bahá’í locali, redatto per la prima volta nel novembre 1931 dalla comunità bahá’í di New York e accettato come modello di tutte le costituzioni bahá’í locali. Il testo di questa costituzione nazionale comprende una Dichiarazione fiduciaria i cui articoli spiegano il carattere e gli obiettivi della comunità nazionale bahá’í, stabiliscono le funzioni, designano l’ufficio centrale e descrivono il sigillo ufficiale del corpo dei suoi rappresentanti eletti, nonché un insieme di regolamenti che definiscono lo status, l’elezione, i poteri e i doveri delle Assemblee nazionali e locali, descrivono i rapporti fra l’Assemblea Nazionale e la Casa Internazionale di Giustizia, le Assemblee locali e i singoli credenti, descrivono sommariamente i diritti e i doveri della Convenzione Nazionale e i suoi rapporti con l’Assemblea Nazionale, spiegano le caratteristiche delle elezioni bahá’í e stabiliscono i requisiti dei membri votanti di tutte le comunità bahá’í.
18 La formulazione di queste costituzioni locali e nazionali, identiche a tutti gli effetti nei loro provvedimenti, fu la necessaria premessa al riconoscimento legale di queste istituzioni amministrative secondo i regolamenti civili che controllano gli organi religiosi o commerciali. Dando a queste Assemblee uno stato giuridico, questo riconoscimento legale consolidò notevolmente il loro potere e ne ampliò le capacità, e anche in questo i risultati conseguiti dall’Assemblea Spirituale Nazionale degli Stati Uniti e del Canada e dall’Assemblea Spirituale dei Bahá’í di New York costituiscono un esempio degno d’emulazione per le Assemblee consorelle in Oriente e in Occidente. Il riconoscimento legale dell’Assemblea Spirituale Nazionale americana come Consorzio volontario, una specie di ente morale riconosciuto dal diritto comune che le consentiva di stipulare contratti, essere intestataria di proprietà e ricevere lasciti, per effetto di un certificato rilasciato nel maggio del 1929 con il sigillo del Dipartimento di Stato di Washington e la firma del Segretario di stato, Henry L. Stimson, fu seguito dall’adozione di misure legali analoghe che portarono al successivo riconoscimento dell’Assemblea Spirituale Nazionale dei bahá’í dell’India e della Birmania, nel gennaio del 1933, a Lahore nello stato del Panjab, in base alle disposizioni della Legge sulla Registrazione delle Società del 1860, dell’Assemblea Spirituale Nazionale dei Bahá’í dell’Egitto e del Sudan, nel dicembre 1934, com’è certificato dal Tribunale misto del Cairo, dell’Assemblea Spirituale Nazionale dei Bahá’í dell’Australia e della Nuova Zelanda, nel gennaio 1938, come attesta il Cancelliere aggiunto dell’Ufficio generale del Registro per lo stato dell’Australia del Sud, e, più recentemente, dell’Assemblea Spirituale Nazionale dei Bahá’í delle Isole Britanniche, nell’agosto del 1939, come società a responsabilità illimitata senza scopo di lucro, secondo la Legge sulle società del 1929, com’è certificato dall’Assistente cancelliere delle Società della City di Londra.
19 Contemporaneamente al riconoscimento legale di queste Assemblee Nazionali, seguendo l’esempio dato dall’Assemblea di Chicago nel febbraio 1932, un numero molto più grande di Assemblee locali bahá’í ottennero similmente il riconoscimento legale in paesi disparati come gli Stati Uniti d’America, l’India, il Messico, la Germania, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda, la Birmania, il Costa Rica, il Belucistan e le isole Hawaii. Le Assemblee Spirituali dei Bahá’í di Esslingen in Germania, di Città del Messico nel Messico, di San Josè in Costa Rica, di Sydney e Adelaide in Australia, di Auckland nella Nuova Zelanda, di Delhi, Bombay, Karachi, Poona, Calcutta, Secunderabad, Bangalore, Vellore, Ahmedabad, Serampore, Andheri e Baroda in India, di Tuetta nel Belucistan, di Rangoon, Mandalay e Daidanow-Kalazoo in Birmania, di Montreal e Vancouver in Canada, di Honolulu nelle isole Hawaii e di Chicago, New York, Washington D. C., Boston, San Francisco, Philadelphia, Kenosha, Teaneck, Racine, Detroit, Cleveland, Los Angeles, Milwaukee, Minneapolis, Cincinnati, Winnetka, Phoenix, Columbus, Lima, Portland, Jersey City, Wilmette, Peoria, Seattle, Binghamton, Helena, Richmond Highlands, Miami, Pasadena, Oakland, Indianapolis, St. Paul, Berkeley, Urbana, Springfield e Flint negli Stati Uniti d’America – tutte queste Assemblee riuscirono, gradualmente e dopo aver sottoposto alle autorità civili dei rispettivi stati o province testi quasi identici di costituzioni locali bahá’í, a costituirsi in società ed enti morali riconosciuti dalla legge e protetti dai regolamenti civili operanti nei rispettivi paesi.
20 Come la formulazione delle costituzioni bahá’í aveva fornito alle Assemblee Spirituali la base per l’acquisizione dello stato giuridico, così il riconoscimento che autorità nazionali e locali accordarono ai rappresentanti eletti delle comunità bahá’í aprì la strada all’istituzione di proprietà bahá’í nazionali e locali, una storica impresa che, com’era accaduto per altre precedenti importanti conquiste, la comunità bahá’í americana affrontò per prima. In molti casi le proprietà, per il loro carattere religioso, sono state esentate dalle tasse governative e municipali, in seguito a istanze presentate alle autorità civili da istituzioni bahá’í legalmente riconosciute, sebbene, in molti paesi, il valore delle proprietà ammontasse a somme considerevoli.
21 Negli Stati Uniti d’America le proprietà nazionali della Fede, che già ammontavano a un milione e settecento cinquantamila dollari ed erano state istituite con una serie di Accordi consorziali (Indentures of Trust), create nel 1928, ’29, ’35, ’38, ’39, ’41 e ’42 dall’Assemblea Spirituale Nazionale del paese in qualità di Fiduciaria della Comunità bahá’í americana, comprendono ora il terreno e le strutture del Mashriqu’l-Adhkár e la villetta del suo custode a Wilmette, Illinois, l’adiacente Hazíratu’l-Quds (Sede nazionale bahá’í) e i suoi uffici amministrativi supplementari, la Foresteria, la Casa dell’amicizia, la Sala bahá’í, lo Studio delle arti e mestieri, una fattoria, numerose villette, parecchi appezzamenti di terreno, fra i quali la tenuta di Montsalvat, benedetta dai passi di ‘Abdu’l-Bahá a Green Acre, nello Stato del Maine, Casa Bosch, la Sala bahá’í, un frutteto, Redwood Grove, un dormitorio e i fabbricati del Ranch a Geyserville, California, Casa Wilhelm, Evergreen Cabin, una pineta e sette lotti con fabbricati a West Englewood, New Jersey, dove si svolse la memorabile Festa dell’unità offerta da ‘Abdu’l-Bahá nel giugno 1912 ai bahá’í del distretto metropolitano di New York, Casa Wilson, benedetta dalla Sua presenza, e alcuni terreni a Madeln, Massachussetts, Casa Mathews e gli edifici del Ranch a Pine Valley, Colorado, terreni a Muskegon, Michigan, e un lotto per un cimitero a Portsmouth, New Hampshire.
22 Di importanza ancor più grande e, nel loro insieme, di valore di gran lunga superiore alle proprietà nazionali della comunità bahá’í americana sono i beni che la Fede possiede nella sua terra d’origine, anche se i titoli di proprietà sono amministrati fiduciariamente da individui per l’impossibilità in cui si trova la comunità bahá’í persiana di ottenere il riconoscimento legale delle sue Assemblee nazionale e locali. Alla Casa del Báb a Shíráz e alla Casa avita di Bahá’u’lláh a Tákur nel Mázindarán, proprietà della comunità già nei giorni del ministero di ‘Abdu’l-Bahá, dopo la Sua ascensione si sono aggiunti estesi possedimenti nei dintorni della capitale, situati sulle pendici del monte Elburz in posizione dominante sulla città natale di Bahá’u’lláh, che comprendono una fattoria, un giardino e una vigna e un’area di oltre tre milioni e mezzo di metri quadrati destinata alla futura sede del primo Mashriqu’l-Adhkár in Persia. Altre acquisizioni hanno notevolmente ampliato le dimensioni delle proprietà bahá’í del paese: la casa in cui Bahá’u’lláh nacque a Teheran, numerosi edifici adiacenti la casa del Báb a Shíráz, fra cui la casa di Suo zio materno, l’Hazíratu’l-Quds di Teheran, il negozio di cui il Báb Si servì negli anni in cui faceva il mercante a Búshihr, un quartiere del villaggio di Chihríq dove fu confinato, la casa di Hájí Mirza Jání dove sostò mentre Si recava a Tabríz, il bagno pubblico che frequentava a Shíráz e alcune case adiacenti, metà della casa di Vahíd a Nayríz e parte della casa di proprietà di Hujjat a Zanján, i tre giardini presi in affitto da Bahá’u’lláh nel borgo di Badasht, il luogo dove è sepolto Quddús a Bárfurush, la casa del Kalántar di Teheran dove fu confinata Táhirih, il bagno pubblico visitato dal Báb quando era a Urúmíyyih nell’Azerbaigian, la casa di proprietà di Mirza Husayn-‘Alíy-i-Núr dove furono nascosti i resti del Báb, la Bábíyyih, la casa di proprietà di Mullá Husayn a Mashhad, la residenza del Sultánu’sh-Shuhadá (Re dei martiri) e del Mahbúbu’sh-Shuhadá (Benamato dei martiri) a Isfáhán, nonché un gran numero di luoghi e di case, fra i quali anche tombe, associate a eroi e martiri della Fede. Questi possedimenti che, salvo poche eccezioni, sono stati recentemente acquistati in Persia, vengono ora preservati, di anno in anno aumentati e, quando è necessario, accuratamente restaurati, grazie all’assiduo impegno di un comitato nazionale appositamente nominato, che opera sotto la costante supervisione generale dei rappresentanti eletti dei credenti persiani.
23 Non si può omettere un accenno alle varie e sempre più numerose proprietà nazionali che, fin dall’inizio dell’Ordine Amministrativo della Fede di Bahá’u’lláh, sono state costantemente acquistate in altre nazioni come l’India, la Birmania, le Isole Britanniche, la Germania, l’Iraq, l’Egitto, l’Australia, la Transgiordania e la Siria. Fra queste vanno menzionate specificamente le Hazíratu’l-Quds dei bahá’í dell’Iraq, dell’Egitto, dell’India e dell’Australia, la Casa bahá’í di Esslingen, la Casa editrice dei bahá’í delle Isole Britanniche, la Casa dei pellegrini bahá’í a Baghdad e i cimiteri bahá’í nelle capitali della Persia, dell’Egitto e del Turchestan. Queste proprietà, sparse dappertutto, siano terreni, scuole, sedi amministrative, segretariati, biblioteche, cimiteri, ostelli o case editrici, in parte registrate a nome di Assemblee Nazionali dotate di personalità giuridica, in parte amministrate fiduciariamente da credenti riconosciuti, hanno contribuito all’ininterrotta espansione delle proprietà nazionali bahá’í negli ultimi anni e al consolidamento delle loro basi. Di vitale importanza, anche se di minor significato, sono state le proprietà locali che hanno integrato i patrimoni nazionali della Fede e che, dopo l’acquisizione di personalità giuridica da parte di Assemblee locali, sono state legalmente costituite e protette in vari paesi in Oriente e in Occidente. Particolarmente in Persia questi beni, siano essi terreni, edifici amministrativi, scuole o altre istituzioni, hanno notevolmente arricchito e ampliato l’ambito delle proprietà locali della comunità mondiale bahá’í.
24 Contemporaneamente all’istituzione e al riconoscimento legale di Assemblee bahá’í locali e nazionali, alla formazione dei rispettivi comitati, alla formulazione delle costituzioni bahá’í locali e nazionali e all’istituzione di proprietà bahá’í, queste Assemblee recentemente fondate hanno intrapreso iniziative di grande importanza istituzionale, tra le quali l’istituzione dell’Hazíratu’l-Quds, sede dell’Assemblea Nazionale Bahá’í e perno di tutta la futura attività amministrativa, deve essere considerata una delle più importanti. Nata inizialmente in Persia, ora universalmente conosciuta con il caratteristico nome ufficiale che significa «sacro Ovile», segno di un notevole progresso nell’evoluzione di un processo i cui inizi si possono ricondurre alle riunioni clandestine che i perseguitati seguaci della Fede di quel paese tenevano, talvolta in luoghi sotterranei e nel cuore della notte, questa istituzione, ancora nei primi stadi del suo sviluppo, ha già contribuito al consolidamento delle funzioni interne dell’organica comunità bahá’í e fornito un’ulteriore visibile prova della sua costante crescita e del suo sorgente potere. Complementare nelle funzioni al Mashriqu’l-Adhkár, edificio riservato esclusivamente al culto bahá’í, questa istituzione, locale o nazionale, man mano che le sue parti componenti, come il Segretariato, la Tesoreria, gli Archivi, la Biblioteca, l’Ufficio editoriale, la Sala assembleare, la Camera del consiglio, l’Ostello dei pellegrini saranno concentrate e opereranno in un unico luogo, sarà sempre più considerata il punto focale di tutta l’attività amministrativa bahá’í e simboleggerà degnamente l’ideale di servizio che anima la comunità nei confronti tanto della Fede quanto dell’umanità in generale.
25 Dal Mashriqu’l-Adhkár, che Bahá’u’lláh nel Kitáb-i-Aqdas decreta essere casa di culto, i rappresentanti nazionali e locali delle comunità bahá’í con i membri dei rispettivi comitati, riunendosi ogni giorno all’alba dentro le sue mura, trarranno la necessaria ispirazione che permetterà loro di svolgere i loro compiti e di far fronte alle loro responsabilità, nel corso delle loro quotidiane attività nell’Hazíratu’l-Quds, sede del lavoro amministrativo, come si conviene agli amministratori scelti della Sua Fede.
26 Sulle sponde del lago Michigan nei pressi del primo centro bahá’í installato sul continente americano e all’ombra del primo Mashriqu’l-Adhkár dell’Occidente, nella capitale della Persia culla della Fede, in prossimità della Più Grande Casa di Baghdad, nella città di ‘Ishqábad accanto al primo Mashriqu’l-Adhkár del mondo bahá’í, nella capitale egiziana centro del mondo arabo e islamico, a Dehli capitale dell’India, persino a Sydney nella lontanissima Australia sono già stati fatti i primi passi che alla fine culmineranno nell’insediamento delle sedi amministrative nazionali delle comunità bahá’í fondate in quei paesi, nel pieno dello splendore e del potere.
27 Inoltre, localmente, nei paesi sopra elencati e in molti altri, misure preliminari per la fondazione di questa istituzione nella forma di una casa di proprietà o presa in affitto, sono state adottate dalle comunità locali bahá’í, prime fra tutte i numerosi edifici amministrativi che i credenti, malgrado le limitazioni cui sono soggetti, sono riusciti ad acquistare o costruire in varie province della Persia.
28 Altrettanto importante per l’evoluzione dell’Ordine Amministrativo è stato il notevole progresso conseguito, specialmente negli Stati Uniti d’America, dall’istituzione delle scuole estive destinate a promuovere lo spirito di cameratismo in un’atmosfera spiccatamente bahá’í, a consentire la necessaria formazione degli insegnanti bahá’í e a fornire agevolazioni per lo studio della storia e degli insegnamenti della Fede e per una migliore comprensione dei suoi rapporti con le altre religioni e con la società umana in generale.
29 Installati in tre centri regionali per i tre maggiori distretti del continente nordamericano, a Geyserville sulle colline californiane (1927), a Green Acre sulle rive del Piscataqua nello stato del Maine (1929) e a Louhelen Ranch, presso Davison, nel Michigan (1931) e recentemente rafforzati dalla Scuola internazionale, fondata a Pine Valley, Colorado Springs, dedicata alla formazione degli insegnanti bahá’í che vogliono servire in altri paesi, e in particolare in America Latina, questi tre istituti educativi bahá’í embrionali, con la costante espansione dei loro programmi, hanno dato un esempio degno d’essere emulato da altre comunità bahá’í in Oriente e in Occidente. Promuovendo lo studio intensivo degli Scritti bahá’í e della storia degli albori della Fede, organizzando corsi sulle dottrine e sulla storia dell’Islam, convegni per la promozione dell’amicizia tra le razze, corsi pratici destinati a far conoscere ai partecipanti i processi dell’Ordine Amministrativo bahá’í, speciali sessioni dedicate all’educazione dei giovani e dei fanciulli, corsi per imparare a parlare in pubblico, conferenze di Religione comparata, discussioni di gruppo sui molteplici aspetti della Fede, aprendo biblioteche, organizzando classi di insegnamento, corsi di etica bahá’í e sull’America Latina, introducendo sessioni invernali aggiuntive, discussioni pubbliche e riunioni devozionali, spettacoli e rappresentazioni, picnic e altre attività ricreative, queste scuole, aperte a bahá’í e non bahá’í, hanno dato un esempio così nobile da ispirare altre comunità in Persia, nelle Isole Britanniche, in Germania, Australia, Nuova Zelanda, India, Iraq ed Egitto a intraprendere i passi iniziali necessari a metterle in grado di fondare, seguendo gli stessi orientamenti, istituzioni che promettono di trasformarsi nelle future università bahá’í.
30 Fra gli altri fattori che hanno contribuito all’espansione e all’affermazione dell’Ordine Amministrativo si possono citare le attività organizzate dei giovani bahá’í, già molto avanzate in Persia e negli Stati Uniti d’America e più recentemente avviate in India, nelle Isole Britanniche, in Germania, Iraq, Egitto, Australia, Bulgaria, isole Hawaii, Ungheria e Avana. Queste attività comprendono annuali Simposi mondiali della gioventù bahá’í, sessioni giovanili delle scuole estive bahá’í, bollettini e riviste per giovani, un Ufficio internazionale di corrispondenza, agevolazioni per la registrazione dei giovani che desiderano abbracciare la Fede, pubblicazione di schemi e riferimenti per lo studio degli insegnamenti e l’organizzazione di un gruppo di studio bahá’í fra le attività ufficiali di una delle principali università americane. Tali attività includono inoltre «giornate di studio» in case e centri bahá’í, classi per lo studio dell’esperanto e di altre lingue, l’organizzazione di biblioteche bahá’í, l’apertura di sale di lettura, la produzione di spettacoli e rappresentazioni bahá’í, l’organizzazione di gare di oratoria, l’educazione degli orfani, l’organizzazione di classi per imparare a parlare in pubblico, di riunioni per perpetuare la memoria di personaggi storici bahá’í, di conferenze regionali fra gruppi e di sessioni per i giovani in concomitanza con le convenzioni annuali.
31 Ulteriori fattori che hanno promosso lo sviluppo di quell’Ordine e contribuito al suo consolidamento sono l’istituzione sistematica della Festa del diciannovesimo giorno, funzionante nella maggior parte delle comunità bahá’í in Oriente e in Occidente, con un triplice accento sugli aspetti devozionale, amministrativo e sociale della vita comunitaria bahá’í, l’avvio di attività destinate a preparare un censimento dei bambini bahá’í e a mettere a loro disposizione corsi pratici, libri di preghiera e letteratura elementare, la stesura e la pubblicazione di una raccolta di autorevoli dichiarazioni sul carattere non politico della Fede, sulla partecipazione a organismi religiosi non bahá’í, sui metodi d’insegnamento, sull’atteggiamento bahá’í nei confronti della guerra, sulle istituzioni della Convenzione annuale, della Assemblea Spirituale bahá’í, della Festa del diciannovesimo giorno e del Fondo nazionale. Si devono inoltre menzionare la costituzione di Archivi nazionali per l’autenticazione, la raccolta, la traduzione, la catalogazione e la conservazione delle Tavole di Bahá’u’lláh e di ‘Abdu’l-Bahá e per la preservazione di sacre reliquie e documenti storici, la verifica e la trascrizione delle Tavole originali del Báb, di Bahá’u’lláh e ‘Abdu’l-Bahá di proprietà di credenti orientali, la compilazione di una dettagliata storia della Fede dagli inizi ad oggi, l’apertura di un Ufficio internazionale bahá’í a Ginevra, l’organizzazione di convenzioni distrettuali, l’acquisizione di siti storici, la fondazione di biblioteche commemorative bahá’í e l’apertura di una fiorente Cassa di Risparmio per i bambini in Persia.
32 Non si può omettere un accenno alla partecipazione ufficiale e ufficiosa di rappresentanti di queste comunità nazionali bahá’í di nuova fondazione alle attività e ai lavori di una grande varietà di congressi, associazioni, convenzioni e convegni tenuti in vari paesi europei, asiatici e americani per la promozione dell’unità religiosa, della pace, dell’istruzione, della cooperazione internazionale, dell’amicizia fra le razze e di altri scopi umanitari. Con organismi come il Convegno di alcune religioni viventi nell’Impero britannico, svoltosi a Londra nel 1924, e il Sodalizio mondiale delle fedi svoltosi nella stessa città nel 1936, con i Congressi universali degli esperantisti tenuti annualmente in varie capitali europee, con l’Istituto per la cooperazione intellettuale, con la Mostra del secolo del progresso di Chicago nel 1933, con la Fiera mondiale di New York nel 1938 e 1939, con l’Esposizione internazionale del Golden Gate di San Francisco del 1939, con la prima convenzione del Congresso religioso svoltasi a Calcutta, con il secondo Convegno culturale panindiano nella stessa città, con la convenzione dell’Associazione di tutte le fedi a Indore, con i convegni Arya Samaj e Brahmo Samaj nonché con i convegni della Società teosofica e con i Convegni femminili panasiatici in varie città dell’India, con il Concilio mondiale della gioventù, con il Congresso delle donne orientali a Teheran, con il Convegno delle donne del Pacifico a Honolulu, con la Lega femminile internazionale per la pace e con il Convegno dei popoli a Buenos Aires in Argentina – con questi e altri convegni sono state coltivate, in una forma o in un’altra, relazioni che sono servite al duplice scopo di dimostrare l’universalità e la comprensività della Fede di Bahá’u’lláh e ad allacciare importanti e durevoli legami fra loro e le istituzioni dell’Ordine Amministrativo sparse per il mondo.
33 Né si possono ignorare o sottovalutare i contatti stabiliti fra queste istituzioni e alcune delle più alte autorità di governo in Oriente e in Occidente, nonché con i capi dell’Islam in Persia, con la Società delle nazioni e persino con sovrani, allo scopo di difendere i diritti dei seguaci della Fede, di presentarne la letteratura o di spiegarne i fini e gli scopi nei loro incessanti sforzi per difendere la causa di un Ordine Amministrativo neonato. Le comunicazioni indirizzate dai membri dell’Assemblea Spirituale Nazionale dei Bahá’í degli Stati Uniti e del Canada, i campioni costruttori di quell’Ordine, all’Alto commissario per la Palestina per ottenere la restituzione delle chiavi della Tomba di Bahá’u’lláh al suo custode, allo Scià di Persia, in quattro occasioni, per chiedere giustizia per i loro confratelli perseguitati nei suoi domini, al Primo ministro persiano sullo stesso argomento, alla regina Maria di Romania esprimendo gratitudine per i suoi storici omaggi alla Fede bahá’í, ai capi dell’Islam in Persia per invocare armonia e pace fra le religioni, al re Feisal dell’Iraq per ottenere la protezione della Più Grande Casa di Baghdad, alle autorità sovietiche a nome delle comunità bahá’í russe, alle autorità tedesche sulle limitazioni di cui soffrivano i loro confratelli del posto, al governo egiziano per l’emancipazione dei loro correligionari dal giogo dell’ortodossia islamica, al Gabinetto persiano in seguito alla chiusura degli istituti di educazione bahá’í del paese, al Dipartimento di stato del governo degli Stati Uniti, all’ambasciatore turco a Washington e al Gabinetto turco di Ankara in difesa degli interessi della Fede in Turchia, allo stesso Dipartimento di stato per facilitare il trasferimento dei resti di Lua Getsinger dal cimitero protestante del Cairo al primo cimitero bahá’í costituito in Egitto, al Ministro persiano a Washington sulla missione di Keith Ransom-Kehler, al re d’Egitto con acclusa letteratura bahá’í, ai governi degli Stati Uniti e del Canada per esporre gli insegnamenti bahá’í sulla Pace universale, al Ministro romeno a Washington, a nome dei bahá’í americani, in occasione della morte della regina Maria di Romania, al presidente Franklin D. Roosevelt per fargli conoscere l’invito ai presidenti delle Repubbliche americane proferito da Bahá’u’lláh nel Kitáb-i-Aqdas e alcune preghiere rivelate da ‘Abdu’l-Bahá, tutte queste comunicazioni costituiscono di per sé un notevole e illuminante capitolo della storia dello sviluppo dell’Ordine Amministrativo.
34 A queste vanno aggiunte le comunicazioni indirizzate dal centro mondiale della Fede e da assemblee locali e nazionali bahá’í, per telegrafo o per lettera, all’Alto commissario per la Palestina per chiedere la restituzione delle chiavi della Tomba di Bahá’u’lláh al suo custode originario, gli appelli rivolti da centri bahá’í in Oriente e in Occidente alle autorità irachene per la restituzione della Casa di Bahá’u’lláh a Baghdad, il successivo appello al Segretario di stato britannico per le colonie in seguito al verdetto della Corte d’appello di Baghdad a questo proposito, i messaggi di apprezzamento alla Società delle nazioni, a nome di comunità bahá’í in Oriente e in Occidente, per la dichiarazione ufficiale del Consiglio della Società a favore delle richieste presentate dagli instanti bahá’í, lo scambio di numerose lettere fra il Centro internazionale della Fede e Martha Root, archetipo degli insegnanti bahá’í, e la regina Maria di Romania dopo la pubblicazione dei suoi storici apprezzamenti sulla Fede, i messaggi di condoglianze indirizzati alla regina Maria di Jugoslavia, a nome della Comunità mondiale bahá’í, in occasione del trapasso della madre, e alla Duchessa di Kent dopo la tragica morte del marito.
35 Meritano inoltre una speciale menzione la petizione presentata dall’Assemblea Spirituale Nazionale dei Bahá’í dell’Iraq alla Commissione dei territori sotto mandato della Società delle nazioni in seguito al sequestro della Casa di Bahá’u’lláh a Baghdad, i messaggi inviati dalla medesima Assemblea al re Ghází I dell’Iraq dopo la morte del padre e in occasione del suo matrimonio, le condoglianze da essa presentate per iscritto all’attuale reggente dell’Iraq al momento dell’improvvisa morte del re, le comunicazioni dell’Assemblea Spirituale Nazionale dei Bahá’í dell’Egitto presentate al Primo ministro, al Ministro dell’interno e al Ministro della giustizia, dopo il verdetto della Corte ecclesiastica musulmana in Egitto, le lettere indirizzate dall’Assemblea Spirituale Nazionale dei Bahá’í della Persia allo Scià e al Gabinetto persiano in occasione della chiusura delle scuole bahá’í e del bando imposto nel paese alla letteratura bahá’í. Si possono inoltre menzionare i messaggi scritti inviati dall’Assemblea Spirituale Nazionale dei Bahá’í della Persia al Re di Romania e alla famiglia reale, in occasione della morte della regina madre Maria, all’Ambasciatore turco a Teheran, con acclusa la contribuzione dei credenti persiani per le vittime del terremoto in Turchia, le lettere di Martha Root al defunto presidente von Hindenburg e al dottor Streseman, ministro degli esteri tedesco, per accompagnare e presentare la letteratura bahá’í, le sette petizioni indirizzate l’una dopo l’altra allo Scià di Persia da Keith Ransom-Kehler e le sue numerose comunicazioni a vari ministri e alti dignitari del regno durante la sua memorabile visita in quella terra.
36 Accanto a queste prime mosse dell’Ordine Amministrativo e contemporaneamente alla nascita delle comunità nazionali bahá’í e alla formazione delle loro agenzie amministrative, educative e d’insegnamento, si stava irresistibilmente svolgendo l’imponente processo messo in moto in Terra Santa, cuore e centro nevralgico dell’Ordine Amministrativo, nelle memorabili occasioni in cui Bahá’u’lláh aveva rivelato la Tavola del Carmelo e visitato il luogo del futuro sepolcro del Báb. Questo processo aveva ricevuto uno straordinario impulso dall’acquisizione di quel terreno poco dopo l’ascensione di Bahá’u’lláh, dal successivo trasferimento delle spoglie del Báb da Teheran ad ’Akká, dalla costruzione del sepolcro negli anni più dolorosi della carcerazione di ‘Abdu’l-Bahá e infine dalla definitiva tumulazione di quelle spoglie nelle viscere del monte Carmelo, dalla costruzione di un ostello per i pellegrini nelle immediate vicinanze del sepolcro e dalla selezione del terreno della futura prima istituzione educativa bahá’í su quel monte.
37 Approfittando della libertà concessa al centro mondiale della Fede di Bahá’u’lláh dopo l’ignominiosa disfatta del decrepito impero ottomano nella guerra del ’14-18, le forze sprigionate dall’inizio del prodigioso Piano concepito da Bahá’u’lláh potevano ora riversarsi incontrollate, sotto il benefico influsso di un regime ben disposto, verso canali destinati a rivelare a tutto il mondo i poteri di cui esso era stato dotato. La tumulazione dello stesso ‘Abdu’l-Bahá in una cripta del mausoleo del Báb che accresceva ulteriormente la sacralità del monte, l’installazione d’un impianto elettrico, il primo del genere nella città di Haifa, che inondava di luce la Tomba di Colui al Quale, secondo le Sue stesse parole, era stato negato persino «un lume acceso» nella fortezza-prigione dell’Azerbaigian, la costruzione di tre stanze supplementari adiacenti il Suo sepolcro a completamento del piano di ‘Abdu’l-Bahá per il primo blocco dell’Edificio, il notevole ampliamento, malgrado le macchinazioni dei violatori del Patto, delle proprietà che circondano quel sepolcro, che si estendono dal dorsale del monte Carmelo fino alla colonia dei Templari situata ai suoi piedi e rappresentano un patrimonio valutato oltre quattrocentomila sterline, l’acquisizione di quattro appezzamenti di terreno destinati ai Santuari bahá’í e situati nella piana di ‘Akká a nord, nel distretto di Beersheba a sud e nella vallata del Giordano a est, per un totale di circa seicento acri, la sistemazione di una serie di terrazze che, secondo i progetti di ‘Abdu’l-Bahá, devono consentire il diretto accesso alla Tomba del Báb dalla città che si stende sotto la sua ombra, l’abbellimento dei suoi recinti con la sistemazione di parchi e giardini aperti al pubblico tutti i giorni che attraggono ai suoi cancelli turisti e residenti, tutto ciò può essere considerato un segno iniziale della meravigliosa espansione delle istituzioni e delle proprietà internazionali della Fede nel centro mondiale. Particolare significato ha avuto, inoltre, l’esenzione da aggravi fiscali concessa dall’Alto commissario per la Palestina all’intero appezzamento di terreno che circonda e ospita il Mausoleo del Báb, alle adiacenti proprietà della scuola e degli archivi, all’ostello dei pellegrini occidentali situato nelle vicinanze e a luoghi di importanza storica come la Magione di Bahjí, la Casa di Bahá’u’lláh in ‘Akká e il giardino di Ridvan a est della città, l’insediamento delle succursali palestinesi delle Assemblee Spirituali Nazionali americana e indiana sotto forma di associazioni religiose legalmente riconosciute in Palestina, per effetto di due formali istanze presentate alle autorità civili (alla quale seguirà, per scopi di consolidamento interno, l’analogo riconoscimento giuridico di succursali di altre Assemblee Spirituali Nazionali del mondo bahá’í) e il trasferimento alla succursale dell’Assemblea Spirituale Nazionale americana, grazie a una serie di non meno di trenta transazioni, di proprietà destinate alla Tomba del Báb che nel complesso ammontano a circa cinquantamila metri quadrati, la maggior parte dei cui titoli di proprietà portano la firma del figlio dell’arciviolatore del Patto di Bahá’u’lláh, in qualità di Cancelliere del catasto di Haifa.
38 Altrettanto significativa è stata la costruzione sul monte Carmelo di due Archivi internazionali, uno adiacente il Mausoleo del Báb, l’altro nelle immediate vicinanze della tomba della Più Grande Santa Foglia, dove, per la prima volta nella storia bahá’í, preziosissimi tesori finora dispersi e spesso custoditi in luoghi nascosti, sono stati raccolti e sono ora esposti ai pellegrini in visita. Fra questi tesori vi sono i ritratti del Báb e di Bahá’u’lláh, reliquie personali come capelli, le ceneri e indumenti del Báb, ciocche di capelli e sangue di Bahá’u’lláh, oggetti di Sua proprietà come un portapenne, abiti, táj di broccato (copricapi), il kashkúl dei giorni di Sulaymáníyyih, un orologio e un Corano, manoscritti e Tavole di inestimabile valore, alcuni miniati, come una parte delle Parole Celate manoscritte da Bahá’u’lláh, il Bayán persiano trascritto da Siyyid Husayn, amanuense del Báb, gli originali delle Tavole alle Lettere del Vivente scritte a penna dal Báb e il manoscritto delle Lezioni di San Giovanni d’Acri. Questa preziosa raccolta comprende inoltre oggetti ed effetti personali di ‘Abdu’l-Bahá, il vestito insanguinato del Ramo Più Puro, l’anello di Quddús, la spada di Mullá Husayn, i sigilli del Visir, il padre di Bahá’u’lláh, la spilla regalata dalla Regina di Romania a Martha Root, gli originali delle lettere scritte dalla Regina a Martha Root e ad altre persone e dei suoi ferventi elogi della Fede e una ventina di volumi di preghiere e Tavole rivelate dai Fondatori della Fede, autenticati e trascritti da Assemblee bahá’í in Oriente, ad arricchire la già vasta raccolta dei loro scritti pubblicati.
39 Inoltre, a ulteriore testimonianza del maestoso sviluppo e del progressivo consolidamento della colossale impresa iniziata da Bahá’u’lláh su quella santa montagna, si può accennare alla selezione di una parte della proprietà della scuola situata nelle vicinanze del Mausoleo del Báb quale permanente sepoltura della Più Grande Santa Foglia, «amatissima» sorella di ‘Abdu’l-Bahá, la «foglia germogliata» dalla «Radice preesistente», «fragranza» del «fulgido manto» di Bahá’u’lláh, da Lui innalzata a «uno stadio che nessun’altra donna ha superato» e paragonabile per rango a immortali eroine come Sara, Ásíyih, la Vergine Maria, Fátimih e Táhirih, ciascuna delle quali ha eclissato tutte le altre donne nelle rispettive Dispensazioni. E infine si deve menzionare, come ulteriore prova delle benedizioni scaturite dal Piano Divino, il trasferimento, pochi anni dopo, nello stesso santificato luogo, dopo una separazione nella morte di oltre mezzo secolo e malgrado le proteste del fratello e luogotenente dell’arciviolatore del Patto di Bahá’u’lláh, dei resti del Ramo Più Puro, il figlio martire di Bahá’u’lláh, «creato dalla luce di Bahá», «Pegno di Dio» e Suo «Tesoro» in Terra Santa, offerto dal Padre come «pegno di riscatto» per la rigenerazione del mondo e l’unificazione dei suoi popoli. Nello stesso luogo di sepoltura e nello stesso giorno in cui furono tumulati i resti del Ramo Più Puro, fu trasferita anche la salma di sua madre, la santa Navvab, colei delle cui atroci afflizioni, come ‘Abdu’l-Bahá attesta in una Tavola, il LIV capitolo di Isaia ha reso piena testimonianza, il cui «Sposo», secondo le parole del Profeta, è «il Signore degli eserciti», la cui «discendenza entrerà in possesso delle nazioni» e che Bahá’u’lláh, nelle Sue Tavole, ha destinato essere Sua «consorte in ciascuno dei Suoi mondi».
40 Il congiungimento di queste tre tombe all’ombra della Tomba del Báb, strette al cuore del Carmelo, di rimpetto alla candida città che sorge al di là della baia di ‘Akká, la Qiblih del mondo bahá’í, situate in un giardino di squisita bellezza, rafforza, se ne leggiamo correttamente il significato, le potenzialità spirituali di un luogo destinato da Bahá’u’lláh a essere la sede del trono di Dio. Segna altresì un’ulteriore pietra miliare sulla strada che alla fine porterà all’insediamento di quel permanente Centro Amministrativo mondiale della futura Confederazione bahá’í destinato a non essere mai separato dal Centro spirituale della Fede e a funzionare nelle sue vicinanze, in una terra già riverita e considerata sacra dagli aderenti di tre fra i principali sistemi religiosi del mondo.
41 Altrettanto significativi sono stati l’erezione della sovrastruttura e il completamento delle decorazioni esterne del primo Mashriqu’l-Adhkár dell’Occidente, la più nobile delle imprese che hanno immortalato i servizi resi dalla comunità bahá’í americana alla Causa di Bahá’u’lláh. Realizzata per opera di un Ordine Amministrativo, pienamente funzionante e recentemente stabilito, questa impresa ha notevolmente accresciuto il prestigio, consolidato la forza e ampliato le istituzioni sussidiarie della comunità che ne hanno reso possibile la costruzione.
42 Concepita quarantun anni or sono, nata dalla spontanea richiesta indirizzata nel Mirza del 1903 ad ‘Abdu’l-Bahá dalla «Casa di spiritualità» dei bahá’í di Chicago, il primo centro bahá’í installato nel mondo occidentale, i cui membri, ispirati dall’esempio dei costruttori del Mashriqu’l-Adhkár di ‘Ishqábád, avevano chiesto il permesso di costruire un Tempio simile in America, benedetta dalla Sua approvazione e dal Suo alto encomio in una Tavola da Lui rivelata nel giugno dello stesso anno, varata dai delegati di varie Assemblee americane riuniti a Chicago nel novembre del 1907 per scegliere il terreno del Tempio, posta su una base nazionale tramite una corporazione religiosa nota come «Unità del Tempio bahá’í» che fu legalmente riconosciuta poco dopo la prima Convenzione bahá’í americana tenutasi nella stessa città nel Mirza del 1909, onorata dalla presenza di ‘Abdu’l-Bahá Che presiedette alla cerimonia della posa della prima pietra in occasione della Sua visita al terreno nel maggio 1912, quest’impresa, il massimo successo dell’Ordine Amministrativo della Fede di Bahá’u’lláh nel primo secolo bahá’í, aveva continuato dopo quella memorabile occasione a progredire in modo discontinuo fino al momento in cui, saldamente poste le fondamenta di quell’Ordine nel continente nordamericano, la comunità bahá’í americana non fu in grado di utilizzare gli strumenti che aveva forgiato per l’efficiente prosecuzione del suo compito.
43 Durante la Convenzione bahá’í americana del 1914 l’acquisto della proprietà del Tempio era stato perfezionato. La Convenzione del 1920, tenutasi a New York, che era stata preventivamente incaricata da ‘Abdu’l-Bahá di scegliere il progetto del Tempio, tra numerosi disegni presentati a concorso scelse quello di Louis J. Bourgeois, architetto franco-canadese, una scelta che fu poi approvata da ‘Abdu’l-Bahá. I contratti per lo scavo dei nove grandi cassoni di fondazione che sorreggono la parte centrale del fabbricato, profondi 120 piedi sotto il livello del suolo, e quelli per la costruzione della struttura del basamento furono poi aggiudicati nel dicembre del 1920 e nell’agosto del 1921. Nell’agosto del 1930, malgrado la prevalente crisi economica e in un periodo di disoccupazione senza precedenti nella storia americana, fu concluso un altro contratto, con altri ventiquattro subcontratti, per l’erezione della sovrastruttura. I lavori furono completati per il 1° maggio 1931, giorno in cui nel nuovo edificio fu celebrato il primo servizio devozionale in concomitanza col diciannovesimo anniversario della consacrazione del terreno da parte di ‘Abdu’l-Bahá. La decorazione della cupola fu iniziata nel giugno 1932 e terminata nel gennaio del 1934. La decorazione del lucernario fu ultimata nel luglio del 1935 e quella del sottostante blocco della galleria, nel novembre del 1938. La decorazione del piano principale, malgrado lo scoppio di questa guerra, fu iniziata nell’aprile del 1940 e completata nel luglio del 1942, mentre i diciotto gradini circolari furono messi in posa entro il dicembre del 1942, diciassette mesi prima della celebrazione del centenario della Fede, il periodo entro il quale era previsto il completamento dell’esterno del Tempio e quarant’anni dopo che i credenti di Chicago avevano sottoposto ad ‘Abdu’l-Bahá la loro richiesta e ricevuto la Sua approvazione.
44 Questo incomparabile edificio, il primo frutto di un Ordine Amministrativo che stava lentamente maturando, la più nobile struttura costruita nel primo secolo bahá’í, simbolo e precursore di una futura civiltà mondiale, si erge nel cuore del continente nordamericano, sulla riva occidentale del lago Michigan ed è circondato da un terreno di proprietà di poco meno di sette acri. È stato finanziato, per un costo di oltre un milione di dollari, dalla comunità bahá’í americana, aiutata di tanto in tanto da contributi volontari di credenti dichiarati in Oriente e in Occidente di origine cristiana, musulmana, ebrea, indù, buddhista e zoroastriana. Nella fase iniziale è stato associato ad ‘Abdu’l-Bahá e negli stadi conclusivi della sua costruzione alla memoria della Più Grande Santa Foglia, del Ramo Più Puro e della loro madre. La sua struttura, un candido edificio a nove lati, di disegno originale e incomparabile, s’innalza da una fuga di bianchi gradini che ne circondano la base ed è sormontata da una maestosa cupola di squisite proporzioni che sorregge nove costoloni affusolati disposti simmetricamente, di significato decorativo e strutturale, che si slanciano verso l’apice e infine convergono in un unico blocco puntato verso il cielo. La struttura portante è d’acciaio ricoperto di cemento armato e il materiale delle decorazioni è una combinazione di quarzo cristallino, quarzo opaco e cemento bianco di Portland: ne risulta un composto di colore chiaro, solido e duraturo come pietra, resistente alle intemperie, lavorato secondo un disegno delicato come un merletto. S’innalza per 191 piedi dal pavimento della base al culmine dei costoloni che abbracciano la cupola emisferica alta 49 piedi e larga al diametro esterno 90, la cui superficie è per un terzo traforata in modo da lasciar entrare la luce durante il giorno e da diffonderla durante la notte. È sorretto da pilastri alti 45 piedi e al di sopra delle nove porte, una delle quali guarda verso ‘Akká, riporta nove frasi selezionate dagli scritti di Bahá’u’lláh, nonché il Più Grande Nome al centro di ciascuno degli archi che sovrastano le porte. È consacrato esclusivamente al culto, senza riti o cerimonie ed è dotato di un auditorium che può accogliere 1600 persone a sedere e dovrà essere completato da istituzioni accessorie di utilità sociale che dovranno sorgere nelle vicinanze: un orfanotrofio, un ospedale, un dispensario per i poveri, un ricovero per gli invalidi, un ostello per i viaggiatori e un istituto superiore per lo studio delle arti e delle scienze. Già molto tempo prima della sua costruzione, e ancor più oggi, sebbene la decorazione interna non sia stata ancora iniziata, ha evocato ed evoca, nella stampa, nei giornali tecnici e nelle riviste degli Stati Uniti e di altri Paesi, tanto interesse e tali commenti da giustificare le speranze e le aspettative nutrite da ‘Abdu’l-Bahá. Il suo modello è stato esposto in centri d’arte, gallerie, fiere regionali ed esposizioni nazionali, tra cui si può ricordare l’Esposizione del secolo del progresso tenuta a Chicago nel 1933, dove non meno di diecimila persone al giorno devono averlo visto attraversando la Sala delle religioni e una copia fa ora parte della mostra permanente del Museo della scienza e dell’industria di Chicago. Le sue porte sono ora gremite da visitatori provenienti da vicino e da lontano, in rappresentanza di quasi tutti i paesi del mondo, il cui numero nel periodo giugno 1932 - ottobre 1941 ha superato le centotrentamila persone. Si può dire con certezza che questo grande «silenzioso insegnante» della Fede di Bahá’u’lláh ha contribuito alla diffusione della conoscenza della Sua Fede e dei Suoi insegnamenti in una misura alla quale nessun altra agenzia operante nella struttura del suo Ordine Amministrativo si è mai, neanche lontanamente, avvicinata.
45 «Quando saranno poste le fondamenta del Mashriqu’l-Adhkár in America», ha predetto ‘Abdu’l-Bahá, «e questo divino Edificio sarà completato, nel mondo dell’esistenza comparirà un mirabilissimo entusiasmante moto… Da quel punto di luce lo spirito dell’insegnamento, della diffusione della Causa di Dio e della promozione degli insegnamenti di Dio permeerà tutte le parti del mondo». «Senza dubbio, da questo Mashriqu’l-Adhkár», ha affermato nelle Tavole del Piano Divino, «ne nasceranno altre migliaia». «Esso segna», ha scritto ancora, «l’inizio del Regno di Dio sulla terra». E inoltre: «È lo stendardo evidente che garrisce al centro di quel grande continente». «Migliaia di Mashriqu’l-Adhkár… saranno costruiti in Oriente e in Occidente», ha dichiarato mentre consacrava il terreno del Tempio, «ma questo, essendo il primo eretto in Occidente, ha grande importanza». «Questa organizzazione del Mashriqu’l-Adhkár», ha dichiarato inoltre riferendoSi a quell’edificio, «sarà un modello per i secoli avvenire e acquisterà lo stadio di madre».
46 «L’idea iniziale», ha testimoniato l’architetto del Tempio, «non era umana, perché, come i musicisti, gli artisti, i poeti ricevono ispirazione da un altro reame, così l’architetto del Tempio, in tutti gli anni del suo lavoro, ha sempre saputo che Bahá’u’lláh era il creatore dell’edificio che doveva essere eretto per glorificarLo». «In questo nuovo progetto», ha anche scritto, «… è intessuto in forma simbolica il grande insegnamento bahá’í dell’unità, l’unità di tutte le religioni e di tutta l’umanità. Vi sono combinazioni di linee matematiche simboleggianti quelle dell’universo e nel loro intricato fondersi di cerchio in cerchio, e cerchio dentro cerchio, si vede il fondersi di tutte le religioni in una sola». E ancora: «Un cerchio di gradini, diciotto in tutto, circonderà all’esterno la struttura e condurrà al piano dell’auditorio. I diciotto gradini rappresentano i primi diciotto discepoli del Báb e la porta alla quale essi conducono rappresenta il Báb». «Poiché l’essenza dei puri insegnamenti originari delle religioni storiche è la stessa… nel Tempio bahá’í è usata un’architettura composita che ne esprime l’essenza nella linea di ciascuno dei grandi stili architettonici, armonizzandoli in un unico insieme».
47 «È la prima idea nuova nell’architettura dopo il XIII secolo», dichiarò il famoso architetto H. Van Buren Magonigle, presidente dell’Ordine degli architetti, dopo aver visto il modello in gesso del Tempio esposto nel palazzo delle Società costruttrici di New York nel giugno del 1920. «L’architetto», disse inoltre, «ha concepito un Tempio di luce, nel quale le strutture, come usualmente s’intendono, restano nascoste, i supporti visibili sono eliminati quanto possibile e l’intera costruzione assume la aerea consistenza di un sogno. È un involucro di merletto che racchiude un’idea, l’idea della luce, un asilo fatto di tela di ragno interposto fra terra e cielo, trapassato da parte a parte dalla luce, una luce che in parte ne consuma le forme facendone un oggetto di fiaba».
48 «Nelle forme geometriche dell’ornamentazione», ha scritto un redattore nella notissima pubblicazione «Architectural Record», «che ricoprono le colonne e circondano le finestre e le porte del Tempio, si decifrano tutti i simboli religiosi del mondo. Ci sono la svastica, il cerchio, la croce, il triangolo, il doppio triangolo o stella a sei punte (sigillo di Salomone) e, oltre a questi, il nobile simbolo dell’orbe spirituale… la stella a cinque punte, la croce greca, la croce romana e, suprema su tutto, la meravigliosa stella a nove punte, raffigurata nella stessa pianta del Tempio, che ripetutamente riaffiora nella decorazione a rappresentare la gloria spirituale nel mondo di oggi».
49 «La più grande creazione dopo il periodo gotico», è l’attestazione di George Grey Barnard, uno dei più noti scultori degli Stati Uniti d’America, «e la più bella ch’io abbia mai visto».
50 «È una nuova creazione», ha dichiarato Luigi Quaglino, ex professore di architettura a Torino, dopo averne visto il modello, «che rivoluzionerà l’architettura nel mondo ed è la più bella ch’io abbia mai visto. Senza dubbio avrà una parte duratura nella storia. È una rivelazione da un altro mondo».
51 «Gli Americani», scrisse Shervin Cody nel supplemento illustrato del New York Times, a proposito del modello del Tempio, quando fu esposto nella Galleria Kevorkian di New York, «dovranno soffermarsi abbastanza a lungo da scoprire che un artista ha inserito in questo edificio il concetto di una Società delle nazioni religiosa». E, per finire, il tributo reso alle linee di questo Tempio, la più sacra Casa di Culto del mondo bahá’í ora e nel futuro, e agli ideali in esso incorporati dal dottor Rexford Newcomb, Preside del Collegio di belle arti e arti applicate dell’Università dell’Illinois: «Questo “Tempio di luce” apre sul terreno dell’esperienza umana nove grandi porte d’accesso che invitano uomini e donne di ogni razza e clima, di ogni fede e convinzione, in condizione di libertà o di asservimento, a entrarvi per riconoscervi quella affinità e quella fratellanza senza le quali il mondo moderno potrebbe fare ben pochi ulteriori progressi… La cupola, di forma appuntita, tesa verso cose più alte e migliori con la stessa sicurezza delle linee ascendenti delle cattedrali medievali, raggiunge, non solo nel simbolismo, ma anche nella proprietà della struttura e nella pura leggiadria delle forme, una bellezza ineguagliata sin dai tempi della costruzione della michelangiolesca cupola della Basilica di San Pietro a Roma».
CAPITOLO XXIII1 Le istituzioni che segnano l’ascesa e l’insediamento dell’Ordine Amministrativo della Fede di Bahá’u’lláh non restarono immuni (come la storia del loro sviluppo dimostra abbondantemente) dagli assalti e dalle persecuzioni alle quali la Fede, progenitrice di quell’Ordine, era stata sottoposta per oltre settant’anni e di cui sta ancora soffrendo. La comparsa di una comunità compatta, che si vantava di essere una religione mondiale con ramificazioni estese nei cinque continenti e rappresentanti una grande varietà di razze, linguaggi, classi sociali e tradizioni religiose, fornita di una letteratura diffusa sulla superficie della terra, che esponeva la sua dottrina in molte lingue, di chiare vedute, intrepida, vigile e determinata a conseguire il suo scopo a costo di qualunque sacrificio, strutturalmente unita grazie all’apparato di un Ordine Amministrativo divinamente preordinato, non settaria né politica, fedele agli obblighi civili e tuttavia di carattere sopranazionale, tenace nell’aderenza alle leggi e alle ordinanze che regolano la sua vita comunitaria – la comparsa di questa comunità, in un mondo imbevuto di pregiudizi, adoratore di falsi idoli, lacerato da divisioni interne e ciecamente aggrappato a dottrine obsolescenti e a modelli imperfetti, era inevitabile che presto o tardi scatenasse crisi altrettanto gravi, anche se meno spettacolari, quanto le persecuzioni che in altri tempi avevano imperversato attorno ai Fondatori della comunità e ai Loro primi discepoli. Assalito da nemici interni che si erano ribellati alla sua autorità conferita da Dio o avevano completamente rinnegato la loro fede, o da avversari esterni politici ed ecclesiastici, l’ancor giovane Ordine che s’identifica con questa comunità, ha duramente risentito, fin dall’inizio e in tutti i vari stadi della sua evoluzione, l’urto delle forze che hanno inutilmente tentato di soffocare la sua sbocciante vita o di oscurare il suo scopo.
2 A questi attacchi, destinati a crescere di dimensioni e gravità e a scatenare un tumulto che sarebbe riecheggiato per tutto il mondo, ‘Abdu’l-Bahá aveva già significativamente alluso, nel periodo in cui aveva tracciato i contorni di quel divino Ordine nel Suo Testamento: «Presto si udranno da lontano e da vicino i clamori delle moltitudini di tutta l’Africa e di tutta l’America, le grida degli Europei e dei Turchi, i gemiti dell’India e della Cina. Essi si solleveranno con tutte le loro forze per opporsi alla Sua Causa. Allora si ergeranno i cavalieri del Signore…. rafforzati dalle legioni del Patto, paleseranno la verità del versetto: “Guardate la confusione che ha colto le tribù degli sconfitti”».
3 Già in più di un paese i fiduciari e i rappresentanti eletti di questo indistruttibile Ordine che abbraccia il mondo sono stati convocati da autorità civili o tribunali ecclesiastici, ignari dei suoi titoli, o ostili ai suoi principi, o timorosi della sua emergente forza, perché ne difendessero la causa, o rinunciassero a essergli fedeli, o ne riducessero il raggio di azione. Già una mano aggressiva, immemore della collera vendicatrice di Dio, si è protesa contro i suoi santuari e i suoi edifici. Già in alcuni paesi i suoi difensori e campioni sono stati dichiarati eretici, o stigmatizzati come sovvertitori della legge e dell’ordine, o marchiati come visionari, anti-patriottici e incuranti dei doveri e delle responsabilità civili, o hanno ricevuto l’ordine perentorio di sospendere le attività e sciogliere le istituzioni.
4 In Terra Santa, sede mondiale del Sistema, ove pulsa il suo cuore, riposano le ceneri dei suoi Fondatori, si originano i processi che ne svelano i fini, ne stimolano la vita e ne forgiano i destini, si abbatté, proprio nel momento del suo inizio, il primo colpo che servì a proclamare a potenti e umili la solidità delle fondamenta su cui esso è stato costruito. I violatori del Patto, ora ridotti a una manciata, istigati da Mirza Muhammad-‘Alí, l’arciribelle le cui sopite speranze erano state rinfocolate dall’improvvisa ascensione di ‘Abdu’l-Bahá, e capeggiati dall’arrogante Mirza Badí‘u’lláh, s’impadronirono con la forza delle chiavi della Tomba di Bahá’u’lláh, ne scacciarono il custode, il coraggioso Abu’l-Qásim-i-Khurásání, e chiesero che il loro capo avesse dalle autorità il riconoscimento di legale custode del Santuario. Sordi alla lezione del loro misero fallimento, attestato dalla risoluta azione delle autorità della Palestina che, dopo lunghe indagini, disposero che il funzionario britannico ad ‘Akká consegnasse le chiavi nelle mani del medesimo custode, ricorsero ad altri metodi nella speranza di produrre una scissione nei ranghi degli addolorati ma risoluti discepoli di ‘Abdu’l-Bahá e di scalzare, infine, le fondamenta delle istituzioni che i Suoi seguaci s’adoperavano a creare. Con le loro malefiche mistificazioni degli ideali che animavano i costruttori dell’Ordine Amministrativo, mantenendo, per quanto non più nella misura iniziale, una corrispondenza sovversiva con individui la cui lealtà speravano di poter logorare, con deliberate distorsioni della verità nei loro contatti con funzionari e notabili che riuscivano ad avvicinare, mediante tentativi compiuti con la corruzione e l’intimidazione d’acquistare una parte della Magione di Bahá’u’lláh, con sforzi intesi a impedire alla comunità bahá’í di acquisire certe proprietà situate nelle vicinanze della Tomba del Báb e a vanificare il progetto di consolidare la fondazione di alcune di quelle proprietà, trasferendone i titoli ad assemblee bahá’í legalmente riconosciute, per molti anni essi continuarono a darsi periodicamente da fare finché l’estinzione della vita dell’arciviolatore del Patto non sigillò di fatto la loro fine.
5 L’evacuazione della Magione di Bahá’u’lláh da questi violatori del Patto che l’avevano occupata indisturbati fin dalla Sua ascensione, una Magione che per la loro assoluta negligenza era caduta in un triste stato di abbandono, il suo successivo completo restauro in adempimento di un desiderio a lungo accarezzato da ‘Abdu’l-Bahá, la sua illuminazione grazie a un impianto elettrico appositamente installato da un credente americano, il rinnovo dell’arredamento di tutte le sue stanze che erano state completamente spogliate dai precedenti inquilini di tutte le preziose reliquie che contenevano eccetto un candeliere nella stanza in cui Bahá’u’lláh era asceso, la raccolta entro le sue mura di documenti storici bahá’í, di reliquie e più di cinquemila volumi di letteratura bahá’í in una quarantina di lingue, l’estensione ad essa dell’esenzione dalle tasse governative già concessa ad altre istituzioni e proprietà bahá’í ad ‘Akká e sul monte Carmelo e infine la sua trasformazione da residenza privata a centro di pellegrinaggio visitato da bahá’í e non bahá’í – tutto questo valse a infrangere ulteriormente le speranze di coloro che ancora tentavano disperatamente di spegnere la luce del Patto di Bahá’u’lláh. Inoltre, il successo ottenuto in seguito con l’acquisizione e la tutela dell’area che forma i recinti dell’estrema dimora del Báb sul monte Carmelo e il trasferimento dei titoli di alcune di queste proprietà alla succursale palestinese legalmente costituita della Assemblea Spirituale Nazionale bahá’í americana, nonché le circostanze che accompagnarono la morte di colui ch’era stato il primo promotore del dissenso durante il ministero di ‘Abdu’l-Bahá, dimostrarono a questi nemici la futilità dei loro sforzi e l’irrealizzabilità della loro causa.
6 Di natura più grave e foriera di ripercussioni ancor maggiori fu l’illecita occupazione da parte degli sciiti iracheni, circa nello stesso periodo in cui i violatori del Patto sottraevano al custode le chiavi della tomba di Bahá’u’lláh, di un altro Santuario bahá’í, la Casa occupata da Bahá’u’lláh per quasi l’intero periodo del Suo esilio iracheno, che Egli aveva acquistata decretando poi che fosse un centro di pellegrinaggio e che, sin dalla Sua partenza da Baghdad, era ininterrottamente rimasta indiscussa proprietà dei Suoi seguaci. Questa crisi, incominciata circa un anno prima dell’ascensione di ‘Abdu’l-Bahá e precipitata dopo il cambiamento di regime in Iraq a causa delle misure prese secondo le Sue istruzioni per la sua ricostruzione, sollevò sviluppandosi un crescente scalpore. Divenne oggetto dell’esame di successivi tribunali, prima del tribunale locale sciita ja‘faríyyih di Baghdad, successivamente del tribunale di pace, poi del tribunale di prima istanza, poi della Corte d’appello irachena e infine della Società delle nazioni, il massimo organismo internazionale che sia mai esistito, dotato del potere di supervisione e controllo su tutti i territori sotto mandato. Pur tuttora irrisolta per un concorso di cause religiose e politiche, questa crisi ha già straordinariamente realizzato la predizione di Bahá’u’lláh e, al momento stabilito, quando i mezzi per la sua risoluzione saranno provvidenzialmente creati, realizzerà gli alti destini da Lui decretati per quella Casa nelle Sue Tavole. Molto tempo prima che fanatici nemici che non avevano su di essa alcun diritto possibile e immaginabile la confiscassero, Egli aveva profetizzato che «sarà tanto oltraggiata in avvenire, da far lacrimare copiosamente ogni occhio veggente».
7 L’Assemblea Spirituale dei Bahá’í di Baghdad, privata dell’uso di quella sacra proprietà da una decisione sfavorevole presa a maggioranza di voti dalla Corte d’appello, che aveva annullato la sentenza del tribunale di livello inferiore aggiudicando la proprietà agli sciiti, scossa da una successiva azione degli sciiti che, poco dopo l’esecuzione della sentenza della corte, trasformarono l’edificio in una proprietà waqf (fondazione pia) chiamandola «Husayníyyih», per consolidarne la acquisizione, si rese conto dell’inutilità dei tre anni di negoziati che aveva condotto con le autorità civili di Baghdad per la riparazione del torto subito. Pertanto, nella loro qualità di rappresentanti nazionali dei bahá’í in Iraq, l’11 settembre 1928 essi interpellarono tramite l’Alto commissario per l’Iraq e in base alle clausole dell’articolo 22 del Patto della Società delle nazioni, la Commissione permanente per i territori sotto mandato incaricata della supervisione dell’amministrazione di tutti i territori sotto mandato e presentarono una petizione che essa accolse e approvò nel novembre del 1928. Un memorandum che faceva riferimento alla petizione, presentato alla medesima Commissione dalla Potenza mandataria, attestava inequivocabilmente che gli sciiti «non avevano alcun diritto possibile e immaginabile» sulla Casa, che la decisione del giudice del tribunale ja‘faríyyih era «sicuramente scorretta», «ingiusta» e «indubbiamente motivata da pregiudizi religiosi», che il conseguente esproprio dei bahá’í era «illegale», che l’azione delle autorità era stata «molto irregolare» e che c’era il sospetto che il verdetto della Corte d’appello non fosse «libero dall’influenza di considerazioni politiche».
8 «La Commissione» dichiara il Rapporto da essa sottoposto al Consiglio della Società e pubblicato nei Verbali della quattordicesima sessione della Commissione permanente per i territori sotto mandato, che ebbe luogo a Ginevra nell’autunno del 1928, e successivamente tradotto in arabo e pubblicato in Iraq «richiama l’attenzione del Consiglio sulle considerazioni e sulle conclusioni ad essa suggerite dall’esame della petizione… Raccomanda che il Consiglio chieda al Governo britannico di protestare presso il Governo iracheno allo scopo di ottenere immediata soddisfazione per il rifiuto di giustizia che gli instanti hanno subito».
9 Il rappresentante britannico accreditato presente alle sessioni della Commissione dichiarò inoltre che «la Potenza mandataria aveva riconosciuto che i bahá’í avevano subito un’ingiustizia» e, nel corso della sessione, si era accennato al fatto che l’azione degli sciiti costituiva un’infrazione alla costituzione e alla Legge costituzionale irachena. Il rappresentante finlandese, inoltre, nel suo rapporto al Consiglio, dichiarò che «questa ingiustizia doveva essere attribuita esclusivamente a passione religiosa» e chiese che i «torti subiti dagli instanti fossero riparati».
10 Il Consiglio della Società, da parte sua, considerato questo rapporto e le accluse osservazioni e conclusioni della Commissione, il 4 Mirza 1929 adottò all’unanimità una risoluzione, poi tradotta e pubblicata nei giornali di Baghdad, che ordinava alla Potenza mandataria «di protestare presso il Governo iracheno allo scopo di ottenere l’immediata riparazione dell’ingiustizia subita dagli Instanti». Dava, perciò, istruzioni al Segretario generale di informare la Potenza mandataria e gli instanti in questione delle conclusioni cui la Commissione era giunta, istruzioni che il Governo britannico debitamente trasmise al Governo iracheno tramite il suo Alto Commissario.
11 Una lettera datata 12 gennaio 1931, scritta a nome del Ministro degli esteri britannico, signor Arthur Henderson, indirizzata al Segretariato della Società, dichiarava che le conclusioni raggiunte dal Consiglio avevano «ricevuta la più attenta considerazione da parte del Governo iracheno» che aveva «finalmente deciso di formare uno speciale comitato… per prendere in esame le opinioni espresse dalla Comunità bahá’í riguardo una certa casa di Baghdad e fare le sue raccomandazioni per un equo accomodamento della questione». La lettera faceva inoltre notare che il Comitato aveva presentato il suo rapporto nell’agosto del 1930, che esso era stato accettato dal Governo, che la Comunità bahá’í «aveva accettato in via di principio» le raccomandazioni e che le autorità di Baghdad avevano dato disposizioni perché fossero «preparati piani dettagliati e stime nell’intento di porre in effetto quelle raccomandazioni nel corso del successivo anno finanziario».
12 Non merita soffermarsi sulle successive vicende di questo importante caso: i negoziati tirati per le lunghe, i ritardi e le complicazioni che seguirono, le consultazioni, «oltre un centinaio», alle quali presero parte il re, i ministri e i consiglieri, le espressioni di «rammarico», «sorpresa» e «preoccupazione» registrate nelle successive sessioni della Commissione per i territori sotto mandato, svoltesi a Ginevra nel 1929, ’30, ’31, ’32, e ’33, la condanna dello «spirito di intolleranza» che animava la Comunità sciita, della «parzialità» dei tribunali iracheni, della «debolezza» delle autorità civili e delle «passioni religiose che erano la causa reale di questa ingiustizia», espressa dai membri della Commissione, la loro attestazione degli «atteggiamenti estremamente concilianti» degli instanti, il loro «dubbio» sull’adeguatezza delle proposte e il loro riconoscimento della «gravità» della situazione che si era creata, del «flagrante rifiuto di giustizia» che i bahá’í avevano subito e del «debito morale» che il Governo iracheno aveva contratto, un debito che, comunque fosse cambiato il suo status nazionale, era suo preciso dovere onorare.
13 Né sembra necessario dilungarsi sulle incresciose conseguenze della prematura morte dell’Alto commissario britannico e del Primo ministro iracheno, sull’ammissione dell’Iraq fra i membri della Società e la conseguente conclusione del Mandato esercitato dalla Gran Bretagna, sulla tragica e inaspettata morte dello stesso Re, sulle difficoltà insorte a causa dell’esistenza di un piano regolatore cittadino, sull’assicurazione scritta inoltrata all’Alto commissario dal Primo ministro ad interim in una lettera del gennaio del 1932, sull’impegno preso dal Re prima della sua morte alla presenza del Ministro degli esteri nel febbraio del 1933, che la Casa sarebbe stata espropriata e la necessaria somma stanziata nella primavera dell’anno seguente, sulla categorica dichiarazione fatta dal Ministro degli esteri che il Primo ministro aveva dato le necessarie assicurazioni che la promessa già fatta dal Primo ministro ad interim sarebbe stata rispettata o sulle esplicite dichiarazioni fatte dallo stesso Ministro degli esteri e dal suo collega Ministro delle finanze in rappresentanza del loro paese, nella sessione dell’Assemblea della Società a Ginevra, che la promessa fatta dal defunto Sovrano sarebbe stata pienamente onorata.
14 Basti dire che, malgrado questi interminabili ritardi, proteste e pretesti e nonostante l’evidente inadempienza delle Autorità interessate all’obbligo di mettere in atto le raccomandazioni fatte dal Consiglio della Società e dalla Commissione permanente per i territori sotto mandato, la pubblicità fatta alla Fede da questa memorabile vertenza e la difesa della sua causa, la causa della verità e della giustizia, da parte del massimo tribunale del mondo sono state tali da suscitare l’ammirazione dei suoi amici e riempire di costernazione i suoi nemici. Dalla nascita dell’Età formativa della Fede di Bahá’u’lláh, pochi episodi, se qualcuno ve ne fu, hanno avuto in alto loco ripercussioni paragonabili all’effetto prodotto su governi e cancellerie da questo violento assalto non provocato mosso da nemici inveterati contro uno dei suoi più sacri santuari.
15 «Non affliggerti, o Casa di Dio», ha significativamente scritto Bahá’u’lláh, «se il velo della tua santità sarà strappato dagli infedeli. Dio ti ha adornata, nel mondo della creazione, della gemma del ricordo di Lui. Nessuno potrà mai profanare un simile ornamento. Gli occhi del tuo Signore si volgeranno verso di te in qualsiasi circostanza». «A tempo debito il Signore», ha profetizzato in un altro passo che si riferisce alla stessa Casa, «pel potere della verità, la esalterà agli occhi degli uomini. Egli farà sì che divenga lo Stendardo del Suo Regno, il Santuario attorno al quale circoleranno le coorti dei fedeli».
16 All’impudente, furioso attacco mosso dai violatori del Patto di Bahá’u’lláh nei loro sforzi concertati per assicurarsi la custodia della Sua santa Tomba e all’arbitraria requisizione da parte della comunità irachena sciita della Sua santa Casa a Baghdad, si doveva aggiungere pochi anni dopo un altro grave assalto sferrato da un avversario ancor più potente, diretto contro la struttura dell’Ordine Amministrativo eretta da due da lungo tempo fiorenti comunità bahá’í orientali, che culminò con la virtuale distruzione di quelle comunità e la confisca del primo Mashriqu’l-Adhkár del mondo bahá’í e delle poche istituzioni accessorie già edificategli intorno.
17 Il coraggio, il fervore e la vitalità spirituale dimostrati da quelle comunità, le loro istituzioni amministrative altamente organizzate, le agevolazioni messe a disposizione per l’educazione religiosa e la formazione dei giovani, la conversione di un numerosi cittadini russi di mente aperta permeati d’idee strettamente legate alle dottrine della Fede, la crescente percezione delle implicazioni di questi principi con il loro accento sulla religione, sulla santità della vita familiare, sull’istituzione della proprietà privata, sul rifiuto di qualsiasi discriminazione fra le classi sociali e della dottrina dell’assoluta eguaglianza degli uomini, tutto questo contribuì a suscitare il sospetto e poi la feroce opposizione delle autorità di governo e a scatenare una delle più gravi crisi della storia del primo secolo bahá’í.
18 La crisi si sviluppò e interessò anche i centri più periferici del Turchestan e del Caucaso, sfociando gradualmente nell’imposizione di restrizioni che limitavano la libertà delle comunità, nell’interrogatorio e nell’arresto dei loro rappresentanti eletti, nello scioglimento delle Assemblee locali e dei rispettivi comitati a Mosca, ‘Ishqabad, Bákú e altre località delle province già citate e nella sospensione di tutte le attività dei giovani bahá’í. La crisi comportò inoltre la chiusura di scuole, asili, biblioteche e pubbliche sale di lettura bahá’í, l’intercettazione di tutte le comunicazioni con i centri bahá’í all’estero, il sequestro di stampe, libri e documenti, la proibizione di tutte le attività d’insegnamento, l’abrogazione della costituzione bahá’í, l’abolizione di tutti i fondi nazionali e locali e il divieto della partecipazione di non credenti alle riunioni bahá’í.
19 Alla metà del 1928 la legge di esproprio degli edifici religiosi fu applicata al Mashriqu’l-Adhkár di ‘Ishqábád. L’uso dell’edificio come casa di culto, tuttavia, proseguì con un contratto d’affitto quinquennale, rinnovato dalle autorità locali nel 1933 per un uguale periodo. Nel 1938 la situazione nel Turchestan e nel Caucaso precipitò e portò all’imprigionamento di oltre cinquecento credenti, molti dei quali morirono, fra cui molte donne, e alla confisca delle loro proprietà, seguita dall’esilio di molti eminenti membri di quelle comunità in Siberia, nelle foreste polari e in altri luoghi in prossimità dell’Oceano Artico, dalla successiva deportazione della maggior parte dei superstiti di queste comunità in Persia, per il fatto ch’erano di nazionalità persiana, e infine dalla completa espropriazione del Tempio e dalla sua trasformazione in galleria d’arte.
20 Anche in Germania l’ascesa e l’insediamento dell’Ordine Amministrativo della Fede, alla cui espansione e al cui consolidamento i credenti tedeschi stavano notevolmente e sempre più contribuendo, furono presto seguite da misure repressive che, pur meno pesanti delle afflizioni subite dai bahá’í del Turchestan e del Caucaso, comportarono, negli anni immediatamente precedenti l’attuale conflitto, la virtuale cessazione di tutte le attività bahá’í organizzate nel paese. L’insegnamento pubblico della Fede con il suo esplicito accento sulla pace e l’universalità e il suo ripudio del razzismo fu ufficialmente vietato, le Assemblee e i comitati furono sciolti, fu proibito tenere le convenzioni bahá’í, gli Archivi dell’Assemblea Spirituale Nazionale furono requisiti, la scuola estiva fu abolita e fu sospesa la pubblicazione di qualsiasi tipo di letteratura bahá’í.
21 Inoltre, in Persia, oltre a sporadiche esplosioni di persecuzioni in luoghi come Shíráz, Ábádih, Ardibíl, Isfáhán e in alcuni distretti dell’Azerbaigian e del Khurásán, esplosioni già molto ridotte di numero e violenza, grazie al notevole declino delle fortune del già potente clero sciita, le istituzioni dell’Ordine Amministrativo che era stato fondato di recente e non si era ancora consolidato furono assoggettate dalle autorità civili della capitale e delle province a restrizioni intese a circoscriverne il raggio d’azione, limitarne la libertà e indebolirne le fondamenta.
22 La graduale e del tutto inattesa emersione dall’oscurità di una comunità nazionale compatta, addestrata nell’avversità e indomita nello spirito, con centri installati in ogni provincia del paese, nonostante le successive ondate di inumane persecuzioni che per tre quarti di secolo l’avevano squassata senza tuttavia travolgerla, la determinazione dei suoi membri di diffondere lo spirito e i principi della loro Fede, divulgarne la letteratura, applicarne le leggi e gli ordinamenti, punire chi li avesse trasgrediti, tenersi costantemente in contatto con i confratelli di terre straniere ed erigere gli edifici e le istituzioni del suo Ordine Amministrativo, non poteva non suscitare le apprensioni e l’ostilità di coloro che detenevano l’autorità che o fraintesero gli scopi di quella comunità o erano decisi a soffocarne la vita. La perseveranza dei suoi membri, pur obbedienti in tutte le questioni puramente amministrative alle leggi civili del paese, nell’aderire ai principi, ai precetti e alle leggi spirituali rivelati da Bahá’u’lláh, che prescrivevano, fra l’altro, di attenersi strettamente alla sincerità, di non dissimulare la propria fede, di osservare le ordinanze prescritte per il matrimonio e il divorzio e di sospendere ogni tipo di lavoro nei Giorni sacri da Lui decretati, prima o poi li portava in conflitto col regime che, dato il suo formale riconoscimento dell’Islam come religione di stato in Persia, si rifiutava di concedere qualsiasi riconoscimento a coloro che gli esponenti ufficiali di quella religione avevano già condannato come eretici.
23 La chiusura di tutte le scuole appartenenti alla comunità bahá’í del paese, in seguito al rifiuto dei rappresentanti della comunità di permettere che istituzioni ufficiali bahá’í, da loro possedute ed esclusivamente da loro controllate, trasgredissero alla legge chiaramente rivelata che esigeva la sospensione del lavoro nei Giorni sacri bahá’í, la ricusa di tutti i certificati di matrimonio bahá’í e il rifiuto di registrarli presso gli Uffici licenze del governo, il divieto di far stampare e circolare tutta la letteratura bahá’í, nonché di farla entrare nel paese, la confisca, in vari centri, di documenti, libri e reliquie bahá’í, la chiusura delle Hazíratu’l-Quds in alcune province e il sequestro del loro mobilio in certe località, la proibizione di tutte le manifestazioni, i convegni e le convenzioni bahá’í, la rigorosa censura sulle comunicazioni fra i centri bahá’í in Persia e fra questi e le comunità in terre straniere e la loro frequente mancata consegna, il rifiuto di certificati di buona condotta a cittadini leali e rispettosi delle leggi per la loro dichiarata appartenenza alla Fede, il licenziamento di impiegati governativi, la retrocessione e il congedo di ufficiali dell’esercito, l’arresto, l’interrogatorio, la detenzione e la comminazione di multe o altre pene a numerosi credenti che si rifiutavano o di ignorare l’obbligo morale di aderire ai principi della Fede, o di compiere qualunque azione potesse essere in contrasto con il suo carattere universale e non politico, tutte queste cose possono essere considerate tentativi iniziali fatti nel paese il cui suolo era già stato intriso del sangue di innumerevoli martiri bahá’í per opporsi all’ascesa e vanificare la lotta per l’emancipazione del nascente Ordine Amministrativo, le cui radici avevano tratto la loro forza da quell’eroico sacrificio.
CAPITOLO XXIV1 Mentre i seguaci della Fede di Bahá’u’lláh in Oriente e in Occidente intraprendevano contemporaneamente i primi passi per la costruzione della struttura dell’Ordine Amministrativo, in un oscuro villaggio egiziano, su un pugno di credenti che tentavano di stabilirvi una delle istituzioni primarie di quell’Ordine si scatenò un feroce attacco, un attacco che, visto nella prospettiva della storia, sarà acclamato dalle future generazioni come una pietra miliare non solo del Periodo Formativo della Fede, ma della storia del primo secolo bahá’í. In verità il seguito di questo assalto si può dire abbia aperto un nuovo capitolo nell’evoluzione della Fede, un’evoluzione che, portandola attraverso i successivi stadi della repressione, dell’emancipazione e del riconoscimento come Rivelazione indipendente e religione di Stato, deve sfociare nell’instaurazione dello Stato bahá’í e culminare nella nascita della Confederazione mondiale bahá’í.
2 Originatosi in un paese che può giustamente vantarsi di essere il centro riconosciuto dei mondi arabo e musulmano, precipitato dall’azione intrapresa di loro iniziativa dai rappresentanti ecclesiastici della più grande comunità islamica, conseguenza diretta di una serie di disordini istigati da alcuni membri di quella comunione nell’intento di sopprimere le attività di certi seguaci della Fede che avevano svolto funzioni sacerdotali fra loro, questo importante sviluppo nelle sorti di una comunità in lotta per emergere ha direttamente e notevolmente contribuito a consolidare e accrescere il prestigio dell’Ordine Amministrativo ch’essa aveva incominciato a erigere. Inoltre, quando le sue ripercussioni si diffonderanno più ampiamente in altri paesi islamici e il suo immenso significato sarà meglio compreso dal Cristianesimo e dall’Islam, esso affretterà la fine del periodo di transizione che la Fede, ora nello stadio formativo della sua crescita, sta attraversando.
3 Fu nel villaggio di Kawmu’s-Sa‘áyidih nel distretto di Beba della provincia di Beni Suef nell’Alto Egitto che, a causa del fanatismo religioso che la formazione di un’assemblea bahá’í aveva acceso nel petto del capo del villaggio e delle gravi accuse da lui sporte all’Ufficiale del Distretto di polizia e al Governatore della Provincia – accuse che trascinarono i maomettani a tal punto di eccitazione da indurli a perpetrare atti ignobili contro le loro vittime – l’azione fu iniziata dal notaio del villaggio, nella sua qualità di querelante religioso autorizzato dal Ministro della giustizia, contro tre bahá’í residenti, con la richiesta che le loro mogli musulmane divorziassero da loro per il fatto che i mariti avevano abbandonato l’Islam dopo essersi legalmente sposati come musulmani.
4 Il Parere e il Verdetto della Corte d’appello religiosa di Beba, emessi il 10 maggio 1925, successivamente ratificati dalle supreme autorità ecclesiastiche del Cairo e da loro considerati definitivi, pubblicati e fatti circolare dalle stesse autorità musulmane, annullavano il matrimonio contratto dai tre imputati bahá’í e li condannavano come eretici per aver violato le leggi e le ordinanze dell’Islam. Il verdetto giungeva perfino al punto di fare l’esplicita, sorprendente e veramente storica affermazione che la Fede abbracciata dagli eretici doveva essere considerata una religione distinta, del tutto indipendente dai sistemi religiosi che l’avevano preceduta – un’affermazione che fino ad allora i nemici della Fede in Oriente e in Occidente avevano messa in discussione o deliberatamente ignorata.
5 Dopo aver spiegato le fondamentali dottrine e ordinanze islamiche e fornito una dettagliata esposizione degli insegnamenti bahá’í, confortata da varie citazioni dal Kitáb-i-Aqdas, dagli scritti di ‘Abdu’l-Bahá e di Mirza Abu’l-Fadl, con speciale riferimento ad alcune leggi bahá’í, e dopo aver dimostrato, alla luce di quelle dichiarazioni, che gli imputati avevano abiurato la Fede di Muhammad, il verdetto formale dichiara nei termini più inequivocabili: «La Fede bahá’í è una nuova religione, del tutto indipendente, con credenze, principi e leggi proprie che differiscono dalle credenze, dai principi e dalle leggi dell’Islam con le quali sono in assoluto contrasto. Pertanto nessun bahá’í può essere considerato musulmano o viceversa, così come nessun buddhista, bramino o cristiano può essere considerato musulmano o viceversa». Ordinando lo scioglimento dei contratti matrimoniali delle parti in giudizio e la «separazione» dei mariti dalle rispettive mogli, questo memorabile pronunciamento ufficiale conclude con le seguenti parole: «Se uno di loro (mariti) si pente, crede, riconosce e confessa tutto ciò che… Muhammad, l’Apostolo di Dio… ha portato da Dio… e ritorna all’augusta Fede dell’Islam… e attesta che… Muhammad… è il Suggello dei Profeti e Messaggeri, che nessuna religione succederà alla Sua, che nessuna legge abrogherà la Sua, che il Corano è l’ultimo dei Libri di Dio e la Sua ultima rivelazione ai Suoi Profeti e Messaggeri… sarà accettato e avrà il diritto di rinnovare il contratto di matrimonio…».
6 Questa dichiarazione di portentoso significato, sostenuta da prove incontrovertibili addotte dagli stessi nemici dichiarati della Fede di Bahá’u’lláh in un paese che aspira alla guida dell’Islam attraverso la restaurazione del califfato, che ha ricevuto la sanzione delle massime autorità ecclesiastiche del paese, questa testimonianza ufficiale che i capi dell’Islam sciita in Persia e in Iraq, per un intero secolo, hanno assiduamente evitato di formulare e che riduce al silenzio, una volta per tutte, quei detrattori, compresi gli ecclesiastici cristiani occidentali, che in passato hanno stigmatizzato la Fede come culto, setta Bábí e ramo dell’Islam, o l’hanno descritta come una sintesi di religioni, questa dichiarazione fu acclamata da tutte le comunità bahá’í in Oriente e in Occidente come il primo Documento dell’emancipazione della Causa di Bahá’u’lláh dai ceppi dell’ortodossia islamica, il primo storico passo compiuto non dai suoi aderenti, come sarebbe stato logico aspettarsi, ma dai suoi avversari sulla strada che conduce al suo definitivo riconoscimento in tutto il mondo.
7 Questo verdetto, carico di incalcolabili possibilità, fu immediatamente riconosciuto come una potente sfida che i costruttori dell’Ordine Amministrativo della Fede di Bahá’u’lláh non tardarono ad affrontare e accettare. Esso imponeva loro un sacro obbligo che essi si sentivano pronti ad assolvere. Destinato dai suoi autori a impedire ai loro avversari di accedere ai tribunali musulmani e a porli perciò in una situazione di confusione e di imbarazzo, divenne una leva che la comunità bahá’í egiziana, seguita poi dalle comunità consorelle, prontamente utilizzò per affermare l’indipendenza della sua Fede e chiederne il riconoscimento del governo. Tradotto in molte lingue, circolò fra le comunità bahá’í in Oriente e in Occidente, aprì gradualmente la strada all’avvio di negoziati tra i rappresentanti eletti di queste comunità e le autorità civili in Egitto, in Terra Santa, in Persia e persino negli Stati Uniti d’America, allo scopo di assicurare alla Fede, da parte di quelle autorità, il riconoscimento ufficiale di religione indipendente.
8 In Egitto fu lo spunto per l’adozione di una serie di provvedimenti che nel loro effetto complessivo hanno molto facilitato l’estensione di tale riconoscimento da parte di un governo che è tuttora formalmente legato alla religione islamica e accetta che le sue leggi e i suoi regolamenti siano per buona parte concepiti secondo le opinioni e le dichiarazioni dei suoi capi ecclesiastici. L’inflessibile determinazione dei credenti egiziani di non deviare d’un capello dalle dottrine della loro Fede, evitando qualunque rapporto con i tribunali ecclesiastici musulmani del paese e rifiutando qualunque carica ecclesiastica fosse loro offerta, la codificazione e la pubblicazione delle leggi fondamentali del Kitáb-i-Aqdas relative alle questioni di stato giuridico personale, come il matrimonio, il divorzio, l’eredità e la sepoltura, e la presentazione di queste leggi al Consiglio dei ministri egiziano, l’emissione di certificati di matrimonio e di divorzio da parte dell’Assemblea Spirituale Nazionale egiziana, l’assunzione, da parte di questa Assemblea, di tutti i doveri e le responsabilità connessi alla celebrazione dei matrimoni e dei divorzi bahá’í e alla sepoltura dei defunti, l’osservanza da parte di tutti i membri della comunità dei nove Giorni sacri durante i quali si deve sospendere completamente il lavoro come prescritto dagli insegnamenti bahá’í, la presentazione, con acclusa copia del verdetto della Corte, della Costituzione e dei regolamenti nazionali bahá’í, da parte dei rappresentanti nazionali eletti della comunità al Primo ministro egiziano, al Ministro dell’interno e al Ministro della giustizia, di una petizione (confortata da un’analoga comunicazione indirizzata dall’Assemblea Spirituale Nazionale americana al governo egiziano) che chiedeva il riconoscimento della loro Assemblea come ente qualificato a esercitare le funzioni di un tribunale indipendente e autorizzato ad applicare, in tutte le questioni riguardanti lo stato giuridico personale, le leggi e le ordinanze rivelate dall’Autore della loro Fede – queste sono le prime conseguenze di uno storico pronunciamento che, prima o poi, porterà la Fede a stabilirsi su basi di assoluta parità con le religioni sue consorelle in quella terra.
9 Corollario di quella storica dichiarazione e diretta conseguenza dei periodici disordini istigati da un volgo fanatico a Porto Said e Ismailia in occasione dei funerali di certi membri della comunità bahá’í, fu il non meno importante fatvá (giudizio) ufficiale emesso, per richiesta del Ministro della giustizia, dal Gran muftì d’Egitto. Poco dopo essere stato pronunziato fu pubblicato dalla stampa egiziana e contribuì a rafforzare ulteriormente lo status indipendente della Fede. Seguì ai tumulti che scoppiarono con straordinaria furia a Ismailia quando una folla inferocita circondò il corteo funebre di Muhammad Sulaymán, eminente bahá’í residente nella città, creando un tale trambusto che dovette intervenire la polizia. Recuperata la salma e riportatala a casa del defunto, si fu costretti a trasportarla di notte, senza accompagnamento, ai margini del deserto e a seppellirvela.
10 La sentenza fu approvata in seguito alla richiesta scritta il 24 gennaio 1939 dal Ministero dell’interno egiziano al Ministero della giustizia, con acclusa una copia della compilazione delle leggi bahá’í relative alle questioni di stato giuridico personale pubblicata dall’Assemblea Spirituale Nazionale egiziana, che chiedeva un pronunciamento del Muftì sulla petizione rivolta da quella Assemblea al Governo egiziano per l’assegnazione di quattro appezzamenti di terreno a uso cimiteriale per le comunità bahá’í del Cairo, Alessandria, Porto Said e Ismailia. Il Muftì, nella sua risposta dell’11 Mirza 1939 alla comunicazione inviatagli dal Ministero di giustizia, scrisse: «Riceviamo la vostra lettera… del 21 febbraio 1939, con gli allegati… dove chiedete se sia o non sia lecito seppellire defunti bahá’í nei cimiteri musulmani. Dichiariamo che questa Comunità non dev’essere considerata musulmana, come è dimostrato dal credo che professa. L’attento esame di ciò che essi chiamano “Leggi bahá’í riguardanti le questioni di stato giuridico personale”, che accompagna le carte, ne è ritenuta prova sufficiente. Chiunque fra i suoi membri sia stato precedentemente musulmano, ha, in virtù del suo credo nelle pretese di questa comunità, rinunciato all’Islam, è considerato fuori dai suoi confini ed è soggetto alle leggi riguardanti l’apostasia stabilite nella giusta Fede dell’Islam. Dato che questa comunità non è musulmana, sarebbe illegale seppellire i suoi morti nei cimiteri musulmani, siano essi stati originariamente musulmani o altro…».
11 In seguito a questa definitiva, autorevole condanna così chiaramente formulata dal massimo esponente della Legge islamica in Egitto e dopo lunghi negoziati che in un primo momento sfociarono nell’assegnazione alla comunità bahá’í cairota di un lotto di cimitero nella zona destinata ai liberi pensatori residenti nella città, il Governo egiziano acconsentì di concedere a quella comunità e ai bahá’í di Ismailia due appezzamenti di terreno da adibire a cimitero per i loro defunti, un atto di significato storico che fu assai gradito dai membri delle comunità duramente oppresse e pazienti e valse a dimostrare ancor meglio l’indipendenza della loro Fede e ad allargare la sfera di giurisdizione delle istituzioni che le rappresentavano.
12 Nel primo dei due cimiteri ufficialmente designati, per decisione dell’Assemblea Spirituale Nazionale bahá’í egiziana, aiutata dall’Assemblea consorella persiana, furono trasferite le spoglie dell’illustre Mirza Abu’l-Fadl, che vi trovarono una sepoltura adeguata alla sua elevata posizione, degna inaugurazione della prima istituzione bahá’í ufficiale di questo tipo instaurata in Oriente. Questa impresa fu, poco dopo, rafforzata dall’esumazione da un cimitero cristiano del Cairo della salma della famosissima insegnante madre dell’Occidente, la signora E. Getsinger, e dalla sua tumulazione, con l’assistenza offerta dall’Assemblea Nazionale bahá’í americana e dal Dipartimento di stato di Washington, nel cuore del cimitero, accanto all’estrema dimora di quell’eminente scrittore e campione della Fede.
13 In Terra Santa, dove era stato istituito un cimitero bahá’í ancor prima di questi pronunciamenti durante il ministero di ‘Abdu’l-Bahá, fu presa la storica decisione di seppellire i defunti bahá’í rivolti verso la Qiblih di ‘Akká, un provvedimento il cui significato fu rafforzato dalla decisione di non ricorrere più, come si era fatto in passato, a tribunali musulmani per tutte le questioni riguardanti i matrimoni e i divorzi e di espletare, integralmente e senza alcuna dissimulazione, i riti prescritti da Bahá’u’lláh per la preparazione e la sepoltura dei defunti. A ciò seguì, poco dopo, la presentazione di una petizione formale datata 4 maggio 1929, indirizzata dai rappresentanti della Comunità locale bahá’í di Haifa alle Autorità palestinesi, nella quale si chiedeva che, in attesa dell’adozione di una legge civile uniforme riguardante lo stato giuridico personale applicabile a tutti i residenti del paese indipendentemente dal credo religioso, la comunità fosse da loro ufficialmente riconosciuta e le fossero concessi «i pieni poteri d’amministrare i propri affari di cui ora godono le altre comunità religiose in Palestina».
14 All’accoglimento di questa petizione, un atto di enorme importanza e assolutamente nuovo nella storia della Fede in qualunque paese, che accordava il riconoscimento ufficiale delle autorità civili ai certificati di matrimonio rilasciati dai rappresentanti della comunità locale, la cui validità il funzionario rappresentante il Governo persiano in Palestina ha tacitamente riconosciuto, fecero seguito una serie di decisioni che esentavano dalle tasse governative tutte le proprietà e le istituzioni considerate dalla comunità bahá’í luoghi santi, o dedicate alle Tombe dei suoi Fondatori al centro mondiale. Inoltre, in virtù di queste decisioni, tutti gli oggetti che servivano per ornare o arredare i Santuari bahá’í furono esentati dalle imposte doganali e le succursali delle Assemblee Spirituali Nazionali americana e indiana furono autorizzate a espletare le funzioni delle «associazioni religiose» secondo le leggi del paese e a possedere e amministrare proprietà come rappresentanti di quelle Assemblee.
15 In Persia, dove una comunità molto più grande, già numericamente superiore alle minoranze cristiane, ebree e zoroastriane residenti nel paese, era riuscita, nonostante l’atteggiamento tradizionalmente ostile delle autorità civili ed ecclesiastiche, a erigere le strutture delle sue istituzioni amministrative, la reazione a una dichiarazione di sì grande importanza fu tale da ispirare i suoi membri e indurli a sfruttare, nel miglior modo possibile, gli enormi vantaggi che questa certificazione del tutto inaspettata aveva loro arrecato. Sopravvissuta alle feroci ordalie cui i crudeli, arroganti e implacabili capi di un clero onnipotente, adesso miseramente umiliato, l’avevano sottoposta, la trionfante comunità, che stava appena emergendo dall’oscurità, era più che mai decisa a far valere, entro i limiti prescritti dai Fondatori, il suo diritto d’essere considerata un’entità religiosa indipendente e a salvaguardare, con ogni mezzo possibile, la sua integrità, la solidarietà fra i suoi membri e la solidità delle sue istituzioni elettive. Ora che i suoi avversari dichiarati, in un paese simile, con quel linguaggio e su un tema tanto importante avevano fatto una dichiarazione così solenne e travolgente e avevano squarciato il velo che per tanto tempo aveva nascosto le verità peculiari che costituiscono il nocciolo della sua dottrina, non poteva più starsene in silenzio o tollerare senza proteste l’imposizione di restrizioni calcolate per circoscrivere i suoi poteri, soffocare la sua vita comunitaria e negarle il diritto di essere posta su un piede di assoluta parità con le altre comunità religiose della nazione.
16 Inflessibilmente risoluti a non lasciarsi più classificare come musulmani, ebrei, cristiani o zoroastriani, i membri di questa comunità decisero, come primo passo, di adottare misure che dimostrassero inconfutabilmente la posizione peculiare proclamata per la loro religione dai suoi nemici dichiarati. Memori del loro chiaro, sacro e imprescindibile dovere di obbedire senza riserve alle leggi del paese in tutte le questioni di carattere puramente amministrativo, ma fermamente determinati a dichiarare e dimostrare, con ogni mezzo legittimo a loro disposizione, l’indipendenza della loro Fede, formularono una linea di condotta e si lanciarono in imprese destinate a portarli avanti di uno stadio verso la mèta che si erano proposti di raggiungere.
17 L’incrollabile decisione di non dissimulare la loro fede, qualunque sacrificio ciò potesse comportare, l’atteggiamento intransigente di non deferire a nessun tribunale musulmano, cristiano, rabbinico o zoroastriano questioni attinenti il loro stato giuridico personale, il rifiuto d’affiliarsi a organismi legati a una qualunque delle religioni riconosciute nel paese o d’accettare da esse posti ecclesiastici, l’osservanza universale delle leggi prescritte nel Kitáb-i-Aqdas riguardanti le preghiere obbligatorie, il digiuno, il matrimonio, il divorzio, l’eredità, la sepoltura e l’uso dell’oppio o delle bevande alcoliche, l’emissione e la circolazione di certificati di nascita, morte, matrimonio e divorzio, per direttiva di Assemblee bahá’í riconosciute e con il loro sigillo, la traduzione in persiano delle «Leggi bahá’í riguardanti questioni di stato giuridico personale» già pubblicate dall’Assemblea Nazionale bahá’í egiziana, la sospensione del lavoro in tutti i Giorni sacri bahá’í, l’istituzione di cimiteri bahá’í nella capitale e nelle provincie per avere un unico luogo di sepoltura per tutti i fedeli, qualunque fosse la loro estrazione religiosa, la pretesa di non essere più registrati come musulmani, cristiani, ebrei o zoroastriani sulle carte d’identità, nei certificati di matrimonio, nei passaporti e in altri documenti ufficiali, il rilievo dato all’istituzione della Festa del diciannovesimo giorno stabilita da Bahá’u’lláh nel Libro Santissimo, l’imposizione di sanzioni da parte delle Assemblee elettive bahá’í, che assumevano ora i compiti e le funzioni di tribunali religiosi, a carico di membri recalcitranti della comunità, negando loro il diritto di votare e di essere membro di Assemblee e comitati – tutto questo deve essere associato ai primi moti di una comunità che aveva eretto la struttura del suo Ordine Amministrativo e ora, sotto la spinta della storica sentenza giudiziaria approvata in Egitto, era decisa a ottenere dalle autorità civili, non con la forza, ma con la persuasione, il riconoscimento dello status cui i suoi avversari ecclesiastici avevano reso così solennemente testimonianza.
18 Che il suo tentativo iniziale abbia riscosso un successo parziale, che talvolta abbia insospettito le autorità al governo o sia stato grossolanamente mistificato dai suoi vigili nemici non è motivo di sorpresa. Ebbe successo sotto certi aspetti nei negoziati con le autorità civili, come nell’ottenere il decreto governativo che sopprimeva dai passaporti rilasciati ai sudditi persiani ogni riferimento all’appartenenza religiosa, e nel tacito permesso accordato ai membri della comunità, in alcune zone, di non riempire le colonne riguardanti la religione in certi documenti di stato, ma di registrare presso le loro Assemblee i certificati di matrimonio, divorzio, nascita e morte e di celebrare i funerali secondo i loro riti religiosi. Sotto altri aspetti, tuttavia, la comunità fu assoggettata a gravi impedimenti: le scuole, fondate, possedute e controllate esclusivamente dalla comunità bahá’í furono chiuse d’autorità perché si rifiutarono di restare aperte nei Giorni sacri bahá’í, i suoi membri, uomini e donne, furono portati in giudizio, coloro che ricoprivano incarichi civili o militari furono, in alcuni casi, congedati, fu posto il divieto all’importazione, alla stampa e alla circolazione della letteratura e furono proibite tutte le riunioni pubbliche bahá’í.
19 A tutte le regole amministrative che le autorità civili di tanto in tanto hanno emanato o che in futuro emaneranno in quella terra, come in tutti gli altri paesi, la comunità bahá’í, fedele ai suoi sacri obblighi nei confronti del governo e conscia dei doveri civili, ha prestato e continuerà a prestare incondizionata obbedienza. La sua immediata chiusura delle proprie scuole in Persia ne è una prova. Tuttavia, a quegli ordini che equivalgano a una ritrattazione della fede da parte dei suoi membri, o che costituiscano un atto di slealtà verso i suoi principi e precetti basilari, spirituali e provenienti da Dio, si rifiuterà risolutamente d’inchinarsi, preferendo la prigionia, la deportazione e ogni forma di persecuzione, compresa la morte – che è già stata patita da ventimila martiri i quali hanno offerto la vita sul sentiero dei Fondatori – piuttosto che seguire i dettami di un’autorità temporale che le chiedesse di rinunziare alla fedeltà alla sua causa.
20 «Anche se ci fate a pezzi, uomini, donne e bambini, dell’intero distretto di Ábádih», è stato il memorabile messaggio inviato dagli intrepidi discendenti dei martiri di quel turbolento centro al governatore di Fárs che voleva costringerli a dichiararsi musulmani, «non ci assoggetteremo mai ai vostri desideri». Il messaggio, consegnato all’insolente governatore, lo indusse subito a desistere dall’insistere ulteriormente.
21 Negli Stati Uniti d’America, la comunità bahá’í, che aveva già dato un ispirante esempio erigendo e completando l’apparato del suo Ordine Amministrativo, fu sensibile alle conseguenze d’ampia portata della sentenza approvata dal tribunale musulmano in Egitto e al significato della reazione che aveva provocato in Terra Santa e fu stimolata dalla coraggiosa tenacia dimostrata dalla comunità persiana sua consorella. Essa decise di aggiungere alle sue notevoli imprese ulteriori atti intesi a mettere maggiormente in rilievo lo status raggiunto dalla Fede di Bahá’u’lláh nel continente nordamericano. Era numericamente inferiore alla comunità dei credenti persiani. A causa della molteplicità delle leggi che regolavano gli Stati nell’ambito dell’Unione, si trovò, nelle questioni riguardanti lo stato giuridico personale dei suoi membri, di fronte a una situazione radicalmente diversa da quella con cui avevano a che fare i credenti in Oriente e molto più complessa. Ma conscia della sua responsabilità di dare, una volta ancora, un potente impulso allo sviluppo di un Ordine di origine divina, si assunse audacemente l’impegno di iniziare misure che mettessero in evidenza il carattere indipendente della Rivelazione per cui si erano già così nobilmente battuti.
22 Il riconoscimento della sua Assemblea Spirituale Nazionale da parte delle autorità federali come corpo religioso avente diritto di possedere fiduciariamente proprietà dedicate agli interessi della Fede, la costituzione di dotazioni bahá’í e la loro esenzione dalle tasse da parte delle autorità civili in quanto proprietà possedute e amministrate a esclusivo beneficio di una comunità puramente religiosa stavano ora per essere integrati da decisioni e provvedimenti destinati a dare ulteriore rilievo alla natura dei legami che univano i suoi membri. Lo speciale accento posto su alcune delle leggi fondamentali contenute nel Kitáb-i-Aqdas riguardanti le preghiere obbligatorie, l’osservanza del digiuno, il consenso dei genitori come requisito per il matrimonio, la separazione di un anno tra marito e moglie come condizione indispensabile per il divorzio, l’astinenza da tutte le bevande alcoliche, l’importanza attribuita alla Festa del diciannovesimo giorno decretata da Bahá’u’lláh nello stesso Libro, l’abbandono dell’appartenenza e dell’affiliazione a organizzazioni ecclesiastiche di qualunque tipo e il rifiuto di accettare qualunque carica ecclesiastica – tutto ciò è servito a sottolineare con forza il carattere distintivo della Fratellanza bahá’í e a dissociarla, agli occhi del pubblico, dai riti, dalle cerimonie e dalle istituzioni opera d’uomo che s’identificano coi sistemi religiosi del passato.
23 Di particolare e storica importanza è stata la richiesta fatta dall’Assemblea Spirituale bahá’í di Chicago – il primo centro installato nel continente nordamericano, la prima a ottenere il riconoscimento legale fra tutte le Assemblee sue consorelle, la prima a prendere l’iniziativa di preparare la strada per la costruzione di un Tempio bahá’í in Occidente – alle autorità civili dello stato dell’Illinois per ottenere il riconoscimento del diritto di celebrare matrimoni legali secondo le regole del Kitáb-i-Aqdas e di registrarne i certificati che avessero in precedenza ricevuto la sanzione ufficiale dell’Assemblea. L’accoglimento di questa petizione da parte delle autorità, che richiedeva un emendamento del regolamento di tutte le Assemblee locali per abilitarle a celebrare matrimoni legali e conferiva al presidente o al segretario dell’Assemblea di Chicago il potere di rappresentare questo organo nella celebrazione di tutti i matrimoni bahá’í, l’emissione, il 22 settembre 1939, della prima Licenza matrimoniale bahá’í da parte dello stato dell’Illinois che autorizzava l’Assemblea a celebrare matrimoni e a rilasciare certificati matrimoniali bahá’í, le successive misure felicemente prese da Assemblee in altri stati dell’Unione, come lo stato di New York, il New Jersey, il Wisconsin e l’Ohio, per ottenere gli stessi privilegi hanno contribuito anch’essi a dare maggiore rilievo allo status di religione indipendente della Fede. A tutto ciò bisogna aggiungere un riconoscimento altrettanto significativo concesso, dopo lo scoppio del presente conflitto, dal Dipartimento della guerra degli Stati Uniti – come dimostra la comunicazione del Quartiermastro generale di quel Dipartimento del 14 agosto 1942 all’Assemblea Spirituale Nazionale americana – che approva l’uso del simbolo del Più Grande Nome sulle pietre tombali dei Bahá’í uccisi in guerra e sepolti in cimiteri militari o privati, distinguendo così quelle tombe da quelle con la croce latina o con la stella di Davide assegnati rispettivamente agli appartenenti alle Fedi cristiana ed ebraica.
24 Merita inoltre citare la richiesta, ugualmente coronata da successo, presentata dall’Assemblea Spirituale Nazionale bahá’í americana all’Ufficio amministrazione prezzi, Washington D. C., per chiedere che ai presidenti e ai segretari delle Assemblee locali, nella loro qualità di funzionari addetti alla direzione di riunioni religiose e, in taluni Stati, autorizzati a celebrare matrimoni, fosse riconosciuto il diritto all’indennità di percorso privilegiato secondo quanto disposto dalla Sezione Indennità Stradali Privilegiate del Regolamento della Benzina, allo scopo di andare incontro ai bisogni religiosi delle località da loro servite.
25 Anche le comunità bahá’í di altri paesi come l’India, l’Iraq, la Gran Bretagna e l’Australia, hanno subito valutato i vantaggi derivanti dalla pubblicazione dello storico verdetto e hanno utilizzato, ciascuna secondo la propria capacità ed entro i limiti imposti dalle circostanze generali, le opportunità fornite da quelle pubbliche testimonianze per dimostrare ulteriormente l’indipendenza della Fede di cui avevano già eretta la struttura amministrativa. Applicando, nella misura che ritenevano fattibile, le leggi prescritte nel Libro Santissimo, sciogliendo ogni vincolo di affiliazione o partecipazione a qualsiasi istituzione ecclesiastica di qualsivoglia denominazione, formulando linee di condotta introdotte con l’unico scopo di dare ulteriore pubblicità a questa importante questione che segna una grande svolta nell’evoluzione della Fede e di facilitarne la definitivo soluzione, queste comunità, e in verità tutti gli organismi bahá’í in Oriente e in Occidente, per quanto isolata la loro posizione o immaturo il loro stadio di sviluppo, consci della loro solidarietà e perfettamente consapevoli delle gloriose prospettive che si aprivano davanti a loro, sono sorti per proclamare all’unisono l’indipendenza della religione di Bahá’u’lláh e per preparare la strada alla sua emancipazione da ogni sorta di vincoli, ecclesiastici o di altro genere, che potessero impedire o ritardare il suo definitivo riconoscimento in tutto il mondo.
26 Allo status già conseguito dalla loro Fede, in gran parte per merito dei loro compiuti sforzi e dei successi conseguiti senza alcun aiuto, hanno reso omaggio osservatori di varia provenienza professionale, la cui testimonianza i Bahá’í hanno gradito e considerano un ulteriore incentivo all’azione nella loro ripida e faticosa ascesa verso le vette che dovranno infine espugnare.
27 «La Palestina», testimonia il professor Norman Bentwich, già Procuratore generale del Governo palestinese, «può veramente essere considerata adesso la terra non di tre ma di quattro Fedi, perché il credo bahá’í che ha ora il proprio centro di fede e pellegrinaggio ad ‘Akká e Haifa sta assumendo il carattere di una religione mondiale. Quanto alla sua influenza nel paese, essa è un importante fattore che contribuisce alla comprensione internazionale e interreligiosa». L’eminente scienziato e psichiatra svizzero, Auguste Forel, nel suo testamento dichiara: «Nel 1920 ho conosciuto a Karlsruhe la religione mondiale e sopraconfessionale bahá’í, fondata in Oriente settant’anni fa da un persiano, Bahá’u’lláh. Questa è la vera religione del “Benessere sociale” senza dogmi o preti, che unisce tutti gli uomini di questo nostro piccolo globo terrestre. Sono diventato bahá’í. Possa questa religione vivere e prosperare per il bene dell’umanità! Questo è il mio più ardente desiderio». «È necessario», egli ha ancora dichiarato, «che vi siano uno stato mondiale, una lingua universale e una religione universale. Il movimento bahá’í per l’unità dell’umanità è, a mio parere, il più grande movimento che oggi operi per la pace e per la fratellanza universali». Un’altra testimonianza è quella della defunta regina Maria di Romania: «Una religione che unisce tutti i credi… una religione basata sull’intimo spirito di Dio… Insegna che tutti gli odi, gli intrighi, i sospetti, le male parole, persino ogni aggressivo patriottismo, sono estranei all’unica, essenziale legge di Dio e che i credi particolari non sono che la superficie delle cose mentre il cuore che pulsa di divino amore non conosce tribù o razze».
CAPITOLO XXVEspansione internazionale delle attività d’insegnamento
1 Mentre la struttura dell’Ordine Amministrativo della Fede di Bahá’u’lláh stava gradualmente sorgendo e, grazie all’influenza di forze inaspettate, l’indipendenza della Fede era sempre più riconosciuta dai suoi nemici e dimostrata dai suoi amici, veniva contemporaneamente messo in moto un altro sviluppo, non meno gravido di conseguenze. Il suo scopo era d’estendere i confini della Fede, aumentando il numero dei suoi sostenitori dichiarati e dei suoi centri amministrativi, e di dare un nuovo e sempre maggiore impulso all’arricchimento, all’espansione e alla diversificazione della sua letteratura e al compito di diffonderla sempre più lontano. Infatti l’esperienza dimostrava che, a parte gli altri suoi caratteri distintivi, il modello dell’Ordine Amministrativo certamente incoraggiava l’efficienza e la celerità nel lavoro d’insegnamento e i suoi costruttori, man mano che la Fede procedeva verso un’emancipazione sempre più completa, si sentivano continuamente stimolati nel loro zelo e sempre più rafforzati nel loro ardore missionario.
2 E non avevano dimenticato le esortazioni, gli appelli e le promesse dei Fondatori della loro Fede che, per tre quarti di secolo, ciascuno a Proprio modo e nei limiti ben definiti delle Proprie attività, avevano lavorato tanto eroicamente per diffondere la fama della Causa i cui destini l’onnipotente Provvidenza aveva Loro ordinato di plasmare.
3 L’Araldo della loro Fede aveva comandato agli stessi sovrani della terra di levarsi per insegnare la Sua Causa, scrivendo nel Qayyúmu’l-Asmá’: «O consesso di re! Divulgate secondo verità e in gran fretta i versetti che inviammo ai popoli di Turchia e d’India e inoltre… ai paesi d’Oriente e d’Occidente». «Uscite dalle vostre città o popoli d’Occidente», aveva inoltre scritto nello stesso Libro, «e aiutate Dio…». «In verità, vi osserviamo dal Nostro regno di gloria», Bahá’u’lláh Si era così rivolto ai Suoi seguaci nel Kitáb-i-Aqdas, «e aiuteremo chiunque si leverà per il trionfo della Nostra Causa con le schiere delle legioni superne e una corte dei Nostri angeli prediletti». «…Insegnate la Causa di Dio, o genti di Bahá!», ha scritto inoltre. «Poiché Dio ha imposto ad ognuno il dovere di proclamare il Suo Messaggio e ritiene questa la più meritevole di tutte le azioni». «Se un uomo, solo», ha anche chiaramente affermato, «sorge nel nome di Bahá e indossa l’armatura del Suo amore, l’Onnipotente lo renderà vittorioso, si schierassero contro di lui le forze del cielo e della terra». «Dovesse qualcuno levarsi per il trionfo della Nostra Causa», ha inoltre dichiarato, «Dio lo renderebbe vittorioso, fossero pure decine di migliaia di nemici uniti in lega contro di lui». E ancora: «Accentrate le vostre energie nella propagazione della Fede di Dio. Chiunque sia degno di sì alto appello, si levi a promuoverla. Chiunque non ne sia in grado, è suo dovere indichi chi, in sua vece, proclami questa Rivelazione…». «Coloro che hanno abbandonato il loro paese», promette, «allo scopo d’insegnare la Nostra Causa, questi saranno fortificati col potere dello Spirito Fedele… tale servizio è, invero, il sovrano di tutte le buone azioni e l’ornamento di ogni atto virtuoso». «Oggi», ha scritto ‘Abdu’l-Bahá nel Suo Testamento, «la più importante di tutte le cose è la guida delle nazioni e dei popoli del mondo. L’insegnamento della Causa è della massima importanza, perché costituisce la pietra angolare delle sue stesse fondamenta». «I discepoli di Cristo», ha dichiarato nello stesso Documento, «dimenticarono se stessi e tutte le cose terrene, trascurarono tutti i loro interessi e i loro averi, si purificarono dall’egoismo e dalla passione e, con distacco assoluto, si sparsero dappertutto e si dedicarono a richiamare i popoli della terra alla Guida Divina, finché fecero del mondo un altro mondo, illuminarono la superficie della terra e fino all’ultima ora si dimostrarono pronti al sacrificio sul sentiero di quel Benamato di Dio. Infine, in terre diverse, subirono un glorioso martirio. Gli uomini d’azione seguano le loro orme!» «Quando verrà l’ora», ha solennemente dichiarato nel medesimo Testamento, «in cui quest’uccello oppresso e dalle ali spezzate spiccherà il volo verso la Celeste Assemblea… gli amici e i diletti, tutti quanti, dovranno mettersi all’opera e levarsi con tutto il cuore, con tutta l’anima e in pieno accordo… ad insegnare la Sua Causa e promuovere la Sua Fede. Essi non dovranno fermarsi nemmeno un istante, né cercare riposo. Dovranno recarsi in ogni terra… e viaggiare per tutte le contrade. Alacri, instancabili e tenaci dovranno innalzare dappertutto il trionfale grido di “Yá Bahá’u’l-Abhá” (O Gloria delle Glorie)… che in Oriente e in Occidente un’immensa folla si riunisca all’ombra della Parola di Dio, che i dolci aromi della santità siano diffusi, che i volti brillino raggianti e le anime divengano celestiali!»
4 Obbedienti a queste ripetute ingiunzioni, memori di queste ardenti promesse, consci della sublimità del loro appello, spronati dall’esempio dello stesso ‘Abdu’l-Bahá, non intimoriti malgrado il Suo improvviso allontanamento da loro, imperterriti di fronte agli attacchi sferrati dai loro avversari interni ed esterni, i Suoi seguaci in Oriente e in Occidente si accinsero con tutta la forza della loro solidarietà a promuovere più energicamente che mai l’espansione internazionale della loro Fede, un’espansione che doveva ora assumere proporzioni tali da meritare di essere considerata uno degli eventi più significativi della storia del primo secolo bahá’í.
5 Lanciate in ogni continente del globo, dapprima saltuarie, casuali e non organizzate, poi in seguito all’emersione e al lento sviluppo dell’Ordine Amministrativo, condotte con sistematicità, dirette dal centro ed efficientemente perseguite, le attività di insegnamento intraprese dai seguaci di Bahá’u’lláh in molti territori, ma soprattutto in America, e perseguite da persone di tutte le età e di entrambi i sessi, neofiti e veterani, insegnanti viaggianti e residenti, costituiscono, in virtù della loro ampiezza e delle benedizioni che ne sono scaturite, un fulgido episodio che non è secondo a nessuno, esclusi quelli associati alle gesta che hanno immortalato i primi anni dell’età primitiva della Dispensazione bahá’í.
6 La luce della Fede, che nei nove anni della Dispensazione Bábí aveva illuminato la Persia ed era stata riverberata sull’adiacente territorio iracheno, che nel corso dei trentanove anni del ministero di Bahá’u’lláh aveva irradiato il suo splendore sull’India, sull’Egitto, la Turchia, il Caucaso, il Turchestan, il Sudan, la Palestina, la Siria, il Libano e la Birmania e che poi, grazie all’impulso di un Patto d’istituzione divina, era giunta fino agli Stati Uniti d’America, al Canada, alla Francia, alla Gran Bretagna, alla Germania, all’Austria, alla Russia, all’Italia, all’Olanda, all’Ungheria, alla Svizzera, all’Arabia, alla Tunisia, alla Cina, al Giappone, alle isole Hawaii, al Sud Africa, al Brasile e all’Australia, ora, entro la fine del primo secolo bahá’í, sarebbe stata portata a illuminare ben trentaquattro nazioni indipendenti e molti possedimenti situati nei continenti americano, asiatico e africano, nel Golfo Persico e negli oceani Atlantico e Pacifico. Dopo il trapasso di ‘Abdu’l-Bahá, le insegne della Rivelazione di Bahá’u’lláh sono state innalzate in Norvegia, Svezia, Danimarca, Belgio, Finlandia, Irlanda, Polonia, Cecoslovacchia, Romania, Jugoslavia, Bulgaria, Albania, Afganistan, Abissinia, Nuova Zelanda e in diciannove repubbliche latino-americane, e in molte di esse sono già state installate le basi strutturali dell’Ordine Amministrativo della Sua Fede. Inoltre, i portatori del nuovo Vangelo hanno preso residenza in numerosi possedimenti in Oriente e in Occidente, compresa l’Alaska, l’Islanda, Giamaica, Porto Rico, l’isola di Solano nelle Filippine, Giava, Tasmania, le isole Bahrayn e Tahiti, il Belucistan, la Rodesia del Sud e il Congo Belga, e stanno ora facendo ogni sforzo per costruirvi una base inespugnabile per le sue istituzioni.
7 Queste cospicue vittorie sono state conseguite negli ultimi decenni del primo secolo bahá’í grazie a conferenze e convegni, attraverso la stampa e la radio, con l’organizzazione di classi di studio e di fire-side, la partecipazione alle attività di società, club e istituti animati da ideali affini ai principi della Fede, la diffusione della letteratura bahá’í, con varie mostre, con l’istituzione di classi di formazione per insegnanti, attraverso contatti con uomini di stato, studiosi, pubblicisti, filantropi e altre personalità, cose che per lo più sono state compiute grazie alla intraprendenza dei membri della comunità americana che si sono assunti la diretta responsabilità della conquista spirituale della stragrande maggioranza dei paesi e dei possedimenti, e, soprattutto, grazie all’inflessibile determinazione e all’incrollabile fedeltà dei pionieri che hanno partecipato a queste crociate, in qualità di insegnanti viaggianti o residenti.
8 Non si può omettere un accenno alle attività di insegnamento internazionale dei seguaci occidentali della Fede di Bahá’u’lláh e, particolarmente, della valorosa comunità americana, i quali, cogliendo ogni occasione che si presentasse, con l’esempio, con la parola e con la distribuzione di letteratura, hanno portato la Fede in terreni vergini, spargendo semi che, alla fine, germoglieranno e produrranno una messe tanto rilevante quanto quella già raccolta nei paesi sopra menzionati. Grazie a questi sforzi le vivificanti brezze della Rivelazione di Dio hanno soffiato sui più remoti angoli della terra, portando il germe d’una nuova vita spirituale in climi distanti e regioni inospitali quali la Lapponia, l’isola Spitzbergen, l’insediamento più settentrionale del mondo, Hammerfest in Norvegia e nella Terra del Fuoco nell’estremità del Cile, le città, rispettivamente, più a nord e più a sud del globo, Pago Pago e le Figi, nell’Oceano Pacifico, Chichen Itza, nella provincia dello Yucatàn, le isole Bahamas, Trinidad e Barbados nelle Indie Occidentali, l’isola di Bali e il Borneo Britannico nelle Indie Orientali, la Patagonia, la Guyana Britannica, le isole Seychelles, la Nuova Guinea e Ceylon.
9 E non possiamo fare a meno di segnalare gli speciali sforzi fatti da individui e Assemblee per prendere contatto con gruppi e razze minoritarie in varie parti del mondo: Ebrei e Negri negli Stati Uniti d’America, Eschimesi in Alaska, Indiani patagoni in Argentina, Indiani messicani in Messico, Indiani incas in Perù, Indiani cherokee nella Carolina del Nord, Indiani oneida nel Wisconsin, Maya nello Yucatàn, Lapponi nella Scandinavia del Nord e Maori in Rotorua, Nuova Zelanda.
10 Di speciale e valido aiuto è stata l’istituzione di un Ufficio internazionale bahá’í a Ginevra, un centro destinato soprattutto a facilitare l’espansione delle attività d’insegnamento della Fede nel continente europeo, che, come organismo ausiliario del centro amministrativo mondiale in Terra Santa, si è tenuto in contatto con le comunità bahá’í in Oriente e in Occidente. Utilizzato come ufficio d’informazione della Fede e centro di distribuzione della sua letteratura, grazie a una sala di lettura aperta al pubblico, a una biblioteca circolante, all’ospitalità offerta a insegnanti viaggianti e a credenti in visita e ai contatti con varie società, esso ha dato un non piccolo contributo al consolidamento delle iniziative di insegnamento degli individui e delle Assemblee Nazionali bahá’í.
11 Grazie a queste attività d’insegnamento, alcune iniziate da singoli credenti, altre svolte in base a piani varati da Assemblee organizzate, la Fede, che durante la vita di Bahá’u’lláh contava nelle sue file persiani, arabi, turchi, russi, curdi, indiani, birmani e negri e, più tardi, nei giorni di ‘Abdu’l-Bahá, era stata rafforzata dalla conversione di americani, britannici, tedeschi, francesi, italiani, giapponesi, cinesi e armeni, poteva ora vantarsi d’aver arruolato tra i suoi sostenitori dichiarati rappresentanti di gruppi etnici e nazionalità lontanissimi fra loro: ungheresi, olandesi, irlandesi, scandinavi, sudanesi, cecoslovacchi, bulgari, finlandesi, etiopi, albanesi, polacchi, eschimesi, indiani americani, jugoslavi, latino-americani e maori.
12 Un così notevole ampliamento dei confini della Fede, una tanto sorprendente diversificazione degli elementi in essa inclusi, fu accompagnato da un’enorme aumento del volume e della diffusione della letteratura, un aumento che contrastava nettamente con le prime iniziative prese per la stampa delle poche edizioni degli scritti di Bahá’u’lláh che furono pubblicate durante gli ultimi anni del Suo ministero. L’assortimento della letteratura bahá’í, che per mezzo secolo, nei giorni del Báb e di Bahá’u’lláh, restò limitato alle due lingue in cui i Loro insegnamenti erano stati originariamente rivelati e che poi, durante la vita di ‘Abdu’l-Bahá, fu esteso a includere edizioni in inglese, francese, tedesco, turco, russo e birmano, dopo il Suo trapasso fu notevolmente ampliato grazie a una notevole proliferazione di libri, trattati, opuscoli e volantini stampati e diffusi in altre ventinove lingue. Grazie sopra tutto a iniziative personali e in parte con la mediazione di Assemblee bahá’í, furono pubblicati e poi largamente distribuiti e donati a biblioteche private e pubbliche, in Oriente e in Occidente libri in spagnolo e portoghese, in tre lingue scandinave, in finlandese e islandese, in olandese, italiano, ceco, polacco, ungherese, rumeno, serbo, bulgaro, greco e albanese, in ebraico ed esperanto, in armeno, curdo e amarico, in cinese e giapponese e in cinque lingue indiane, cioè urdu, gujrati, bengali, hindi e sindhi. Inoltre, la letteratura della Fede è attualmente in corso di traduzione in lettone, lituano, ucraino, tamil, maharatti, pashto, telugu, kinarese, singalese, malese, oriya, panjabi e rajasthani.
13 Altrettanto rimarchevole è stato l’assortimento della letteratura prodotta e messa a disposizione del pubblico in tutti i continenti del globo e portata da risoluti e infaticabili pionieri fino agli estremi confini della terra, un’impresa nella quale ancora una volta si sono distinti i membri della comunità bahá’í americana. Ad attestare la varietà delle pubblicazioni bahá’í, così strettamente collegata alla loro diffusione sulla superficie del globo, vi sono la pubblicazione di un’edizione inglese che comprende una selezione di passi tratti dai più importanti fra gli scritti di Bahá’u’lláh che non erano ancora stati tradotti, nonché la versione inglese dell’«Epistola al Figlio del Lupo» e di una compilazione, nella stessa lingua, di «Preghiere e Meditazioni» rivelate dalla Sua penna, la traduzione e la pubblicazione, rispettivamente in otto, sette e sei lingue, delle «Parole Celate», del «Kitáb-i-Íqán» e delle «Lezioni di San Giovanni d’Acri» di ‘Abdu’l-Bahá, la compilazione del terzo volume delle Tavole di ‘Abdu’l-Bahá tradotte in inglese, la pubblicazione di libri e trattati relativi ai principi del credo bahá’í e all’origine e allo sviluppo dell’Ordine Amministrativo della Fede, la traduzione inglese della Narrazione dei primi giorni della Rivelazione bahá’í, scritta dal cronista e poeta Nabíl-i-Zarandí, successivamente pubblicata in arabo e tradotta in tedesco e in esperanto, commentari ed esposizioni degli insegnamenti bahá’í, delle istituzioni amministrative e di argomenti affini, come la federazione mondiale, l’unità delle razze e la religione comparata scritti da autori occidentali e da ex ministri della Chiesa. Hanno inoltre contribuito ad accrescere la produzione e aumentare la varietà della letteratura bahá’í la pubblicazione di documenti relativi alle leggi del Kitáb-i-Aqdas, di libri e opuscoli che trattano le profezie bibliche, di edizioni rivedute di alcuni scritti di Bahá’u’lláh, ‘Abdu’l-Bahá e di numerosi autori bahá’í, di guide e programmi di studio per una vasta gamma di libri e temi bahá’í, di lezioni di Amministrazione bahá’í, di indici di libri e periodici bahá’í, di cartoline per anniversari e calendari, di poesie, canzoni, lavori teatrali e rappresentazioni, di guide allo studio e di un libro di preghiere per l’educazione dei bambini bahá’í e di notiziari, bollettini e periodici, in inglese, persiano, tedesco, esperanto, arabo, francese, urdu, birmano e portoghese.
14 Di particolare valore e significato è stata la produzione, per un periodo di molti anni, di una serie di volumi di un annuario biennale internazionale delle attività bahá’í, ampiamente illustrato e pienamente documentato, che comprende, fra le altre cose, una dichiarazione sui fini e gli scopi della Fede e dell’Ordine Amministrativo, una selezione dalle sue scritture, un panorama delle sue attività, una lista dei suoi centri nei cinque continenti, una bibliografia della sua letteratura, apprezzamenti scritti da eminenti uomini e donne orientali e occidentali per i suoi ideali e i suoi successi e articoli riguardanti le sue relazioni con i problemi del giorno.
15 Il panorama della letteratura prodotta negli ultimi decenni del primo secolo della Fede non può essere considerato completo senza una speciale menzione della pubblicazione e della vasta influenza esercitata dalla splendida, autorevole e ampia introduzione alla storia e agli insegnamenti bahá’í scritta da J. E. Esslemont, immortale, immacolato promotore della Fede, che è già stata pubblicata in trentasette lingue e sta per essere tradotta in almeno altre tredici, la cui versione inglese è stata stampata in decine di migliaia di copie e ha avuto nove ristampe negli Stati Uniti d’America, le cui versioni in esperanto, giapponese e inglese sono state trascritte in braille, che un personaggio regale ha elogiato definendolo «uno splendido libro d’amore e di bontà, di forza e di bellezza», raccomandandolo a tutti e affermando che «nessuno può non essere migliore per merito di questo Libro».
16 Meritano inoltre una speciale menzione la costituzione da parte dell’Assemblea Spirituale Nazionale britannica di una Casa Editrice, registrata come «The Bahá’í Publishing Co.» che pubblica letteratura bahá’í e ne è l’esclusiva distributrice nelle Isole britanniche, la compilazione, da parte di varie Assemblee bahá’í in Oriente, di almeno quaranta volumi manoscritti di opere autentiche inedite del Báb, di Bahá’u’lláh e ‘Abdu’l-Bahá, la traduzione inglese dell’Appendice del Kitáb-i-Aqdas intitolata «Domande e risposte» e la pubblicazione in arabo e in persiano, a cura delle Assemblee Spirituali Nazionali bahá’í egiziana e indiana, di «Elementi delle Leggi bahá’í in materia di stato giuridico personale» e di un breve schema, da parte della seconda, sulle leggi relative alla sepoltura dei defunti e la traduzione di un opuscolo in maori fatta da un bahá’í maori neozelandese. Si devono inoltre menzionare la raccolta e la pubblicazione da parte dell’Assemblea di Teherán di un considerevole numero di discorsi pronunciati da ‘Abdu’l-Bahá nel corso dei Suoi viaggi in Occidente, la redazione in persiano di una dettagliata storia della Fede, la stampa di certificati di matrimonio e divorzio bahá’í in persiano e in arabo a cura di un certo numero di Assemblee Spirituali Nazionali in Oriente, l’emissione, da parte dell’Assemblea Spirituale Nazionale persiana, di certificati di nascita e di decesso, la preparazione di moduli per lasciti ad uso dei credenti che desiderino lasciare legati alla Fede, la compilazione realizzata dall’Assemblea Spirituale Nazionale americana di un considerevole numero di Tavole inedite di ‘Abdu’l-Bahá, la traduzione in esperanto di parecchi libri bahá’í, compresi alcuni dei più importanti scritti di Bahá’u’lláh e di ‘Abdu’l-Bahá, intrapresa dalla figlia del famoso Zamenhof, anche lei convertita alla Fede, la traduzione in serbo da parte di uno dei più eminenti studiosi dell’Università di Belgrado, il professor Bogdan Popovic, di un libretto bahá’í e la spontanea offerta della principessa Ileana di Romania (ora arciduchessa Anton d’Austria) di rendere nella sua lingua natia un opuscolo bahá’í scritto in inglese che, in seguito, è stato distribuito nel suo paese natale.
17 C’è anche da sottolineare il progresso fatto nella trascrizione degli scritti bahá’í in Braille, che già comprende opere come la versione inglese del «Kitáb-i-Iqán», delle «Parole Celate», delle «Sette Valli», della «Ishráqát», della «Súriy-i-Haykal», delle «Parole di Saggezza», di «Preghiere e Meditazioni di Bahá’u’lláh», delle «Lezioni di San Giovanni d’Acri» di ‘Abdu’l-Bahá, della «Promulgazione della pace universale», della «Saggezza di ‘Abdu’l-Bahá», della «Mèta di un nuovo ordine mondiale» e anche delle versioni (due edizioni) in inglese, esperanto e giapponese di «Bahá’u’lláh e la Nuova Era» e di opuscoli scritti in inglese, francese ed esperanto.
18 I principali responsabili dell’arricchimento della letteratura della Fede e della sua traduzione in tante lingue non hanno esitato a diffonderla con ogni mezzo a loro disposizione, nei rapporti giornalieri con i privati e nei contatti ufficiali con le organizzazioni che essi cercavano di informare dei suoi scopi e dei suoi principi. L’energia, la vigilanza e la fermezza dimostrate da questi araldi della Fede di Bahá’u’lláh e dai loro rappresentanti eletti, sotto i cui auspici la distribuzione della letteratura bahá’í ha assunto negli ultimi anni straordinarie proporzioni, meritano il massimo apprezzamento. Dai resoconti preparati e fatti circolare dalle principali agenzie incaricate della pubblicazione e distribuzione di questa letteratura negli Stati Uniti e nel Canada, emergono fatti notevoli: nello spazio di undici mesi fino al 28 febbraio 1943, erano stati venduti o distribuiti oltre diciannovemila libri, centomila opuscoli, tremila programmi di studio, quattromila serie di scritti scelti e milleottocento cartoline e pieghevoli di anniversario e del Tempio, nel corso di due anni erano stati stampati 376 mila opuscoli che descrivevano il carattere e lo scopo della Casa di culto eretta negli Stati Uniti d’America, erano stati distribuiti alle due Fiere mondiali di San Francisco e New York oltre trecentomila libri ed opuscoli, in un periodo di dodici mesi erano stati donati a varie biblioteche mille e ottantanove libri e, attraverso il Comitato nazionale simpatizzanti, in un anno, più di duemilatrecento lettere con oltre quattromila e cinquecento opuscoli erano stati consegnati a autori, annunciatori della radio e rappresentanti delle minoranze negra ed ebrea, nonché a varie organizzazioni interessate agli affari internazionali.
19 Anche nella presentazione di questa vasta letteratura a uomini illustri e di rango, i rappresentanti eletti e gli insegnanti viaggianti della comunità bahá’í americana, aiutati da Assemblee di altri paesi, hanno mostrato un’energia e una determinazione altrettanto lodevoli quanto gli sforzi sostenuti per la sua produzione. Letteratura bahá’í riguardante vari aspetti della Fede è stata donata al Re d’Inghilterra, alla regina Maria di Romania, al presidente Franklin D. Roosevelt, all’Imperatore del Giappone, al defunto presidente von Hindenburg, al Re di Danimarca, alla Regina di Svezia, a re Ferdinando di Bulgaria, all’Imperatore di Abissinia, al Re d’Egitto, al defunto re Feisal dell’Iraq, a re Zog d’Albania, al defunto presidente Masaryk della Cecoslovacchia, ai presidenti del Messico, dell’Honduras, di Panama, di El Salvador, del Guatemala e di Porto Rico, al generale Chiang Kai Shek, all’ex Chedivè d’Egitto, al principe ereditario svedese, al duca di Windsor, alla duchessa di Kent, all’arciduchessa Anton d’Austria, alla principessa Olga di Jugoslavia, alla principessa Kadria d’Egitto, alla principessa Estelle Bernadotte di Wisborg, al Mahatma Gandhi, a numerosi principi regnanti dell’India, al primo ministro di tutti gli Stati della Confederazione australiana e ad altri personaggi di minor spicco. Alcune di queste personalità l’hanno ricevuta di persona, altri tramite intermediari adatti, credenti o rappresentanti eletti di comunità bahá’í.
20 Gli insegnanti e le Assemblee non hanno trascurato il loro dovere di mettere questa letteratura a disposizione della gente nelle biblioteche statali, universitarie e pubbliche, estendendo così alla gran massa dei lettori l’opportunità di conoscere la storia e i precetti della Rivelazione di Bahá’u’lláh. Un semplice elenco di alcune delle più importanti di queste biblioteche sarà sufficiente a mostrare la dimensione di queste attività che interessa i cinque continenti: il British Museum di Londra, la biblioteca Bodleiana di Oxford, la biblioteca del Congresso a Washington, la biblioteca del Palazzo della pace all’Aia, le biblioteche della fondazione Nobel per la pace e della fondazione Nansen a Oslo, la Biblioteca reale a Copenaghen, la biblioteca della Società delle nazioni a Ginevra, la biblioteca Hoover per la pace, la biblioteca dell’università di Amsterdam, la biblioteca del Parlamento di Ottawa, le biblioteche delle università di Allahabad, di Aligarch, di Madras, dell’università internazionale Shantineketan di Bolepur, dell’università ‘Uthmáníyyih di Hyderabad, la Biblioteca imperiale di Calcutta, la biblioteca Jamia Milli di Delhi, la biblioteca dell’università di Mysore, la biblioteca Bernard di Rangoon, la biblioteca Jerabia Wadia a Poona, la biblioteca pubblica di Lahore, le biblioteche delle università di Lucknow e di Delhi, la biblioteca pubblica di Johannesburg, le biblioteche circolanti di Rio de Janeiro, la Biblioteca nazionale di Manila, la biblioteca dell’università di Hong Kong, le biblioteche pubbliche di Reykjavik, la biblioteca Carnegie nelle isole Seychelles, la Biblioteca nazionale cubana, la biblioteca pubblica di San Juan, la biblioteca dell’università di Ciudad Trujillo, la biblioteca pubblica dell’università e la biblioteca Carnegie di Porto Rico, la biblioteca del Parlamento di Canberra e la Biblioteca parlamentare di Wellington. Libri autorevoli sulla Fede di Bahá’u’lláh sono stati collocati in tutte queste nonché nelle principali biblioteche dell’Australia e della Nuova Zelanda, in nove biblioteche del Messico, in parecchie biblioteche di Mukden in Manciuria e in più di mille biblioteche pubbliche, in un centinaio di biblioteche di servizio e in duecento biblioteche di università e college, compresi college indiani, degli Stati Uniti e del Canada.
21 Biblioteche di prigioni di stato e, dall’inizio della guerra, quelle dell’esercito sono state incluse nel piano elaborato da uno speciale comitato per la diffusione della letteratura della Fede della comunità bahá’í americana. E quella solerte e intraprendente comunità non ha trascurato l’interesse dei ciechi, come è dimostrato dal collocamento di libri, trascritti in Braille dai suoi membri, in trenta biblioteche e istituti di diciotto stati degli Stati Uniti d’America, a Honolulu (Hawaii), a Regina (Saskatchewan) e nelle biblioteche per ciechi di Tokyo e Ginevra, nonché in un gran numero di biblioteche circolanti, collegate a biblioteche pubbliche in varie grandi città del continente nordamericano.
22 Non posso abbandonare l’argomento senza dedicare una speciale menzione a colei che, non sol